IL GABBIANO di Anton Cechov, regia di Giancarlo Nanni ripresa da Manuela Kustermann

IL GABBIANO di Anton Cechov, regia di Giancarlo Nanni ripresa da Manuela Kustermann

(Teatro Vascello – Roma, 1/18 febbraio 2018)

A sipario ancora chiuso, la voce fuori campo di Manuela Kustermann ci introduce allo spettacolo spiegandoci del perché di questa ripresa teatrale de Il gabbiano di Cechov dopo venti anni dal debutto sulla scena proprio al Vascello con la regia del grande Giancarlo Nanni. Un doveroso e soprattutto sentito omaggio al regista scomparso nel 2010 e che insieme a lei aveva creato questo spazio teatrale, un progetto ambizioso che ben si inseriva nell’entourage artistico-culturale della capitale. La Kustermann riprende quindi una pièce a lei ben nota e certamente cara, curandone i costumi ma lasciando le scene così come le aveva dipinte Nanni, la cui formazione artistica aveva enormemente influenzato la sua attività di regista teatrale, sia nella prosa come nella lirica, firmando lavori rimasti ancora oggi indimenticabili.

 Il gabbiano che insieme a Il giardino dei ciliegi è probabilmente l’opera di Cechov più rappresentata, è oggi più che mai di grande attualità perché pur essendo considerata come lo studio di una certa classe borghese russa di fine ottocento, rispecchia altresì il dramma dell’uomo di oggi nella sua lotta tra quello che è e quello che vorrebbe essere: una dicotomia che travaglia l’umanità intera rendendola infelice. Le aspirazioni dell’uomo, e dell’artista nello specifico, che si trova imbrigliato in un conflitto generazionale senza soluzione di continuità, partono dal desiderio di affermazione; il successo di alcuni farà tuttavia da contrappunto alle insoddisfazioni di altri, perché l’essenza della vita non è da ricercare nel presente né tantomeno nel futuro, ma è da riscoprire in ciò che si manifesta nei sogni, lontano dai condizionamenti e dalle ingannevoli apparenze. Il cast ricomposto da Manuela Kustermann, che interpreta il ruolo dell’attrice Irina, sembra essere perfettamente idoneo a rappresentare il pensiero di Cechov, muovendosi quasi in assenza di gravità tra luci e drappi colorati che ben identificano i diversi stati d’animo dei personaggi. Lorenzo Frediani nel ruolo di Kostantin, figlio di Irina e aspirante scrittore, riesce pienamente ad esprimere l’animo tormentato di un uomo non più amato, figlio di una madre anaffettiva, ipercritica e spietata nei suoi confronti. Ecco che Cechov, forse ispirandosi in questo lavoro larvatamente a Ibsen, ci pone di fronte ad un teatro nel teatro, in un incastro che ricorda le scatole cinesi, dove il contenuto diventa esso stesso contenente ed il significato diventa significante, in una correlazione senza fine. Una nota di merito va comunque a tutto il cast composto da Massimo Fedele, Eleonora De Luca, Anna Sozzani, Sara Borsarelli, Paolo Lorimer e Maurizio Palladino.

Lo spettacolo del Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore si replicherà fino al 18 febbraio. Da non perdere.

data di pubblicazione:03/02/2018


Il nostro voto:

THE FULL MOUNTY – SQUATTRINATI ORGANIZZATI di Peter Cattaneo, 1997

THE FULL MOUNTY – SQUATTRINATI ORGANIZZATI di Peter Cattaneo, 1997

Gaz (Robert Carlyle) e Dave (Mark Addy) sono due poveri disoccupati che vivono nello Sheffield e cercano di sbarcare il lunario ricorrendo a piccoli stratagemmi spesso non proprio leciti quali rubare travi d’acciaio da una fabbrica da tempo abbandonata. Gaz, in arretrato con le spese di mantenimento da corrispondere alla ex moglie, rischia addirittura di perdere la custodia del figlio e deve pertanto inventarsi urgentemente qualcosa per procurarsi i soldi necessari e tamponare pertanto la situazione divenuta oramai insostenibile. Prendendo ispirazione da un gruppo di spogliarellisti molto aitanti e professionali che si esibiscono in un locale, Gaz decide di dar vita ad un simile spettacolo coinvolgendo altri poveri disoccupati come lui di varie età, e non certo con dei fisici scolpiti. Ci sarà poi da affrontare il problema del nudo integrale visto che, ognuno di loro, non vuole proprio saperne. Dopo varie resistenze, saranno proprio le loro compagne a convincerli al grande passo, per cui tutti accetteranno di esibirsi in costume adamitico e lo spettacolo alla fine avrà un enorme successo. Anche il film ebbe un enorme successo commerciale, osannato dalla critica internazionale, riuscendo ad ottenere l’Oscar per la miglior colonna sonora e tre BAFTA su ben undici nomination, incluso miglio film. Una commedia brillante che riesce a mettere bene in luce non solo la crisi economica di un paese con una disoccupazione dilagante, ma anche a mettere in discussione il ruolo sociale del maschio, anch’esso in evidente recessione. Questo tipico film inglese ci suggerisce una ricetta anch’essa tipicamente anglosassone: meat pie.

