PRIMA DI ANDAR VIA di Filippo Gili, regia di Francesco Frangipane

PRIMA DI ANDAR VIA di Filippo Gili, regia di Francesco Frangipane

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 9/27 maggio 2o18)

Una famiglia unita, una famiglia apparentemente felice. Ma la commedia vira in tragedia perché l’alea del suicidio inquina la serenità del tutto. Si prepara una notte drammatica in un tentativo di escavazione dell’animo umano. Poco riuscito, diremmo.

Un rituale pranzo di famiglia in cui si veicolano discorsi forti e banali, alternanza di voci che si sovrappongono, un interessante interno borghese di una media famiglia italiana. Ma l’allarme è presto scoccato. Perché il giovane maschio del lotto dei cinque è appartato, distratto, chiuso in se stesso e gli altri non sembrano accorgersene. Ed ecco d’improvviso la lacerazione. Il giovane figlio di famiglia annuncia il suicidio, cioè quel gesto che in genere non si annuncia ma si realizza, lasciando un bigliettino di spiegazione. È il “prima” che sconcerta perché la macchina del proponimento è messa in moto e come si potrà fermarla? Ci prova il padre, ci prova la madre. Con convinzione, rabbia, crescente disperazione. Ci provano le sorelle. Ci provano tutti ma i risultati sono scarni. Il peso della perdita della moglie ha lacerato i fragili equilibri del protagonista che non riesce più a ritrovarsi nella vita di tutti i giorni.

Quello che abbiamo enunciato è il proposito didattico del regista che però non si traduce in una tensione drammaturgica all’altezza. Non la regge il protagonista principale, non la sostiene neanche il bravo Giorgio Colangeli in una parte sottostimata rispetto alla sua abilità mimetica. Così una tesi troppo manifesta, un’idea dall’ input brillante non si traduce in un risultato di spessore. Fioccano sbadigli, minuti imbarazzanti di silenzio in scena perché la stessa rimane vuota, priva di significati che non sono stati evocati dal silenzio e dallo smarrimento dei protagonisti. In definitiva un’occasione sprecata perché uno dei più grandi peccati commessi dal teatro è quello di annoiare lo spettatore. Dopo settanta minuti l’aspirante suicida esce di scena lasciando i quattro parenti infranti.

Il tempo tra il “prima” il “dopo”, pur breve, si poteva sfruttare decisamente meglio.

data di pubblicazione: 20/5/2018


Il nostro voto:

ABRACADABRA di Pablo Berger, 2018

ABRACADABRA di Pablo Berger, 2018

Titolo emblematico per una pellicola ad alto tasso di follia, in cui una casalinga trascurata, un marito insensibile e dai modi bruschi, un cugino particolarmente galante e l’ipnosi, si incontrano tra le vie periferiche di Madrid, dando origine ad una commedia esilarante, dal finale un po’ prevedibile.

 

 

Carmen, per andare al matrimonio della cugina, vuole essere particolarmente originale e copia da una nota rivista di gossip l’acconciatura di Madonna, ma il marito Carlos non ne vuole sapere di arrivare in orario: è più importante la finale di coppa del Real Madrid e… non è il solo a pensarla così! Durante il ricevimento, per pura e semplice goliardia, Carlos si sottopone ad un amatoriale esperimento di ipnotismo proposto a tutti gli invitati dal cugino di Carmen, da sempre suo accanito corteggiatore. Per Carlos, accettare l’invito di farsi ipnotizzare davanti a tutti gli invitati, è un modo come un altro per ridicolizzare quell’uomo che osa mettere gli occhi sulla sua donna, anche se dal canto suo sono anni che la trascura, non provando più per lei alcun interesse. Ma qualcosa durante l’esperimento, apparentemente goffo e mal riuscito, sembra essere accaduto, e Carlos da quel momento non sarà più lo stesso.

Si ride molto durante la proiezione di Abracadabra, presentata nella Selezione Ufficiale della 12^ edizione della Festa del Cinema di Roma, folle commedia del giovane regista spagnolo Pablo Berger che, nel 2014, rappresentò il suo paese agli Oscar nella categoria Miglior film straniero con Blancanieves.

