IL GIOVANE KARL MARX di Raul Peck, 2018

IL GIOVANE KARL MARX di Raul Peck, 2018

In una Europa in fermento, Karl Marx (August Diehl) ventiseienne si rifugia a Parigi con la  moglie Jenny( Vichky Krieps) e conosce il quasi coetaneo Friedich Engels( Stefan Konarske) che, benchè figlio di industriali, solidarizza con i lavoratori che versano in durissime condizioni  anche nella fabbrica del padre. Tra i due nascerà una grande amicizia e un duraturo rapporto di collaborazione.

 

Non sono certo mancati film sui personaggi storici più noti, cito a caso Cristo, Napoleone, Cesare, Garibaldi, Che Guevara, recentemente Margareth Tatcher o Winston Churchill; ma nella lista mancava uno dei massimi pensatori di ogni tempo: Karl Marx. A colmare la lacuna, ci ha  pensato Raul Peck, talentuoso regista “militante” di Haiti, già autore dell’apprezzato I am not Your Negro (candidato agli Oscar), tratto dai racconti di Baldwin, in grado di riaccendere il discorso sul razzismo ancora vivo nei nostri giorni. Tornando al film in questione, va detto che si tratta di un ritratto giovanile del gigante di Treviri che si concentra sui sette anni compresi tra la tesi di dottorato e la creazione del Manifesto del Partito comunista (in divenire), caratterizzati da ambizione e idealismo, in continuo movimento fra le capitali europee, senza una lira in tasca, per  denunciare le malefatte del capitalismo, elaborare le sue teorie sociali, diventare leader dei movimenti di opposizione. Coinvolti nel suo percorso troviamo la complice e tenera moglie, l’amico e sodale Engels e molti dei rivoluzionari e anarchici del tempo, da Proudhon a Bakunin, intellettuali che partecipano come possono all’opposizione, delineati di sfuggita nei diversi frangenti di lotta. Inevitabilmente, si parla parecchio, i dialoghi fra Karl e Friedich sono giocati rigorosamente sulle nascenti ideologie, ma, fortunatamente, non mancano siparietti privati e movimentati e persino divertenti a interrompere una narrazione che altrimenti rischiava di diventare pesante per un pubblico non ideologicizzato .

Il film diretto da Raoul Peck ha, infatti, una sua struttura piuttosto convenzionale, ma, ripeto, ha il pregio e la sua peculiarità nel seguire la vita di Marx negli anni della giovinezza e della sua genesi come pensatore, ricostruendo quindi le motivazioni e gli eventi che hanno influenzato le sue riflessioni e le sue idee,  offrendo uno sguardo alla dimensione privata dei protagonisti, realtà quasi sempre trascurata nelle  pagine dei testi scolastici. Il Giovane Karl Marx vanta comunque  un ottimo livello tecnico che va dalla puntuale ricostruzione storica a una fotografia ricca di sfumature che, “in alcuni passaggi, sembra voler creare quasi un legame visivo con alcune delle opere pittoriche più famose dello stesso secolo”. Lo spettatore “simpatizzante” troverà poi, estremamente suggestive e coinvolgenti i titoli di coda che si concludono con una carrellata di immagini che ricordano alcuni dei  momenti  sociali e di  lotta dei cittadini contro il capitalismo, il tutto,  impreziosito da Like a Rolling Stone di  Bob Dylan.  Se, quindi, non brilla certo per originalità, l’operazione non è priva di un suo fascino e certo farebbe bene, semplicemente come pro memoria, ai politici del Pd che hanno cancellato dal loro vocabolario parole come povertà, operai, sfruttamento, capitale etc. Anche in tal senso mi sento di caldeggiarne la visione.

data di pubblicazione:11/04/2018

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I SEGRETI DI WIND RIVER di Taylor Sheridan, 2018

I SEGRETI DI WIND RIVER di Taylor Sheridan, 2018

Nelle innevate montagne del Wyoming un cacciatore  solitario ritrova il corpo straziato di una giovane “nativa”, figlia di un amico. Ancorché sconvolto dal suo passato, accetta di partecipare alla ricerca dell’assassino insieme ad una inesperta agente dell’FBI alla sua prima missione. Scopriranno insieme  la terribile realtà.

