L’ULTIMO DEGLI ELTYSEV di Roman Senčin – Fazi, 2017

L’ULTIMO DEGLI ELTYSEV di Roman Senčin – Fazi, 2017

È la storia degli Eltyšev, ma la loro condizione potrebbe essere quella di una qualsiasi altra famiglia nella Russia del post perestrojka.

Nikolaj, il padre, lavora in polizia nel centro di detenzione per ubriachi, un lavoro che sarà quasi una nemesi, la moglie Valentina lavora nella biblioteca della loro città e si occupa della casa; hanno due figli Artëm e Denis: “il maggiore aveva smesso di studiare, era uno sfaticato nullafacente e un bambinone di venticinque anni compiuti, mentre il minore… Il minore era finito male: in una rissa aveva tirato un pungo in testa a un tale e l’aveva ridotto a una larva. Conclusione: l’altro handicappato e a lui cinque anni di lavori forzati”.

La loro vita si trascina tra insoddisfazioni e recriminazioni fino a quando Nikolaj una notte calca troppo la mano, forse troppo stanco o forse infastidito dalla confusione degli ubriachi, sta di fatto che ne rinchiude quattordici in uno spazio estremamente angusto e, non contento, li fa “irrorare” con il peperoncino… il risultato è che loro finiscono in rianimazione e Nikolaj perde lavoro e casa.

La famiglia è dunque costretta a trasferirsi nel paese avito di Valentina, ospitati da una vecchia zia nella sua izba, una vera stamberga.

È il primo gradino di una inarrestabile discesa verso la totale disfatta; privati di quella che per trent’anni è stata la loro routine, privati del lavoro, senza alcuno stimolo, senza alcuno scopo, gli Eltyšev entrano in una spirale di alcol, fallimenti, violenza e disgrazie che sfocerà nella devastazione del loro piccolo nucleo familiare.

Senčin descrive la banalità della vita degli Eltyšev, il loro squallore e la povertà d’animo che emana dai loro pensieri con un potenza e con una tale verosimiglianza che ci sentiamo soffocati da un profondo senso di amarezza e di oppressione, così come le descrizioni della izba o del rigido inverno della campagna russa “L’inverno fu duro. In certi momenti credettero di non farcela, di crepare in quella tomba di casa, di sbranarsi l’uno con l’altro: il poco spazio scatenava continue liti, attizzava la rabbia” rimarcano l’intenzione dell’autore di instillare nel lettore tristezza e mestizia al cospetto dello squallore dell’esistenza degli Eltyšev.

Una maestria, quella di Roman Senčin, che riporta agli antichi fasti della letteratura russa.

Un libro assolutamente da leggere.

data di pubblicazione:18/02/2018

LA CANTATRICE CALVA di Eugene Ionesco, regia di Adriana Trapanese

LA CANTATRICE CALVA di Eugene Ionesco, regia di Adriana Trapanese

(Teatro San Genesio- Roma, 15/18 febbraio 2019)

Il “vero” teatro dell’assurdo è quello di Ionesco e non quello di Beckett. Chiarimento a uso e consumo degli appassionati delle etichettature. E La cantatrice calva cos’è? Appena una citazione nei filanti 80 minuti negli insensati dialoghi di camera di due usurate coppie di sposi che si interfacciano in commedia con un vigile del fuoco, adatto anche per spegnere gli ardori di una eccitata collaboratrice familiare. E, a completare il cast dei personaggi e degli attori, una partecipante pendola semovente che esercita il potere del tempo e partecipa emotivamente, da mimo, alle elucubrazioni dei protagonisti. 