È quasi impossibile non pensare quanto lo stile e la filmografia di Almodóvar abbiano potuto influenzare giovani registi come Berger, che riesce con Abracadabra, in chiave ovviamente grottesca, a raccontare una storia di reincarnazione alquanto surreale, che appassiona senza grossi cali di attenzione. Unica pecca del film è che sul finale delude un po’: la storia perde corpo e la soluzione a tutto ciò che il regista ha messo in scena è alquanto banale e non all’altezza della parte centrale. Tuttavia, se ne consiglia la visone per la ventata di folle leggerezza che trasmette.

data di pubblicazione:17/05/2018


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L’ISOLA DEI CANI di Wes Anderson, 2018

L’ISOLA DEI CANI di Wes Anderson, 2018

Atari è un ragazzo di dodici anni che, a seguito della improvvisa morte dei genitori, è stato dato in affidamento allo zio Kobayashi, corrotta figura governativa che ricopre la carica di sindaco di Megasaki. A seguito di un contestato decreto pubblico, viene deciso che tutti i cani debbano essere portati via dai loro padroni e trasferiti in una isola lontana dove vengono giornalmente ammassati i rifiuti della città. Il ragazzo, che viene così privato del suo fedele cane da guardia Spots, decide di rintracciarlo e a bordo di un Junior-Turbo, piccolo aereo in miniatura da lui stesso costruito, approda sull’isola. Con l’aiuto di una piccola banda di altri 5 cani inizia così un viaggio epico sulle tracce del suo fido amico e l’esito di questa ricerca sarà determinante per il futuro dei cani e della stessa Prefettura, i cui scandali da tempo nascosti diverranno di pubblico dominio.

 

 

Wes Anderson, regista, produttore e sceneggiatore texano, ama trasferire la propria personale eccentricità nei personaggi da lui stesso creati e portati sul grande schermo. Con una carriera oramai di tutto rispetto, nel 2012 il suo film Moonrise Kingdom, ambientato su un’isola leggendaria viene prescelto come film d’apertura a Cannes, e nel 2014 il suo The Grand Budapest Hotel, con Ralph Fiennes ed un cast di prim’ordine, apre il Festival di Berlino. Non ci stupiamo quindi che anche nell’ultima edizione della Berlinale il suo ultimo film L’isola dei cani, sia stato preferito tra i vari film in concorso per avviare la kermesse berlinese 2018. Dopo il successo di Fantastic Mr. Fox, è uscito nelle sale italiane questo suo secondo film di animazione, in cui il brillante regista adotta la particolare tecnica dello stop motion con il montaggio di foto che si susseguono creando il movimento della scena. Il risultato ottenuto è quello di una immagine molto nitida e naturale che ben si discosta dai normali animated cartoon a cui siamo abituati. La storia del piccolo e coraggioso Atari alla ricerca del suo fedele cane Spots si può considerare una favola dei giorni nostri che ci riporta in un mondo di buoni e cattivi, dove ai primi non rimangono molte armi a disposizione per sconfiggere le ingiustizie perpetrate dai secondi. Come in tutte le favole che si rispettino gli animali possono esprimersi con parole che noi comprendiamo, ma in questo film non a caso è il linguaggio degli uomini ad essere incomprensibile e a necessitare di una traduzione simultanea. Lo spettatore entra quindi in sintonia con i quadrupedi esiliati e destinati allo sterminio mentre trova difficoltà ad intendersi con gli umani e a accettare i loro marchingegni per accaparrarsi a tutti i costi il potere. Atari, con la freschezza dei suoi dodici anni, è l’unico che riesce a riscattare l’uomo dal pantano di corruzione in cui è caduto. Il film ha ottenuto l’Orso d’Argento per la Miglior Regia e racchiude in sé una morale sincera, prerogativa questa di tutte le favole, vecchie o nuove, che sembrano tutte proporci ripetutamente la quintessenza delle domande: Chi siamo? Chi vogliamo essere?

data di pubblicazione:17/05/2018


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DICHIARO GUERRA AL TEMPO da I Sonetti di William Shakespeare, regia di Daniele Salvo

DICHIARO GUERRA AL TEMPO da I Sonetti di William Shakespeare, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello – Roma, 15/20 maggio 2018)

Due donne, di due epoche diverse e lontane l’una dall’altra, dichiarano guerra al tempo, sfidandolo a colpi di parole che sono poesia recitata e poesia in musica. Lo spazio è una tela bianca sulla quale lasciare impressi i caratteri di una scrittura destinata a parlare per sempre a tutte le generazioni.

