da Antonio Iraci | Set 18, 2024
Lino Massaro è un valente avvocato parigino con una bella moglie, attrice di successo, e due giovani figli: una cantautrice, e uno con la velleità di diventare cineasta. Ogni cosa sembra andare per il verso giusto quando improvvisamente viene colpito da una strana forma di demenza fronto-temporale che gli ha tolto ogni freno inibitorio. Da quel momento deciderà di abbandonare tutto e tutti per girovagare per la Francia senza fissa dimora, accompagnato solo dalla sua tromba…
Pochi sono i registi che raggiungono dei traguardi così significativi come Claude Lelouch che al suo film n.51ancora una volta riesce a raccontare di sé e in generale dell’uomo di oggi. Una sua prerogativa è infatti quella di portare sullo schermo le proprie esperienze di vita, il vissuto di un uomo che ha abbondantemente superato gli ottanta anni e che ha ancora la forza e la voglia di parlare. Lui è essenzialmente rivolto al presente, dimenticando il passato perché morto e evitando il futuro perché lo rende ansioso. Quest’ultimo film, decisamente musicale, si concentra sulla validità dei sentimenti e sprona chiunque a rinunciare a ogni tipologia di razionalismo sterile per lasciarsi invece andare a tutto quello che c’è di irrazionale in noi. Il protagonista (un’incredibile Kad Merad) si inventa una fantomatica malattia per trovare la forza di abbandonare la professione e la famiglia e lasciarsi dietro le spalle tutte quelle forme convenzionali che la vita gli imponeva. Per questo motivo il regista parla dell’individuo che è privo della libertà di esprimere realmente ciò che pensa ed è costretto dalla società a giocare un ruolo che per natura non gli compete. La musica, in ogni sua forma, potrà essere un fattore determinante perché dialoga direttamente con il cuore e trascura gli stereotipi che ingabbiano l’uomo. Viene suggerito di affrancarsi dall’ossessione del denaro che, quando c’è, va usato e condiviso con gli altri perché altrimenti non genera felicità. Finalmente, come recita il titolo, ci si potrà esprimere come meglio si vuole e Lino, che il regista intenzionalmente chiama così per ricordare e riverire il grande Lino Ventura, con il suo atto di rifiuto intende proprio seguire questa strada. Un percorso che gli farà incontrare l’amore, forse proprio quello sincero. Un film pieno di musica e di sentimento, una commedia leggera, interpretata da un cast di prim’ordine, che spinge alla riflessione, a prendere una pausa dall’inarrestabile frenesia del vivere quotidiano. È stato presentato in anteprima fuori concorso durante l’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
data di pubblicazione:18/09/2024
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da Antonio Jacolina | Set 18, 2024
L’avvocato Monier (Daniel Auteuil) è un affermato professionista che avendo fatto assolvere dall’accusa di omicidio un suo cliente poi risultato pluriassassino, ha giurato a se stesso di non trattare mai più certi casi giudiziari. L’incontro con un padre di cinque figli accusato di aver ucciso la moglie alcolista lo pone però in crisi. Ne farà un caso personale e si butterà animo e corpo per sostenere e provare la sua innocenza …
I Film Processuali vanno alla grande nel Cinema Francese. Lo testimoniano i recentissimi successi di critica e di pubblico di Anatomia di una caduta e de Il Processo Goldman. Dai lontani classici di Hitchcock e di Lumet fino ai sopraccitati film della Triet e di Kahn, il Cinema Processuale mantiene sempre i suoi propri codici di genere che rispondono ad una drammaturgia oramai ben definita e ben caratterizzata. Con questo suo quinto film (presentato a Cannes 2024) anche Auteuil che ne è cosceneggiatore e protagonista si cimenta nell’affrontare il Genere Giudiziario.