E’ la prima pièce di Ionesco e l’ambientazione inglese favorisce l’adozione di inveterati luoghi comuni del linguaggio. La noia della routine, delle esercitazioni dialettiche tra coniugi allo specchio è l’esaltazione del pastiche verbale che fa deflagrare la logica. L’accelerazione verso l’insensato, il processo di accumulazione dei tic verbali, porta al parossismo e all’insopportabilità delle situazioni. Fino a sbocciare in sonore risate per l’inevitabile direzione verso l’assurdo. Del linguaggio adottato e della vita. Ionesco scriverà: “Non ho mai capito la differenza che si ravvisa tra il comico e il tragico. Il comico, intuizione dell’assurdo, mi sembra più disperato del tragico, perché non offre via d’uscita”. Il punto più alto dell’opera rappresentata, con il vivo e interessato contributo di una platea di studenti (sollecitati poi al dibattito) sta nel mancato riconoscimento di due coniugi che naturalmente vivono assieme ma che hanno perso ogni connotato di umanità e che burocraticamente elencano tutti gli elementi comuni per riconoscersi solo alla fine come sposi che occupano la stessa camera da letto. La drammaturgia dell’autore rumeno sembra anche un ritorno al teatro antico, a una sorta di riveduta e corretta commedia dell’arte con attori che sono maschere e archetipi universali. Il registro del grottesco ammanta la commedia ed è l’utile chiave di lettura per fruirla.  E’ una scrittura raffinata quella di Ionesco e la Trapanese ha saputo offrirci con garbo e rispetto, attraverso due anni di decantazione, un divertente saggio del suo estro drammaturgico.  Meritano una citazione tutti gli interpreti: Paolo Della Rocca, Valeria Cecere, Mimmo Lamuraglia, Lilila Nacci, Maria Leanta, Carla Iacuzio, R. Khoji Giovinazzo.

data di pubblicazione: 18/2/2018


Il nostro voto:

BERLINALE [3] – DAMSEL di David e Nathan Zellner, 2018

BERLINALE [3] – DAMSEL di David e Nathan Zellner, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Samuel Alabaster è un eccentrico cowboy che si aggira per gli spazi selvaggi americani con la chitarra in cerca della bella Penelope, che lui ama e che sposerà dopo averla liberata da un uomo che la tiene segregata. In compagnia di Parson Henry, da lui pagato come ministro che dovrà officiare la cerimonia, Samuel inizia la sua ricerca portando con sé come dono di nozze Butterscotch, un pony che lui cura amorevolmente. Trovata la casa dove vivono la donna ed il suo presunto aguzzino, Samuel scoprirà una realtà ben diversa da quella immaginata che lo getterà nel più cupo sconforto. Penelope inizierà una nuova vita, lontano dal posto dove aveva vissuto momenti felici.

 

I registi di questo eccentrico western sono i fratelli americani David e Nathan Zellner già noti qui a Berlino per aver presentato i loro film  Kid-Thing  nel 2012 e Kumiko-The Treasure Hunter nel 2014 nella Sezione Forum. Damsel è un film molto particolare nel suo genere perché pur avendo una ambientazione tipica di ogni film western, tuttavia sin dalle prime immagini se ne discosta a causa dell’atteggiamento completamente squilibrato dei personaggi. Il protagonista Samuel (Robert Pattinson) è un uomo delicato ma determinato nella sua convinzione che Penelope (Mia Wasikowsa) lo ami veramente e che lo sposerà. Lui è certo del suo obiettivo ma non ha il giusto physique du role del vero cowboy, come del resto gli altri personaggi, ognuno con le proprie stravaganti peculiarità che fanno da sponda a comportamenti del tutto inaspettati. Forza trainante del film è la figura di Penelope che ad un certo punto prende le redini della storia e con la sua fermezza sarà in grado di mettere in riga i vari personaggi sopravvissuti per poter decidere in piena autonomia del proprio destino. Già presentato al Sundance, il film è ora in concorso alla Berlinale ed ha tutte le carte in regola per ottenere un riconoscimento: ottima location e convincenti i due protagonisti che regalano al pubblico momenti di autentico divertimento. I due fratelli Zellner, anch’essi nel cast, sembra abbiano superato la prova contrapponendo all’originalità dei personaggi la grandiosità dei canyon americani, vero spettacolo incontaminato nel quale ambientare questa storia bizzarra e del tutto inusuale.

data di pubblicazione:17/02/2018








BERLINALE [2] – LAS HEREDERAS di Marcelo Martinessi, 2018

BERLINALE [2] – LAS HEREDERAS di Marcelo Martinessi, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Chela e Chiquita sono felicemente in coppia da molti anni nonostante le differenze di carattere: la prima, molto riservata, é riluttante a lasciare l’appartamento dove abitano, la seconda al contrario é estroversa e responsabile della gestione pratica della casa. Sommerse dai debiti si vedono costrette a vendere il vecchio mobilio ereditato seppur ognuno di quegli oggetti racchiudono in sé un particolare ricordo affettivo. Quando Chiquita finirà in prigione per aver contratto dei debiti mai onorati, Chela si troverà ad affrontare da sola una serie di problemi pratici che tenterà di risolvere inventandosi un servizio di taxi privato per ricche signore anziane. In questo suo nuovo ruolo di autista incontrerà la giovane Angy, figlia di una di queste donne, e questo incontro le cambierà la vita.