INGREDIENTI: 250 grammi di carne macinata di suino – 250 grammi di carne macinata di bovino – una cipolla bianca – 1 kg di patate – un tubetto di concentrato di pomodoro – 50 grammi di burro – un bicchiere di latte – noce moscata e spezie varie tipo cumino, timo e maggiorana – olio d’oliva – sale e pepe q.b.

PROCEDIMENTO: bollire le patate, passarle con lo schiaccia patate e farne un purè aggiungendo il latte, il burro, la noce moscata e un poco di sale. Lasciare raffreddare. Fare imbiondire una cipolla in un poco di olio d’oliva e aggiungere i due tipi di carne macinata insieme al concentrato di pomodoro, pepe e le altre spezie nella quantità desiderata e lasciare cuocere per una ventina di minuti. Imburrare una teglia e sistemare uno strato del purè oramai a temperatura ambiente, uno di carne e quindi ricoprire con un altro strato del purè. Spolverare con un poco di pan grattato e aggiungere dei fiocchetti di burro. Infornare per circa 40 minuti ad una temperatura di 180°. Servire il meat pie tiepido.

THE POST di Steven Spielberg, 2018

THE POST di Steven Spielberg, 2018

C’era una volta Tutti gli uomini del Presidente di A. Pakula (1976), centrato sull’affare del Watergate, oggi invece abbiamo il magistrale The Post centrato sulla pubblicazione dei cosiddetti Pentagon Papers, un fatto che rivoluzionerà, per sempre, i rapporti fra Potere Politico e Libera Stampa e che prefigura già quel che da lì a pochi anni il giornalismo investigativo realizzerà con la scoperta, per l’appunto, dello scandalo del Watergate.

Con questo suo 31° film Spielberg realizza anche il suo primo lavoro sul cosiddetto Quarto Potere, muovendosi con maestria in uno dei tradizionali filoni del cinema americano. Un genere in cui si intrecciano fra loro la denuncia contro gli abusi del Potere ed il ruolo della Stampa. In filigrana The Post può anche essere letto come una risposta, fatta con stile e vigore, agli attacchi di Trump ai Giornali Americani, di cui invece Spielberg intende metaforicamente sottolineare la forza e la capacità di resistere alle pressioni politiche.

Siamo agli inizi degli anni ’70, il Washington Post è ancora un giornale di secondaria importanza rispetto a colossi come il New York Times, suo principale concorrente. Katharine Graham (Maryl Streep) figlia del ricco fondatore del quotidiano, fra lo scetticismo generale, ne diviene editrice/direttrice prendendo il posto che era stato del marito appena morto. Direttore/capo redattore effettivo è invece Ben Bradley (Tom Hanks). Il giornale viene in possesso di documenti segretissimi: i Pentagon Papers, che comprovano tutte le implicazioni degli Stati Uniti nel Sud Est Asiatico e che la Casa Bianca, mentendo ai propri concittadini, ha sempre saputo che la guerra in Vietnam non ha mai avuto alcuna possibilità di essere vinta. Il dilemma morale che si pone la Direzione del Giornale, fra l’altro in una lotta contro il tempo con il potente concorrente New York Times, è se pubblicare o meno i documenti, nella consapevolezza che farlo significherebbe violare le leggi dello Stato e provocare effetti devastanti nei rapporti tra l’opinione pubblica e fra i vertici politici.

