da Antonio Iraci | Set 4, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
I due poliziotti Brett Ridgeman e Anthony Lurasetti, sospesi temporaneamente dal servizio per avere usato metodi violenti durante una retata contro un criminale, si vedono “costretti” a procurarsi in maniera non del tutto regolare dei soldi per far fronte ai propri problemi familiari. Il primo, con una figlia adolescente molestata dai ragazzi del quartiere, sente la necessità di trasferirsi altrove anche per poter accudire meglio la moglie afflitta da sclerosi; il secondo, più giovane, pensa invece di voler mettere su famiglia. Presentatasi l’opportunità e forti della loro esperienza, i due si troveranno coinvolti in una rapina che, proprio perché organizzata da altri, sarà piena di eventi per loro del tutto imprevedibili.
S.Craig Zahler è un personaggio poliedrico in quanto regista, sceneggiatore, scrittore, direttore della fotografia e musicista. Il suo film, presentato oggi fuori concorso, vorrebbe definirsi un poliziesco, solo che non è una vera e propria detective fiction con tanto di solerti ispettori e relativo caso ingarbugliato da risolvere. In Dragged Across Concrete infatti abbiamo due poliziotti dalla mano pesante, interpretati dai grandi Mel Gibson e Vince Vaughn, che si fanno sospendere dal servizio e non sanno come sbarcare il lunario. Li vediamo scivolare quindi nel mondo della malavita e diventare loro stessi parte di essa quando decidono in entrare in una rapina sorprendendo di fatto gli stessi rapinatori. Il meccanismo del film funziona, solo che il plot sul finale è alquanto scontato, con dei colpi di scena del tutto prevedibili frutto di una sceneggiatura non proprio tra le più brillanti. Dialoghi sconnessi e fuori posto fanno da contrappunto alla indiscussa bravura dei due protagonisti, ai quali si affianca una eccezionale Jennifer Carpenter, salita alla ribalta con il film The Exorcism of Emily Rose del 2005.
Non sono sufficienti al regista le storie personali dei due protagonisti, uno oramai alla soglia dei sessanta anni che non è riuscito a fare carriera e l’altro, giovane e meno disilluso, che cerca ancora il momento giusto per dichiarare il suo amore alla ragazza che intende sposare, per rendere più accattivante l’intera vicenda narrata nel film. L’ulteriore mancanza di originalità nei personaggi secondari, contribuisce a non far decollare Dragged Across Concrete verso qualcosa che possa realmente appassionare, in un action movie che si rispetti.
Si rimane tuttavia sempre un po’ interdetti nel pensare come, dopo aver scritto e diretto Brawl In Cell Block 99 (Nessuno può fermarmi) presentato l’anno scorso a Venezia ricevendo ampi consensi da parte della critica internazionale, Zahler abbia concepito una sceneggiatura così poco priva di sostanza. Ce ne faremo una ragione.
data di pubblicazione:04/09/2018
da Antonio Iraci | Set 3, 2018
Il titolo di questo film dello sceneggiatore e regista francese Jacques Audiard, presentato in concorso a Venezia, non è un ossimoro. Sisters è il cognome di Charlie e Eli, che nella vita non solo sono fratelli ma anche soci in affari. Ingaggiati dal Commodoro per scovare un uomo e eliminarlo, i due non si faranno troppi scrupoli ad uccidere chiunque voglia fermarli nel loro viaggio che dall’Oregon li porterà sino in California sulle tracce di colui che, a quanto pare, ha la formula chimica, forse magica, per individuare i filoni d’oro.
