IL MAESTRO DI VIOLINO di Sérgio Machado, 2018

IL MAESTRO DI VIOLINO di Sérgio Machado, 2018

Laerte, sin dalla tenera età di quattro anni, si è dedicato con passione allo studio del violino incoraggiato dai genitori che ne hanno fatto un vero e proprio bambino prodigio e che continuano, anche da adulto, a seguirlo a distanza con un interesse molto pressante. Ma la tensione ed una incontrollata emotività lo bloccano durante un’importante audizione per far parte dell’orchestra sinfonica di San Paolo in Brasile; non riuscendo a confessare ai genitori il suo fallimento, Laerte per sostenersi decide di accettare un incarico temporaneo come insegnante di musica presso una scuola pubblica che si trova all’interno della grande favela di Heliopolis. L’uomo scoprirà che conquistarsi, con rabbia e determinazione, la fiducia di quegli adolescenti ribelli, alcuni dei quali inseriti nel contesto della malavita locale, sarà la migliore medicina per superare le sue incertezze con le quali farà finalmente i conti.

 

 

Il Maestro di Violino uscito da poco nelle nostre sale, seppur sembri ricalcare il film del 2017 La Mélodie del regista e attore Rochid Hami ambientato nella periferia parigina, in realtà risulta essere precedente ad esso di ben due anni. La trama è molto simile e le problematiche di giovani emarginati che solo attraverso la passione per la musica riescono a realizzare il proprio riscatto sociale anche; ma c’è da dire che questa pellicola di Sérgio Machado è più incisiva della versione francese. Il regista brasiliano, tra una sonata di Bach e un brano strumentale rap, trova infatti ispirazione e pretesto per parlarci dei problemi del suo paese, inserendo questa storia sulla potenza salvifica della musica all’interno della violenza e del malaffare di una delle più grandi favelas dell’America latina. Protagonista è il virtuoso violinista Laerte (Làzaro Ramos) che, con le sue insicurezze caratteriali, si trova quasi forzatamente ad avere a che fare con un gruppo di ragazzi disadattati che frequentano svogliatamente le sue lezioni di musica; ma per loro studiare uno spartito può rappresentare anche elemento di distrazione dalla brutale realtà in cui vivono e Laerte dovrà renderli consapevoli di quanto la musica abbia una propria intrinseca forza che travalica ogni barriera sino a rendere veramente liberi.

La narrazione rimanda alla storia vera della nascita dell’Istituto Baccarelli che, proprio in quella favela, convogliò centinaia di ragazzi verso lo studio della musica classica, impartendogli un’educazione musicale di alto livello tanto che oggi la sua orchestra sinfonica riesce a portare al successo giovani di grande talento.

Il film, ben fatto e molto realistico, entra silenziosamente nella psicologia non solo dei ragazzi ma anche del loro professore che si scontrerà con compromessi pesanti per raggiungere il suo obiettivo, necessario a lui e ai suoi allievi.

data di pubblicazione:17/09/2018


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DOPO MEZZANOTTE di Davide Ferrario, 2004

DOPO MEZZANOTTE di Davide Ferrario, 2004

Martino (Giorgio Pasotti), mite e taciturno, lavora come custode notturno della Mole Antonelliana dove ha sede il Museo del Cinema che, dopo la mezzanotte, diventa il suo regno. In un vecchio magazzino dismesso del museo Martino ha ricavato la sua casa dove, quando non lavora, passa il tempo a vedere vecchie pellicole di film muti: il cinema è la sua vita e la sua vita è mediata attraverso una vecchia telecamera con cui riprende la realtà virtuale da cui è circondato.

Un giorno irrompe nella sua esistenza “sospesa” Amanda (Francesca Inaudi), una ragazza di periferia che fa l’inserviente in un fast food, fidanzata con Angelo (Fabio Troiano), di professione ladro di automobili: costretta a fuggire dalla polizia, Amanda sarà aiutata da Martino che accetterà di nasconderla nella Mole. Di lì a poco la ragazza rappresenterà, per quest’uomo taciturno e solo, l’unico legame con la vita reale.