Poteva uscirne uno dei tanti buoni film sul giornalismo, invece Spielberg, con la sua maestria, coadiuvato dall’ottima sceneggiatura di Josh Singer (premio Oscar 2016 per Spotlight), fa la vera differenza, e ci regala un film maturo, elegante ed intelligente, non solo sulla Libera Stampa, ma, contemporaneamente, anche su una splendida figura di donna. Solo lui infatti, poteva dirigere con una scrittura capace di non perdere mai il punto di vista dello spettatore, mantenere intatta l’atmosfera dei fatti ed orchestrare una suspense credibile nel succedersi degli eventi, disegnandoci anche uno dei migliori ritratti femminili degli ultimi anni. Una donna che, in un’epoca dominata dal maschilismo, riesce invece trovare in sé la forza per trasformarsi e divenire capace di prendere, in prima persona, decisioni cruciali.

Il film non può che essere un film d’attori, e quindi cosa dire ancora di due mostri sacri e carismatici come Maryl Streep (nuovamente candidata all’Oscar) e Tom Hanks? Sono entrambi meravigliosamente capaci di far vibrare di umanità i loro personaggi. Attorno a loro un cast di ottimi caratteristi, ognuno perfetto nei vari ruoli. I virtuosismi filmici del regista: riprese in continuo movimento, inquadrature dal basso, piani e contro piani fanno infine di The Post una vera lezione di ottimo cinema oltre che un bel thriller giornalistico, sullo stesso livello dei migliori film di genere degli anni d’oro di Hollywood.   La forza delle parole può essere più potente delle pallottole.

data di pubblicazione: 02/02/2018


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Ç’EST LA VIE! di Eric Toledano ed Olivier Nakache, 2018

Ç’EST LA VIE! di Eric Toledano ed Olivier Nakache, 2018

“Se qualcosa può andare male, andrà male”. Si avvererà l’articolo 1 della legge di Murphy? Ç’est la vie! sembra infatti quasi voler rappresentare una scommessa, una sfida a questo assioma. Una sfida che si gioca fra sorprese e colpi di scena durante i vari preparativi del ricevimento e della festa per il matrimonio di Pierre ed Elena.

 

La giovane coppia ha deciso di celebrare in grande stile le proprie nozze in uno splendido castello del XVII sec., sito non molto lontano da Parigi e, per organizzare al meglio tutto quanto necessario per i festeggiamenti, si sono affidati al migliore organizzatore di eventi. Max (J. Pierre Bacrì), con un’esperienza ormai trentennale nel campo, è in assoluto il migliore organizzatore di feste, cerimonie e rinfreschi. E’ lui che coordina il tutto in ogni dettaglio, cura la decorazione floreale, provvede al catering con la sua squadra di cuochi e di camerieri, è lui che ha consigliato il fotografo Guy (J. Paul Rouve) ed è ancora lui che ha scelto l’orchestra ed il cantante ed entertainer James (Gilles Lellouche ). Sono tutti i “migliori professionisti” che si possano trovare nei rispettivi ambiti.

In breve, dunque, gli elementi necessari perché  i festeggiamenti riescano perfetti in ogni loro minimo dettaglio, sono stati già studiati, previsti e predisposti. Andrà tutto bene o scatterà la legge di Murphy?

Con Ç’est la vie!  i due registi Eric Toledano ed Olivier Nakache, dopo il trionfo del loro Quasi Amici ritornano  sugli schermi con un’opera perfetta che li conferma, senza alcun dubbio, ancora una volta, come i Maestri della Commedia. Di quella Commedia à la française con un gradevole misto di dolce ed amaro, dotata di quel tocco di classe e garbo in più che la rende apprezzata da ogni tipo di spettatore.

I registi si soffermano e ci fanno scrutare, ora per ora, tutto ciò che avviene “dietro le quinte” fra tutti gli addetti alla realizzazione dell’evento, durante i vari preparativi preliminari e poi durante la festa. Un “dietro le quinte” osservato con lo sguardo di quelli stessi che vi lavorano e sono impegnati allo stremo a superare tutto ciò che non va come dovrebbe andare. Come nei peggiori sogni, tutto ciò che non dovrebbe mai succedere sembra invece succedere, in una concatenazione di eventi che, ogni volta, sembrano condurre la festa sull’orlo di divenire un incubo. Il peggior incubo di ogni organizzatore di eventi.