Arriva con un discreto ritardo nelle nostre sale il robusto thriller che segna il passaggio alla regia  di Taylor Sheridan, già sceneggiatore di quella che viene considerata una trilogia sul mito della frontiera americana, con Sicario Hell or High Water. Il valore della pellicola è testimoniato dal premio e dagli applausi ricevuti  a Cannes nell’edizione 2017 (Migliore regia nella sezione Un Certain Regard).

Chi ha letto i romanzi di Cormac Mccarthy ne riconoscerà immediatamente le atmosfere e i personaggi che muovono una storia da western  “moderno”. Ci sono  quindi le riserve indiane, il razzismo, il ruolo della donna subordinata, la violenza degli uomini nel silenzio della natura. Però, i cavalli sono stati sostituiti dalle moto slitte, i sopravvissuti pellerossa si chiamano  nativi, le giacche azzurre vestono i giubbotti anti-proiettili dell’FBI. E ancora, nel silenzio e nella solitudine, si agitano i destini della piccola comunità di nativi dove la legge è distante, e la morte e lo sconforto aleggiano sui personaggi già prima che nuovi drammatici eventi accadano. Gli occhi tristi di Cory Lambert, improvvisato detective (Jeremy Renner lo interpreta con misura e intensità)   ci raccontano il suo doloroso passato (una figlia giovane e bella, scomparsa), e la sua ricerca del colpevole del nuovo efferato delitto è quasi  una sua terapia del dolore per esorcizzare i drammatici risvolti familiari. Altresì, ben costruito è il personaggio della sensibile agente dell’FBI Jane Banner,  affidato alla deliziosa e convincente Elisabeth Olsen, spaesata ed empatica in un mondo selvaggio a lei sconosciuto.

In un’alternanza di silenzi, ricordi, dialoghi, accelerazioni improvvise, suggestivi  inserti musicali (la colonna sonora è di Nick Cave e Warren Ellis), la pellicola si snoda avvincente e coerente nei suoi 111 minuti, offrendo allo spettatore molti dei momenti che caratterizzano una visione di sicuro coinvolgimento e interesse: la bellezza degli scenari (il film è girato nella settima  riserva indiana per estensione, appunto Wind River, ubicata nella zona centro-occidentale del Wyoming ed abitata da Shoshoni e Northern Arapaho), la tensione costante, una  inattesa e violenta sparatoria, degna di Tarantino, il rigore dei dialoghi, quasi sempre, congrui a personaggi lacerati dalla ineluttabilità dei destini.

Calzanti anche i personaggi di contorno, tutti ben caratterizzati (Jon Bernthal su tutti). Considerato l’alto livello dei precedenti film sceneggiati da Sheridan, in onestà, non so se questo sia il migliore dei tre, ma certamente posso dire che si tratta di un ottimo esordio alla regia.

Consigliato!

data di pubblicazione: 10/04/2018


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DELITTO E CASTIGO di Fëdor Dostoevskij, regia di Konstantin Bogomolov

DELITTO E CASTIGO di Fëdor Dostoevskij, regia di Konstantin Bogomolov

(Teatro Argentina – Roma, 3/15 aprile 2018)

Dal 3 al 15 aprile sul palcoscenico del Teatro Argentina in scena Delitto e Castigo,l’opera di Fedor Dostoevskijcon la regiadel moscovita Konstantin Bogomolov, uno tra i più giovani ed autorevoli talenti della scena russa. L’opera letteraria già frutto nel tempo di innumerevoli adattamenti teatrali, è qui ricondotta ad una dimensione contemporanea.

Il punto di partenza è il romanzo di Dostoevskij, ambientato a Pietroburgo in una calda estate, che narra la vicenda di un duplice omicidio commesso per la brama di denaro del protagonista e di come per l’espiazione di questa pena sia necessario percorrere la lunga via della sofferenza. Di stampo apertamente cattolico, il romanzo si pone così in rapporto moralistico con il lettore, rafforzando il credo religioso ed esistenzialista dello scrittore.