Rimescolando gli stereotipi dei western di una volta, senza espresso riferimento né a quelli americani né tantomeno a quelli italiani portati al successo internazionale da Sergio Leone, il regista francese confeziona un film che è una vera e propria babele, ambientato in Oregon nel 1850 ma girato in Spagna e Romania, tratto da un romanzo del canadese Patrick DeWitt ed interpretato da attori americani di grosso calibro quali John C. Reilly, Joaquin Phoenix e Jake Gyllenhaal, nonché dal rapper britannico di origini pakistane Riz Ahmed; a tutto ciò si aggiunga l’impareggiabile tocco italiano della costumista Milena Canonero. Tutti ingredienti eterogenei che contribuiscono a creare alla perfezione una storia turbolenta di pistoleros senza scrupoli, ma che hanno anche uno spirito profondamente umano pur portando a termine una carneficina dietro l’altra.
Il regista in conferenza stampa ha dichiarato che non ha voluto fare del suo film un vero e proprio western, genere a lui più ostico che sconosciuto, quanto uno studio profondo sulle figure dei due fratelli ed il legame indissolubile che li unisce in ogni impresa. Se si vuole considerare come una metafora sulla disillusione dell’amore, in senso lato, forse un accostamento si potrebbe trovare con il film The Missouri Breaks di Arthur Penn con Marlon Brando e Jack Nicholson, film crudo e sufficientemente cinico che non esalta eroi né si schiera favorevolmente con coloro che si pongono come difensori dell’ordine. I due fratelli di Audiard hanno obiettivi diversi tra loro: Charlie vuole uccidere il Commodoro e impadronirsi del suo potere, Eli pensa invece ad una vita romantica, crearsi una famiglia e aprire un negozio per vivere. Nonostante le divergenze non riusciranno mai a separarsi.
Il pluripremiato Jacques Audiard (Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa, Dheepan con cui vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2015) ci regala un western diverso, pieno di contraddizioni ma di tanto sentimento, quasi a dimostrarci che anche il più spietato dei cowboy ha un anima di tutto rispetto, ed in questo possiamo veramente crederci.
data di pubblicazione:03/09/2018
da Maria Letizia Panerai | Set 3, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Due sorelle legate da un amore profondo, fisico, due metà che si completano solo quando sono insieme perché la distanza reale è troppo dolorosa. Un “amore irrequieto, drogato, completo” è al centro del nuovo film di Pablo Trapero presentato fuori concorso a Venezia, per parlare di “sorellanza” in un complesso rapporto tra due donne che si amano nonostante le apparenze le vorrebbero l’una contro l’altra, con uno sguardo all’intimo femminile all’interno della famiglia. Una storia al presente che affonda le sue radici nelle storture del passato argentino al tempo della dittatura, in un ideale sequel de Il clan con il quale il regista vinse il Leone d’argento alla regia nel 2015.
Eugenia (Bèrénice Bejo) e Mia (Martina Gusman) si ritrovano al capezzale del padre colpito da ictus per sostenere la madre Esmeralda (Graciela Borges) presso la loro tenuta denominata la quietud, immersa nelle campagne vicino Buenos Aires. Il rapporto tra le due sorelle è mutuato dal modo con cui la madre si comporta con loro: sempre molto amorevole con Eugenia, verso la quale ha ricordi di grande tenerezza e che le ha appena annunciato di aspettare un figlio che Esmeralda vede come una benedizione, e sempre molto dura con Mia che forse, solo per difendersi, riversa tutto il suo affetto nei confronti del padre morente. Eppure, nonostante Esmeralda non faccia nulla per celare questa evidente diversità di sentimenti nei confronti delle figlie, esse al contrario si amano, si cercano ed ogni volta ritrovano un afflato quasi fisico che le unisce: questo legame speciale farà loro superare avversità di ogni genere.
Trapero, con La quietud riprende il tema della violenza de Il clan, ma lo tratta in maniera differente: il dolore è presente ma non palese, s’impadronisce di queste donne ma non si sa da dove viene, causato sicuramente in parte dal legame malato che la madre, che non le sa amare, ha con una di loro condannandola inevitabilmente all’infelicità.