Ç’est la vie! è un piccolo gioiello, del tutto privo di tempi morti e false note, un film corale, una galleria di ritratti feroci e teneri dominata dal grande Jean Pierre Bacrì al sommo della sua capacità artistica ed espressiva. E’ lui il fil rouge che lega tutti i personaggi le cui vicende personali e professionali si intrecciano e si sciolgono nel succedersi incalzante degli eventi. Attorno a lui una bella galleria di ritratti con attori  che recitano tutti  con talento. Fra i tanti spiccano Gilles Lelouche  e, in un ruolo un po’ secondario, quell’eccellente attrice che è Suzanne Clement.

I due registi dominano perfettamente ed armoniosamente i tempi ed i ritmi in un crescendo continuo di dialoghi spiritosi e frizzanti e, talora, anche esilaranti. Dialoghi ovviamente cesellati al dettaglio, battute veloci e pungenti, perfettamente inserite in una messa in scena precisa che ben adatta ed integra il susseguirsi delle varie situazioni con un garbo ed un gusto assai ricercati. Non manca, a tratti, un tumulto di pura follia che aiuta però a rendere ancora più dolce e gradevole l’intero spettacolo.

Dunque, un bel film gradevole come una bella boccata d’aria fresca pulita e … gioiosa. … Che ci volete fare?… Ç’est la vie!

data di pubblicazione:01/02/2018


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IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco – adattamento di Stefano Massini – regia di Leo Muscato

IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco – adattamento di Stefano Massini – regia di Leo Muscato

(Teatro Argentina – Roma, 23 gennaio/6 febbraio 2018)

Al termine di una imponente tournee che ha toccato i più importanti teatri italiani, approda al Teatro Argentina di Roma, dal 23 gennaio al 4 febbraio, Il nome della rosa. Il capolavoro di Umberto Eco, tradotto in 47 lingue, vincitore del Premio Strega nel 1981 con alle spalle una imponente versione cinematografica diretta da Jean-Jacques Annaud e interpretata da un indimenticabile Sean Connery, vive oggi la sua prima trasposizione teatrale italiana nella stesura di Stefano Massini e con la regia di Leo Muscato.

Un romanzo avvincente e trascinante, costruito secondo svariati livelli di lettura,  nato già con una forte matrice teatrale. Vi è un prologo, una scansione temporale in sette giorni, e la suddivisione di ogni singola giornata in otto capitoli, che corrispondono alle ore liturgiche del convento (Mattutino, Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta). Ogni capitolo è introdotto da un sottotitolo utile a orientare il lettore, che in questo modo sa già cosa accade prima ancora di leggerlo, una drammaturgia di fatto già impostata.

La scena si apre sul finire del XIV secolo. Siamo nel momento culminante della lotta tra Chiesa e Impero, che travaglia l’Europa da diversi secoli. Un vecchio frate benedettino, Adso da Melk, è intento a scrivere delle memorie in cui narra alcuni terribili avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù. Sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta, accaduti molti anni prima in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Sotto i suoi occhi si materializza se stesso poco più che adolescente, intento a seguire gli insegnamenti di un dotto frate francescano, che nel passato era stato anche inquisitore: Guglielmo da Baskerville.

Fare i conti con Il nome della rosa non dev’esser stata impresa facile. Dalla versione teatrale dell’eclettico Stefano Massini, il regista Leo Muscato ne ha tratto un adattamento asciutto e complesso nel contempo tra il thriller e l’indagine da una parte ed i tanti riferimenti culturali e trasversali, il contesto storico e religioso, l’attualità dei temi, lo scontro tra oscurantismo e liberalismo dall’altra, facendone un esplicito omaggio all’autore recentemente scomparso.

Ne è uscito un kolossal teatrale: l’impianto scenico è un contenitore che di volta in volta diviene la biblioteca, la cappella, le cellette, la cucina e così via per uno spettacolo che ha un taglio quasi cinematografico. Musiche originali unite a canti gregoriani dal vivo ed all’imponenza di costumi, scene e proiezioni video.

Ad entrare e uscire da questi ambienti è il vecchio Adso, nella voce narrante di Luigi Diberti che cattura lo spettatore con i suoi ricordi e gli insegnamenti del suo maestro, sconfitto, come investigatore, lungo la risoluzione del mistero delle  morti sospette tra i monaci perché a trionfare, apparentemente, è la cecità fisica e mentale dell’anziano Jorge che lo induce a distruggere il secondo libro della Poetica di Aristotele, temendo che il riso e la commedia, argomenti contenuti in quel manoscritto, potessero minare i dogmi della cristianità.

