LA TRECCIA di Laetitia Colombani – Nord, 2018

LA TRECCIA di Laetitia Colombani – Nord, 2018

È la storia di tre donne che non si incontreranno mai e che non sapranno mai nulla una dell’altra e dei loro destini che, la contrario, si legheranno indissolubilmente. È la storia di tre donne che, ognuna a proprio modo, si ribelleranno al proprio destino, tre lottatrici indefesse che cambieranno il futuro imposto loro da “leggi” ingiuste che non condividono.

La prima che incontriamo è Smita: vive nel villaggio di Badlapur, nell’Uttar Pradesh, in India.
Ogni mattina lo stesso rituale. Come un disco rotto che suona all’infinito la stessa sinfonia infernale, Smita si sveglia nella squallida baracca in cui vive, nei pressi dei campi coltivati dai jat. Si lava la faccia e i piedi con l’acqua che la sera prima ha preso al pozzo riservato ai dalit. Impossibile avvicinarsi all’altro, quello delle caste superiori, sebbene sia più vicino e accessibile. C’è gente che è morta per molto meno. Smita si prepara, pettina i capelli di Lalita, dà un bacio a Nagarajan. Poi raccoglie la sua cesta di giunco intrecciato, la cesta che era stata di sua madre e la cui sola vista le dà il voltastomaco, quella cesta dall’odore persistente, acre e indelebile, che porta tutto il giorno come si porta una croce, un fardello osceno. Quella cesta è il suo calvario. Una maledizione, un castigo. Forse per una colpa commessa in una vita precedente, da pagare, espiare. Questa vita in fondo non è più importante di quelle passate, né di quelle a venire, è solo una delle tante, diceva sua madre”.

Smita è una dalit, una “intoccabile”, il suo lavoro, che le è stato tramandato da generazioni prima di lei, è quello di svuotare i pozzi dei jat dai loro escrementi; ma Smita non può sopportare l’idea che sua figlia debba percorrere il percorso tracciato per lei dalle donne che l’hanno preceduta, Smita vuole che Lalita impari a leggere e scrivere e un giorno possa migliorare la propria vita, e lotterà perché la figlia ottenga quello che è giusto che abbia, contro tutto e tutti.

La seconda donna che incontriamo è Giulia: siamo in Italia, a Palermo, dove il laboratorio della famiglia Lanfredi, fondato nel 1926 dal bisnonno di Giulia,  è ormai l’ultimo in città a occuparsi della “cascatura”, la tradizione siciliana di conservare i capelli tagliati per farne parrucche; “Dà lavoro a una decina di operaie specializzate che districano, lavano e trattano le ciocche di capelli che, una volta assemblate, vengono spedite in Italia e in Europa”. Giulia è la seconda di tre sorelle, l’unica che si sia mai interessata all’azienda di famiglia, l’unica orgogliosa delle parrucche che il bisnonno, il nonno e ora il padre creano con i capelli delle donne siciliane. Una malaugurata mattina il padre ha un incidente e muore, e solo allora Giulia scopre che il loro laboratorio è sull’orlo del fallimento: contro le opinioni della madre e delle sue sorelle, intraprende una vera e propria rivoluzione per risollevare le sorti della sua azienda e, con essa, salvare la sua casa e l’unica vita che ha conosciuto.