I tre giovani e bravi interpreti, la voce narrante di Silvio Orlando e una colonna sonora singolare, fanno di questa produzione a basso costo, prodotta e sceneggiata dallo stesso Ferrario, un vero e proprio tributo al Museo Nazionale del Cinema, luogo cinematografico per eccellenza, in cui amore e tenerezza si intrecciano in una commedia sentimentale ben riuscita e fresca, pluripremiata in patria e all’estero.

Per omaggiare la città di Torino non potevamo che abbinare a questo film, così singolare, la ricetta di famosi e tipici biscotti piemontesi, noti in tutto il mondo: i krumiri

 

INGREDIENTI: 200 g di farina di mais – 150 g di farina 00 – 100 gr di zucchero– 200 gr di burro – 3 tuorli d’uovo – 1 bustina di vanillina.

PROCEDIMENTO:

Nel cestello della planetaria (se non l’avete potete impastare tranquillamente a mano), mettete le farine con lo zucchero, la vanillina, i tuorli e il burro ammorbidito a tocchetti. Con la frusta a foglia cominciare ad impastare a velocità bassa fino ad ottenere una palla omogenea simile ad una pasta frolla ma molto più morbida. Togliete il composto dalla planetaria e mettetelo a riposare per 30 minuti coperto con un panno. Trascorso il tempo di riposo, dividere l’impasto in due parti e mettetene una dentro una sacca da pasticciere con bocchetta a stella media. Premere dunque sulla sacca e deporre su una teglia foderata con carta da forno, dei cilindri della lunghezza di 10 cm dando ad essi quella forma leggermente incurvata (che vuole ricordare i baffi di Vittorio Emanule II al quale i krumiri sono stati dedicati) e distanziateli tra loro. Proseguite con il resto dell’impasto e quindi mettete nel forno a 180° fisso per circa 20 minuti. Sfornate i biscotti e disponeteli su una gratella per dolci a raffreddare. Con questa dose si ottengono una trentina di biscotti, ottimi per una colazione da re!

HO SPOSATO UN COMUNISTA di Philip Roth – Corriere della Sera, 2018

HO SPOSATO UN COMUNISTA di Philip Roth – Corriere della Sera, 2018

La riedizione di una delle opere tardive (e sicuramente non meglio riuscite) del grande artificiere della letteratura americana, defunto senza ricevere il meritato Nobel, rievoca il clima di terrore invalso negli Stati Uniti nel segno del maccartismo, della diffusa paura del comunismo. Una sorta di antropologia diabolica dell’oscurantismo in cui caddero scrittori, sceneggiatori, artisti, precipitati nell’imbuto del sospetto anche solo per vaghe simpatie di sinistra. In questo caso l’eclisse riguarda il più estroso rappresentante della famiglia Ringold, diventato famoso per una trasmissione radiofonica, la cui colpa esistenziale maggiore nello sviluppo narrativo è quello di aver sposato l’attrice Eva Frame, diva del muto che lo denuncia apertamente in un memoriale dichiaratamente diffamatorio, estortole da simpatizzanti del senatore repressore. Lo spaccato è quello di una società americana apparentemente aperta ma in realtà razzista e non solo dei suoi neri ma anche di chi è in possesso di una tessera del Partito Comunista. Nei fatti questo partito non riuscì mai a decollare stretto del bipartitismo imperfetto tra sponda democratica e sponda repubblicana. A distanza di sessant’anni dall’epoca dei fatti narrati da Roth come potrebbe essere visto se non in una luce distorta un comunista americano?