Lo fa con consapevole ed apprezzabile sobrietà e finezza di stile senza nulla inventare, con modestia, quasi “alla vecchia maniera”. Un film teso, asciutto, intenso, coinvolgente e mai noioso. Intelligentemente prova però a metterci un tocco di singolarità che rende particolare una storia altrimenti generica. Dietro la suspense del polar processuale l’autore e regista rappresenta la vicenda con l’ottica dell’avvocato. Ne risulta un suggestivo ritratto, umano e psicologico della sottile frontiera fra il narcisismo, l’accecamento e la genesi di un personale convincimento. Al centro ci sono le solitudini dei protagonisti: il penalista ed il suo assistito, la relazione particolare che si può stabilire fra loro, la formazione dell’intima convinzione dell’avvocato difensore. Il progressivo affermarsi del potente Ego dell’avvocato lo porterà però ad identificarsi nel ruolo di “salvatore”, un conflitto fra la forza delle sue opinioni e la fragilità dell’uomo. Sullo sfondo la fallacità della Giustizia umana che è tale proprio perché resa da uomini che in assenza di prove evidenti devono fare appello solo alle proprie valutazioni. Lo spettatore assiste al dibattito in aula, alle presunte ricostruzioni dei fatti, agli scontri fra difesa ed accusa, ai colloqui fra inquisito e difensore e si forma così anche lui la propria intima convinzione come un membro della Giuria che dovrà pronunciarsi sulla causa. La Verità andrà cercata oltre le apparenze all’interno di quel teatro che sono le aule processuali ove ognuno rappresenta la propria verità, in un crescendo di dubbi ed incertezze. La vicenda è filmata in aula, in cella, in parlatorio con la cinepresa sempre fissa sui volti dei protagonisti. Uniche interruzioni, quasi boccate d’ossigeno, sono le immagini della circostante Camargue invernale. Il ritmo narrativo è scientemente lento come lenti sono i tempi della giustizia. La messa in scena ed il taglio delle inquadrature accentuano l’impostazione quasi teatrale. Piccoli difetti di un film che ribadisce la bravura di Auteuil come attore e ne conferma anche il talento come regista.
La Misura del Dubbio è quindi un buon dramma giudiziario, coinvolgente e con un punto di vista che gli dà un tocco di originalità all’interno di una rappresentazione sobria e concreta, diretta con finezza ed ottimamente interpretata. Non deluderà!
data di pubblicazione:18/09/2024
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da Daniela Palumbo | Set 16, 2024
Louise e Ben Dalton, americani residenti a Londra per motivi di lavoro, sono in vacanza in Toscana con la figlia Agnes, afflitta da disturbi d’ansia. Socializzano con un’altra coppia, Paddy e Ciara, anche loro genitori di un bambino – il piccolo Ant – stranamente chiuso e silenzioso. Trascorrono dei bei momenti insieme, cercando di recuperare un rapporto in crisi. Tornati a casa, e ai problemi quotidiani, decidono di accettare l’invito dei nuovi amici, per un week end di relax nella campagna inglese in compagnia di questi. Gli sconosciuti, però, hanno un lato oscuro, che lentamente verrà a galla. Inquietanti verità saranno svelate, in un climax di tensione inarrestabile, fino allo shock finale.
Gæsterne. “Ospiti”. È il titolo dell’originale horror danese al quale il film americano è ispirato. Parola chiave dall’etimo duplice, che definisce tanto chi dà ospitalità quanto chi la riceve, questa mette a fuoco una singolare quadriglia – due coppie contrapposte in modo speculare – in una sorta di danza sempre più macabra.