L’ultima delle donne che popolano questo romanzo è Sarah: siamo a Montreal, in Canada. “Alle 8.27, posteggia l’auto nel parcheggio, davanti al cartello con sopra scritto il suo nome: Sarah Cohen, Johnson & Lockwood. Quella targa, che contempla ogni mattina con orgoglio, non segnala semplicemente il luogo riservato alla sua auto; è un titolo, un grado è  il suo posto nel mondo. Un riconoscimento, il frutto del lavoro di una vita. Il suo successo, il suo territorio. Qui tutti la stimano. Sarah entra nell’ascensore, preme il tasto dell’ottavo piano, attraversa i corridoi a passo spedito, diretta nel suo ufficio. Non c’è molta gente, spesso è la prima ad arrivare, e anche l’ultima ad andarsene. È  questo il prezzo per costruirsi una carriera, questo il prezzo per diventare Sarah Cohen, equity partner del prestigioso studio legale Johnson & Lockwood”. Poi, però, nel bel mezzo di un’arringa, Sarah sviene e niente sarà più come prima. Sarah cercherà in tutti i modi di nascondere la sua malattia ai colleghi, al suo capo perché sa bene che l’ambiente super competitivo dello studio legale non perdona alcun cedimento, figuriamoci se può ammettere una malattia che la obbligherà a un percorso lungo e rischioso, che la logorerà e fiaccherà. Ma la notizia trapela e Sarah verrà allontanata dai colleghi, sarà solo “una malata”, inutile nelle dinamiche dello studio. Per vincere la sua battaglia dovrà decidere per cosa vale la pena lottare e inizierà proprio dai suoi capelli perché se “Un uomo calvo può essere considerato sexy, una donna calva è solo malata”.

La treccia è filo che unisce il coraggio e la lotta per ribellarsi al loro destino di queste tre donne unite dallo spirito di rivolta contro un destino scritto per loro da altri.

Un libro da leggere.

data di pubblicazione: 11/6/2018

TERRAFERMA di Emanuele Crialese, 2011

TERRAFERMA di Emanuele Crialese, 2011

Giulietta, madre di Filippo e vedova di Pietro, figlio maggiore del vecchio pescatore Ernesto, vive su di una piccola isola del mediterraneo: insoddisfatta della propria condizione, vuole traslocare sulla “terraferma” per dare a suo figlio una vita migliore. Nino, il figlio minore di Ernesto, invece non ne vuole sapere di abbandonare l’isola ma non intende fare il pescatore come il padre, e quindi cerca di guadagnare portando i turisti a fare gite in barca.

Un giorno Ernesto e Filippo durante la loro solita uscita in mare, incontrano una zattera strapiena di migranti africani e, nonostante la Guardia Costiera li avvisi di restare nelle vicinanze della zattera senza prendere nessuno a bordo, Ernesto in ossequio alla legge del mare ne raccoglie alcuni che stanno nuotando verso la sua barca. Tra questi c’è una donna incinta, Sara, e suo figlio, che vengono portati dal vecchio pescatore nella propria casa: nella stessa notte la donna mette al mondo una bambina. Il giorno dopo la Guardia di Finanza inizia la ricerca dei rifugiati; inizialmente Giulietta fa fortemente leva su Ernesto perché Sara con i suoi bambini partano al più presto, per paura che la loro presenza possa compromettere i suoi progetti di vita, ma poi col tempo cresce anche in lei l’empatia nei confronti di questa donna africana, anch’ella desiderosa di una vita migliore e con il progetto di raggiungere suo marito, emigrato al nord anni prima.

La situazione nell’isola lentamente degenera: le forze dell’ordine, nel rispetto della legge, devono impedire di accogliere i migranti, alcuni dei quali moriranno in mare con la conseguente fuga dei turisti dall’isola; il giovane Filippo, assistendo a tutto questo, sente sempre più forte, tra rimorsi e ribellione, il desiderio di pensare al suo futuro.

Terraferma di Emanuele Crialese, regista di Respiro nel 2002 e Nuovomondo nel 2006, è un film profondo, che narra le vicende di una famiglia di pescatori di un’isola siciliana (forse Lampedusa?). Insignito del Premio speciale della giuria alla 68° Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia, Terraferma venne scelto come rappresentante italiano per concorrere nella categoria “Miglior film straniero” agli Oscar 2012 e, nello stesso anno, ricevette anche tre candidature ai David di Donatello.

A questo bellissimo film, attuale e struggente, abbiniamo una ricetta dal sapore di mare: il polpettone di tonno con maionese fatta in casa.