 

 

È uno spettacolo insolito quello messo in scena in questi giorni al teatro Vascello, ancora una proposta che obbliga a fermarsi e a riflettere. Insolito perché il testo è tratto dai Sonetti di Shakespeare, del quale conosciamo meglio le tragedie e i drammi. Insolito per il fatto che I Sonetti, che non furono scritti per essere destinati alla rappresentazione, vengono usati nella forma del dialogo tra due donne che provengono e abitano due epoche diverse: la prima, vestita in abiti moderni, è a noi contemporanea; l’altra invece, vestita alla maniera rinascimentale inglese, appartiene a un lontano passato. Insolita la scena: una grande pagina bianca o una tela da pittore se vogliamo, sulla quale via via vengono impresse le parole e le immagini che i versi cantati e recitati suggeriscono. Pochi elementi come sedie ammassate in un angolo, sgabelli e panche sui quali far riposare i pensieri, completano la scena. Questo spazio diventa il luogo dove viene combattuta la guerra che il titolo suggerisce, ma è uno spazio mentale, intimo, una “stanza dell’immaginario”, come la definisce il regista Daniele Salvo. Il campo di battaglia sono allora la memoria e l’esperienza: solo chi ha provato l’amore, con i suoi picchi e le sue delusioni, può comprendere ciò che si rappresenta e affrontare questo viaggio. Una mente immatura e giovane non può cogliere il dramma di questo conflitto contro il tempo, il quale trascorre inesorabile e veloce, trascinando via con sé la bellezza e la novità. L’unica arma per combattere e vincere questo nemico è la procreazione, il generare una creatura e poi altre ancora, alle quali consegnare questa bellezza. Il tempo porta alla morte, ma la morte si contrasta con l’eternità del pensiero che si può imprimere solo nelle parole. Lo spettacolo diventa così un omaggio alla capacità esclusivamente umana di comunicare l’immortalità attraverso la poesia, sia fissata e strutturata in un sonetto sia codificata in uno spartito musicale. Incantevole l’interpretazione di Manuela Kustermann nei panni della poetessa rinascimentale, che con la sua voce e la sua grazia è capace di accompagnare la mente verso le zone più profonde del pensiero; straordinaria e intensa Melania Giglio nei panni della donna contemporanea, capace invece di dare nuova interpretazione e colore a brani famosi di altrettanti famosi cantautori pop-rock della scena internazionale (Peter Gabriel, David Bowie, Cat Stevens per citarne alcuni). Dichiaro guerra al tempo sarà in scena fino a domenica prossima; consigliato a chi vuole concedersi un momento di riflessione e di buon ascolto.

data di pubblicazione:16/05/2018


Il nostro voto:

PELÉ LA PERLA NERA di Daniele Poto – Perrone editore, 2018

PELÉ LA PERLA NERA di Daniele Poto – Perrone editore, 2018

A poche settimane dall’inizio degli “amari” Mondiali di calcio di Russia e a qualche mese dal 78° compleanno di Edson Arantes Do Nascimiento, il giornalista sportivo e scrittore Daniele Poto presenta, in occasione del Salone del Libro di Torino, il suo Pelé la perla nera, la prima biografia italiana del più famoso bisillabo del calcio e forse di tutto lo sport moderno: Pelé.

Trattandosi di una biografia, inevitabilmente viene effettuata una ricostruzione cronologica e storico-statistica della vita del giocatore, che viene inframmezzata da una carrellata di aneddoti legati a vario titolo al protagonista, ma non è un’opera celebrativa oltre ai suoi incomparabili successi di calciatore (non dimentichiamo i 3 mondiali vinti in poco più di un decennio e gli oltre 1.200 goal segnati in carriera); il libro dà anche conto degli errori imprenditoriali e degli insuccessi politici di “O Rei”, fornendo un quadro completo dell’uomo, dalla sua umile origine alla fama mondiale che ancora lo accompagna.

