IL BENE MIO di Pippo Mezzapesa, 2018

IL BENE MIO di Pippo Mezzapesa, 2018

Il secondo lungometraggio di Pippo Mezzapesa, presentato nella sezione “Giornate degli Autori” della 75.Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, regala una fiaba lieve e poetica molto vicina alle vicissitudini italiane degli ultimi anni.

 

Elia è l’ultimo abitante di Provvidenza, un paesino della campagna pugliese. Dopo il devastante terremoto che ha colpito il piccolo borgo, i superstiti si sono trasferiti nella cittadella nuova a qualche chilometro di distanza dalle macerie, mentre Elia è rimasto a difendere Provvidenza divenendone, suo malgrado, una sorta di attrazione turistica. Ma Elia non è il folle che tutti credono. Nonostante il suo migliore amico Gesualdo (Dino Abbrescia) e l’amica Rita (Teresa Saponagelo) – ex collega della moglie di Elia, Maria, deceduta a causa del terremoto – lo spronino con affetto e dolcezza a trasferirsi nel paesino di freddi prefabbricati (la nuova Provvidenza), Elia non sente ragioni. Il suo cuore e la sua vitalità sembrano rimasti fermi alle tragiche ore del sisma e alla morte dell’amata moglie Maria e gli danno la tenacia e l’ostinazione, talvolta incomprensibile, per insistere nel ruolo di custode non solo dei suoi ricordi ma della memoria collettiva. Un giorno, durante gli scontri ormai quotidiani tra il suo immobilismo, ben piantato a Provvidenza, e il sindaco (nonché cognato di Elia), che sta predisponendo lo sgombero della casa di Elia con la forza pubblica per la definitiva chiusura e abbandono del paesino fantasma, sopraggiunge una presenza straniera che potrebbe capovolgere, forse, le convinzioni o la sorte di Elia. Chi sarà questa misteriosa presenza che all’improvviso, come un dolce vento di scirocco, suggestiona Elia regalandogli l’illusione che la sua amata Maria sia tornata da lui? Riuscirà a convincere il buon Elia ad abbandonare Provvidenza?

Il bene mio magistralmente interpretato da un Sergio Rubini in stato di grazia capace da solo di sostenere con vigore e poesia l’intera storia, porta sul grande schermo l’antico dilemma tra il culto della memoria e il falso mito del guardare e andare avanti demolendo e dimenticando il passato. Le atmosfere del piccolo borgo pugliese non sono storicamente datate, ma avvolte da toni e scorci fiabeschi. Il racconto incanta, a tratti fa sorridere, grazie a quella “canaglia” dell’inconfondibile vis comica pugliese di Dino Abbrescia, e commuove con la maestria e la complicità degli occhi del “fanciullino”, mai prima d’ora così forti e penetranti, dell’istrionico Sergio Rubini. In un paese come l’Italia, segnato, illuso da false promesse e per questo doppiamente devastato dalle tragedie dei terremoti e dei sismi di varia natura, Il bene mio aiuta tutti noi ricordandoci che la forza d’animo del mingherlino Elia, la sua tenacia, sono presenti dentro ogni italiano e dovremmo tirarla fuori con la sua stessa leggerezza e caparbietà per far davvero andare avanti l’Italia e superare le ferite del Bel Paese. Da vedere!

data di pubblicazione:12/10/2018


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A STAR IS BORN di Bradley Cooper, 2018

A STAR IS BORN di Bradley Cooper, 2018

Il musicista country-rock Jackson Maine detto Jack (B.Cooper), dopo un concerto incontra per caso una cantante di nome Ally (Lady Gaga) che si esibisce in un locale di drag queen, unica donna ammessa a salire su quel palco per le sue straordinarie doti vocali, ma non sufficientemente bella per avere successo in campo musicale. I due si incontrano dapprima solo musicalmente e Jack capisce immediatamente di aver a che fare con un vero e proprio animale da palcoscenico. La loro storia d’amore coronerà tra alti e bassi le loro carriere, una in ascesa l’altra in declino. Il resto è storia già conosciuta ai più.

 

A star is born, è il primo film da regista per Bradley Cooper, con un’interprete d’eccezione come Lady Gaga nel ruolo che per ben tre volte è stato coperto da illustri attrici. La più recente versione del film è quella del 1976 con la coppia Barbra Streisand – Kris Kristofferson, a cui pare il giovane talentuoso attore si sia ispirato per questa sua versione di ciò che potremmo definire la storia d’amore per antonomasia. Due star al debutto, dunque, una come regista e cantante (con doti in quest’ultimo caso davvero notevoli), l’altra come attrice con un risultato sorprendente che non stupisce, essendo Lady Gaga già un’interprete particolare nel panorama musicale mondiale. Entrambi sulla scena non risultano perfettamente compatibili: lui bellissimo, alto, con uno sguardo profondo e tenero, lei piccola di statura, affascinante ma non bella, con un profilo “greco” che nella carriera reale è diventato il suo punto di forza, elementi che tuttavia insieme sortiscono l’ovvio risultato di far emergere il ruolo da pigmalione di lui nei confronti di una stella che sta per brillare nel firmamento musicale.