INGREDIENTI: 450 gr di tonno in scatola sott’olio – 300 gr di patate – 4 uova – 60 gr di parmigiano – 150 gr di pangrattato – sale e pepe q.b.- olio extra vergine d’oliva e qualche goccia di limone per condire; per la maionese: 1 limone- olio extra vergine d’oliva – un pizzico di sale – 1 uovo intero

PROCEDIMENTO:

In una ciotola capiente disponete il tonno sott’olio sgocciolato, le uova, le patate lessate in precedenza e schiacciate con lo schiacciapatate, il parmigiano. Amalgamare il tutto e passarlo al passaverdure con trama non troppo fitta (per chi volesse un composto a grana più rustica, può saltare questo procedimento); al composto così amalgamato aggiungere il pangrattato, il sale e il pepe. Fate preriscaldare il forno a 170°/180°. Confezionare quindi il polpettone dandogli la classica forma allungata, avvolgetelo nella carta stagnola e adagiatelo sulla leccarda del forno facendolo cuocere per una quarantina di minuti. A fine cottura lasciarlo raffreddare. Togliete la stagnola e affettatelo. Disporlo in un piatto da portata condito con un filo d’olio e una qualche goccia di limone. Preparare a parte della maionese fatta in casa, mettendo un uovo intero in un frullatore con un pizzico di sale, azionare il frullatore ed aggiungere dal buco qualche goccia di limone e olio extravergine d’oliva a filo senza mai fermarsi; quando la maionese sarà soda disporla in una ciotola e servirla per accompagnare il polpettone. E’ un ottimo piatto per le cene estive, ma la cosa che si raccomanda è di usare un buon tonno!

SICILIA QUEER 2018 FILM FESTIVAL

SICILIA QUEER 2018 FILM FESTIVAL

(Cantieri Culturali alla Zisa – Palermo, 31 maggio/6 giugno 2018)

Il Sicilia Queer Festival giunge alla sua ottava edizione in un anno molto significativo per Palermo in quanto la città è divenuta Capitale italiana della Cultura. La manifestazione è un importante evento che si inserisce adeguatamente in tutte quelle attività culturali che si stanno organizzando e che trova in questa sede coinvolti cineasti provenienti da vari paesi. Il Festival si distingue perché attraverso la proiezione di film a tema omosessuale intende portare avanti una campagna contro ogni forma di discriminazione, a cui talvolta ci si abbandona anche per una forma di ingiustificata pigrizia mista a qualche pregiudizio duro da sconfiggere. Seguendo la propria tradizione, quest’anno l’evento dà un riconoscimento a Nino Gennaro artista e intellettuale siciliano che ha contribuito con il proprio pensiero all’affermazione della cultura gay in un contesto dove la militanza è ancora molto impegnata per la difesa dei diritti civili e per la totale libertà di pensiero. Molto interessante il programma che si è articolato in due sezioni principali riguardanti rispettivamente un concorso di cortometraggi e uno di lungometraggi, oltre a convegni ed interviste a personalità illustri, avendo sempre come sfondo il tema della emancipazione sessuale e l’affermazione della propria individualità. A chiusura della rassegna è stato presentato il film Un couteau dans le coeur di Yann Gonzales, già presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes e dove nel 2013 il regista era stato segnalato dalla critica per il suo film Les rencontres d’après minuit. La pellicola, che ha come protagonista Anne (Vanessa Paradis) produttrice di film porno gay di basso livello, la si può considerare un thriller dove ad un disastroso rapporto lesbico fanno da contrappunto una serie di efferati omicidi. Seppur il plot sia alquanto scontato e non sembri ben riuscito l’intento del regista di dare un significato profondo all’intera storia facendo qua e là prevalere la componente del voyerismo, al di là di ogni personale considerazione su questa pellicola di chiusura urge comunque sottolineare la validità del Festival e degli obiettivi raggiunti, che sono stati quelli di “proiettarsi nel futuro a vantaggio delle generazioni future”. Un laboratorio sperimentale per costruire una realtà nuova con altre prospettive di crescita, di pensiero e di affermazione di genere, senza vincoli culturali che ne possano inficiare i risultati sin qui raggiunti.