Interpreta Il nome della rosa un cast di grandi interpreti tra cui certamente emergono Luca Lazzareschi (nel ruolo di Guglielmo da Baskerville), Luigi Diberti (il vecchio Adso), Renato Carpentieri (Jorge da Burgos), Eugenio Allegri (Ubertino da Casale, francescano e Bernardo Gui, inquisitore), Giovanni Anzaldo (il giovane Adso).

Lo spettacolo enfatizza la lotta fra chi si crede in possesso della verità e agisce con tutti i mezzi per difenderla, e chi al contrario concepisce la verità come la libera conquista dell’intelletto umano.

La curiosità e la brama di conoscenza, che non abbandonano mai la mente di Guglielmo, sono, al contempo, strumento risolutivo e condanna per l’uomo moderno che abbandona l’oscurantismo medioevale per proiettarsi con forza e con dolore verso nuove mete e nuove verità.

data di pubblicazione:01/02/2018


Il nostro voto:

BABYLON BERLIN –  serie televisiva (Germania 2017)

BABYLON BERLIN – serie televisiva (Germania 2017)

Berlino 1929, la Germania è a pezzi dopo la prima guerra mondiale e la città è sull’orlo di un abisso: complotti della destra nazionalista, rivendicazioni sociali , un  clima di totale  incertezza e dissolutezza. Nella città arriva da Colonia il giovane ispettore Gereon Rath , che, confinato alla buoncostume, ultima delle sue aspirazioni professionali, si trova a dover risolvere un caso piuttosto spinoso riguardante pornografia e mafia. Si troverà coinvolto in ben altre situazioni ( sono  sedici gli episodi che compongono le due stagioni trasmesse da Sky Atlantic ). Avrà modo di stringere amicizie pericolose, immergersi nella vita notturna popolata di  droga e night clandestini, sventare golpe, reprimere il primo maggio dei bolscevichi, indagare su un misterioso carico, forse d’oro, proveniente dall’Unione Sovietica e tanto altroAl suo fianco la stenografa Charlotte, investigatrice in erba.

Tratto dal  romanzoDer Nasse Fisch, di Volker Kutscher, la serie – le prime due puntate già  ammirate prima alla Berlinale e poi alla Festa del Cinema di Roma – è un affascinante e conturbante affresco della Germania di Weimar e in buona sostanza un noir ad ampio spettro perfettamente rappresentato. All’opera, tre registi del calibro di Tom Tykwer (Lola corre), Achim von Borries e Henk Handloegten, mentre la produzione  ha segnato  l’inedita collaborazione fra colossi: X Film Creative Pool, ARD, Sky e Beta film. Non è questa la sede per discutere se le serie televisive  siano cinema o qualcos’altro oggi, peggiore, migliore; resta la certezza che nell’occasione ci si trova di fronte a uno spettacolo a tutto tondo che riesce a coniugare una trama intrigante e complessa  con  una introspezione psicologica dei personaggi e una rivisitazione attendibile di un momento storicamente importante della vita della Germania. Nelle diverse puntate  si accentua  la natura goliardica del periodo storico: la Berlino nel 1929, era la capitale del mondo, una città internazionale, magica e cosmopolita.  La ricostruzione delle strade (la scenografia curata da Uli Hanisch per Studio Babelsberg ha ricostruito perfettamente i diversi tipi dei quartieri di Berlino), i locali notturni e le stanze private testimoni di crimini, la sessualità  cruda e dissoluta, le lotte sociali, la povertà e la disoccupazione crescenti  in contrasto con gli eccessi e il lusso della vita notturna e dell’energia dirompente e creativa dei vari personaggi, tutto viene rappresentato in modo realistico e cruento. Il suo ideatore, il regista  Tom  Tykwer nella presentazione alla Berlinare 2017 aveva sottolineato:“È stato un momento di cambiamento politico, solo pochi anni prima dell’ascesa dei nazisti, e mentre nessuno aveva la più pallida idea di quello che doveva arrivare, in giro per la città era tutto in ebollizione”. Tra i meriti ascrivibili alla serie non può mancare la citazione per gli attori,  Volker Bruch, asciutto e dilaniato protagonista ( il poliziotto buono) e la deliziosa Liv Lisa Fries,(la vulcanica Charlotte tuttofare), Matthias Brandt, nel ruolo dell’ambiguo Brenda collega di Rath in polizia, Leonie Benesch, la disorientata Greta e Severija Janusauskaite (nome quasi impronunciabile!) nei panni della perfida ma fascinosa Svetlana, tutti magnificamente calzanti  nei rispettivi ruoli  della produzione, pare destinata a proseguire, sull’onda del successo riscontrato.