Nell’imperfezione del plot, spesso non a fuoco, alcuni pezzi del grande romanzo americano a cui di diritto di iscrivono Saul Bellow e Bernard Malamud. Come quello sulla doverosa distinzione tra letteratura e politica. La prima che rende conto solo a sé stessa, la seconda essenziale ma dipendente e deperibile. Il romanzo utilizza lo stratagemma del memoriale, della narrazione al passato remoto e quindi diventa una sorta di realistico diario delle disavventure del protagonista raccontate dai testimoni della sua vita. E ci rimanda alle diverse percezioni della realtà e all’assoluta mancanza di un’oggettività conclamata. In letteratura come nella vita. Fedele a Roth nella traduzione e nell’impossibile resa di alcuni termini spiccatamente yiddish il noto Vincenzo Mantovani.

data di pubblicazione:14/09/2018

LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO di Emanuele Scaringi, 2018

LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO di Emanuele Scaringi, 2018

Il film, presentato durante il Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, segna la regia dell’esordiente Emanuele Scaringi, ma deve molto, almeno come idea di partenza, a Zerocalcare (al secolo Michele Rech) autore della graphic novel che ha ispirato la storia e collaborato alla sceneggiatura (con Valerio Mastandrea e Oscar Glioti). La pellicola è la storia del ventisettenne Zero, disegnatore di belle speranze che vive nel quartiere di Rebibbia, arrabattandosi con piccoli lavoretti di sostegno. A casa trova la sua coscienza critica nei panni di un surreale armadillo che lo tiene con i piedi per terra con i suoi consigli. La svolta nella sua vita avverrà in occasione della notizia della morte della sua giovane “vecchia amica” Camille, suo amore adolescenziale, che lo porrà difronte alle scelte importanti della vita.

 

Non saprei dire se i tantissimi appassionati dei fumetti di Zerocalcare hanno ritrovato nella versione cinematografica de La Profezia dell’Armadillo le stesse suggestioni della graphic novel, ma circoscritta al nuovo cinema italiano rivolto ai millennials, il film di Scaringi si presenta come operina fresca e di facile fruizione seppure non banale e, pregio non poco, mai volgare o compiaciuta. Il racconto scorre agile, alternando momenti di autentico divertimento ad altri più tristi e meditativi. Non era facile trasportare sullo schermo il diario a fumetti di Zero, ma l’operazione può dirsi parzialmente riuscita. Deve i suoi principali meriti alla buona sceneggiatura sottostante, ad un commento musicale robusto ma congruo (da Joe Strummer a Boris Vian, da Paradiso ai The Rapture) e, in special modo, ad uno stuolo di attori in ottima forma e mai sopra le righe, normale difetto di molte pellicole nostrane. In particolare, il protagonista, impersonato da Simone Liberati, trentenne attore di Ciampino, è impareggiabile nel mostrare fobie, tic ed idiosincrasie di Zero, ma è ben coadiuvato da altri giovanissimi di talento: l’amico “il secco” Slim (Pietro Castellitto), la dolce Camille (Sofia Staderini). In ruoli da adulti ritroviamo la delicata Laura Morante (la madre imbranata del protagonista), l’armadillo (Michele Aprea, irriconoscibile nella sua imbragatura) e due sportivi famosi: Vincent Candela (il padre di Camille) e Adriano Panatta in un divertente cameo autoreferenziale. Dunque, un buon esordio e certamente, nello stanco panorama nostrano, un’opera intelligente e vivace che piacerà certamente a giovani e giovanissimi (in fondo parla dei loro problemi!), ma che ha tutte le caratteristiche per farsi apprezzare anche da un pubblico più esigente.

data di pubblicazione:13/09/2018


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SULLA MIA PELLE di Alessio Cremonini, 2018

SULLA MIA PELLE di Alessio Cremonini, 2018

Il 15 ottobre del 2009 il 31enne Stefano Cucchi viene fermato dai carabinieri e trovato in possesso di alcune dosi di stupefacenti, mentre era in compagnia di un amico; trattenuto in custodia cautelare, morirà all’ospedale Sandro Pertini appena una settimana dopo: pesava solo 37 chilogrammi. La cronaca giudiziaria, seguita da tutti i quotidiani nazionali e che ha coinvolto agenti di polizia, medici del carcere di Regina Coeli e carabinieri, sino alla clamorosa riapertura dell’inchiesta in seguito alla battaglia intrapresa dai familiari ed alla testimonianza del maresciallo dei carabinieri Riccardo Casamassima, è storia dei nostri giorni. Il film vuole essere un misurato resoconto di quei giorni, senza dare giudizi.