È la storia di un’amicizia nata troppo in fretta, accordata reciprocamente, complice una spasmodica ricerca di nuove esperienze e di contatti umani non virtuali. Abbracci che vanno oltre il semplice shaking hands squisitamente britannico. Grandi sorrisi e sonore risate. Una apparente solidarietà cameratesca tra uomini, uno spiccato istinto di “protezione” mostrato dalle due donne. Corpi che si denudano all’improvviso per tuffarsi in acqua senza pudore (o quasi) e senza paura. Confidenze premature sulla vita di coppia, confessioni intempestive su fantasie o apatie sessuali, a seconda del caso. Fame di condivisione, insomma. Una fame massiccia, che materialmente (e metaforicamente) affiora, nei pasti consumati insieme, attorno alla stessa tavola. Ragione per cui l’atto di nutrirsi rimanda spesso a una bestialità primitiva e persino a una sorta di cannibalismo latente (l’oca di famiglia, allevata nella fattoria e dotata persino di nome proprio, sarà sacrificata “in onore” degli ospiti e servita con una spremuta color rosso sangue di arance siciliane). Una fame che vorrebbe saziarsi, dunque, anche di “carni” da divorare. Fin troppo evidente l’imbarazzo di Louise (Mackenzie Davis) – dichiaratamente vegetariana – che fingerà di ingoiare il boccone, per poi rigettarlo nascondendolo nel palmo della mano con un gesto furtivo. Evidente almeno quanto l’inettitudine del marito di lei, Ben Dalton (Scoot McNairy), incapace di imporsi o di far “sentire la propria voce”.
Di genuino, di vero, non c’è nulla. Tutta la prima parte del film e buona parte della seconda si fondano su questa arte del simulare (o del dissimulare), su questo fingere di “mandare giù il boccone”. Che si fa via via più amaro (per coloro che sono “ospitati”, soprattutto), dapprima per quella condizione di “cortesia dovuta” che rende schiavi di certe convenzioni sociali, poi anche per sudditanza psicologica e per eccesso di prudenza, per viltà malcelata. L’unico rapporto autentico è quello che si instaura tra i due bambini, Ant ed Agnes (interpretati dal piccolo Dan Hough e dalla giovane Alix West Lefler), sebbene inficiato dall’impossibilità di comunicare verbalmente. Ant non ha la lingua per parlare, e quando tenta di scrivere lo fa in un idioma incomprensibile alla bambina (anche lui sarà costretto ad “ingoiare” il pezzetto di carta contenente il suo messaggio, affinché non venga intercettato). Solo certe immagini potranno sopperire all’inefficacia delle parole, svelando pienamente l’orrore. Un orrore che tarda ad arrivare, lasciando per lungo tempo allo spettatore l’illusione che, forse, non giungerà mai. Che magari finirà per essere addomesticato da un buonsenso comune. O ancora, che si scioglierà in quelle grida a cielo aperto prodotte dai due maschi (quasi due primati urlanti), con funzione “liberatoria”. I due uomini, protagonisti della storia, appaiono qui quasi alleati, ancorché profondamente diversi. E soltanto alla fine, manifestamente nemici. Particolarmente significativo – per ironico contrasto – è il nome del protagonista Paddy, paronimo del comunissimo ed innocuo Buddy (in inglese, “amico”). Presenza scenica che incombe, costantemente sopra le righe, la sua è una figura minacciosa senza mai risultare inquietante fino in fondo. I suoi gesti assumono quasi sempre i tratti di una burla, talora persino di una provocazione infantile (Mostramelo! Mostrami amore!). La sua risata è uno sberleffo alla vita, le pupille appigliate a quel filo doppio (scala o fune) che morbosamente lega vittima e carnefice, fino all’assedio finale.
Non è uccidere, lo scopo ultimo, ma l’atto stesso di far abboccare il pesce all’amo. Per ricreare a forza un legame da sempre negato, una condivisione a qualsiasi costo. “Do you feel the same?” – provi le stesse cose? – canterà lui, in uno dei momenti più drammatici, con la voce rotta e la ferocia negli occhi, sulle note di una dolcissima melodia (Eternal flame di The Bangles), superbo contrasto di toni. Spicca tra tutte la straordinaria interpretazione di James McAvoy, troppo istrionico, in realtà, per incutere vero terrore. Risultando comunque efficace, ben calato nel ruolo controverso e senz’altro non facile del cattivo. Nella finzione cinematografica, uno dei tanti cattivi. “Che poi così cattivi non sono mai”.