Ma il dubbio se sia giusto o meno uccidere non è più un argomento così attuale, non fa più notizia; ciò dipende dal modo in cui la nostra società si è evoluta e si sta evolvendo. Nella sua versione Bogomolov parte diretto senza la preoccupazione di un eventuale giudizio, inserendo la vicenda raccontata da Dostoevskij in un salotto stile anni Sessanta, dove sono presenti un grosso divano giallo, due poltrone di lato, tre schermi televisivi alle spalle, un grande comò in fondo a destra. I personaggi vengono totalmente stravolti e lo spettatore è costretto ad abbandonare da subito l’immaginario oscuro della San Pietroburgo del romanzo. Il protagonista non è più un giovane intellettuale incapace di adeguarsi alle regole imposte dalla società russa ottocentesca, bensì un robusto immigrato africano, indolente e privo di qualsiasi ideologia, che si macchia dell’assassinio di una donna bianca e di sua figlia.

Raskol’nikov infatti commette il cruento atto senza pensarci più di tanto e nemmeno dopo, nell’interessante relazione che costruirà con Sonya Marmeladova, avrà modo di riflettere e pentirsi, anzi andrà a costituirsi solo perché lo convincerà lei, prostituta per necessità ma con un forte attaccamento religioso.

Naturalmente sono nere anche la sorella e la mamma di Raskol’nikov mentre Sonja è, anche qui, una prostituta che cerca di persuadere il protagonista a convertirsi al cristianesimo, mentre il poliziotto è presentato come un soggetto scaltro ed erotomane capace di chiudere un occhio coi delinquenti basta che assecondino i suoi piaceri.

L’inizio è folgorante: atmosfere rapsoftporno a metà strada tra Pulp Fiction e le sit-com americane, tra manichini, travestimenti, simulazioni, rumori fuori scena. Parte poi invece la narrazione affidata ai personaggi del romanzo ed alle caratteristiche degli attori, con tanti momenti a forte impatto emotivo in cui la trama si dipana e la vicenda si consuma.

È un racconto torbido, a volte distaccato, freddo, doloroso, a momenti angosciante, ma anche delicato e intimo. Resta centrale il senso del testo di Dostoevskij e cioè se sia giusto o meno uccidere quando la vittima è una persona squallida e abietta come un’usuraia, e di conseguenza, se in tal caso, siano necessari il castigo e la pena.

Il cast, tutto italiano, è composto da bravissimi attori: Leonardo Lidi nei panni di Raskol’nikov, Paolo Musio in quelli del pubblico ministero Porfirij Petrovič, e poi Anna Amadori, Margherita Laterza, Marco Cacciola, Diana Höbel, Renata Palminiello e Enzo Vetrano.

Il testo dell’autore russo è stato riadattato e ricomposto dallo stesso regista che si accosta a Dostoesvkij con leggerezza e ironia, creando forse scalpore in qualcuno, ma enfatizzando il confronto con il nostro tempo e con quello che il quotidiano oggi ci offre.

data di pubblicazione: 10/4/2018


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VILLAGGIO JAMAICA! di Emilia Miscio e Simone Giulietti

VILLAGGIO JAMAICA! di Emilia Miscio e Simone Giulietti

(Teatro San Genesio- Roma, 4/15 aprile)

Commedia brillante. Ricca di colori, musiche, sovratoni, ammiccamenti alla pochade. 

Regna ancora la lira nella vacanza degli sposini con abbondanza di segreti nello sconcertante Villaggio Jamaica. E la musica dell’epoca è riassunta da “Lisa con gli occhi blu”, suonata a mezzo di una chitarrina che sarà un oggetto chiave determinante nel giallo in due tempi che Emilia Miscio ha scritto con la collaborazione di Simone Giulietti, assemblando una ricca compagnia di attori caratteristi a cui si richiede un esercizio, anche fisico, decisamente sopra le righe per ritmi alla Feydeau nel tentativo di dare ritmo alle gag. In Giamaica, percepita con una distanza particolarmente esotica, c’è musica (reggae), colore, fumo e un sentore di giallo perché tra i protagonisti nessuno è realmente è come vuole apparire. Non la sposina, non lo sposo capellone, non l’esplosiva zia confinata sulla sedia rotelle a cui conferisce nerbo e pretesti un’interpretazione maschile. Si ride a scrosci, tra turpiloqui e doppi senso, tra infoiamenti ed equivoci, splapstick e un richiamo agli anni ’70, a un’ingenuità perduta. Si intuisce il grande lavoro alle spalle per una recita leggera che richiede gioco di porte aperte e sbattute (alla Frayn) e un’adeguata sinergia attoriale. Nel villaggio turistico c’è la condensazione delle richieste del turista italiano in un paese straniero: dunque champagne, trasgressione, voglia di novità. Le caratterizzazioni prevedono un prete cieco, un seduttore latino, un capo villaggio schizofrenico e una governante dai molti calori. Il finale è alla Agatha Christie rivista con un timbro comico: tutti in scena per une rivelazione finale che è prodromo della passerella finale. Naturalmente a ritmo di reggae nel segno di Bob Marley e Peter Tosh. Citabile il grande impegno degli attori: Ambra Lucchetti, Leonardo D’Angelo, Claudio Carnevali, Claudio Bianchini, Ivano Cavaliere, Giovanna Tino, Fiamme Blasucci, Lorenzo Girolami, Daniele Di Martino nel segno compagnia teatrale Sogni di scena.