 

Marcelo Martinessi è nato a Asunciòn, Paraguay, dove ha studiato Scienza delle Comunicazioni per poi specializzarsi in regia alla London Film School. Già noto in campo internazionale per i suoi cortometraggi, nel 2016 con La voz perdida ha vinto il premio come migliore corto al Festival di Venezia. Las herederas è il suo primo lungometraggio ed è tutto al femminile: il ruolo degli uomini è del tutto marginale ed il regista affronta una società ripiegata su se stessa, che nel suo inconfondibile carattere borghese sembra ancora beneficiare di particolari vantaggi sociali che la dittatura in Paraguay benevolmente le permette. Uno spaccato della vita di molte donne del suo paese di origine che amano circondarsi di privilegi senza più avere i mezzi economici per poterseli permettere, e che rifiutano quasi come un peso di apparire come eroine forti e resistenti al regime dove l’immaginario comune vorrebbe collocarle. Nella scelta del cast delle tre protagoniste (Ana Brun, Margarita Irùn e Ana Ivanova), il regista ha preferito delle figure che potessero comportarsi sulla scena naturalmente senza doversi inventare o imitare un particolare codice sociale. Nel film, accanto alle due anziane Chela e Chiquita, spicca in maniera prepotente la figura di Angy che al contrario delle altre usa parlare di sé e delle sue relazioni con vari uomini con quella giusta dose di spudoratezza, che al principio spaventa molto Chela. Questa giovane donna rappresenterà l’unica possibilità per Chela di aprirsi ad un radicale cambiamento affascinante e pericoloso al tempo stesso. In un paese dove il ruolo delle donne è destinato a rimanere nel silenzio delle proprie case, mentre all’uomo è attribuito il compito machista di poter sempre e comunque risolvere i problemi pratici della vita, il film vuole invece mostrare una visione diversa e più reale possibile di una società dove, al di là del giustificato pessimismo dovuto alla situazione politica, si intravede comunque uno spiraglio di apertura verso un nuovo mondo.

data di pubblicazione:16/02/2018








L’UOMO SUL TRENO di Jaume Collet-Serra, 2018

L’UOMO SUL TRENO di Jaume Collet-Serra, 2018

Con questo film siamo ormai arrivati alla quarta collaborazione fra il giovane regista spagnolo J. C. Serra, ormai re dei B Movie Hollywoodiani, ed il suo attore feticcio Liam Neeson (sono per lui lontani i bei tempi di Mission, Schindler List Michael Collins). Il poliedrico attore è il solito buon padre di famiglia che, pur volendo vivere una vita di persona normale, è sempre un “ex qualcosa” (ex agente segreto, ex detective, ex poliziotto …), un passato che lo perseguita oppure lo aiuta, allorché si trova risucchiato in oscure vicende.

 Questa volta è un manager assicurativo, uno dei tanti pendolari giornalieri sui treni fra New York e le belle villette in periferia. È stato appena dimissionato, e torna a casa angustiato dalle conseguenti difficoltà economiche che vede ora piombare sulla sua famiglia. In questo stato d’animo viene avvicinato in treno da una affascinante sconosciuta (Vera Formiga) che gli offre una cifra enorme purché riesca ad identificare un passeggero misterioso che si trova anche lui sul treno. L’uomo viene così preso subito in un terribile ingranaggio che diviene presto questione di vita o di morte per tutti.

Da Taken 1, 2 e in poi Liam Neeson fa ormai solo… Liam Neeson. Anche lui è divenuto un “genere di se stesso” ed un sottogenere degli action movie/ thriller. Nulla di nuovo sotto i cieli del cinema anglosassone di serie B o B1, a partire addirittura, dai tempi dei western di Randolph Scott per finire oggi ai film di Jason Statham o Nicola Cage, tanto per citarne alcuni.