data di pubblicazione:07/06/2018

LA TERRA DELL’ABBASTANZA di Damiano e Fabio D’Innocenzo, 2018

LA TERRA DELL’ABBASTANZA di Damiano e Fabio D’Innocenzo, 2018

Mirko e Manolo sono due ragazzi di una borgata romana che frequentano svogliatamente l’ultimo anno dell’istituto alberghiero e, a causa della loro giovane età, sono molto più inclini a divertirsi che ad essere concentrati sul proprio futuro. In una dello loro frequenti scorribande notturne i due investono un uomo e, invece di prestargli soccorso, fuggono sconvolti.

L’indomani Mirko e Manolo scoprono di aver ucciso un personaggio di spicco di uno dei due clan malavitosi che si contendono il dominio sulla città, ed entrano così, inconsapevolmente e di diritto, nell’entourage della famiglia mafiosa avversaria a cui hanno fatto il “piacere”. Catapultati nel mondo della droga e della prostituzione, i due inseparabili amici si troveranno a svolgere senza scrupoli gli incarichi che di volta in volta gli verranno assegnati.

Damiano e Fabio D’Innocenzo si sono da sempre dedicati alla scrittura e alla fotografia: hanno successivamente prodotto videoclips, un film per la televisione e uno per il cinema oltre ad un lavoro teatrale; con La terra dell’abbastanza – presentato quest’anno nella Sezione Panorama della Berlinale – sono al loro debutto come registi. Il film segue il filone TV Gomorra che, prendendo le mosse dal film di Matteo Garrone tratto dal romanzo di Saviano, racconta le lotte di clan mafiosi per spartirsi il dominio e poter così trafficare indisturbati nel proficuo campo della droga e della prostituzione. Ancora una volta sono le vite dei giovani ad esserne travolte: Mirko e Manolo uccidono a sangue freddo convinti che l’unica cosa che conti per loro è far bella figura di fronte al “capo famiglia” e riscuotere compensi in denaro. La realtà è quella prevedibile: le borgate delle grandi città (tanto care a Pasolini) e le famiglie inesistenti che si danno da fare come possono per crescere i propri figli, fornendo purtroppo esempi di vita non eticamente raccomandabili ed ai limiti della legalità.

Un plauso va ai due promettenti registi a cui bisogna dare atto di aver confezionato un lavoro tecnicamente ben fatto, in cui i continui primi piani su Andrea Carpenzano (Mirko) e Matteo Olivetti (Manolo) evidenziano la loro indiscutibile bravura, ma il plot non convince noi spettatori, oramai saturi di storie come questa, come non aggiunge nulla di nuovo Luca Zingaretti nella parte del capo clan.

data di pubblicazione:07/06/2018


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LA TRUFFA DEI LOGAN (LOGAN LUCKY) di Steven Soderbergh, 2018

LA TRUFFA DEI LOGAN (LOGAN LUCKY) di Steven Soderbergh, 2018

I fratelli Logan, non curanti della loro sfortuna leggendaria che li perseguita peggio di una maledizione, si apprestano ad organizzare il colpo del secolo alle spese della Charlotte Motor Speedway. Il colpo dovrà avvenire durante la leggendaria gara di auto Coca-Cola 600 e ad affiancare i due fratelli ci sarà Joe Bang (un irriconoscibile quanto spassoso Daniel Craig), esperto in esplosioni che, seppur in galera, troverà il modo di partecipare ugualmente al colpo. Il suo ingrediente “segreto” per costruire una bomba? Due confezioni di caramelle gommose… a forma di orsetti!

E così l’organizzazione del colpo più goffo della storia parte, inframezzato da stupide gare da reginette di bellezza, piloti vanesi che intralciano i Logan nella loro “folle corsa”, due soci in affari alquanto bizzarri e una serie di rocamboleschi incidenti. Su tutto questo indagherà un integerrimo quanto “rigido” agente dell’FBI (interpretato da una irriconoscibile Hilary Swank) che vorrà vederci più chiaro, senza fermarsi di fronte a quelle alquanto scoraggianti apparenze…

Ironia, una buona dose di umorismo e tanta leggerezza sono alla base di questo nuovo film di Soderbergh che, a giudicare dal finale aperto, fa già presupporre un sequel.