Babylon Berlin si compone inoltre di  una colonna sonora  organica alla narrazione  con le musiche che fanno da sfondo agli  anni ’20  eseguite dalla Leipzig Radio Symphony Orchestra e dalla Absolute Ensemble, band elettro acustica da camera di New York.  Di grande impatto alcune canzoni eseguite da Bryan Ferry, che, al solito fascinosissimo, compare altresì come attore-cantante di night in diverse puntate.

Da non perdere!

data di pubblicazione:30/01/2018

LE ASSAGGIATRICI di Rosella Postorino – Feltrinelli, 2018

LE ASSAGGIATRICI di Rosella Postorino – Feltrinelli, 2018

Nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, alla fine del nuovo romanzo di Rosella Postorino, l’autrice spiega come è nata l’idea di questo libro.

Qualche anno addietro si era imbattuta in un articolo in cui si parlava di Margot Wölk, una donna tedesca di 96 anni che nella sua giovinezza era stata una delle assaggiatrici di Hitler; purtroppo le ricerche per trovare l’indirizzo di Margot Wölk si protrassero troppo e proprio mentre le stava scrivendo per chiederle un’intervista venne a sapere che si era appena spenta.

A questo punto non le restava che scrivere una storia in cui cercare di immaginare cosa avesse significato essere stata una delle donne che, tre volte al giorno per parecchi mesi, erano state obbligate ad assaggiare i cibi che avrebbe dovuto mangiare il Führer per evitare che ne venisse avvelenato.

Il romanzo si svolge a Gross-Partsch, un villaggio vicino al Wolsschanze, la “Tana del Lupo”, un insieme di bunker mimetizzati nella foresta della Prussia orientale. La protagonista è Rosa Sauer, appena trasferitasi a casa dei suoceri dopo un lungo viaggio da Berlino, dove ha lasciato tutta la sua vita, in attesa di riunirsi al marito, soldato sul fronte russo.

La mattina successiva al suo arrivo viene “arruolata” dalle SS per assaggiare i piatti destinati al Führer; non è sola Rosa: “Eravamo in dieci. Da anni avevamo fame e paura. E quando il profumo delle portate fu sotto il nostro naso, il battito cardiaco picchiò sulle tempie, la bocca si riempi di  salivaQuando il pasto fu concluso, due SS si avvicinarono… Resterete qui, sedute, il veleno entrerà in circolo rapidamente… basta un’ora”.

Inevitabilmente la vita di Rosa “la berlinese” si intreccerà con quella di alcune delle altre assaggiatrici, la misteriosa Elfriede, Beate che legge i tarocchi,  Heike con i suoi bambini e poi con la datrice di lavoro del suocero, la baronessa Maria Freifrau von Milderhagen, a una festa della quale Rosa conoscerà il tenente delle SS Albert Ziegler.

Il personaggio di Rosa mi ha veramente colpita, non è nazista così come non lo sono i suoceri e il marito, così come non lo erano i suoi genitori, è una persona qualunque che soffre, che ha subito delle perdite e, soprattutto, che è estremamente sola. È tutto questo a farla piegare, a farle accettare tutto ciò che le accadrà e che la obbligherà a una vita di sensi di colpa e vergogna che non la lasceranno più e che annulleranno la sua vita futura, perché non può comunque perdonarsi la sua rassegnazione che era diventata, in qualche modo, complicità …: “Non ho mai detto nulla, e non lo dirò. Tutto quel che ho imparato, dalla vita, è sopravvivere.