 

L’opera prima di Alessio Cremonini ha aperto la Sezione Orizzonti nell’ultima bellissima edizione del Festival del Cinema di Venezia appena conclusasi. La pellicola, definita dallo stesso Barbera in un’intervista a Vanity Fair “il film che non dovrebbe vedere solo chi si occupa di ordine pubblico, ma chiunque abbia a cuore la salute della società”, è stata molto applaudita durante la prima proiezione pubblica a Venezia. Sulla mia pelle esce in contemporanea oggi nelle sale italiane distribuito da Lucky Red e in 190 paesi da Netflix che l’ha anche prodotto, sulla scia delle recenti polemiche di alcune associazioni di esercenti cinematografici contro la scelta di aver inserito nella kermesse veneziana alcuni film non destinati solo alla visione in sala; tuttavia esse non devono né possono togliere nulla a questo film, coraggioso ed onesto, esempio lampante di come il cinema possa essere lo strumento per raccontare una storia che “doveva essere raccontata”, grazie ad una rigorosa sceneggiatura che è riuscita a trovare la giusta misura per parlare di persone reali, nell’ambito di una vicenda drammatica peraltro non ancora conclusa.

Un plauso particolare va agli attori, una vera e propria squadra interessante, impreziosita dall’intensa interpretazione di Alessandro Borghi nei panni di Stefano Cucchi, capace di calarsi anima e corpo nella pelle del protagonista, non solo fisicamente ma anche nella vocalità: sono poi i suoi occhi a confermare la bravura di questo giovane attore, con cui riesce a mutuare le emozioni interiori di un uomo che vuole cambiare continuando a sbagliare. Jasmine Trinca interpreta la sorella Ilaria, una donna che ha reso “pubblico un dolore privato” come atto dovuto ad una morte ingiusta e che poteva essere evitata, facendoci conoscere la sua durezza nei confronti di questo fratello che continua a commettere errori, che tuttavia non le impediscono ugualmente di amarlo.

Il film, mostrandoci senza reticenze proprio le debolezze, con misura e rispetto si appella a quella umanità che sovente viene dimenticata a causa di pregiudizi che ci spingono a condannare e a schierarci prima ancora di conoscere.

Un inedito Max Tortora, nella parte del padre di Stefano, sorprende e commuove.

data di pubblicazione:12/09/2018


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COSÌ CRUDELE È LA FINE di Mirko Zilahy – Longanesi, 2018

COSÌ CRUDELE È LA FINE di Mirko Zilahy – Longanesi, 2018

Terzo e, da quel che ci dice l’autore nella postfazione, ultimo romanzo che vede come protagonista il commissario profiler Enrico Mancini, del quale abbiamo seguito la parabola che lo ha portato verso una vera e proprio rinascita psicologica grazie anche alle sedute con la dottoressa Antonelli, psicologa della Polizia di Stato.