Comunque sia, per gli appassionati del genere il problema non si pone affatto. Film come L’uomo sul Treno sono prodotti d’azione e suspense più o meno dignitosi, che non vanno visti dal punto di vista della logicità della storia o della veridicità delle azioni, ma vanno goduti solo per il susseguirsi di scontri fisici, di tensione, inseguimenti adrenalinici: ieri per le vie di Parigi o sui tetti di Istanbul o nel chiuso di un aereo in volo, oggi in una lotta all’interno di un treno in corsa. Sono, oseremmo dire, i “western di oggigiorno” in cui, comunque sia, i buoni trionfano sempre sui cattivi.

Il regista J. C. Serra si conferma abile realizzatore di film commerciali basati su una sceneggiatura tutta azione e tensione, bravo nel suo ambito, ed abilissimo nel creare azioni in uno spazio confinato e ristretto. Infine, il nostro Liam, nonostante i suoi prossimi 66 anni, continua a dar sfoggio di capacità atletiche e, lo ribadiamo, è perfetto nel ruolo di se stesso, e non ha ormai più rivali nell’interpretare il suo solito personaggio: il buon americano tranquillo che, se costretto, è capace di passare dal ruolo di vittima a quello di combattente, sfoderando forza, coraggio e determinazione. Sempre “the same old story”.

data di pubblicazione: 16/2/2018


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SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello, regia di Luca De Fusco

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello, regia di Luca De Fusco

 (Teatro Argentina – Roma 6 febbraio/18 febbraio 2018)

Dopo il debutto a Napoli dello scorso ottobre si chiude al Teatro Argentina di Roma la lunga tournée di Sei personaggi in cerca d’autore, in scena dal 6 al 18 febbraio con la regia di Luca De Fusco e protagonista Eros Pagni.

Sei personaggi in cerca d’autore è certamente il dramma più famoso di Luigi Pirandello, rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, da subito contestato ed in seguito osannato per la forza dirompente di un’opera che sembrava provenire dal futuro, anticipando i tempi in modo inaspettato. Un’opera che identifica la massima riflessione sulla natura stessa del teatro nella drammaturgia del Novecento ed anticipa l’arte concettuale, il surreale, l’esistenzialismo,  rompendo lo schema tradizionale della finzione realistica.

La scenografia dello spettacolo è tutta basata su un grande muro presente sul fondo della scena.  Il muro è in realtà anche un grande schermo cinematografico e da questo schermo escono all’inizio i sei personaggi. Una duplice accezione, teatrale e cinematografica, in cui le figure reali sono riprese da telecamere e proiettate sullo schermo come grandi presenze immaginate ed evocate.

Una rilettura del capolavoro pirandelliano condotta attraverso due sistemi di comunicazione quello teatrale e quello cinematografico, il cui confronto si affacciava prepotentemente alla ribalta negli anni della stesura del testo.

Sei persone entrano in un teatro dove una compagnia di attori sta provando il dramma di Pirandello Il giuoco delle parti. Le sei figure non sono in realtà persone ma personaggi immaginati da uno scrittore che a un certo punto li ha abbandonati. Rivolti al capocomico della compagnia i Personaggi chiedono di sostituire l’autore e far recitare il loro dramma agli attori professionisti impegnati in palcoscenico. Così ciascuno dei Personaggi comincia a raccontare la propria storia. Durante le prove però, alle quali i Personaggi assistono ora in silenzio ora intervenendo con commenti e suggerimenti, ai loro occhi gli attori risultano non credibili, troppo diversi da loro e, per fare in modo che il loro destino di personaggi si compia, dovranno essi stessi recitare sul palcoscenico il proprio tragico dramma fino all’epilogo.

Una trama articolata e sovrapposta, il cosiddetto teatro nel teatro, il rapporto tra verità e finzione, esistenza e letteratura, un testo metafisico e filosofico perfettamente rispettato all’interno di un allestimento che dosa adeguatamente le componenti istintuali, i colpi di scena, le sdrammatizzazioni, la rabbia e l’angoscia.