Il film, presentato fuori concorso in prima mondiale all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un prodotto perfetto per incantare un pubblico che è alla ricerca di evasione: Cooper non è solo bellissimo ma anche molto bravo, la storia d’amore è di quelle che fanno sognare, i brani musicali scritti dai due interpreti assieme a Lukas Nelson, Jason Isbell e Mark Ronson sono a dir poco accattivanti e creano il vero filo conduttore di tutta la vicenda, senza parlare delle scene e della fotografia, quest’ultima ad opera di Matthew Libatique (Il cigno nero), che completano un pacchetto molto ben architettato.

Tuttavia, senza nulla togliere ai due interpreti, questa “impossibile storia d’amore” come l’ha definita il neo regista, che commuove e ci fa sognare, risulta a tratti stucchevole e noiosa a causa di questa nuova (e a volte inappropriata) tendenza di produrre pellicole che superano le due ore e che mai, come in questo caso, pesano peccando già la trama di originalità.

data di pubblicazione:11/10/2018


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THE WIFE -VIVERE NELL’OMBRA di Biörn Runge, 2018

THE WIFE -VIVERE NELL’OMBRA di Biörn Runge, 2018

Un rapporto a due, quello tra i coniugi Castleman, forte ed indissolubile, che si basa su una complicità che si trasforma negli anni in un compromesso insopportabile a causa di un’illusione: quella di riuscire a tutelare per sempre un segreto che non può essere confessato.

 

Joe e Joan si conoscono sin dai tempi dell’università: siamo negli anni ’50. Lui è un professore di letteratura, sposato e con una figlia appena nata, lei una brillante studentessa, scrittrice in erba, che cede alle lusinghe ed al fascino di quest’uomo di talento. Dopo quarant’anni, è il 1992, ritroviamo la coppia alla vigilia di un grande evento: Joe, che nel frattempo è divenuto uno scrittore di successo, riceve la notizia di essere stato insignito del premio Nobel alla letteratura; Joan è ancora al suo fianco ma nella veste di moglie devota, madre dei suoi due figli, compagna premurosa ed amorevole. Fra i due, anche dopo tanti anni, sembra esserci un’intesa perfetta ma, l’evento straordinario del Nobel incrina tanta apparente perfezione, facendo emergere non solo l’ombra di innumerevoli tradimenti sul piano personale da parte di quest’uomo capriccioso ed egocentrico, ma anche quella assai più ingombrante di un insospettabile sodalizio professionale.

Jonathan Pryce e Glenn Close sono i due straordinari interpreti di un film che si regge esclusivamente sugli equilibri ed i disequilibri di un rapporto d’amore che, dopo quarant’anni, è sull’orlo del collasso.

Il film dello svedese Biörn Runge, tratto dall’omonimo romanzo di Meg Wolitzer, ha un’idea di fondo ancora molto attuale anche se non del tutto originale (basti pensare a Big eyes di Tim Burton), condotta con delicatezza e senza eccessi pur parlando di ribellione femminile e Glenn Close, nel ruolo della donna di talento che ha sacrificato per anni la propria ambizione per vivere all’ombra del marito, unico tra i due ad avere avuto “l’investitura sociale” a diffondere l’arte dello scrivere, probabilmente riuscirà a conquistarsi la settima nomination agli Oscar.

Il film infatti sembra cucito addosso a questa grande attrice, ma la sua bravura non è decisamente sufficiente a sollevare una pellicola che ha una sceneggiatura un po’ piatta, che ricorre anche a qualche clichè e che si riprende solo con un finale non propriamente scontato ma che, tuttavia, non riesce a fare di The Wife un film da annoverare tra i migliori in circolazione.

data di pubblicazione:11/10/2018


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L’ABISSO di e con Davide Enia

L’ABISSO di e con Davide Enia

(Teatro India – Roma, in prima nazionale 9/28 ottobre 2018)

L’Abisso racconta la drammatica realtà degli sbarchi di cui è testimone da più di 25 anni l’isola di Lampedusa. Le storie dei protagonisti ci vengono riportate da Davide Enia stesso, che è insieme attore principale, cuntatore, testimone e regista di questo spettacolo tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio.