Le due bravissime attrici (una è la moglie del regista) si somigliano talmente tanto da sembrare proprio due sorelle, e riescono con molta naturalezza ad esprimere questo profondo sentimento che lega Eugenia e Mia, sulle cui esistenze in maniera dolorosa e strisciante incombono vecchi fantasmi che insufflano in loro una non ben identificata sofferenza. Tuttavia Mia ed Eugenia sanno amare e, quando tutto sembra perduto, raggiungono a loro modo, insieme, quella “quiete” evocata dal titolo.
Film originale, sensibile, profondo, tutto al femminile, distribuito in Italia da BIM.
data di pubblicazione:03/09/2018
da Antonio Iraci | Set 2, 2018
Finalmente è stato presentato l’attesissimo lavoro di Luca Guadagnino, tratto dall’omonimo film di Dario Argento: più che un remake, Suspiria, a detta dello stesso regista, è un doveroso omaggio a un autore che lo aveva letteralmente impressionato quando, appena quindicenne, aveva avuto l’opportunità di vedere al cinema quello che sarebbe divenuto a breve un cult a livello internazionale. Una sfida non facile: trarre ispirazione da un soggetto così conosciuto dai cinefili di tutto il mondo, è già di per sé un rischio per il genere horror.
Il film di Guadagnino segue le orme indelebili tracciate da Dario Argento in una rivisitazione dove, al di là delle linee fondamentali del plot originario, il regista inserisce del suo dandone una lettura in chiave più metafisica, in cui sono coinvolte donne e solo donne, che coesistono nella prestigiosa scuola di danza Markos Tanz ubicata nella Berlino ancora divisa dal muro. Il film è ambientato nel 1977 in una Germania scossa dai violenti attacchi terroristici della Raf, gruppo terroristico di matrice marxista-leninista chiamata anche banda Baader-Meinhof dal nome dei suoi fondatori, che il regista ha voluto porre come sfondo all’azione misteriosa che si svolge all’interno dell’Accademia. Fondamentale la figura della coreografa Madame Blanc, una magnetica ed eterea Tilda Swinton alla sua ennesima collaborazione con il regista, in una evocazione della grande Pina Bausch, la cui scuola ha decisamente rivoluzionato il concetto di danza contemporanea, ed intorno alla quale gravita l’apprensione emotiva che accompagna l’intero film. Il tema centrale è quello della stregoneria e della magia nera che ci riporta ad alcune riflessioni sul concetto dell’illusione e dell’ultraterreno, con uno sguardo particolare alla funzione delle donne, tema che sin dai primi fotogrammi è sintetizzato in una frase contenuta in un quadro “Una madre è una donna che può sostituire tutti ma non può essere sostituita”, e che si riallaccia al concetto di Mother nella trilogia di Argento.
Un mix quindi tra horror e stregoneria con uno sguardo anche alla psicoanalisi dal momento che tra i personaggi spicca la figura del dottor Klemperer interpretato da Lutz Ebersdorf (una Tilda Swinton sotto mentite spoglie?), storico psicoanalista degli anni sessanta attivo anche nel teatro sperimentale di quegli anni.
Comunque il film rimane sicuramente una concreta testimonianza dell’universo femminile e dei suoi misteri, tema che come dichiarato dallo stesso regista in conferenza stampa, trova ispirazione nella cinematografia del grande regista e drammaturgo Rainer Werner Fassbinder, uno dei maggiori esponenti del cinema tedesco moderno che seppe trattare le donne come vere eroine, nonostante spesso legate allo sfruttamento ed al potere degli uomini.
Difficile dire se Suspiria sia da considerarsi un esperimento ben riuscito: nonostante l’eccessiva durata, il film si fa seguire per la ricercatezza della fotografia e degli effetti sanguinolenti che lasciano lo spettatore con il fiato sospeso. Bravissime le giovani interpreti tra cui va menzionata Dakota Johnson e le scene di danza sono davvero raffinate e di altissimo livello.