Un romanzo potente, un personaggio per alcuni versi contraddittorio, che fa sicuramente riflettere, un libro che ti prende e non ti lascia fino all’ultima pagina.

data di pubblicazione:29/10/2018

IO E MIA SORELLA di Carlo Verdone, 1987

IO E MIA SORELLA di Carlo Verdone, 1987

Carlo (Carlo Verdone) è un oboista in una orchestra di musica classica ed è sposato con Serena (Elena Sofia Ricci) anche lei musicista. La madre di Carlo sta per morire, e lui si sente in dovere di contattare la sorella Silvia (Ornella Muti) che vive all’estero in maniera non del tutto chiara. Ritornata quindi in Italia, la donna irromperà con i suoi problemi nella vita del fratello il quale si troverà subito coinvolto in prima persona in situazioni a lui del tutto sconosciute e tutte ai limiti della legalità. Tra l’altro Carlo verrà a scoprire che Silvia è sposata a Budapest e che ha un figlio mentre mantiene una relazione clandestina con un maturo avvocato milanese, a sua volta sposato, solo perché l’aveva tirata fuori dalla galera per una condanna per spaccio di denaro falso. Questo e tanto altro ancora lo sventurato Carlo dovrà affrontare in soccorso di questa sorella che sembra inarrestabile andandosi a cacciare in circostanze sempre più complicate e rischiose, incapace poi di risolvere da sola quanto da lei stessa irresponsabilmente causato. Tutto preso da questi problemi, intanto non si accorge che il suo matrimonio con Serena sta naufragando e che ben presto verrà abbandonato e si troverà da solo e in un mare di guai dai quali difficilmente potrà venirne fuori.

Io e mia sorella fu accolto molto bene dalla critica ed ottenne diversi riconoscimenti tra David di Donatello, Nastro d’Argento, Globo d’Oro e Ciack d’Oro, tutti premi andati principalmente a Ornella Muti come migliore attrice protagonista e a Elena Sofia Ricci come attrice non protagonista oltre a Carlo Verdone per la sceneggiatura insieme a Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi.

La pellicola è interamente ambientata a Spoleto, città umbra che ci ispira una ricetta di facile realizzazione; gli strozzapreti con zucchine.

INGREDIENTI: 400 grammi di strozzapreti – 3 zucchine – 1 limone non trattato – 1 scalogno – 2 cucchiai di panna da cucina – olio d’oliva extravergine – sale e pepe q.b.

PROCEDIMENTO: Tritare lo scalogno e farlo appassire in olio d’oliva, quindi con il pelapatate togliere alle zucchine la buccia verde, affettarle a bastoncini e unirle allo scalogno. Saltare il tutto per due minuti aggiungendo sale e pepe a piacere, ed infine la scorza grattugiata del limone e la panna. Cuocere la pasta e saltarla in padella con questa salsa di zucchine. Volendo si po’ aggiungere un poco di parmigiano grattugiato e qualche fogliolina di menta. Servire la pasta ben calda.

CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino, 2018

CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino, 2018

Estate del 1983: nella villa del Prof. Perlman arriva ospite un giovane americano per completare la propria tesi. Oliver è un uomo pieno di fascino, colto ed intelligente, con una buona dose di empatia e, in breve tempo, riuscirà ad accattivarsi la stima di tutti, inclusa quella di Elio, il figlio del professore. Tra i due nascerà inizialmente un’amicizia sincera che però piano piano sfocerà in un profondo rapporto affettivo. Finito il soggiorno di studio, Oliver tornerà negli Stati Uniti non senza il piacevole ricordo del calore di quella famiglia che lo ha ospitato e dei bellissimi momenti trascorsi con il giovane Elio.

 

Presentato nel 2017 in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, Chiamami col tuo nome partecipò subito dopo alla Berlinale dove fu salutato quasi con una standing ovation, polarizzando a buon ragione l’attenzione del pubblico. La storia, tratta dall’omonimo romanzo di André Aciman e di cui il palermitano doc Luca Guadagnino ne ha firmato la sceneggiatura insieme a James Ivory e Walter Fasano, si svolge in una non meglio identificata campagna del Nord d’Italia, dove il professore universitario d’arte antica Perlman e la sua famiglia trascorrono serenamente l’estate. Elio, il diciassettenne figlio del professore, è un ragazzo molto maturo per la sua età, ama trascorrere il tempo tra lettura e musica dilettandosi a suonare al piano brani classici con una notevole professionalità, anche se non disdegna, come tutti i suoi coetanei, passare le sue serate nei bar del paese a bere con gli amici e a ballare. Nella tranquillità della vita di tutta la famiglia, irrompe con forza e vitalità il ventiquattrenne americano Oliver, ospitato nella villa affinché possa completare i suoi studi di dottorato. La frequentazione quotidiana tra i due giovani si trasforma pian piano in una relazione che li coinvolge intimamente senza che loro stessi se ne rendano conto.