Ma la storia di Pelé non è avulsa da quella del Brasile degli anni ’50: ed è proprio quello che fa Poto, presentando la situazione sociale e politica del suo paese in quegli anni, con un occhio a quello che succedeva a “casa nostra” dove, dalle macerie del dopoguerra, si stava rialzando un’Italia che andava a grandi passi verso gli anni del boom economico.

La lettura ha il duplice risultato che permette ai più agée di ripercorrere i successi dell’atleta e, a tutti coloro che sono nati quando “O Rei” aveva ormai attaccato gli scarpini al chiodo, di farsi un’idea precisa di chi sia stato, in un’epoca in cui i valori del calcio non erano ancora sopraffatti da quello che oggi è soprattutto un business.

data di pubblicazione:14/05/2018

LORO 1 e LORO 2  di Paolo Sorrentino, 2018

LORO 1 e LORO 2 di Paolo Sorrentino, 2018

Alla maniera di Sorrentino, nel film si parla di Berlusconi e del volgare e famelico ambiente che ha segnato la vita del Paese per oltre un venticinquennio, ma anche di Silvio ripreso nella sfera privata del lento e, per lui, inaccettabile declino.

 

Occorre dirlo in primis, la pellicola del talentuoso regista italiano (forse il migliore dei nostri cineasti), ha fortemente diviso pubblico e critica. E non potrebbe essere diversamente per almeno due ovvie ragioni: la scelta del protagonista Berlusconi, e la concezione del cinema di Sorrentino. Berlusconi, come si sa, lo si ama o lo si odia per ragioni, diciamo, ideologiche; Sorrentino anche, perché non fa film didascalici e/o didattici, tantomeno dichiaratamente politici e nemmeno di facile lettura: reinterpreta piuttosto persone e situazioni mischiando ad arte odori, colori, sapori e suoni, sogni e incubi, presente e passato. Così, anche Loro è un’opera incredibile, inedita nel panorama italiano. Se ne Il caimano di Moretti c’era la crisi politica del nostro Paese come conseguenza della “iattura” Berlusconi, in Loro c’è un mondo decadente, fatuo e corrotto, ma leggibile solo in trasparenza in chiave politica. Il film, inopinatamente diviso in due parti, acquista la sua piena valenza solo nel suo corpus unitario: visionato infatti nella sua interezza, consente una comprensione più consapevole e quindi la possibilità di un giudizio sereno ed esaustivo del progetto di Sorrentino e Contarello (secondo sceneggiatore). La prima parte ha molto scandalizzato i benpensanti per la ricostruzione cruda e lisergica, a botte di sesso e cocaina, dell’entourage di Berlusconi (nani e soprattutto ballerine decisamente discinte), ma ha, in qualche misura, deluso anche quanti hanno trovato assolutoria l’umana comprensione verso l’uomo-Berlusconi alle prese con la sua crisi coniugale nello splendore di Villa Certosa. Non entro ovviamente nella disputa ideologica, mi limito a cogliere (come ne La Grande Bellezza o in Young Pope) alcuni dei tratti salienti della cinematografia di Sorrentino: una robusta sceneggiatura, il continuo variare dei toni, la forza di alcune scene-madri (la pecora dell’inizio, come il vulcano del finale, tanto per citarne un paio), la colonna sonora e, naturalmente, il supporto di attori, tutti nei rispettivi ruoli, bravi a reinterpretare senza farne macchiette i personaggi noti della triste saga berlusconiana. Tony Servillo è come sempre alla sua altezza, Elena Sofia Ricci è una convincente Veronica Lario e Riccardo Scamarcio un Tarantini, corifeo ed assolutamente credibile. In perfetto stile “cene eleganti”, sono altrettanto calzanti le interpretazioni della bella Kasia Smutniak (la Began) e della deliziosa e misurata Euridice Axen (la moglie di Tarantini). Non mancano sarcasmo, scene divertenti o urticanti, silenzi e dialoghi. Fra le molte frasi cult, va decisamente annoverata la risposta di Silvio a Veronica che gli imputa di non aver prodotto mai trasmissioni culturali sulle reti Mediaset e la sua replica “ma se c’erano i quiz di Mike!”. Così si alternano nel film momenti, attimi, in cui un personaggio ai limiti del patetico è visto con una qualche simpatia, quasi a volerne vedere una umanità segreta da contrapporre alla volgarità e alla mancanza di scrupoli dell’uomo pubblico. Basterebbe a giustificare il prezzo del biglietto, ma, se qualche perplessità poteva nascere dopo Loro 1, la visione della seconda parte, ancor più inquadra personaggi e atmosfere e pur con qualche inevitabile momento di stanca (non stiamo parlando di Quinto Potere) i tratti del “caimano” vengono in luce tutti: l’individualismo, la manipolazione (esilarante la scena della campagna-acquisti dei sette senatori dell’opposizione), la falsità, l’omertà (anche nel faccia a faccia con Veronica), la misoginia e la paura di invecchiare, autentico tallone d’Achille. Montaggio perfetto, fotografia ineccepibile, scelta delle locations da favola, completano in modo altamente professionale un film che meglio sarebbe stato vedere in un’unica sessione, ma che comunque conferma lo stato di grazia del regista. In ultima analisi sembra che la riflessione che Sorrentino fa su Berlusconi riguardi la inconoscibilità del personaggio, il mistero sul passato di uomo che “costruisce muri” che vede solo col suo amico Confalonieri. L’altra riguarda un po’ tutti coloro che in fondo si sono identificati o hanno creduto all’uomo di Arcore.