Siamo tuttavia, secondo chi scrive, ben lontani dalle terrificanti tensioni emozionali che solo Dario Argento riusciva a trasmettere: un assoluto e impareggiabile gusto dell’orrore allo stato puro.
data di pubblicazione:02/09/2018
da Maria Letizia Panerai | Set 2, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Peterloo, ovvero la crasi tra St. Peter’s e Waterloo, è un termine per descrive “la strage di innocenti” che avvenne durante un comizio nell’agosto del 1819 presso St. Peter’s Field a Manchester ad opera della cavalleria inglese per soffocare nel sangue, immediatamente dopo la vittoria su Napoleone a Waterloo, una pacifica manifestazione di famiglie di contadini che si radunarono per chiedere al Governo inglese la riforma elettorale, non potendo esprimere il proprio voto pur pagando tributi al Re.
Mike Leigh (Segreti e bugie, Il segreto di Vera Drake e Turner) ci regala un altro dei suoi “affreschi” sui diritti negati ai più deboli, raccontando un episodio sovente riportato nei trafiletti dei libri di storia inglese, in cui persero la vita una decina di persone ed almeno un centinaio rimasero ferite: un forte atto di repressione sulla libertà di riunione ad opera del governo su donne, bambini e braccianti di Manchester, che rappresentò una delle scintille per la definizione della democrazia.
Il regista ci riporta ancora nel passato per parlarci del presente, mettendo di nuovo al centro dei suoi racconti l’uomo nella sua eterna lotta contro l’avidità del potere, la corruzione e la violenza: questa umanità che perde tutto per tentare una vita migliore, per far valere i propri diritti, che combatte in nome di un ideale che li conduca verso una vita più giusta. Le ripercussioni economiche per un paese appena uscito da un conflitto, seppur vittorioso come il caso dell’Inghilterra su Napoleone, sono ugualmente devastanti e i governi hanno da sempre tentato di risolvere la crisi che ne consegue vessando il popolo, come fecero i conservatori del governo britannico nell’ 800.
Peterloo è un film storico che si articola, come spesso avviene nelle pellicole di Leigh, partendo da una lunga fase di preparazione in cui entriamo nell’atmosfera di queste famiglie contadine inventate ad arte dal regista, ma che verosimilmente ricalcano la vita di quelle reali di allora, persone normali che non sanno come sopravvivere nel quotidiano: in questo ambiente, con il supporto di attivisti e giornalisti, cominciano a nascere e crescere le idee di cambiamento.
Le scene del massacro sono esaltate dal montaggio di Jon Gregory (candidato Oscar per Tre manifesti a Ebbing, Missouri), con una sequenza di immagini di grande impatto visivo; il lavoro di Jon Gregory è stato paragonato da Leigh come quello di uno chef che assembla gli ingredienti per arrivare ad esaltare il gusto finale del piatto che si sta realizzando. Dick Pope ha invece curato la fotografia, attingendo alla sua lunga esperienza da documentarista in zone di guerra: il risultato è dato da inquadrature di ampio respiro di masse di persone brulicanti, di comizi politici, che ci introducono sino alle fasi finali dello scontro.
Peterloo è un film che si sceglie di andare a vedere per riflettere su come la storia si ripeta, incessantemente, sotto i nostri occhi e su come da certi errori del passato si possa partire per affrontare meglio il presente.
data di pubblicazione:02/09/2018
da Antonio Iraci | Set 1, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Imprevedibili ed eccentrici come sempre, i fratelli Coen lasciano il loro segno in questa terza giornata della 75. Mostra del Cinema di Venezia con il loro ultimo film The Ballad of Buster Scruggs, che lascia il pubblico letteralmente spiazzato contro le aspettative che si erano inevitabilmente formate in base alle notizie già diffuse dalla stampa. Un omaggio divertente, se non addirittura irreverente, ad un genere oramai poco praticato e che nel nostro paese ebbe risonanza attraverso i così detti spaghetti-western negli anni sessanta e settanta, con la partecipazione di attori allora sconosciuti che divennero poi star internazionali.