Sulla scia delle tre pellicole che hanno narrato le gesta della banda capitanata da Danny Ocean, ne La truffa dei Logan – presentato alla 12^ Festa del Cinema di Roma con il titolo di Logan Lucky – il regista assolda Channing Tatum (con lui in Magic Mike del 2002) nella parte di Jimmy Logan, offeso ad una gamba e fratello di Clyde (Adam Driver), che invece ha perso un braccio in Iraq. È un’America profonda e sempliciona al tempo stesso quella che emerge da questa pellicola, grazie ad un impacciato gruppo di ladri ingenui, certamente non glamour come la banda della trilogia Ocean’s, ma piuttosto con caratteristiche accostabili a certi personaggi visti in qualche pellicola dei Coen.

Divertente, leggero, autoironico (il regista si cita nel film), con brani musicali ben scelti, un finale non banale che ci fa sognare un po’ e senza che neanche tutti i tasselli tornino al proprio posto, La truffa dei Logan è intrattenimento di qualità, distribuito da Lucky Red.

data di pubblicazione:02/06/2018


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DOGMAN di Matteo Garrone, 2018

DOGMAN di Matteo Garrone, 2018

In un’angusta toilette per cani un minaccioso pitbull ringhia contro un esile figura di uomo che prova a tranquillizzarlo, prima di accingersi a lavarlo ed asciugarlo. Esplode così il detonatore di Dogman, l’ultimo film di Matteo Garrone, rilasciando nell’aria quella tensione sospesa, quel disagio e quell’apnea emotiva che permangono sino all’ultima incredibile scena.

Una storia ambigua di un rapporto ambiguo, un fatto di cronaca ingombrante come punto di partenza per un racconto al limite, nella migliore tradizione del primo Garrone, quello de L’imbalsamatore e Primo amore, il più forte ed il più toccante, che esaspera e sublima i personaggi delle sue storie.

In una periferia senza tempo di un moderno far west, Marcello (interpretato da uno straordinario Marcello Fonte, Palma d’Oro a Cannes dove il film è stato presentato in Concorso) è un uomo piccolo e mite, che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l’amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino (interpretato dal bravissimo Edoardo Pesce), un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere.

Continuamente vittima di bullismo e soprusi, ormai stremato da una vita di umiliazioni, Marcello decide di seguire le orme di Simoncino e di diventare il suo aiutante in una serie di rapine: ormai in balia del suo carisma e legato da lealtà e dipendenza, Marcello finisce col tradire non solo la sua stessa moralità, ma anche i suoi compagni di quartiere. Il peso delle proprie azioni diventa sempre più insostenibile, sino a dover pagare con il carcere la sua “fedeltà” all’amico violento. Dopo aver perso tutto e tutti, arriva finalmente per Marcello la presa di coscienza, insieme a un’irrefrenabile sete di vendetta: portando sulle spalle il suo “trofeo”, Marcello cercherà di farsi notare da quella gente che tanto conta per lui, anche se quel trofeo è solo un fardello troppo pesante da esibire, sollevare e sopportare, come la più dolorosa ed amara delle sconfitte.

Un film profondissimo, fatto di sfumature di grigio, come lo sono tutti i conflitti tra il forte e il debole, in cui i cani sono testimoni e osservatori della bestialità umana. Una periferia al limite del surreale, non ben identificata, un luogo dove le figure estreme di Garrone vivono, dove le loro vite si incontrano e si interscambiano tra gentilezza e violenza, umanità e orrore.

Marcello, nella sua instabilità emotiva e di malato slancio affettivo, non solo accondiscende alle angherie del suo aguzzino, ma addirittura arriva a sacrificarsi per lui dopo avergli salvato la vita.