Anche in questo nuovo romanzo lo scenario è quello della inarrivabile bellezza dei recessi archeologici di Roma. Zilahy ci mostra i più sconosciuti, ci porta nei più oscuri entrando nei quali la scarica adrenalinica si fa costante e l’attesa angosciosa. Questi luoghi sono i veri protagonisti, insieme a Mancini, dei romanzi di Zilahy, sono attore e palcoscenico del nuovo folle assassino sulle tracce del quale si lancerà la sua squadra “Sopra la sua scorza coriacea, Roma occulta segreti e misteri e non c’è sasso, rovina o monumento, splendido e fastoso, che non abbia ricevuto il battesimo del sangue. Tutti custodiscono un’anima sudicia di morte; arene, obelischi e fontane

La trama di Così crudele è la fine è appassionante come sono state quelle di È così che si uccide e La forma del buio; la scrittura di Zilahy essenziale e diretta ci ha abituati a immagini cruente, di forte impatto, in ciascun omicidio iscrive una serie tale di particolari che saranno poi illuminanti per riuscire a capire la psicologia dell’assassino e orientare la ricerca sulla giusta strada.

Questa volta i subplots sono stati veramente magistrali, fondamentali per immergersi al meglio nella storia e per arrivare alla comprensione, hanno aumentato ancor di più l’urgenza di proseguire per capire, trovare e fermare il nuovo mostro che minaccia la città eterna.

Vorrei sottolineare, dopo aver letto alcuni commenti che accusavano la presenza di “ancora un serial killer alla carbonara”, che è sicuramente innegabile che i romanzi di Zilahy abbiano subito una profonda influenza dei maestri americani, ma non potrebbe che essere così, in quanto il genere letterario affonda le proprie radici negli Stati Uniti.

Inviterei tutti i detrattori, sia del genere che dei nostri autori noir, a leggere l’illuminante saggio di Alessandra Calanchi Hard-boiled, noir, thriller: la paura come sottogenere letterario contenuto nel volume La letteratura degli Stati Uniti pubblicato da Carocci editore, per meglio comprendere come sia nato e come si sia evoluto questo genere letterario che in Italia ha dei rappresentanti di tutto rispetto come Zilahy.

A questo punto non posso dire altro che: leggetelo!!!

data di pubblicazione:10/09/2018

75. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA – LA BIENNALE DI VENEZIA, 29.08—–8.09 2018: TUTTI I VINCITORI

75. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA – LA BIENNALE DI VENEZIA, 29.08—–8.09 2018: TUTTI I VINCITORI

Confermando le aspettative, sia del pubblico che della critica internazionale presente a questa interessante edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, la giuria presieduta dal regista Guillermo del Toro ha assegnato il Leone d’Oro a ROMA del regista messicano Alfonso Cuaròn. Il film, che narra di un anno turbolento nella vita di una famiglia borghese nella Città del Messico degli anni Settanta, era stato accolto molto favorevolmente e già dalla sua presentazione nella seconda giornata della Mostra era sembrato a tutti chiaro che la pellicola avrebbe avuto ottime chance di vincere. Altri premi meritatissimi sono stati quelli assegnati al film The Favourite di Yorgos Lanthimos, con tre interpreti d’eccezione ed una angolatura di assoluta originalità nel narrare le vicende della regina Anna e le sue cortigiane. Peccato per il cinema italiano, mai come quest’anno ben rappresentato da Martone, Guadagnino, Minervini e dall’esordiente Cremonini.

Ecco l’elenco di tutti i premi assegnati:

Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria a Yorgos Lanthimos per il film The Favourite;

Leone d’Argento – Premio per la miglior regia a Jacques Audiard per il film The Sisters Brothers;

Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Willem Dafoe nel film At Eternity’s Gate di Julian Schnabel;

Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Olivia Colman nel film The Favourite di Yorgos Lanthinos;

Premio per la migliore sceneggiatura ai fratelli Coen per il film The Ballad of Buster Scruggs;

Pemio Speciale della Giuria al film The Nightingale di Jennifer Kent;

Premio Marcello Mastroianni al miglior giovane attore emergente a Baykali Ganambarr nel film The Nightingale di Jennifer Kent.