data di pubblicazione:08/04/2018


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CHARLEY THOMPSON di Andrew Haigh, 2018

CHARLEY THOMPSON di Andrew Haigh, 2018

Charlie Thomson ha solo quindici anni, ma ne dimostra molti di più. Sulle sue spalle c’è il peso di un’adolescenza finita troppo in fretta e nei suoi occhi il desiderio di raggiungere una buona dose di stabilità. Sarà l’affetto per un cavallo a fargli ritrovare la voglia di rialzarsi. Da solo, alla ricerca della propria identità e di un passato che gli appartiene.

Durezza e dolcezza insieme. Drammaticità positiva, a tratti inevitabile, in grado di condurre il protagonista verso una crescita costruttiva. Solitudine e, al contempo, ricerca smodata di legami concreti. Paura e coraggio. Charley Thompson (Lean on Pete titolo originale con cui è stato presentato in concorso alla 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia), gioca molto sugli ossimori e le contraddizioni dell’animo. A firmarlo il regista britannico Andrew Haigh (sue pellicole sono Weekend e 45 anni), che ha riadattato per il grande schermo il romanzo di Willy Vlautin, La ballata di Charley Thompson.

Protagonista della storia è proprio quest’ultimo, un quindicenne carico di responsabilità che si troverà presto ad affrontare un viaggio metaforico, oltre che reale. Interpretato da un intenso Charlie Plummer (premio Mastroianni per il talento emergente alla Mostra di Venezia 2017), il ragazzo non ha figure di riferimento al suo fianco. Non ha mai conosciuto sua madre, mentre il padre dedica la vita più alle donne che al ruolo di genitore. Quando perderà anche lui, Charlie investirà tutte le sue forze in un nuovo lavoro, ottenuto per caso dopo un breve colloquio con un allevatore di cavalli da corsa (Steve Buscemi). A spingerlo l’affetto per uno dei componenti più deboli del suo team, Lean on Pete, non più capace di gareggiare come una volta. Quasi fosse una sorta di alter ego, il cavallo diventa da subito il suo unico confidente. È a lui che rivela i pensieri più cupi e i ricordi più belli. Ed è a lui che voterà tutte le sue attenzioni, proprio come avrebbe voluto che qualcuno avesse fatto con lui. Forse suo padre o la zia Margy, sempre presente nella sua memoria.

Charley Thompson è un classico racconto di formazione. Eppure, nonostante il recupero consapevole di certi spunti narrativi, è più complesso. Ogni uomo che il giovane protagonista incontrerà sul suo cammino non riuscirà a forgiarlo a proprio piacimento, impartendogli insegnamenti e massime di vita. Non ci saranno consigli o dritte che Charlie deciderà di seguire: in lui le basi di una buona educazione già ci sono. Lo dimostra ogni suo gesto, ogni sua parola. Consapevole che solo il ritorno a quel passato fiorente – quando era ancora un bambino ed era circondato da una vera famiglia – sarà capace di restituirgli l’agognata stabilità, sceglie allora di affidarsi a sé con tutte le proprie forze. Crescerà e maturerà, ma poi si trasformerà di nuovo nel piccolino di una volta, bisognoso di cure e rassicurazioni. Un film da vedere, dunque, che ha commosso tutta la platea della Sala Grande del Lido. È bastato guardare negli occhi ciascuno dei presenti e ascoltare la lunga serie di applausi al termine della proiezione per capire che sì, anche stavolta, il cinema fosse riuscito a compiere la sua missione catartica.