data di pubblicazione:16/09/2024
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da Antonio Iraci | Set 15, 2024
Lou, ragazza ribelle e anticonformista, gestisce per conto del padre, trafficante d’armi, una palestra frequentata da bodybuilder fanatici del proprio corpo. Un giorno si presenta, per allenarsi, la giovane e bella Jackie con il sogno di esibirsi a Las Vegas in un concorso di culturismo femminile. Già da subito tra le due scatta una profonda intesa, ma per salvaguardare a tutti i costi il loro amore cadranno in una trappola di violenza e morte…
Questo film della regista britannica Rose Glass è stato presentato al Sundance Festival negli USA e successivamente a Berlino, fuori concorso nella Sezione Berlinale Special dove ha riscosso ampi consensi. Certamente è rivolto a un pubblico d’élite, sia per gli argomenti trattati che per i contenuti altamente violenti. Oramai siamo più che abituati alle scene di sesso esplicito tra due persone dello stesso sesso e tutto rientra nella normalità. Qui quello che colpisce è come l’amore, in ogni sfumatura venga concepito, sovrasti ogni cosa e come, pur di salvaguardarlo, si sia disposti a subire violenza e a fare violenza. Quando tra le due ragazze nasce questa forte attrazione fisica, Lou (Kristen Stewart) non immagina assolutamente quanto la sua compagna Jackie (Kate O’Brien), oramai perdutamente dipendente da steroidi, possa essere feroce e rissosa. Entrambe saranno pian piano coinvolte nei traffici illeciti del padre di Lou (Ed Harris), in un vortice di efferati omicidi dove loro stesse dovranno pagare a caro prezzo una possibile via di scampo. Se nella prima parte del film si riusciva in qualche modo a seguire con un certo interesse la storia descritta a tinte più che noir, nella seconda parte invece si rimane un poco sorpresi dal ricorso a scene fantasy che in qualche modo rendono il tutto meno apprezzabile. Certamente una caduta di stile da parte della regista che ha voluto mettere troppa carne al fuoco mescolando una serie di generi non sempre in accordo tra di loro. Un lavoro quindi non perfettamente riuscito e fruibile solo in parte. Tutto appare eccessivo, dai muscoli di Jackie alle situazioni proposte, tutte in buona parte prevedibili come la sua rabbia repressa per un’infanzia poco felice. Con una buona sforbiciata di scene alla Hulk, il film avrebbe potuto avere il suo perché… ma rimane solo una bella occasione perduta!
data di pubblicazione:15/09/2024
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da Paolo Talone | Set 15, 2024
(Teatro de’ Servi – Roma, 11 settembre 2024)
In concorso per la sesta edizione di Teatramm’, Festival teatrale diretto da Emiliano De Martino che vede in gara quest’anno 13 spettacoli prodotti da compagnie provenienti da tutta Italia, il monologo scritto e diretto da Maurizio Sarubbi, direttore artistico della Compagnia teatrale Artù. I ricordi di una vita trascorsa tra i vicoli di Bari si affastellano nella mente di un carcerato condannato alla pena di morte (foto di Giuseppe Lorusso).
Nel chiuso di un carcere le ore trascorrono tutte uguali. L’umidità goccia da fessure invisibili e scandisce con il suo ticchettio il trascorrere del tempo. Le pareti anguste e buie della cella sono testimoni degli ultimi pensieri di un uomo condannato a morte per una colpa sconosciuta. Il passato ritorna con i suoi personaggi e una vita trascorsa tra i vicoli di Bari Vecchia, con il suo inarrestabile vociare e un profumo di libertà ormai svanito.