Uno spettacolo che esalta il recitato. Una regia lineare e non dissacrante, senza voli pindarici ma senza cali di tensione. L’apparizione di Madama Pace, la proprietaria del bordello, evoca atmosfere quasi felliniane con il suo incedere grottesco e clownesco che anticipa il dramma crescente della storia che parte dall’incesto del padre con la figliastra e procede verso l’epilogo di morte. Sei personaggi allo sbando che si presentano fuori da ogni luogo e tempo ma che alla fine sono veri e vivi, disorientando e commuovendo.

data di pubblicazione: 16/2/2018


Il nostro voto:

 

BERLINALE [1] – ISLE OF DOGS di Wes Anderson, 2018

BERLINALE [1] – ISLE OF DOGS di Wes Anderson, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Atari è un ragazzo di dodici anni che, a seguito della morte improvvisa dei genitori, viene dato in affidamento allo zio Kobayashi, uomo corrotto che ricopre la carica di sindaco di Megasaki. A seguito di un contestato decreto governativo, viene deciso che tutti i cani presenti in città debbano essere trasferiti in una isola lontana, dove sono solitamente raccolti tutti i rifiuti della città. Il ragazzo, privato del suo fedele cane da guardia Spots, decide di rintracciarlo e a bordo di un Junior-Turbo, piccolo aereo in miniatura da lui stesso costruito, approda sull’isola. Con l’aiuto di una “piccola banda” di altri 5 cani inizia un viaggio epico sulle tracce del suo fido amico, e l’esito di questa ricerca diverrà determinante per il futuro non solo dei poveri animali ma anche della Prefettura, i cui scandali da tempo nascosti diverranno di pubblico dominio.

 

Il regista, produttore, sceneggiatore texano Wes Anderson ama trasferire la propria personale eccentricità nei personaggi che crea e porta sul grande schermo. Già nel 2012 il suo Moonrise Kingdom, ambientato su un’isola leggendaria, venne prescelto come film d’apertura a Cannes e nel 2014 il suo The Grand Budapest Hotel con Ralph Fiennes apre il Festival di Berlino; così, anche il suo ultimo film Isle of Dogs è stato prescelto tra i vari film in concorso per avviare la kermesse berlinese. Dopo il successo di Fantastic Mr. Fox, oggi abbiamo assistito al suo secondo film di animazione in cui il brillante regista ricorre di nuovo allo stop motion – un particolare montaggio di foto che si susseguono creando il movimento stesso della scena – per deliziarci ancora una volta con il suo singolare modo di fare cinema. Il risultato ottenuto sono immagini molto nitide e naturali che ben si discostano dai normali animated cartoon a cui siamo abituati. La storia del piccolo e coraggioso Atari alla ricerca del suo fedele cane Spots si può considerare una favola dei giorni nostri, che ci riporta in un mondo di buoni e cattivi, dove ai primi non rimangono molte armi a disposizione per sconfiggere le ingiustizie perpetrate dai secondi. Come in tutte le favole che si rispettino gli animali possono esprimersi con parole che noi comprendiamo, ma in questo film è il linguaggio degli uomini ad essere incomprensibile, necessitando di una traduzione simultanea: lo spettatore entra quindi in sintonia con i quadrupedi esiliati e destinati allo sterminio, mentre trova difficoltà ad intendersi con gli umani, intenti solo a mettere in atto marchingegni per accaparrarsi a tutti i costi il potere. Atari, con la freschezza dei suoi dodici anni, è l’unico che riesce a riscattare l’uomo dall’inevitabile pantano di corruzione in cui è precipitato. Il film, che racchiude in sé una morale sincera, prerogativa questa di tutte le favole, sembra proporci ripetutamente la quintessenza delle domande: Chi siamo? Ma soprattutto: Chi vogliamo essere?

data di pubblicazione:15/02/2018








A CASA TUTTI BENE regia di Gabriele Muccino, 2018

A CASA TUTTI BENE regia di Gabriele Muccino, 2018

Sicuramente il titolo dell’ultimo film di Gabriele Muccino A casa tutti bene è ironico. Il regista gioca con la frase di mera circostanza “a casa tutti bene” per ironizzare sul disastrato stato di “salute” psicofisica del suo prototipo prediletto di famiglia, ovvero quella che per facciata è apparentemente serena, felice e perfetta da “mulino bianco”, ma dove, poi, basta entrare, aprire la porta di una delle camere o imbattersi nell’incontro di due membri per vedere cosa ci sia davvero dietro la maschera del “tutti bene”.