La lotta per la sopravvivenza non ammette compassione; quel pugno nello stomaco però e quel disagio non trasferiscono solo dolore ma anche tenerezza ed aiutano a guardare oltre, perché l’umanità è anche questo.

data di pubblicazione:01/06/2018


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UNA VIENNESE A PARIGI di Ernst Lothar – E/O, 2018

UNA VIENNESE A PARIGI di Ernst Lothar – E/O, 2018

Quello che stiamo leggendo è un diario che venne recapitato a Ernst Lothar nel 1940: lo scrittore lo fece pubblicare l’anno successivo negli Stati Uniti e nel 1942 a Londra, in pieno conflitto mondiale, come monito a tutti coloro che non riconoscevano il pericolo della minaccia nazista e che, di fatto, davano il loro assenso al regime: “Le annotazioni ivi contenute mi sono sembrate così significative e talmente emblematiche delle condizioni psicologiche in cui versavamo noi esuli da decidere di darle alle stampe”.

Autrice del diario è Franziscka Langer. Siamo nel 1939, l’Austria viene occupata dai nazisti e mentre la stragrande maggioranza dei suoi connazionali si rassegna e accetta impotente l’invasione, Franzi, ariana cattolica, non riesce a tollerare né essere in alcun modo complice dell’ascesa di Hitler: abbandona la sua città che ama e i suoi genitori che adora per trasferirsi a Parigi.

Resta abbagliata dalla città, se ne innamora immediatamente; per lei è come rinascere, tornare a respirare la libertà, la tranquillità di poter esprimere qualsiasi idea senza alcuna conseguenza, le serate a teatro, al cinema, i dehors dei bar e dei ristoranti sempre pieni di gente spensierata… tutto l’affascina e a Parigi troverà l’amore della sua vita: Pierre Durand, giornalista de Le Figaro.

Le pagine del diario sono molto coinvolgenti, il racconto di cosa accade è estremamente vivo, le espressioni delle persone, i sentimenti, le paure, l’amore per Pierre, le notizie dei giornali che si fanno sempre più drammatiche, incalzano e trasmettono l’urgenza di continuare la lettura.

Franzi è scappata dalla sua Vienna e ha passato mesi interi a chiedersi se non sarebbe dovuta restare nella sua città per combattere contro l’invasione nazista, si è data della codarda, al funzionario della prefettura di Parigi sì è dichiarata addirittura una “ex-autrichienne”: “Il ministero dell’Interno francese aveva introdotto questa formula per indicare i rifugiati austriaci che non si considerano cittadini del Reich tedesco ma appunto austriaci, come sono sempre stati.”.

Le pagine del diario si caricano sempre più di angoscia con l’avvicinarsi alla fatidica data in cui anche la Francia entrerà in guerra, quella guerra che la diplomazia ha tentato invano di evitare e che si è drammaticamente abbattuta su tutto il mondo, spazzando via ogni certezza, ogni felicità.

Pierre parte per il fronte, mentre Franzi è infermiera volontaria nell’ospedale americano di Neuilly; i nazisti entrano a Parigi e lei scrive: “Da quando ieri ho sentito marciare i nazisti mi sembra che ogni cosa sia stata calpestata – e ovviamente loro vogliono proprio questo, mettere in chiaro che non ci sono più speranze! I loro spaventosi annunci alla radio, i bollettini ingiuriosi sbraitati dai furgoni con gli altoparlanti che percorrono senza sosta i boulevard, l’ordine indecente che hanno instaurato e non si addice a questo posto – tutto deve comunicare un senso di ineluttabilità.