Il film, presentato in concorso, è una raccolta antologica di sei storie western che i fratelli Coen hanno elaborato in 25 anni, rifacendosi in parte a quelle analoghe sperimentazioni italiane del passato in cui venivano raggruppati, in un unico film: diversi episodi tutti legati tra di loro da un medesimo genere narrativo. Ecco che i vari racconti, tutti rigorosamente con la stessa matrice, ci riportano nelle sconfinate regioni di frontiera del far west dove si aggiravano solitari pistoleri a cavallo, che non esitavano a far fuori chiunque osi anche solo contraddirli o intralciare i propri passi. Abilmente i Coen entrano in questo mondo preconfezionato e ne ribaltano e disperdono le regole, rendendo i propri personaggi figure al limite del reale e tirando fuori dagli stessi quegli elementi eterni e assoluti al fine di coglierne la struttura fondamentale del loro essere. Sfogliando le pagine di un libro si procede via via alla narrazione e i vari soggetti prendono forma accompagnati da una ballata musicale che li contraddistingue, tra le distese infinite dei canyon americani che li accolgono e li plasmano a seconda della situazioni.
Il film, a detta dei registi, non vuole essere quindi solo un western ma va oltre, seppure ne utilizza il linguaggio espressivo tipico: qui si basa la loro sperimentazione, arrivando a confezionare un’opera finale molto divertente ma che lascia ampio spazio a momenti di seria riflessione. Cast come sempre di eccezionale bravura dove spiccano l’attore Tim Blake Nelson, protagonista del primo episodio e James Franco, che caratterizza forse l’unico capitolo del libro che più ricorda gli spaghetti-western italiani. Perfetta la sceneggiatura a cura dei Coen, che trova ampio appoggio in una fotografia al tempo stesso intensa ed impalpabile curata da Bruno Delbonnel.
Pur avendo già girato Il Grinta nel 2010, remake di un western del 1969 con John Wayne, questa seconda volta Joel e Ethan Coen cercano un concreto pretesto per interrogarsi sul significato dell’esistenza umana e su ciò che determina le scelte che si compiono, anche quelle tragicamente sbagliate. Film assolutamente da non perdere che ha tutti i presupposti per ottenere il successo internazionale che merita. Pubblico entusiasta.
data di pubblicazione:01/09/2018
da Maria Letizia Panerai | Set 1, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Arrivano le star al Lido ed è un bel vedere. Nella terza giornata è stato presentato A star is born, primo film da regista per Bradley Cooper, con un’interprete d’eccezione, Lady Gaga, nel ruolo che per ben tre volte è stato coperto da illustri attrici. La più recente versione del film è quella del 1976 con la coppia Barbra Streisand e Kris Kristofferson, a cui pare il giovane talentuoso attore si sia ispirato per quella che potremmo definire la storia d’amore per antonomasia.
Il musicista country-rock Jackson Maine detto Jack (B.Cooper), dopo un concerto incontra per caso una cantante di nome Ally (Lady Gaga) che si esibisce in un locale di drag queen, unica donna ammessa a salire su quel palco per le sue straordinarie doti vocali, ma non sufficientemente bella per avere successo in campo musicale (sfida vinta nella vita dal “personaggio” Lady Gaga). I due si incontrano dapprima solo musicalmente e Jack capisce immediatamente di aver a che fare con un vero e proprio animale da palcoscenico. La loro storia d’amore coronerà tra alti e bassi le loro carriere, una in ascesa l’altra in declino. Il resto è storia già conosciuta ai più.