Da vedere, per discuterne

data di pubblicazione:12/05/2018


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MI SA CHE FUORI È PRIMAVERA tratto dall’omonimo libro di Concita De Gregorio, regia di Giorgio Barberio Corsetti

MI SA CHE FUORI È PRIMAVERA tratto dall’omonimo libro di Concita De Gregorio, regia di Giorgio Barberio Corsetti

(Teatro India – Roma, 8/13 maggio 2018)

Irina oggi festeggia il suo compleanno. È felice perché noi siamo lì con lei a celebrare questo evento. Non ci vuole molto per capire che il suo desiderio è quello di raccontarci il suo dramma, ce ne vuole fare partecipi. E così ci parla di Matthias, l’uomo che ha sposato, del loro matrimonio, delle due gemelle nate dalla loro unione, e di come la sua vita, apparentemente normale, si sia lentamente e inspiegabilmente trasformata in tragedia. In una parola ci parla di lei.

 

Lo spettacolo prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Siamo alla fine di gennaio del 2011 e la storia è quella di Irina Lucidi, una donna, avvocata presso una multinazionale del tabacco con sede in Svizzera, ma soprattutto una mamma a cui il marito, dal quale si era separata, rapisce e fa sparire nel nulla le sue due figlie gemelle di sei anni prima di suicidarsi, qualche giorno dopo la sparizione, gettandosi sotto un treno a Cerignola in Puglia. Della sorte di Alessia e Livia, questo il nome delle bambine, a tutt’oggi non si sa nulla. “Non le vedrai più”, queste le parole del padre che le ha rapite, e molto probabilmente uccise.

Da questa dolorosa vicenda Concita De Gregorio ne trae un libro. È la stessa Irina che si rivolge all’editorialista e scrittrice per poterlo scrivere. Irina ha bisogno di rimettere insieme pezzo per pezzo tutto quello che la vita le ha mandato in frantumi e la scrittura è il mezzo attraverso il quale fissare e ordinare i suoi ricordi. Ma il libro, come afferma la scrittrice, non è una ricostruzione giornalistica dei fatti di cronaca, bensì il racconto della vicenda di una donna che riesce a sconfiggere il dolore attraverso l’amore. La colla, l’oro liquido che rimette insieme i pezzi rotti di un oggetto andato in frantumi (immagine tradotta dalla tradizione giapponese), è l’amore stesso. E di questo amore è pervaso tutto lo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti e Gaia Saitta, emozionante ed emozionata nei panni di Irina. Invitati dall’attrice, partecipano al racconto anche alcune persone del pubblico, che via via vengono indicate come gli attori della vicenda. Una trovata geniale, che subito ci coinvolge e ci fa passare da spettatori ad attori di un dramma, che potrebbe essere il nostro. Straordinaria è davvero Gaia Saitta, che dà prova di essere un’attrice di grande maturità, ma soprattutto di grande cuore (non è difficile intravedere una reale commozione nei suoi occhi), che riesce ad avvolgere tutto il pubblico in un solo abbraccio. In scena tante cornici: sono i confini dentro i quali si vogliono mettere a posto le cose man mano che si tentano di ricordare i fatti accaduti, ma poi ci accorgiamo che non servono, che sono stretti e inutili. La vita è vasta più di un oceano e il tempo diventa fluido come l’acqua nel quale siamo immersi.