Stavolta Franzi non fuggirà, e affronterà fieramente il suo futuro.

data di pubblicazione:30/05/2018

LA MIA PRIMAVERA DI PRAGA di e con Jitka Frantova,  regia di Daniele Salvo

LA MIA PRIMAVERA DI PRAGA di e con Jitka Frantova, regia di Daniele Salvo

(Teatro India – Roma, unica rappresentazione del 23 maggio 2018)

Nel gennaio del 1968 il riformista slovacco Alexander Dubček, salito alla guida della Cecoslovacchia già sottoposta ai diktat dell’Unione Sovietica, avvia una fase di liberalizzazione politica e di grandi riforme. Questo periodo storico di graduale processo di democratizzazione del paese, con il riconoscimento ai cittadini di maggiori diritti civili, fu definito la Primavera di Praga. Il 20 agosto dello stesso anno i carri armati dei paesi aderenti al Patto di Varsavia invasero brutalmente Praga suscitando immediate proteste tra le quali quelle dello studente Jan Palach. Il giovane, suicidandosi, diventerà il simbolo di una accanita resistenza che si protrarrà sino al 1990, anno della disgregazione del blocco sovietico.

 

 

Lo spettacolo presentato al Teatro India dall’attrice Jitka Frantova è la storia-odissea raccontata da un’esula ceca che, più che recitare, parla di sé e delle drammatiche vicende che la coinvolsero sia nella veste di affermata attrice teatrale che in qualità di moglie di Jiří Pelikán, a quel tempo direttore della televisione di stato, impegnato in prima linea nella fase riformista del paese durante la cosiddetta Primavera di Praga, di cui quest’anno ricorre il 50° anniversario. La donna si muove sulla scena tra oggetti e documenti in una casa cosparsa di foglie morte come se una folata di vento avesse invaso gli spazi per portare il proprio carico di desolazione. La Frantova, con il supporto di filmati di repertorio sullo sfondo, ci parla delle proprie tragiche disavventure a fianco del marito che portarono entrambi a fuggire clandestinamente dal proprio paese per rifugiarsi in Italia e chiedere asilo come rifugiati politici. La pièce, diretta dall’abilissima mano di Daniele Salvo, non è solo la commemorazione dei fatti storici di quegl’anni ma è da considerarsi il documento vivente della vita martoriata di due protagonisti, da prendersi come simbolo di ciò che una intera nazione dovette subire a seguito della devastante invasione sovietica. Un monito quindi anche alle potenze che ancora oggi tolgono la libertà fisica e di pensiero agli uomini, calpestandone i legittimi diritti civili. Le immagini video, elaborate da Giandomenico Musu, contribuiscono a coinvolgere emotivamente lo spettatore lasciandolo a fine rappresentazione commosso di fronte a quello che non è certamente finzione, ma storia reale di una altrettanto reale tragedia umana. Uno spettacolo quindi denso di emozioni, supportato dall’abilità interpretativa dell’attrice e protagonista dei fatti narrati che riguardano anche la primavera della propria vita quando, senza volerlo, fu coinvolta in prima linea insieme al marito in una resistenza contro il potere. L’evento, sotto l’egida del Presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman, è stato patrocinato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.

data di pubblicazione:24/05/2018


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THE MOON IN DESERT di Movimento Comico, regia di Fabio Cicchiello

THE MOON IN DESERT di Movimento Comico, regia di Fabio Cicchiello

(Teatro Lo Spazio- Roma, 18/20 maggio 2018)

Una comicità lunare. Perché letteralmente ambientata sulla luna. Ispirati da Buster Keaton due astronauti dipingono vivacemente le contraddizioni della vita di tutti i giorni che non riesce a essere governata dal timone della scienza.

 

 