data di pubblicazione:07/04/2018


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CIRCUS DON CHISCIOTTE regia di Ruggero Cappuccio

CIRCUS DON CHISCIOTTE regia di Ruggero Cappuccio

(Teatro Eliseo – Roma, 3/22 aprile 2018)

Torna a Roma Ruggero Cappuccio e il suo virtuoso circolo di attori e collaboratori con Circus Don Chisciotte, uno spettacolo che narra le vicende di Michele Cervante (interpretato dallo stesso Ruggero Cappuccio), professore universitario in pensione ed in fuga dalle convenzioni, presunto discendente dell’autore del Don Chisciotte della Mancia, preda di un mistico vagabondaggio che è anche una sua forma di rivolta nei confronti dell’esasperazione tecnologica che disumanizzando il mondo.

Gravita nei pressi di una stazione ferroviaria abbandonata, a stretto ridosso della Napoli di oggi, con il suo fardello di libri e di saggezza da salvare ad ogni costo. In una delle sue peregrinazioni notturne incrocia un sempliciotto, anch’esso di fatto dissociato dal contesto cittadino, che diventerà suo scudiero e a cui darà il Santo Panza (Giovanni Esposito). Tra i due nasce un rapporto di amicizia fatto di curiosità e di disagio reciproco, di lucidità e fantasia, di saggezza e leggerezza, che li unisce nella lotta a quel progresso che sta soffocando la spiritualità dell’uomo.

In realtà la stazione non è completamente abbandonata, è di certo ingiallita dalle luci al sodio (bellissima la scenografia di Nicola Rubertelli ed il disegno luci di Nadia Baldi) come le pagine dei suoi vecchi libri, ma pian piano si popola di stravaganti presenze, traghettate da un vagone fantasma che viene e va. I nuovi arrivati hanno anch’essi un vissuto sospeso tra disagio sociale e costrutti aulici: due ex ristoratori (Ciro Damiano e Gea Martire), un prestigiatore della provincia veneta (Giulio Cancelli) e una principessa siciliana (Marina Sorrenti). Con essi il professor Cervante e Santo Panza condivideranno un progetto di pacifica rivoluzione contro il deterioramento sociale, politico, strutturale, che si baserà su quanto riportato da Philip Roth, Luis Sepulveda, Daniel Pennac, Amos Oz ed in tutti quei vecchi libri che faranno da ponte di passaggio verso la riaffermazione dell’essenza spirituale dell’umanità.

Una metafora molto forte sul ruolo della cultura quale unico paradigma di riferimento, un testo colto e divertente basato su un efficace uso della lingua e dei differenti dialetti, una macchina teatrale che provoca applausi e risate, spensierate ed amare, grazie ad una prova attoriale forte e nitida, per uno spaccato quanto mai attuale, su cui riflettere profondamente.

data di pubblicazione:06/04/2018


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L’AMORE SECONDO ISABELLE di Claire  Denis, 2018

L’AMORE SECONDO ISABELLE di Claire Denis, 2018

(Roma, 4/10 Aprile 2018)

Isabelle (Juliette Binoche) è una splendida cinquantenne, parigina, artista e madre divorziata di una adolescente. E’ una donna dalla personalità complessa, romantica, fragile e forte. Una donna che ha passata l’epoca delle illusioni amorose ma non si rassegna, e cerca ancora l’Amore, l’anima gemella, l’uomo giusto. Quanto è difficile amare veramente!

 

 