data di pubblicazione:09/05/2018


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IL MORSO DELLA RECLUSA di Fred Vargas – Sellerio, 2018

IL MORSO DELLA RECLUSA di Fred Vargas – Sellerio, 2018

Finalmente Fred Vargas interrompe le vacanze islandesi del commissario Jean-Baptiste Adamsberg: a farlo rientrare è un telegramma recante la notizia dell’omicidio di una donna investita da un SUV, e la sua presenza è richiesta immediatamente a Parigi. La soluzione del caso è per il nostro “spalatore di nuvole” di una facilità quasi imbarazzante, ed è già pronto a tornare dai suoi nuovi amici nella loro isola che lambisce il circolo polare artico quando la sua curiosità è stimolata da una serie di morti “casuali” avvenute nel Sud della Francia.

Sia l’opinione pubblica che la polizia ritengono che i decessi di alcuni anziani morti a causa del “morso” di un ragno velenoso siano assolutamente fortuiti, ma le casualità non sono amate da Adamsberg che inizia a indagare sul passato dei tre defunti; è solo nell’indagine, i suoi uomini ritengono che la sua pausa islandese lo abbia ancora di più “sfasato”.

Della stessa opinione è anche il comandante Danglar, con il quale ha sempre avuto un unità di pensiero e intenti, che gli dice: “Non ci posso credere, non ci voglio credere. Torni fra noi, commissario. Ma in quali nebbie ha perso la vista, porca miseria?”. Ma, come sempre avviene, è Adamsberg ad avere ragione perché i tre anziani sono legati dalla comune infanzia passata nell’orfanotrofio della Misericordia.

Man mano che le indagini proseguono, gli uomini del commissario ammetteranno il loro errore e si schiereranno a uno a uno al fianco di Adamsberg per coadiuvarlo nelle indagini; unico irremovibile sarà il comandante Danglard che, anzi, diventerà sempre più cupo e inavvicinabile.

Piccolo cammeo di uno degli evangelisti, Mathias, che sarà di supporto all’indagine in uno scavo in un bosco della Linguadoca e di fatto metterà Adamsberg sulla giusta strada per acciuffare il colpevole.

L’intreccio è sicuramente molto particolare e non mi è dispiaciuto, la nota dolente è stata purtroppo la figura del commissario che è esageratamente evanescente, niente a che vedere con il genio che abbiamo conosciuto ne L’uomo dei cerchi azzurri o Parti in fretta e non tornare; per altro questa esagerata evanescenza non è affatto mitigata dalla presenza del commissario Danglar che gli ha sempre fatto da contraltare.

Sono rimasta piuttosto perplessa, attendiamo il prossimo romanzo per capire cosa stia succedendo alla Fred Vargas.

data di pubblicazione:06/05/2018

SUPERFICIE di Diego De Silva – Einaudi editore, 2018

SUPERFICIE di Diego De Silva – Einaudi editore, 2018

Non è un romanzo, non è un saggio. Non dovrebbe possedere profondità ma alla fine delle 102 pagine di testo ripercorri il libro dall’inizio alla fine quasi posseduto dalla fascinazione dei calembours, dall’ipnotismo delle frasi dei senso comune che, attraverso la lente privilegiata dell’autore, acquisiscono verità e concretezza e lasciano il segno. Non si può concretamente capire quello che affermiamo senza l’uso razionale dell’esempio e, dunque, delle citazioni. “Io non porto rancore, lo custodisco”– fa certamente riflettere mentre “Ogni tanto, per strada, scambio le persone per manichini”– è un piccolo saggio in nuce sull’uso irrazionale degli smartphone che, ormai, più che essere posseduti, posseggono la nostra vita. De Silva squarcia la nuda realtà con piccole nitide abbacinanti intuizioni che alludono anche al sapiente uso della lingua italiana e della possibile rivelazione o della smascheramento del luogo comune. Si penserebbe a un Flaiano riveduto e corretto nel terzo millennio anche di fronte alla riflessione sulla banalità dei testi delle canzoni.