La potenza di questo film sta proprio nell’aver utilizzato, attraverso delle immagini definite “idilliache” dallo stesso regista, un linguaggio espressivo semplice e autentico dove non occorrono parole per definire un sentimento di fatto indefinibile. Le scene sono girate in un modo da far sembrare tutto molto naturale e la fotografia ci fa veramente percepire la gradevolezza del paesaggio estivo in cui è ambientata la storia, ricorrendo a volte a delle dissolvenze che con discreto pudore sottraggono lo sguardo dalle immagini più intime. In sottofondo abbiamo un’Italia degli inizi anni ottanta dove, nonostante le turbolenti questioni politiche, imperava ancora l’idea di guardare al futuro con una giusta dose di ottimismo. Il film non è una love story tra due ragazzi, perché sarebbe troppo riduttivo definirla tale: sin dalle prime scene si viene catturati dalla bellezza dei luoghi in cui è ambientato e dall’interpretazione assolutamente naturale dei due protagonisti Timothée Chalamet (Elio) e Armie Hammer (Oliver), come se la narrazione trattata fosse vita vissuta, e sicuramente si deve a questo giovane regista l’abilità di aver reso percepibile, in immagini e dialoghi, che si può dare un esatto contorno alla felicità e all’amore solo quando dopo averli vissuti si prova la sofferenza di perderli.

Distribuito finalmente in Italia dopo aver riscosso ampi consensi in tutto il mondo, Chiamami col tuo nome come tutti sanno ha ottenuto, successivamente alle tre nomination ai Golden Globe, quattro candidature ai premi Oscar 2018: miglior film, miglior attore (Chalamet), miglior sceneggiatura non originale, miglior canzone (Mystery of Love). Non ci sarebbe da meravigliarsi se il film riuscirà ad ottenere anche una sola delle prestigiose statuette, avendo tutti gli ingredienti che lo hanno già reso tanto caro al pubblico americano e non solo.

data di pubblicazione:28/01/2018


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IL PADRONE di Gianni Clementi

IL PADRONE di Gianni Clementi

(Teatro Nino Manfredi – Ostia, 16/28 gennaio e Teatro Ghione – Roma, 30 gennaio/11 febbraio 2018)

La fertile drammaturgia di Gianni Clementi in combinato disposto con l’amico sodale Paolo Triestino ha prodotto un altro gioiellino.

Fa effetto recensire Il Padrone a cavallo della giornata della memoria perché la pièce contiene echi di seconda guerra mondiale ed ebraismo senza posizionarsi sulla facile guida sicura del “politicamente corretto”. Sembra ispirare il concetto che la “roba” (a Roma si direbbe “robba”) di verghiana memoria sia il motore del mondo. Ed è questa roba (appartamenti, soldi, potere) che una famiglia romana vuole assolutamente conservare di fronte alla prospettiva del ritorno a casa dell’ebreo che in conseguenza delle leggi raziali era stato costretto ad allontanarsene, con l’esplicito accordo di riprenderne il possesso a fine evento bellico. Senonché l’ebreo è un fantasma che diventa ossessione nella visione della coppia. E un secondo motore della vita oltre che della storia è la donna (la brava Paola Tiziana Cruciani, qui costretta a esibirsi con un braccio rotto al collo). È lei la dea ex machina che muove le pulsioni degli uomini e con la lusinga del sesso elargito al marito, all’amante o solo immaginato con l’ebreo stalker, indirizzando le motivazioni verso i suoi desideri ovvero la soppressione fisica dello sgradito proprietario. Ma l’azione avrà conseguenze ancora più gravi e choccanti sulle quali sorvoliamo per amor di trama e per il piacere dello spettatore futuro. Musiche d’epoca e un’atmosfera anni ’50 (“Lascia o raddoppia”, motivetti d’epoca, Nilla Pizzi) per una commedia nera, acre, che odora di zolfo e di rivendicazioni della piccola meschina piccola borghesia romana. Come si scrive in questi casi si ride ma si ride amaro fino al pirotecnico finale che vive su una conclusione tranchante davvero inaspettata. Il terzo attore, convincente caratterista, è Bruno Conti, solo omonimo del popolare ex calciatore giallorosso nato a Nettuno.

data di pubblicazione:27/01/2018


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