La settantenne regista e sceneggiatrice francese C. Denis è conosciuta ed apprezzata fin dal suo primo esordio nel 1988 per il suo cinema fortemente rigoroso ed impegnato, centrato tutto sullo studio della condizione umana e sulle problematiche interculturali. Con L’Amore secondo Isabelle (Un beau soleil intérieur) già presentato a Cannes 2017 e visto oggi in anteprima italiana in occasione dell’VIII Festival del cinema francese in svolgimento a Roma, la regista si concede invece, di affrontare il tema delle relazioni uomo-donna, dei rapporti di forza sentimentali fra individui ed anche il discorso sul concetto dell’Amore Deluso, agendo, insolitamente per lei, con un film tutto virato sul registro dei toni di una commedia dolce-amara. Pur senza omettere di delineare una graffiante satira sociale di una certa borghesia intellettuale parigina, la cineasta ci disegna in effetti, un magnifico e luminoso ritratto di una donna matura ancora aperta all’Amore, e, nel contempo, tramite le sue vicissitudini affettive ed i suoi sentimenti, ci delinea, anche e soprattutto, un mosaico di ritratti maschili al vetriolo (seduttori, ipocriti, egoisti …) che ruotano tutti, come piccoli satelliti, attorno alla luce ardente della solarità interiore di Isabelle. L’Amore secondo Isabelle è un film pensato, scritto e diretto da donne, ma non è un film solo al femminile, al contrario è un film sui sentimenti amorosi in generale, sulla seduzione, sul potere manipolatorio delle parole, dei sottintesi e dei silenzi, il tutto all’interno di un gioco in cui si può essere, indifferentemente uomini o donne, sia attori sia vittime.

Al centro del film, costantemente presente in ogni scena, punto focale della cinepresa, dei suoi amanti e dello sguardo degli spettatori è la magnifica e bella J. Binoche. L’attrice sostiene letteralmente il film regalandoci una performance eccezionale con continui cambi di registri recitativi. Attorno a lei ruota la crema degli attori francesi, e, in un significativo cameo finale, emerge anche un monumentale G. Depardieu. La Denis dirige con mestiere e seduce per il ritmo del montaggio e per la maniera di filmare con una cinepresa che sembra quasi accompagnare i movimenti degli attori come in un ballo. Primi piani, campi e contro campi sembrano voler sottolineare, di volta in volta, la forza dei diversi personaggi. Il tono generale del film è reso leggero da una sceneggiatura ben scritta e da dialoghi ironici, pungenti e scoppiettanti. A tratti però, quasi per effetto di improvvisi corti circuiti, il film ha delle cadute di tono, perde di sobrietà, diviene ripetitivo, troppo verboso e frammentato a livello di banali clichés. Ciò non di meno, pur con questa alternanza fra tanti pregi e qualche difetto, L’Amore secondo Isabelle resta un buon film d’autore, supportato da una grande interpretazione della Binoche, una pungente commedia ironica, romantica, malinconica ed anche solare sui capricci dell’Amore e sulle difficoltà di amare veramente.

data di pubblicazione:05/04/2018


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L’AMORE SECONDO ISABELLE di Claire  Denis, 2018

DOPPIO AMORE di François Ozon, 2018

(Roma, 4/10 Aprile 2018)

Chloe (Marine Vatch) è una donna giovane ed affascinante ma fragile e depressa da star anche male fisicamente. Inizia ad andare in terapia e si innamora, ricambiata, del suo psicanalista Paul (Jérémie Renier), interrotta la terapia i due vanno a vivere insieme. Dopo qualche mese però Chloe scopre che Paul le ha nascosto una parte oscura della sua vita e della sua personalità.

 

 