Due star al debutto, dunque, una come regista e cantante con doti in quest’ultimo caso davvero notevoli, l’altra come attrice da cui aspettarsi un risultato sorprendente essendo già un’interprete particolare nel panorama musicale mondiale. Entrambi sulla scena non risultano perfettamente compatibili: lui bellissimo, alto, con uno sguardo profondo e tenero, lei piccola di statura e non bellissima, con un profilo “greco” che nella carriera reale è diventato il suo punto di forza, elementi che tuttavia insieme sortiscono l’ovvio risultato di far emergere il ruolo da pigmalione di lui nei confronti di una stella che sta per brillare nel firmamento musicale.
A star is born, presentato fuori concorso in prima mondiale a Venezia, è un prodotto perfetto per incantare un pubblico che è alla ricerca di evasione: Cooper non è solo bellissimo ma anche molto bravo, la storia d’amore è di quelle che fanno sognare, i brani musicali scritti dai due interpreti assieme a Lukas Nelson, Jason Isbell e Mark Ronson sono a dir poco accattivanti e creano il vero filo conduttore di tutta la vicenda, senza parlare delle scene e della fotografia, quest’ultima ad opera di Matthew Libatique (Il cigno nero), che completano un pacchetto molto ben architettato.
Tuttavia questa “impossibile storia d’amore”, come l’ha definita il neo regista, che commuove e ci fa sognare, risulta a tratti stucchevole e noiosa a causa di questa nuova (e a volte inappropriata) tendenza di produrre pellicole che superano le due ore che mai come in questo caso pesano, peccando la trama di originalità.
data di pubblicazione:01/09/2018
da Maria Letizia Panerai | Ago 31, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
La seconda giornata del festival ha da subito mostrato di essere dedicata alla complessità dell’universo femminile, così pieno di mille sfaccettature, grazie alla proiezione di due pellicole, diametralmente opposte, ricche di originalità e gran fascino, entrambe in Concorso.
Apre la giornata del 30 agosto ROMA del regista messicano Alsonso Cuarón (il cui titolo rimanda ad un quartiere di Città del Messico), che ricorrendo ad un linguaggio molto semplice raccontato in bianco e nero, parla della vita di due donne appartenenti a ceti sociali differenti che negli anni ’70 si troveranno da sole a crescere i bambini di casa, una come madre l’altra come governante. A cinque anni dal successo di Gravity, Cuarón torna al Lido per raccontarci un personale amarcord sulla sua infanzia tra le mura di una famiglia dove tutto si svolgeva con i rituali tipici di una casa borghese, in un paese in subbuglio per le rivolte studentesche e sociali degli inizi degli anni settanta. Il risultato è un bellissimo film che ha come DNA al suo interno tre elementi basilari: un bianco e nero digitale che, come ha dichiarato il regista stesso in conferenza stampa, non conferisce al film una patina nostalgica essendo molto avanzato da un punto di vista tecnologico, dunque contemporaneo; il personaggio di Cleo, una indigena che vive presso una famiglia borghese con mansioni da governante, una persona “di casa” che cresce i figli della sua signora come fossero i suoi e che questi a loro volta la considerano come una seconda mamma; e come ultimo elemento la memoria, non solo personale del regista di vicende consumate tra le mura domestiche ancora molto vivide, ma anche storica espressa attraverso lunghi piani sequenza che collocano la pellicola ai fatti di violenza del 1971 ad opera dei militari sui manifestanti del movimento studentesco. I personaggi, tutti reali, fanno parte del vissuto di Cuarón che sul set ha ricostruito quasi interamente la casa in cui è cresciuto, con una narrazione che procede in maniera fluida con tratti di puro verismo che rimandano al periodo neorealista italiano.
Il film è stato diretto, prodotto e scritto dallo stesso Cuarón che ne ha curato anche la fotografia, ma sarà Netflix a distribuirlo in Italia e all’estero, segno dei tempi che cambiano come ha dichiarato il regista, perché un prodotto non a colori, non di genere e parzialmente in lingua indigena, non avrebbe di certo avuto molte possibilità a trovare spazi di distribuzione.