È l’incipit di Abbasce la cape (abbassa la testa), il monologo con il quale l’attore e regista barese Maurizio Sarubbi, supportato alla regia da Caterina Rubini, rende un doppio omaggio alla sua terra, la Puglia, e a Victor Hugo. Sul romanzo pubblicato nel 1829 dallo scrittore romantico francese L’ultimo giorno di un condannato si innestano i racconti di Strada Angiola, scritti da Giuseppe Lorusso. Due percorsi narrativi differenti, uno concentrato sulla condizione di un detenuto a sei settimane dall’esecuzione della condanna a morte e l’altro sulle storie di quotidianità di un quartiere popolare e vivace ferito dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Due fonti apparentemente distanti, nel tempo e nel linguaggio, avvicinate però da un lavoro di scrittura scenica e drammaturgica complesso, che innalza a poesia l’umile origine rurale del personaggio portato sulla scena da Sarubbi.
Protagonista è il dialetto barese, arma efficace di traduzione di realtà altrimenti incomprensibili, reso accessibile da una gestualità misurata, attenta, pensata per e in uno spazio ben tracciato. È evidente un preciso studio intorno alla potenza dei movimenti e alla costruzione del personaggio. Vestito della tela grezza dei carcerati, bianca come le pietre che ricoprono il selciato dei vicoli e le pareti delle case di Bari, su cui si riflette l’eco di mille voci della vita cittadina, Maurizio Sarubbi fa di sé uno strumento di imitazione e di riverbero dei caratteri umani osservati nella realtà. Una somma di tradizione ed esperienza teatrale giocata direttamente sul palco.
Ma protagonista è anche la condizione di solitudine delirante di quest’uomo, costretto a vivere nel carcere dei ricordi da una società malata che ne ha decretato la morte. Perché se per un uomo la morte è un passaggio naturale imprevedibile, per un condannato è un momento programmato, sintomo del fallimento di una cultura che non sa reggere lo scontro e il dialogo con il singolo.
data di pubblicazione: 15/09/2024
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Set 14, 2024
(Roma Europa Festival 2024)
Il 14 ed il 15 settembre il Roma Europa Festival ha ospitato all’Auditorium Conciliazione Beethoven 7, ultimo lavoro della compagnia Sasha Waltz & Guest che proprio lo scorso anno ha festeggiato il suo 30o anniversario. Sasha Waltz prosegue la ricerca sulla relazione tra danza ed arti visive, architettura, musica, design. Tredici danzatrici e danzatori della sua compagnia hanno interpretato la Sinfonia n.7 di Ludwig van Beethoven in versione integrale ed una nuova composizione appositamente commissionata al musicista Diego Noguera. Un ponte ed un dialogo tra passato e presente, attraverso l’incontro tra un monumento della musica classica ed una rilettura in chiave contemporanea (foto Sebastian Bolesh).
Negli ultimi trent’anni la coreografa tedesca Sasha Waltz ha segnato profondamente la storia della danza e ha sviluppato uno stretto rapporto di collaborazione con il Romaeuropa Festival nelle diverse edizioni in cui è stata presente, affrontando tematiche universali attraverso un teatro danza complesso e fragile al tempo stesso, fatto di confronto ed integrazione tra coreografia ed altre discipline artistiche.
Il punto di partenza dello spettacolo è una riflessione dello stesso Beethoven risalente al 1812, ovvero: “Le persone reali sono schiave dell’ambiente in cui vivono, o possono dirsi libere?”
Sasha Waltz, approccia questa tematica attraverso una precisa idea di movimento corporeo e musicale, di estetica, di libertà creativa, in due parti e due momenti distinti, apparentemente agli antipodi ma fortemente correlati.
La componente musicale della prima parte Freiheit/Extasis è stata realizzata da Diego Noguera, compositore berlinese di origine cilena, affermatosi come uno dei nomi più importanti della scena elettronica tedesca. Il confronto con la 7a Sinfonia ha portato ad una musica forte, composta attraverso strumenti elettronici e sintetizzatore. Freiheit/Extasis è un conglomerato sonoro composto da suoni estremi e ritmi ossessivi, intimamente connessi al caos creativo nascosto dietro le melodie dei lavori di Beethoven. Ne è derivata una interpretazione coreografica in un paesaggio alieno, un probabile futuro in cui la libertà di pensiero e azione fa i conti con lo sviluppo tecnologico. Sulla scena una fitta coltre di nebbia e luci strobo modellano i corpi dei danzatori e delle danzatrici, enfatizzati dai costumi realizzati da Federico Polucci.