Preceduto dall’alone sulfureo sollevato al Festival di Cannes 2017, ecco in anteprima italiana, in occasione dellVIII Festival del Nuovo Cinema Francese, l’attesa opera di Ozon, il poliedrico e talentuoso regista e sceneggiatore francese, di sicuro uno degli autori di maggior successo e fra i più interessanti del cinema d’oltr’Alpe. Doppio Amore è il suo 17° lungometraggio ed è stato adattato dallo stesso regista da un romanzo breve: Vita di Gemelli di J.C.Oates. Dopo il delicato ed intimista Frantz, il nostro regista torna sugli schermi in un genere e su un tema che non ci saremmo di certo aspettati veder riaffrontare. Il cineasta francese ritorna infatti al genere thriller di cui aveva già dato ottimi prodotti ai tempi dei suoi Swimming Pool ed Amanti Criminali. Lo spunto questa volta è tornare ad analizzare ancora una volta, uno dei temi a lui cari: l’esplorazione, la ricerca del “doppio di sé”, il doppio benefico o malefico, o, tutti e due contemporaneamente, che ognuno di noi porta dentro di sé. Il tema dei gemelli. Chi sono infatti i “doppi” che Chloe incontra? chi siamo noi? si domanda il regista, chi è, alla fin fine, la stessa Chloe? Quali sono e cosa si nasconde nelle zone d’ombra di ciascuno di noi? Bravo nel miscelare generi cinematografici diversi, Ozon ci offre un thriller brillante, erotico e psicologico rendendo omaggio ai thriller psicologici o sovrannaturali degli anni ‘70 ed ‘80. Il regista si inserisce scientemente nella scia dei Polanski, De Palma e Cronemberg, con anche notevoli richiami ad Hitchcock. Un tale approccio poteva essere schiacciante. Invece l’autore riesce, pur nella continua citazione dei Maestri, a rompere gli schemi, esce dall’esercizio del mero omaggio e tributo e, con talento prende in mano la narrazione con uno stile tutto suo personale, dandogli spessore ed autonomia. Ozon sembra letteralmente far sua la sceneggiatura e trascina lo spettatore in una serie di giuochi, piste e manipolazioni che già nel suo precedente Nella Casa aveva dimostrato di saper ben maneggiare. Doppio Amore, in linea con le regole del genere, è un film sufficientemente trasgressivo ed ansiogeno da poter facilmente trascinare l’immaginario dello spettatore in una serie di intrighi narrativi, giocando abilmente con la paura, l’erotismo ed il fantastico. Non tutto è però perfetto, a tratti ci si perde nei vari meandri, ci sono purtroppo degli effetti gratuiti che riducono l’impatto con il sottinteso e l’implicito, c’è qualche elemento un po’ kitsch ed un finale poi troppo spiazzante che lascia delusi. Comunque sia, pur con i difetti di cui sopra, il film è un bel viaggio nei labirinti del subconscio femminile, un buon pretesto per uno studio sulle personalità multiple. Intense le interpretazioni della sua icona M. Vatch e del suo attore feticcio J. Renier, giunto con questa alla terza collaborazione con il regista. Doppio Amore è certamente un film meno convincente di Frantz, anzi molto lontano dalla sua eleganza e bellezza, ma resta pur sempre un buon prodotto di genere, un buon dramma psicologico girato con maestria e mestiere pur con qualche furberia di troppo.

data di pubblicazione:05/04/2018


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D’ESTATE CON LA BARCA – Regia di Luca De Fusco

D’ESTATE CON LA BARCA – Regia di Luca De Fusco

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 04/08 aprile 2018)

Grazie al palco del Piccolo Eliseo di Roma si schiude un gioiello letterario sconosciuto ahimè a molti: D’estate con la barca, il racconto d’esordio di Giuseppe Patroni Griffi. Complice la raffinata, minimale ed efficace scenografia, il regista Luca De Fusco e la bravissima protagonista Gaia Aprea, da sola nei ruoli dei 4 personaggi del breve racconto, hanno saputo raffigurare in maniera estremamente reale tutto il sapore dell’estate vissuta da quattro ragazzi, due giovani coppie un po’ inesperte e un po’ incoscienti.

Giulia ed Enrico trascorrono le calde giornate estive insieme a Luisa e Mario. I quattro giovani affittano due barche e si addentrano lungo i pertugi della costa che va da Posillipo a Napoli. E lì tra la culla della barca e le insenature degli scogli trascorrono le giornate travolti dalla passione, arsi dal sole, affaccendati tra lunghe nuotate e silenziose pause dedicate alla meticolosa tintarella. Ma, soprattutto si dilettano in giochi ludici, piccole scaramucce fanciullesche che inevitabilmente divampano in parentesi di impetuosa attrazione erotica. Le due coppie salpano insieme per poi separarsi, ognuna alla ricerca della propria parte di mare più intima, per poi ritrovarsi al tramonto al molo. Il racconto vede da un lato la coppia di Luisa e Mario, che rimane sullo sfondo quasi a rappresentare il lato superficiale del flirt estivo, della mera passione tra due giovani ancora inesperti e goffi. Dall’altro, c’è la coppia di Giulia ed Enrico, che fin da subito lasciano presagire un oscuro contrasto tra amore ed erotismo tendente alla perdizione. Una coppia dalle note indubbiamente profonde e complesse, sono loro i veri protagonisti del racconto. Gaia Aprea assume con estrema fluidità i “panni” dismessi e posticci di crema solare e schizzi di acqua salata delle due giovani ragazze e dei loro amorosi, e con il gioco di luci e delle proiezioni marine lo spettatore si sente lì sulla barca, lì nelle prese in acqua o sulla piccola spiaggetta segreta dove Giulia ed Enrico si abbandonano completamente fino a perdersi l’uno dentro l’altra. Per un’ora intera si respira la spensieratezza, il caldo, l’eccitazione, il clima afrodisiaco dove è costante l’alternanza tra bellezza, amore e perdizione e diviene lampante “l’impronta” della penna di Patroni Griffi che meglio svilupperà questi temi in capolavori come Metti una sera a Cena.