Il secondo film di questa seconda giornata è The favourite (La favorita), folle commedia in costume di Yorgos Lanthimos, intrisa di satira e crudeltà, ambientata presso la corte della regina Anna nell’Inghilterra tra il 1702 e il 1707, che narra di due personaggi femminili che si contendono a colpi bassi le grazie della regina. Il film vanta la presenza di tre interpreti d’eccezione: la bravissima Olivia Colman nei panni di una regina Anna stanca ed insicura che, sentendo di non essere amata, come una bambina viziata esercita il suo immenso potere su tutto e tutti; una magnetica Rachel Weisz nei panni di Lady Sarah Churchill, stretta ed intima confidente della regina, che dovrà vedersela con sua cugina Abigail, interpretata da una sorprendente Emma Stone personaggio sfidante che è disposto a tutto pur di sopravvivere a corte. Il film ha il potere di girare solo intorno a questi tre personaggi femminili in un continuo disequilibrio tra privato e politica, con un mondo maschile decisamente fuori fuoco ed asservito. Anche la storia di quel periodo è vista attraverso gli occhi di queste tre donne, sempre in competizione tra loro per la supremazia, al servizio dei loro intrighi e della loro accanita rivalità. Il regista (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro) ha esasperato l’uso del grandangolo per descrivere le scene di interni e dilatarne la visione rispetto all’esterno, evidenziando così un contesto “distorto” in cui poche persone prendono decisioni sulla vita di milioni di altre.
Due film molto interessanti, decisamente da non perdere.
data di pubblicazione:31/08/2018
da Maria Letizia Panerai | Ago 30, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Il 15 ottobre del 2009 il 31enne Stefano Cucchi viene fermato dai carabinieri e trovato in possesso di alcune dosi di stupefacenti, mentre si trovava in compagnia di un amico; trattenuto in custodia cautelare, morirà all’ospedale Sandro Pertini appena una settimana dopo: pesava solo 37 chilogrammi. La cronaca giudiziaria, seguita da tutti i quotidiani nazionali e che ha coinvolto agenti di polizia, medici del carcere di Regina Coeli e carabinieri, sino alla clamorosa riapertura dell’inchiesta in seguito alla battaglia intrapresa dai familiari ed alla testimonianza del maresciallo dei carabinieri Riccardo Casamassima, è storia dei nostri giorni.
Il film vuole essere un misurato resoconto di quei giorni, senza dare giudizi.
Apre la Sezione Orizzonti l’opera prima di Alessio Cremonini, che Barbera ha definito in un’intervista a Vanity Fair di questa settimana“il film che non dovrebbe vedere solo chi si occupa di ordine pubblico, ma chiunque abbia a cuore la salute della società”; la pellicola sarà distribuita in contemporanea il prossimo 12 settembre nelle sale italiane da Lucky Red e in 190 paesi da Netflix, che l’ha anche prodotta.
Questo film è l’esempio lampante di come il cinema possa essere lo strumento per raccontare una storia che doveva essere raccontata, grazie ad una rigorosa sceneggiatura che è riuscita a trovare la giusta misura per parlare di persone reali, nell’ambito di una vicenda drammatica peraltro non ancora conclusa. Un plauso particolare va agli attori, una vera e propria squadra interessante, impreziosita dall’intensa interpretazione di Alessandro Borghi nei panni di Stefano Cucchi, capace di calarsi anima e corpo nella pelle del protagonista, non solo fisicamente ma anche nella vocalità: sono poi i suoi occhi a confermare la bravura di questo giovane attore, con cui riesce a mutuare le emozioni interiori di un uomo che vuole cambiare continuando a sbagliare. Jasmine Trinca interpreta la sorella Ilaria, una donna che ha reso pubblico un dolore privato come atto dovuto ad una morte ingiusta e che poteva essere evitata, facendoci conoscere la sua durezza nei confronti di questo fratello che continua a commettere errori, che tuttavia non le impediscono ugualmente di amarlo.