Un piccolo e breve florilegio di gag dimostra che il teatro può ancora muovere sul piano del genere una seria concorrenza alla televisione. Lo dimostrano le reazioni del pubblico, probabilmente non alla prima visione di questa breve (50 minuti) ma intensa, a tratti farneticante e demenziale, vicenda. Quadretti scomposti e con collegamenti ad hoc per una storia che non si può raccontare perché in scena fiocca un florilegio di battute calde e fredde, legate a una scenografia affidata a materiali essenziali. Il teatro non è solo seriosità e impegno. I due clown/astronauti si scontrano con i due strambi gestori del teatro che rimandano spesso alla prosaica realtà della sopravvivenza del genere. Dunque un teatro che si affitta per compleanni, matrimoni e qualsivoglia impresa che possa portare denaro. È chiaro che l’impaccio, l’equivoco, il calembour fanno ridere per una comicità che a volte è di parola, a volte di situazioni, a volte di contrastato movimento spaziale. Così lo spettacolo filante e premiato di fine stagione funziona fino in fondo con l’impressione che gli spettatori, ampiamente fidelizzati, si siano gustati almeno un paio di volte l’esibizione. Gli interpreti sono Corrado Zizzo, Daniele Dosideo D’Arcangelo, Luca Refrigeri e Katiuscia Rossi ben diretti da Fabio Cicchiello. Tutti completamente padroni del testo e delle gag per un piccolo convincente piccolo capolavoro di rustica comicità. Il corto lungo o lo spettacolo in miniatura che dir si voglia, nei limiti umili delle sue ambizioni, ha già raccolto primi ed esprime una formula collaudata e interpreti all’altezza della situazione.

data di pubblicazione:21/05/2018


Il nostro voto:

ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler

ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler

(Teatro Argentina – Roma, 15/20 maggio 2018)

Il teatro è pronto e la scena è già allestita sulla piazza. L’intreccio di amori, equivoci, maschere, camuffamenti, lazzi e giochi prende forma tra squilli di tromba e battito di tamburi. Si accendono le luci del palco e si dà il via alla commedia. Arlecchino servitore di due padroni torna di nuovo a far ridere il pubblico.

 

 

La scelta della direzione artistica del Teatro Argentina di mettere in cartellone uno spettacolo come Arlecchino servitore di due padroni, ideato dal genio di Strehler e riproposto con la messa in scena di Ferruccio Soleri e Stefano de Luca, non può che essere un grande regalo al suo pubblico e un occasione per godere della visione di una delle regie che hanno segnato la storia del teatro italiano del secondo Novecento. Sono ormai passati più di 70’anni da quando la commedia venne rappresentata la prima volta al Piccolo di Milano e da allora continua ad incantare tutti con il suo meccanismo perfetto di giochi, improvvisazione, battute e personaggi ormai testato su ogni tipo di pubblico. Viene da domandarsi in effetti che cos’è che mantiene in vita sulla scena questo spettacolo così rappresentato e le risposte sono tante. Si può pensare dapprima alle scene di Ezio Frigerio, alle musiche di Fiorenzo Carpi suonate dal vivo sulla scena, ai costumi stupendi e alle maschere di cuoio; e poi ancora alla bravura degli attori, tutti, perfettamente accordati tra di loro, divertiti, esperti nel saper cogliere gli umori di un pubblico ogni sera diverso e nuovo. Ma anche e soprattutto una regia sapiente, rispettosa della tradizione e tuttavia innovativa, quale fu quella di Giorgio Strehler, che si risolve nel focalizzare tutto l’intreccio su un vero palcoscenico della Commedia dell’Arte, con il suo fondale dipinto e le sue candele sul proscenio ad illuminare lo spazio della recitazione e del gioco. Forse è qui allora che tutta questa perfezione trova la sua unità: nel gioco eterno del teatro e nella sua capacità di poter essere strumento di evasione e distrazione, pura contemplazione della bellezza. Ne siamo consapevoli noi, ne sono consapevoli gli attori sulla scena. Ne è consapevole Arlecchino, interpretato da uno straordinario Enrico Bonavera, che tesse le trame di questo intreccio divertentissimo, ma che in più conosce il modo di intrattenere gli spettatori in modo intelligente e attento, trascinandoli continuamente nella sua tempesta di lazzi e scherzi dalla quale non si vorrebbe uscire mai. Va visto questo Arlecchino e poi rivisto ancora, consapevoli che non deluderà mai perché è il teatro che ci si aspetta di vedere, ma che tuttavia è sempre nuovo e unico ogni sera.

data di pubblicazione:20/05/2018


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