Per la Sezione Orizzonti, questa la lista dei premi:

Premio Orizzonti per il miglior film a Phuttiphong Aroonpheng per il film Kraben Rahu;

Premio Orizzonti per la miglior regia a Emir Baigazin per il film Ozen;

Premio Speciale della Giuria Orizzonti a Mahmut Fazil Coskun per il film Anons;

Premio Orizzonti per la migliore interpretazione maschile a Kais Nashif nel film Tel Aviv on Fire;

Premio Orizzonti per la miglior interpretazione femminile a Natalia Kudryashova nel film The Man who Surprised Everyone;

Premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura a Pema Tseden per il film Jinpa;

Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio a Aditya Ahmad per il film Kado;

Questa 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è stata anche densa di eventi collaterali come l’interessante rassegna fotografica de Il Cinema in Mostra, Volti e Immagini della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932-2018 organizzata presso il famoso Hotel Des Bains al Lido attingendo all’interessantissimo materiale dell’archivio storico della Biennale.

Ottima la selezione delle pellicole presentate, che confermano come Venezia sia a tutti gli effetti sede di uno delle più prestigiose kermesse internazionali di cinema, dove spesso i film premiati trovano conferma anche agli Oscar.

Come sempre un red carpet affollatissimo di personaggi famosi del mondo del cinema e non solo, con grande pubblico che ha affollato i viali del Lido, in una atmosfera elettrizzante e carica di genuino entusiasmo. Arrivederci all’edizione 2019!

data di pubblicazione:09/09/2018

AMERICAN DHARMA di Errol Morris, 2018

AMERICAN DHARMA di Errol Morris, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Errol Morris, uno dei più importanti documentaristi d’oggi (già premio Oscar per The Fog of War, il film su Robert McNamara), intervista il suo ex compagno di scuola, Steve Bannon, a sua volta giornalista, produttore cinematografico e da ultimo, politico. Bannon è stato un, se non il primo, dei collaboratori di Trump, forse quello che maggiormente ha contribuito alla sua elezione a 47mo presidente degli Stati Uniti. Nella bella e aperta intervista, Bannon non si sottrae alle domande e parla a ruota libera e senza reticenze di fatti e persone della politica USA.

 

Ancora non si è capito se Steve Bannon fosse presente tra il pubblico della prima del documentario di Errol Morris, di certo la sua storia e il suo credo politico, avvicinato a idee che qualcuno definisce “populiste” è stato ben delineato in American Dharma. La definizione della parola viene chiarita da Bannon con riferimento a una pellicola di guerra o meglio di propaganda, Cieli di Fuoco, interpretato da Gregory Peck che, nel corso di una missione particolarmente rischiosa, realizza che il suo “dharma”, sostanzialmente una combinazione di senso del dovere, fatalità e destino, consiste  nell’informare i suoi uomini del rischio di morte che la missione comporta. Per l’ex ispiratore di the Donald (che di recente ha fatto a meno dei suoi servizi), ognuno segue il suo dharma, ognuno ha obiettivi e compiti da portare avanti. Trump, modestamente, nel 2016 si è sentito “il messaggero” di un cambiamento epocale (?) e per divenirlo, mancandogli quasi tutto (preparazione politica, cultura, stile) poteva riuscirci solo con l’aiuto di validi e “scafati” collaboratori, su tutti lui, Steve Bannon, uomo in grado di “sentire la pancia “ del popolo americano, stratega ora prudente ora aggressivo, insomma la guida giusta. Ma allora perché Bannon è scomparso dall’entourage del presidente?