Sara (Sabrina Impacciatore), sorella di Carlo (Pierfrancesco Favino) e Paolo (Stefano Accorsi), è l’artefice della rimpatriata di fratelli, cugini, zia Maria (Sandra Milo) e nipoti sull’isola di Ischia per festeggiare le nozze d’oro dei suoi genitori, Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti). La riunione di famiglia dovrebbe durare una mezza giornata, ma con la complicità del mare in burrasca i traghetti saranno bloccati non solo per quel pomeriggio ma anche il giorno seguente. Ecco che il buon viso a cattivo gioco che tutti sarebbero stati in grado di fare – mettendo a tacere vecchi rancori, tradimenti, ansie, frustrazioni e gelosie mai così vive e dolorose – superato il limite massimo della manciata di ore “scade” e dalla prima serata forzata tutti insieme hanno inizio una serie di scontri dirompenti di ogni equilibrio. L’insicurezza e la gelosia di Ginevra (Carolina Crescentini) per il rapporto tra suo marito Paolo (Favino) e la sua prima moglie Elettra (Valeria Solarino) e la prima figlia Luna, il casinista Paolo eterno adolescente in fuga a 42 anni e sua cugina Isabella (Elena Cucci), i tradimenti mai interrotti del marito di Sara, Diego (Giampaolo Morelli), la frustrazione di Beatrice (Claudia Gerini) per la malattia del compagno Sandro (Massimo Ghini), la disperata ruffianeria della “pecora nera” dell’albero genealogico, il cugino Riccardo (Gianmarco Tognazzi) e la sua compagna Luana (Giulia Michelini), si svelano e “urlano” tra la villa e i suoi giardini a picco sul mare. Ma, come tutte le burrasche passeggere, anche questa fulminea tempesta familiare si risolve in una mera implosione di sentimenti, paure e dolori. Placato il vento e calmato il mare, tutto torna come prima, non ci sono colpi di scena, decisioni e stravolgimenti risolutivi. Il polverone alzato torna sotto il tappeto e, più o meno tutti, tornano a fingere di essere micro famiglie felici e serene, solo che questa volta sono ancor più tristi perché maggiormente consapevoli della loro finzione e infelicità. Il film di Gabriele Muccino non eccelle per la sceneggiatura, né per la storia che riproduce la sua ossessione per le famiglie segnate da piccoli drammi interni, bugie e tradimenti. Il film, fatto di dialoghi che non entusiasmano – tra cui alcune battute di Alba (Stefania Sandrelli) rivolte ai suoi nipoti che talvolta sono fuori luogo e prive di senso – non brilla e, rievocando malamente Parenti Serpenti di Mario Monicelli, sembra un riassunto delle puntate di fiction come Una grande Famiglia ideata per Rai1 da Ivan Cotroneo. La colonna sonora che ricorre in gran parte delle scene musicata con un pianoforte triste e scordato, in stile “piano del saloon” o dei film muti, non aiuta la pellicola, ma per fortuna qua e là irrompono canzoni d’autore come sul finale con “Prima di andare via” di Riccardo Sinigallia. Il tormentone della famiglia canterina intorno al piano o per le stradine isolane a un certo punto finisce con lo stonare, non tanto musicalmente quanto cinematograficamente con il copione, divenendo eccessivo. Il giudizio per il film, rasenterebbe i due pop corn, – anche per le interpretazioni insufficienti di Elena Cucci nel personaggio di Isabella e di Stefania Sandrelli/matrona -, ma grazie alla bravura di Pierfrancesco Favino, Sabrina Impacciatore, Carolina Crescentini, Valeria Solarino e Stefano Accorsi, che sono bravissimi e riescono a emozionare anche con una storia senza guizzi, il giudizio complessivo migliora.

data di pubblicazione:15/02/2018


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LA FORMA DELL’ACQUA (THE SHAPE OF WATER) di Guillermo del Toro, 2018

LA FORMA DELL’ACQUA (THE SHAPE OF WATER) di Guillermo del Toro, 2018

É il 1962. In una piccola località non meglio identificata della costa americana vive Elisa, una ragazza muta che lavora di notte come donna delle pulizie in un laboratorio governativo di massima sicurezza dove una sera, in assoluta segretezza, viene portata una sorta di cisterna cilindrica in vetro piena di un’acqua dal colore verdognolo. Elisa ode da quello strano cilindro, blindato come una sorta di piccolo sottomarino, l’eco di strani versi che sembrano appartenere ad una creatura marina e che tanto innervosiscono le persone addette alla sicurezza ma che, al contrario, attraggono irrefrenabilmente la dolce ragazza “senza voce”, tanto da volerne sapere di più…