Affrontando le medesime domande, la seconda parte della pièce si concentra sulla maestosa Sinfonia n. 7 in La maggiore, op. 92 di Ludwig van Beethoven, attraverso allestimento teatrale molto diverso, interamente focalizzato sul rapporto tra danza e musica.
Diradata la nebbia, resta l dolcezza della melodia, il respiro dei danzatori e delle danzatrici (questa volta nei costumi di Bernd Skodzig), il loro correre sul palco, una bandiera impalpabile. Un messaggio di aggregazione e di speranza.
data di pubblicazione:14/09/2024
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Set 14, 2024
Notte di Ferragosto presso l’Ospedale Santi Martiri di Napoli. Angelo e Salvatore, entrambi infermieri, sono di turno in corsia. Il ricovero del sig. Caputo, già in coma per un ictus cerebrale, li spingerà a scommettere sulla sua sopravvivenza o meno a quella notte. La posta in gioco: la settimana di ferie tra Natale e Capodanno che solo uno potrà aggiudicarsi. Strano a dirsi, ma dopo una serie di vicende rocambolesche, nessuno dei due vincerà la scommessa…
Solo un napoletano doc, in questo caso il giovane regista Giovanni Dota, può parlare e rappresentare la morte con ironia, esorcizzando così qualcosa che rende ognuno di noi pieno di paura e di superstizione. Come si sa, la stessa morte aleggia principalmente tra le corsie di un ospedale dove, per la più o meno grave sofferenza altrui, può fare incetta più agevolmente. Le vicende che hanno come protagonisti i due infermieri Angelo (Carlo Buccirosso) e Salvatore (Lino Musella) si possono certamente considerare di routine visto che si accavallano in maniera per niente surreale in un tipico ospedale, in una tipica notte afosa d’agosto, in una tipica realtà tutta italiana. Certo meglio non generalizzare, anche perché il film non è certamente una critica studiata o una palese accusa alla nostra malasanità, quanto piuttosto uno strumento per parlare di morte con fatalismo e spirito distaccato, proprio dell’umorismo napoletano. Sono vari i personaggi che accompagnano i due protagonisti della fatidica e quanto mai inusuale scommessa sulla sorte di un malcapitato paziente. La dottoressa di turno alle prime armi, incerta sulle decisioni da prendere, il chirurgo in reperibilità, completamente incapace di affrontare un’operazione perché strafatto di cocaina. Senza contare la moglie di Angelo che irrompe in ospedale per fondati sospetti di tradimento del marito con la giovane e attraente impiegata del comparto socio sanitario. La storia è limitata nel tempo, una notte, e nello spazio, l’ospedale, ma senza arrecare alcun senso di claustrofobia allo spettatore che si troverà ad affrontare con il sorriso, una situazione nella quale lui stesso potrebbe venire a trovarsi. Una tragedia quindi che fa riflettere, un modo di esprimersi profondo e ridanciano che solo la grande commedia di De Filippo era riuscita prima a rappresentare. Una storia che parla soprattutto di noia, caldo, deviazione ai propri compiti per insoddisfazione alla propria vita: ognuno non è per niente felice di quello che è e di cosa fa. Il film è stato presentato nell’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella Sezione dedicata alle Giornate degli Autori.
data di pubblicazione:14/09/2024
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da Rossano Giuppa | Set 11, 2024
(Roma Europa Festival 2024)
Il 9 e 10 settembre alle 21 è tornato, nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, il coreografo Rachid Ouramdane con la nuova creazione per il Ballet du Grand Théâtre de Genève. In OUTSIDER ventuno danzatrici e danzatori e quattro acrobati sono i protagonisti di una performance che associa la danza all’equilibrismo, legando terra e cielo nel segno della leggerezza. È un movimento ipnotico, ripetuto ed in continua evoluzione con direzioni definite come solo uno stormo di uccelli sa fare, che celebra le potenzialità del collettivo e mette in discussione la gravità aprendo nuovi orizzonti al movimento (foto Gregory Batardon).