Il filo conduttore dell’intervista (sono occorsi 16 ore di registrazione) scelto da Morris sono  i film hollywoodiani che Bannon ben conosce (da John Wayne a Orizzonti di Gloria al Falstaff di Orson Welles), e l’autore li utilizza per mettere in difficoltà l’intervistato in un crescendo sempre teso e stimolante. Non è questa la sede per riportare i passaggi clou dell’intervista, vi basti sapere che Bannon racconta tanto di sé, ma anche d’altro (ad esempio, come e perché nascono i movimenti populisti, inclusi quelli europei cui lui guarda con attenzione…), ma soprattutto che, in ultima analisi, si tratta di un documentario che pur attraverso un’intervista, grazie a un montaggio e immagini dinamiche e una colonna sonora adeguata, non soffre dei limiti consueti del genere, finendo per attestarsi come esperimento pienamente riuscito.

data di pubblicazione:07/09/2018








LES ESTIVANTS di Valeria Bruni Tedeschi, 2018

LES ESTIVANTS di Valeria Bruni Tedeschi, 2018

(75.Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

L’istante in cui una coppia si spezza… Anna (Valeria Bruni Tedeschi) è stata lasciata dal compagno (Riccardo Scamarcio) appena pochi attimi prima che lei vada a richiedere un finanziamento per il suo nuovo film e si metta poi in viaggio per riunirsi, come tutte le estati, al resto della sua vasta famiglia nella grande casa in Costa Azzurra.

 

Anche questo quarto film della Bruni Tedeschi, presentato ieri fuori concorso qui alla Mostra, ritorna, quasi riprendendo il filo interrotto nella sua precedente opera Un Castello in Italia del 2013 sul tema familiare e sulla figura del fratello scomparso nel 2006. L’artifizio è il classico film nel film. É difatti nella grande magione altoborghese di famiglia che Anna cerca, pur fra le variegate ed ingombranti presenze dei parenti: la figlia, la sorella con il marito, la madre, la zia, altri amici, segretarie e dame di compagnia, nonostante l’assenza del compagno il cui arrivo è costantemente sollecitato e sperato, prova, dicevamo, a ritrovare se stessa, ad uscire dalla sua confusione emotiva, affettiva e creativa, cercando una ispirazione per riuscire a scrivere la sceneggiatura del suo esile film autobiografico. Nella villa sono tanti, ai familiari si aggiungono ed intrecciano le storie della servitù, un incrocio di storie, di relazioni, fra i “piani alti” ed i “piani bassi”, quasi come in un film di Altman. Nonostante tutto questo cercarsi, parlarsi, incontrarsi, il vero elemento dominante in tutti i piani della villa è però la Solitudine. La solitudine delle occasioni perdute e sprecate e, con essa, la Paura e quindi le speranze residue, le illusioni, i desideri e gli amori tanto agognati quanto frustrati. Con tutto ciò il Tempo, quel tempo che inesorabilmente scorre e porta via i sogni  ed infine la Morte che appare e scompare con il tempo stesso. La Bruni Tedeschi ha ormai un suo proprio stile sia come attrice sia come regista. Può essere tanto allegra, leggera, eterea, delicata, nevrotica, quasi evanescente, quanto anche precisa e tagliente. Questo suo film è ironico, tenero, ingenuo e paradossale, ma anche capace di far sorridere e commuovere senza cadere nella seriosità grazie al dono dell’autoironia con cui la regista descrive se stessa e quello che è stato, e forse ancora è, il suo ambiente familiare altoborghese franco-italiano. Il film ha un buon ritmo, soprattutto nella prima parte è molto gradevole ed elegante nell’alternarsi ed intrecciarsi ironico delle storie fra servitù e padroni, poi rallenta un po’ per tornare a recuperare brillantemente in un finale onirico-felliniano sincero ed appassionante.

La Tedeschi è aiutata e circondata dai suoi veri familiari: la madre, la zia e la figlia ed anche da un affiatato gruppo di attori: l’ottima ed asciutta Valeria Golino nei panni della sorella, l’esperto P. Arditì perfetto nel ruolo del cognato ed inoltre uno stuolo di ottimi, direi magnifici, caratteristi francesi. Un piccolo ma gradevole film, una piacevole e garbata conferma da parte della Tedeschi, Forse la vita privata della privilegiata famiglia della Tedeschi potrà non interessare e probabilmente potrà anche infastidire, ma… se fosse tutto immaginario sarebbe un bel soggetto cinematografico.