In questo intimo quadro, dove apparentemente pare regnare la leggerezza, irrompe repentino, con un colpo di scena che altrimenti non sarebbe tale, quel che doveva presagirsi nelle note di passione violenta, a tratti malsana, tra Giulia ed Enrico: l’indissolubile legame tra l’amore, nelle sue sfumature più intime, impetuose e oscure, e la morte: tuffarsi in un mare d’amore riassume inevitabilmente il doppio volto della stessa medaglia, dell’ossimoro. Si chiude il sipario e si rimane ancora senza fiato. Un racconto che brilla come una gemma di mare, da non perdere!

data di pubblicazione:05/04/2018


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L’AMORE SECONDO ISABELLE di Claire  Denis, 2018

VIII FESTIVAL DEL NUOVO CINEMA FRANCESE

(Roma, 4/10 Aprile 2018)

Per l’ottavo anno consecutivo, dal 4 al 10 Aprile, viene riproposto il Festival del Cinema Francese. Quest’anno l’iniziativa, anziché al cinema Fiamma, ahinoi chiuso da mesi, si svolgerà al Nuovo Sacher, alla Casa del Cinema ed all’Istituto Francese di Roma che ospiteranno le proiezioni e gli incontri con gli autori ed attori. Come ogni anno il Festival porterà poi in viaggio il Cinema Francese anche a Milano, Firenze, Napoli e Palermo.

Questa VIII edizione è centrata sul grande cinema d’Autore nella tradizione del cinema francese e, ciò non di meno in un continuo rinnovamento, con un focus speciale dedicato poi alle opere recenti di Arnaud Desplechin. Una buona opportunità per gli amanti del cinema, e del cinema francese in particolare, di seguire da vicino gli ultimi sviluppi di una cinematografia vitalissima per produzioni, pubblico, qualità, incassi ed apprezzamenti internazionali. Un cinema d’Autore, quello francese, che riesce sempre a saper combinare consapevolezza artistica e capacità di interagire con il pubblico delle sale. Un pubblico che, a differenza della triste realtà italiana, ancora affolla le sale grazie a sapienti politiche di sostegno culturale ed economico alla produzione ed alla distribuzione. Basti solo pensare che nel 2017 in Francia sono stati venduti ben 209,2 milioni di biglietti, a fronte dei soli 100 milioni scarsi venduti in Italia. In questa settimana di proiezioni potremo avere quindi la possibilità di cogliere un’ampia panoramica delle opere di alcuni dei più noti giovani cineasti d’oltr’Alpe. Alcuni film sono già stati presentati a Cannes ed a Venezia 2017 e passeranno poi nelle sale nelle prossime settimane. Il filo conduttore dell’intera rassegna, pur nella diversità artistica, è il bisogno dei cineasti di restare ancorati nel contemporaneo e nel reale, unitamente alla capacità autoriale di saper conciliare le esigenze del vero con il racconto ed i vari generi.

In questo contesto, fra i vari masterclass ed incontri con registi ed attori, e la ventina di opere presentate nelle molteplici proiezioni giornaliere, vi segnaliamo quelli di cui è già prevista una  prossima uscita sugli schermi romani:

I fantasmi di Ismael di A. Desplechin, presentato a Cannes ’17, (da non trascurare poi il focus su alcune delle sue ultime realizzazioni); La casa sul mare di R. Guédiguian; L’atelier di L. Cantet già Palma d’Oro a Cannes 2008 con La classe; L’amore secondo Isabelle della regista Claire Denis ed una splendida e bravissima J. Binoche; Parigi a piedi nudi di D. Abel e F. Gordon ed infine il tanto atteso e sulfureo Doppio Amore del prolifico e talentuoso F. Ozon, anche questo visto a Cannes ’17.

data di pubblicazione:04/04/2018