Dialoga con l’altezza e la leggerezza Rachid Ouramdane, il coreografo di origini algerine di stanza a Parigi, dove dirige il Théâtre National de la Danse. La sua ultima creazione, in prima nazionale a Romaeuropa Festival, Outsider, nasce dall’invito del collega Sidi Larbi Cherkaoui, dal 2022 alla guida del Ballet du Grand Théâtre de Genève, a realizzare un progetto per tale compagnia. E così Ouramdane continua ad aggregare le arti performative, associando quattro highliner ai danzatori, alla ricerca di nuovi volumi e nuove connessioni per un teatro delle diversità e delle inclusioni.
Da anni studia il comportamento degli storni e la una scrittura coreografica è proprio sviluppata per sciami, con tutti gli interpreti del gruppo pronti a spiccare il volo. Nei costumi tra il beige e il nero di Gwladys Duthil, la danza si sviluppa su due piani, il primo sul palco, con dinamiche circolari e costruzioni di gruppo protese verso l’alto, ed il secondo aereo, con gli acrobati che entrano in scena nella loro eterea diversità, dotati di scarpe speciali e imbracature che li collegano alle funi sospese, come uccelli in sosta sui fili elettrici lungo le funi che si intersecano, con diverse angolazioni, segmentando geometricamente la scena in un quadro astratto, enfatizzato dallo splendido disegno luci di Stéphane Graillot.
Un frenetico gioco di luci e di linee sostenuto dalle ossessive note del compositore minimalista Julius Eastman, secondo uno schema di continue evoluzioni dei performer, che si raggruppano, si intrecciano, si disperdono senza però trovare vie di fuga. Responsabilità individuali e comportamenti di gruppo, in una visione rigorosamente egualitaria della collettività.
data di pubblicazione:11/09/2024
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da Maria Letizia Panerai | Set 11, 2024
Siamo sul finire del 1700 quando Philippe Clicquot, proprietario di numerosi vigneti nella regione dello Champagne, decide di affidare la propria azienda al figlio François che sposa, giovanissimo, la ventenne Barbe Nicole Ponsardin. Seppur combinato, il matrimonio è molto felice e tra i due nasce una profonda intesa destinata a durare nel tempo. Ma l’improvvisa morte di François porterà la giovane vedova ad affrontare importanti decisioni.
Inizialmente osteggiata per la sua inesperienza dal suocero, che avrebbe preferito vendere al confinante Monsieur Moët i vigneti già fortemente in perdita a causa della eccentrica e non convenzionale gestione del suo giovane rampollo, Barbe Nicole contro il parere di tutti decide di proseguire l’attività del marito. Si farà affiancare da Louis Bohne, un commesso viaggiatore che lo stesso François aveva assoldato per ampliare l’attività. Questi le proporrà di esportare in Russia, nazione dove sino ad allora nessuno aveva osato spingersi. L’idea frutterà alla coppia in affari i primi insperati guadagni. Ma nel 1811 una vendemmia eccezionale chiamata “cometa” perché avvenuta in occasione del passaggio di una stella cometa nel cielo della regione dello Champagne (che pare favorì un’annata destinata a rimanere nella storia), suggellerà il successo della vedova Clicquot ed del suo omonimo champagne.