Il film, mostrandoci senza reticenze proprio le debolezze, con misura e rispetto si appella a quella umanità che sovente viene dimenticata a causa di pregiudizi che ci spingono a condannare e a schierarci prima ancora di conoscere.
Un inedito Max Tortora, nella parte del padre di Stefano, sorprende e commuove.
data di pubblicazione:30/08/2018
da Maria Letizia Panerai | Ago 30, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Intimo ed emozionante: non delude il nuovo attesissimo film di Damien Chazelle First Man. Presentato in prima mondiale il 29 agosto al Lido di Venezia, inaugura il Concorso della 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica diretta da Alberto Barbera e organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. A 49 anni dall’allunaggio dell’Apollo 11, la pellicola interpretata da Ryan Gosling, Jason Clarke e Claire Foy e prodotta dalla Universal Pictures, è stata definita dallo stesso Barbera “Un lavoro personale, affascinante e originale, piacevolmente sorprendente al confronto con gli altri film epici del nostri tempi, a conferma del grande talento di un regista tra i più importanti del cinema americano di oggi”.
Spazzati via romanticismo, sentimento e musica che avevano caratterizzato La La Land e le “frustate” del batterista di Whiplash, il giovane e talentuoso regista si muove su un territorio completamente diverso, concentrandosi sulla figura di Neil Armstrong negli otto anni che precedettero la missione NASA che lo fece sbarcare sulla luna, in un resoconto in prima persona di un uomo piuttosto reticente ad esprimere i propri sentimenti, padre e marito attento, umile, e non solo la figura iconica che il mondo conosce. Chazelle è riuscito nell’ardua impresa di rispettare il carattere dell’uomo più che descrivere il mito, cercando di mostrarne le emozioni nella vita di tutti i giorni, indagando su ciò che ad ogni missione lasciava sulla terra, riuscendo grazie alla sua collaudata abilità di regista a dare libero sfogo a quello che è il desiderio recondito di ogni bambino di diventare astronauta, come fosse la cosa più semplice al mondo. Non bisogna dunque essere dei supereroi, perché il suo Neil non lo è. La sceneggiatura, scritta da Josh Singer (Oscar per Spotlight) alterna ai momenti professionali, ricostruiti con meticolosa minuziosità, una tranquilla vita familiare, fatta di gioie e dolori che contribuirono, secondo il regista che si è nutrito dei racconti dei figli di Armstrong e della moglie nonché del libro di James R. Hansen, a creare il personaggio pubblico che tutti conosciamo.
Nel luglio 1969, Armstrong comandò la missione di allunaggio Apollo 11; nelle fasi di avvicinamento prese il controllo del modulo lunare sino a farlo atterrare in una zona poco rocciosa: uscito dal Lem, posò il suo piede sinistro sul suolo lunare e fu il primo essere umano a camminare sulla luna. Di quella conquista Armstrong disse: “La cosa più importante della missione Apollo fu dimostrare che l’umanità non è incatenata per sempre a un solo pianeta, e che le nostre visioni possono superare quel confine, e che le nostre opportunità solo illimitate”.
In Italia quel 20 luglio del 1969 sarà ricordato non solo per la più lunga diretta mai affrontata dalla nostra televisione (circa 25 ore), ma anche per quel “Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare!” riferita al modulo lunare Eagle, che il giornalista Tito Stagno pronunciò con una manciata di secondi in anticipo rispetto all’inviato Ruggero Orlando, il quale in collegamento da Houston subito dopo replicò “Ha toccato in questo momento”. La disputa tra i due cronisti sul momento preciso dell’allunaggio, coprì ai telespettatori italiani la storica frase di Neil Armstrong “Qui base della Tranquillità, l’Aquila è atterrata”.
Neil Armstrong è scomparso nell’agosto 2012 per le conseguenze di un intervento chirurgico di bypass coronarico: aveva compiuto 82 anni.
data di pubblicazione:30/08/2018
Gli ultimi commenti…