data di pubblicazione:07/09/2018








CAPRI-REVOLUTION di Mario Martone, 2018

CAPRI-REVOLUTION di Mario Martone, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Ci troviamo a Capri, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Un gruppo di giovani nordeuropei ha trovato sull’isola il luogo adatto per fondare una comune e ricercare insieme l’arte e la propria stessa identità lontano dal mondo così detto civilizzato. Ma la gente, che sia pur con una certa riluttanza li ha tutto sommato accolti bene, ha tuttavia una propria tradizione da tutelare. Si trova spesso in contrasto con gli ideali utopistici dei ragazzi che tra danze e riti iniziatici vivono sperimentando con la nudità dei loro corpi il contatto con la natura selvaggia che caratterizza l’isola. In questo contesto vive Lucia, ragazza analfabeta che si occupa di badare alle capre: un giorno, quasi per caso, incontra il capo carismatico del gruppo e ne rimane attratta, iniziando a coltivare in sé la consapevolezza di essere una donna libera e matura, tanto da poter iniziare quel processo di emancipazione al di fuori da ogni stereotipo che la propria famiglia di origine vorrebbe imporle.

Con Capri-Revolution, presentato in concorso a Venezia, Mario Martone chiude la trilogia, iniziata con Noi credevamo e continuata con Il Giovane favoloso, sulla storia dell’Italia dal Risorgimento sino alla Prima Guerra Mondiale scrivendo con la moglie Ippolita Di Majo una sceneggiatura perfetta in ogni suo aspetto che, sia pur ambientata nel passato, risulta molto pertinente con i problemi di oggi che riguardano il nostro rapporto con la natura, il progresso ed in ultima analisi la sopravvivenza della stessa umanità. Ecco che Capri con la sua essenza arcaica, quasi mitologica, trova identificazione in Lucia (Marianna Fontana), una ragazza povera di cultura scolastica ma che concentra in sé tutti gli ideali di libertà e di riscatto sociale per i quali ancora oggi le donne devono purtroppo lottare. La giovane incontra i membri della comunità guidata da Seybu (l’attore olandese Reinout Scholten van Aschat) e di nascosto ammira la loro nudità tra le rocce bruciate dal sole e da questa immagine inizia il proprio percorso di liberazione, con un processo simile a quello con cui gli esuli russi a Capri si preparavano in quegli anni alla grande rivoluzione.

Il racconto prende spunto dalla comune realmente fondata dal pittore spiritualista Karl Diefenbach che intendeva praticare la sua arte attraverso un radicale sovvertimento delle leggi tradizionali in cui era di fondamentale importanza il contatto diretto con la natura, soprattutto attraverso la danza e la liberazione del corpo. I principi basilari di questo pensiero troveranno poi sviluppo negli anni ’60 e ’70, diventando un fenomeno collettivo che coinvolse molti giovani di quella generazione verso la ricerca di una spiritualità del tutto nuova, lontano dai condizionamenti sociali e consumistici. Ecco che Lucia rappresenta per il regista il pretesto per parlare di due mondi contrapposti: quello della comunità dei pastori dell’isola e quello della comune i cui membri sono tutti naturisti, omeopati, vegetariani e antimilitaristi, in un contesto storico ben preciso in cui l’Europa entrava nel conflitto mondiale.

Ottima la scelta del cast, tra cui la grande Donatella Finocchiaro nella parte della madre; la fotografia è stata curata da Michele D’Attanasio, già vincitore nel 2017 del David di Donatello per il film Veloce come il vento di Matteo Rovere: la nitidezza delle immagini piene di colore rimanda al simbolismo dei pittori preraffaelliti e alle figure luminose ispirate all’arte neoromantica.

Un film carico di sentimento che sicuramente è destinato a far parlare di sé e ce lo auguriamo tanto, soprattutto nell’ambito del mercato cinematografico internazionale.

data di pubblicazione:07/09/2018