La pellicola, ambientata durante le guerre napoleoniche e prodotta da Joe Wright (regista di film quali Orgoglio e pregiudizio, Espiazione e Anna Karenina), è basata sulla storia vera della Grande Dama dello Champagne che a soli vent’anni rivoluzionò l’industria del settore sfidando la famiglia e lo stesso codice napoleonico che, fatta eccezione per le vedove costrette dalle circostanze a prendere il posto dei mariti, non riconosceva alle donne alcuna attività imprenditoriale. Presentato nel 2023 in anteprima mondiale al TFF e successivamente alla Festa del Cinema di Roma, il film seppur ambientato in Francia ricorda le atmosfere di una certa cinematografia anglosassone in costume, oltre a vantare una fotografia che ci fa quasi sentire l’odore dei vigneti e dei suoi preziosissimi acini, in particolare nelle scene in cui Barbe si dedica alla chimica del suolo, accasciandosi sul terreno per cantare ai suoi vitigni, sino all’assaggio ripetuto del suo prodotto e al lungo studio delle tecniche di imbottigliamento. Ottimo il cast di attori, tra i quali spicca proprio Haley Bennet che infonde al suo personaggio lo spessore di una figura femminile all’avanguardia, appassionata, creativa; la affiancano un intenso Tom Sturridge nel ruolo di François ed un bravissimo Sam Riley che interpreta Louis Bohne. Il film, che non pecca certo di originalità per il tema trattato, rientra con merito nel novero di quelle pellicole che puntano un faro sul coraggio di certe figure femminili che hanno fatto la differenza in ambiti, sino ad allora, di esclusivo appannaggio maschile.
data di pubblicazione:11/09/2024
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da Daniele Poto | Set 11, 2024
Il trionfo della comicità con Greg, Lopez, Battista
Stagione 2024-2025 all’insegna della sintesi tra mattatori della risata, danza, tango e concerti. L’occhio al botteghino per assecondare le attuali linee di tendenza e la passata risposta del pubblico.
La destinazione fondi del PNRR sta provvedendo a rendere pienamente agibile il Teatro Olimpico che ieri ha fatto ricorso al prestito della Sala Casella presso la Filarmonica romana per presentare la nuova stagione. Assi nella manica i comici. Con quantitativamente Maurizio Battista, ormai resident, a fare la parte del leone, feste incluse con uno spettacolo che si arricchisce di collaborazioni ed effetti superando lo schema degli inizi, la comicità da bar. Lo spazio che gli viene concesso (11 dicembre 2024-16 febbraio 2025) testimonia fedelmente la fiducia in lui riposta dal direttore artistico Lucia Bocca Montefoschi. Ed è la stessa formula quella di Battista, mutatis mutandis, che adottano gli altri assi nella manica di stagione Greg, naturalmente in compagnia di Lillo e di fidati collaboratori, nel MovieERCULEO), doppi sensi inclusi, maiuscole e minuscole esatte, rivisiterà il mondo del cinema per generi, con tanto di colonna sonora umana. Tutti sketch nuovi, tranne uno fortemente collaudato A far compagnia a Lopez (20 novembre-1° dicembre) invece l’inseparabile Tullio Solenghi con Dove Eravamo rimasti. Lopez sarà Sgarbi in una lezione magistrale densa di temi difficili, Ma, ambiziosamente, il comico si cimenterà anche nel’imitazione di un Mattarella che si confronterà nientemeno che con Papa Bergoglio. Sempre sul filone degli incassi garantiti la rivisitazione teatrale del cult cinematografico Sapore di mare, operazione conferita a Fausto Brizzi. Anche in questo caso cinema, canzone e teatro si confondono in un pout pourri strumentale che si vorrebbe efficace. Di tutt’altro genere in cartellone nella prossima primavera (20-30 marzo 2025) dove spicca Slava’s Snowshow, proposta che prende il nome dal geniale inventore, premiato in tutta Europa con uno spettacolo itinerante che è giudicata un’autentica esperienza emozionale. Ma nel frullatore del cartellone c’è anche Morricone jr che dirige la musica del grande padre, il comico emergente Emiliano Luccisano . In più i Momix ormai di casa, il tango del grande Miguel Angel Zotto, la Parson Dance. Conferendo alla danza un sipario speciale e un indiscussa leadership.
data di pubblicazione:11/09/2024
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