“A volte mi faccio delle domande veramente strane, tipo: “Il coniglio del muso nero della canzone di Marcella, oggi quanti anni avrebbe?”. È la sensibilità di una generazione su un sentiero già battuto da Berselli, Serra e Culicchia con alterni risultati. Quando non affascina, strega, solo per citare lo slogan di una pubblicità, riabilitando una forma letteraria a mezza strada tra la riflessione e il pensiero dell’uomo della strada, stupefatto dalla crudeltà del tempo in cui viviamo.

“Non so se ho risposto alla domanda che non ricordo” “Chi si cerca su Google, generalmente non ne ha motivo” o “La vita non è tua, è in franchising”. Così la leggerezza allude alla profondità con un risultato finale suggestivo che è superiore alla somma dei singoli così diversificati addendi. Un’operazione gradevole e di sicura riuscita in un Paese in cui “l’italiano che non vota si candida”.

data di pubblicazione:05/05/2018

FESTA DI FAMIGLIA, compagnia Mitipretese

FESTA DI FAMIGLIA, compagnia Mitipretese

(Teatro Vascello – Roma, 2/6 maggio 2018)

Terzo e ultimo appuntamento con Mitiprese al Teatro Vascello di Roma. E gran finale con Festa di famiglia, in scena dal 2 al 6 maggio per celebrare il 60° compleanno di una madre, ma anche per raccontare le dinamiche di violenza e sopruso che spesso si annidano all’interno della famiglia. Il punto di partenza non poteva che essere Pirandello, il signore del teatro borghese del ‘900 che proprio sulla famiglia e sulle relazioni problematiche uomo-donna ha fondato gran parte della sua riflessione: commedie e materiali estratti dalle sue novelle e dai romanzi sono stati assemblati sotto la guida speciale di Andrea Camilleri.

 

 

 

Uno studio denuncia che parte dalla famiglia o meglio dall’intimità della famiglia, da quel nucleo recondito nel quale troppo spesso si perpetrano violenze devastanti ai danni dei più deboli, bambini donne, anziani.

La metafora di Pirandello diventa lo spunto letterario per raccontare la quotidianità ed una storia familiare. Soprusi, percosse, umiliazioni fisiche e morali che diventano cronaca di oggi, sempre più rude, sempre più devastante.

Un eccellente lavoro collettivo che va dalla drammaturgia alla regia condotto dalle magnifiche Fab Four Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Mariángeles Torres questa volta sostenute e affrontate dai bravissimi Fabio Cocifoglia e Diego Ribon.

Si parte dalla vicenda di Mommina e Rico contenuta in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello E’ il giorno del 60° compleanno della mamma, Ignazia. Le tre figlie, Donata, Mommina e Frida le hanno organizzato una piccola festa a sorpresa. Mentre si dispongono attorno al tavolo per la cena si consumano e si sovrappongono tre inferni domestici: il marito ossessivo e violento tortura la debole Mommina, la madre e la figlia più grande Frida rimasta a casa condividono un rapporto malato, fatto di recriminazioni, violenze mai riconosciute, odio e dolori non confessati, mentre l’altra coppia apparentemente più normale (Donata e Leone), convive con a profonda depressione fatta di desideri frustrati. Ma la festa must go on e tra convenevoli e brindisi di rito alla fine arriva la torta.

Un dramma grottesco carico di tensione, un Festen nostrano con inquietanti spunti comici, una scenografia asciutta e fredda scaldata da canzoni degli anni ’50 per un quadro fosco e drammatico, fatto di dialoghi efficacissimi che rimandano alla cronaca ma anche a quell’intimo ferito nel quale più di qualcuno finisce per ritrovare piccole o grandi lacerazioni.

Attualissimo e doloroso. Da applausi.

data di pubblicazione:04/05/2018


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