 

Elisa (Sally Hawkins) è già di per sé una strana creatura, che vive in mondo quasi ultraterreno: sembra essere grata alla vita, affrontando ogni giorno come fosse una danza, sempre allegra, spensierata e con un rassicurante sorriso stampato sul viso. Eppure Elisa è vera, in carne ed ossa, ma la sua vita assomiglia ad una fiaba come il suo piccolo appartamento dai colori che ricordano il fondo marino, situato sopra un teatro di quartiere dalle poltroncine di velluto color porpora; ogni sera, prima di recarsi a lavoro, si prende cura di sé con un bel bagno ed una cena leggera, che prepara sempre anche per il suo vicino Giles (Richard Jenkins), un talentuoso illustratore di cartellonistica per prodotti alimentari un po’ sfortunato, ma irrimediabilmente romantico, ancora alla ricerca dell’anima gemella e legato ad Elisa da una profonda amicizia. E poi c’è Zelda (Octavia Spencer), una collega di lavoro prepotente ma tanto buona, che Elisa ogni notte durante il turno di lavoro ascolta amorevolmente parlare senza tregua e, soprattutto, senza mai poter…replicare. Ma un giorno, incurante delle disposizioni del funzionario (Michael Shannon), cattivo e dai modi violenti, responsabile della custodia di quel misterioso uomo-anfibio contenuto nella cisterna, essere preistorico che i sovietici vorrebbero sottrarre per farne esperimenti, Elisa decide di socializzare con “il mostro” e lo farà nel modo più naturale possibile: sedendosi sul bordo della vasca ed offrendo ad esso parte del suo pranzo….

Ha meritatamente vinto la 74. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia il grande film di Guillermo del Toro, in cui fantasia, thriller, romanticismo, sesso ed amore si mescolano e ci inondano come l’acqua presente nella vita dei due protagonisti: un uomo pesce di cui si innamora perdutamente una donna senza voce “in un momento di strana sincronia che accade raramente”.

E così è la favola ad entrare nella vita vera, nel mondo reale, e non si può che assistere esterrefatti a tutto questo, attraverso le immagini di una storia d’amore che vince su paura e violenza. Le scene del film sono estremamente curate, non solo nelle inquadrature e nella fotografia, ma anche nei colori che anticipano la trama: come il rosso del sangue e delle scarpe di Elisa, o il colore della sua casa che sembra un relitto inabissato in contrapposizione alla luce accecante che inonda la stanza dove Giles disegna i suoi cartelloni pubblicitari. Sublime è la colonna sonora del compositore francese Alexandre Desplat (Oscar per Grand Budapest Hotel), studiata a tavolino con il regista che ha curato personalmente tutto del film, dalla sceneggiatura in poi, tassello dopo tassello con amorevole meticolosità, amore che traspare in ogni impercettibile piega del film.

In attesa degli Oscar, se volessimo dare una forma a qualcosa che si avvicina ad un piccolo capolavoro, potrebbe avere quella dell’acqua.

data di pubblicazione:14/02/2018


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68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

(Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Ancora una volta fervono i preparativi per l’inizio di questa 68esima edizione della Berlinale: tutto è pronto per dare il benvenuto a giornalisti e cinefili di tutto il mondo che saranno presenti qui a Berlino per questo evento cinematografico di rilevanza internazionale. Un programma come sempre ricchissimo di pellicole per un totale di circa 400 film, che verranno suddivisi tra quelli in concorso per aggiudicarsi il prestigioso Orso d’oro, e quelli presentati nelle sezioni collaterali. Il Direttore del Festival Dieter Kosslick ha ricordato in conferenza stampa come quest’anno ricorrano cinquanta anni dai famosi movimenti del 1968, che segnarono l’inizio di quel radicale cambiamento socio-culturale che trasformò il modo di vivere e di pensare di intere generazioni. Di questa rivoluzione si parlerà molto durante la Berlinale perché non fu solo una demolizione del modus vivendi di allora divenuto oramai obsoleto, ma perché investì tutte le forme di espressione, incluse quelle cinematografiche, offrendo al grande pubblico l’opportunità di spiegare il mondo in tutte le sue sfaccettature reali e non.

La selezione ufficiale prevede 24 film:

3 Tage in Quiberon di Emily Atef, Germania-Austria-Francia

7 Days in Entebbe di José Padilha, Usa-Gran Bretagna (fuori concorso)

Aga di Milko Lazarov, Bulgaria-Germania-Francia (fuori concorso)

Season of the devil di Lav Diaz, Filippine

Black 47 di Lance Daly, Irlanda-Lussemburgo (fuori concorso)

Damsel di David e Nathan Zellner, Usa

Don’t worry, he won’t get far on foot di Gus Van Sant, Usa

Dovlatov di Alexey German Jr., Federazione Russa-Polonia-Serbia

Eldorado di Markus Imhoof, Svizzera-Germania (fuori concorso)

Eva di Benoit Jacquot, Francia-Belgio

Las Herederas di Marcelo Martinessi, Paraguay-Uruguay-Germania- Brasile

In den gangen di Thomas Stuber, Germania

Isle of Dogs di Wes Anderson, Gran Bretagna-Germania

Khook di Mani Haghighi, Iran

My brother’s name is Robert and he is an idiot di Philip Groning, Germania-Francia-Svizzera

Museo di Alonso Ruizpalacios, Messico

La prière di Cédric Kahn, Francia

The real estate di Axel Petersén e Mans Mansson, Svezia-Gran Bretagna

Touch me not di Adina Pintilie, Romania-Germania-Repubblica Ceca

Transit di Christian Petzold, Germania-Francia

Twarz di Malgorzata Szumowska, Polonia

Unsane di Steven Soderbergh, Usa (fuori concorso)

U- July 22 di Erik Poppe, Norvegia

Il film italiano in concorso Figlia mia è di Laura Bispuri, che torna a Berlino dopo il suo esordio con Vergine giurata, accolto positivamente sia dal pubblico italiano che internazionale. L’Italia sarà presente anche con altri tre film: La Terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo e Land di Babak Jalali, una coproduzione Italia-Francia-Olanda-Messico-Qatar, entrambi nella Sezione Panorama ed infine con Lorello e Brunello, documentario di Jacopo Quadri nella Sezione Culinary Cinema. Quattro film, come ha affermato Paolo Del Brocco di Rai Cinema, “che raccontano storie fortemente legate all’attualità, radicate nel sociale, dai tratti originali, in linea con un Festival, come quello di Berlino, che per tradizione predilige questi temi…”.

La giuria internazionale sarà presieduta dal regista e sceneggiatore tedesco Tom Tykwer che sarà affiancato da Stephanie Zacharek, critica cinematografica americana della rivista Time, dal compositore giapponese Ryuichi Sakamoto e dal fotografo spagnolo Chema Prado. Ancora in giuria la produttrice americana Adele Romanski e l’attrice belga Cécile de France.

Le sezioni speciali che accompagneranno i film in Concorso saranno: Berlinale Shorts che comprende 36 corti selezionati da ben 14 festival europei; Panorama che come sempre presenta pellicole con tematiche politiche e sociali, poi ancora la Sezione Forum, la rassegna Generation dedicata alle tematiche giovanili, Prospettive Cinema Tedesco che porta a conoscenza del grande pubblico pellicole di giovani talenti tedeschi, nonché Retrospettive con un programma quest’anno dedicato alla filmografia della Repubblica di Weimer a partire dal 1918 e fino al 1933. Come nelle edizioni passate anche quest’anno avremo una rassegna Teddy Award, con vari film a soggetto gay; Culinary Cinema con la proiezione di film riguardanti il cinema e la passione per il cibo; Berlinale goes Kiez, programma per la diffusione dei film della Berlinale nei vari cinema periferici della città e Native, che ci porterà ad esplorare principalmente le remote regioni della Polinesia, Australia e Nuova Zelanda.

Infine quest’anno l’Orso d’oro alla carriera verrà assegnato a Willem Dafoe, grande artista e attore statunitense più volte nominato ai Golden Globe e agli Oscar e noto come interprete in vari film di successo (Mississippi Burning, Le radici dell’odio, L’ultima tentazione di Cristo per citarne alcuni).

Accreditati sarà presente anche quest’anno alla Berlinale, con un occhio particolarmente attento alle pellicole in selezione ufficiale e con qualche incursione nelle sezioni collaterali.

data di pubblicazione:14/02/2018