 

 

Ci sono delle volte in cui andare a teatro e sedersi in poltrona per assistere a uno spettacolo non è solo divertimento o estraniazione, ma diventa un gesto necessario quando quello che viene proposto e rappresentato ha uno scopo pedagogico. Allora il silenzio che si deve per educazione osservare non è più azione passiva, ma diventa la condizione unica di una compartecipazione drammaturgica all’evento stesso. Certe storie sono da ascoltare con l’intelligenza del cuore oltre che della mente. Il silenzio diventa altresì una trappola dalla quale ci si vorrebbe liberare con un urlo poiché quello che ci viene raccontato ci colpisce e ci fa male, forse perché in fondo ci appartiene.

È quello che è accaduto al teatro India per la prima assoluta di questo nuovo spettacolo di Davide Enia. La scena vuota, appena illuminata, è il contenitore ideale per chi ha tante storie da raccontare. Storie che si susseguono una dietro l’altra e si mischiano a quella individuale del protagonista, del suo rapporto con il padre medico e uomo di poche parole, con lo zio malato che per la seconda volta nella vita si trova a combattere il cancro; tanti racconti che arrivano sulla scena con la stessa violenza e costante cadenza delle onde sbattute contro la banchina di un molo la cui risacca fa alzare di forza il mare. In scena anche Giulio Barocchieri, chitarrista palermitano, che con la sua musica riempie pause che altrimenti sarebbero cariche di troppa tensione, che commenta ora un evento ora un altro, che partecipa emotivamente alla narrazione.

Lo spettacolo ha ricevuto un ottimo successo, lunghi e meritati gli applausi al suo autore e protagonista alla fine della rappresentazione. Si esce dal teatro con la sensazione di essere riemersi da un profondo abisso appunto che ci ha risucchiato per 70 minuti, ma con una consapevolezza in più: la tragedia che si sta svolgendo nel Mediterraneo ci riguarda in prima persona, come cittadini e come uomini.

Per chi non riuscirà ad andare a teatro consigliamo comunque la lettura del romanzo da cui è tratto lo spettacolo.

data di pubblicazione:11/10/2018


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ALLEGRA ERA LA VEDOVA? di Gianni Gori, regia di Gennaro Cannavacciuolo

ALLEGRA ERA LA VEDOVA? di Gianni Gori, regia di Gennaro Cannavacciuolo

 (Teatro della Cometa – Roma, 9 ottobre/4 novembre 2018)

Metafisica dell’operetta, rivisitazione di un genere sparito con una messinscena ironica ma non distaccata. Il regno dell’artificio che poi è la metafora del teatro.

Cosa è rimasto oggi nell’immaginario collettivo del magico mondo dell’operetta? Quella di Gennaro Cannavacciolo è una pura e divertita riesumazione filologica, ben in linea con gli interessi del mattatore. Dunque una vasta ricostruzione d’epoca delle futilità di un mondo fatto di tresche, tradimenti, di agnizioni, di misteriose apparizioni di ventagli simbolicamente ammiccanti alla femminilità. Così la vedova allegra viene ribaltata con un interrogativo che fa pensare a Franz Lehar ma anche al film di Jonathan Demme con un irresistibile Michelle Pfeiffer. Così l’one man show, assistito da due capaci ballerini (ovviamente maschi, tutto il cast organizzativo è coniugato al maschile, nonostante che la donna resti saldamente al centro della scena) canta al maschile, in falsetto al femminile e esibisce la mitica scala alla Wanda Osiris, audaci e ricchissime mise con una scenografia che dilata gli spazi non estremi del teatro. Uno spettacolo godibile contenuto nell’ora di durata e con un finale mesto. In effetti si chiude con una fucilazione da parte delle SS che fa cadere il sipario sia sulla pièce che su un periodo storico, decretando, simbolicamente, la morte dell’operetta. Ora questo genere in Italia è grandemente decaduto una volta esaurita la spinta di Sandro Massimini. La capitale al centro della scena è Parigi, la città della seduzione e del godimento. Dentro c’è la belle époque, il periodo conclusivo dell’impressionismo, il can-can, la parziale emancipazione della donna. A teatro non si butta niente e questa è una rivisitazione di uno spettacolo che ha debuttato nientemeno che dodici anni fa. Si fa la storia del novecento, del costume e di una sociologia anche grazie alla mini-orchestra che suona dal vivo e contribuisce a ricreare un’atmosfera che è anche quella del music hall, del vaudeville, dello spettacolo comunque dal vivo. L’interprete si prende ogni responsabilità autorale alternando il registro drammatico, a quello comico, non trascurando la vena sentimentale. In platea il pubblico delle prime, includendo il riconosciuto maestro Gino Landi.

data di pubblicazione:10/10/2018


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ROMA EUROPA FESTIVAL Orestea – Compagnia Anagoor

ROMA EUROPA FESTIVAL Orestea – Compagnia Anagoor

(Teatro Argentina – Roma, 2/3 ottobre 2018)

L’Orestea ed il teatro dilatato di Anagoor nella nuova sfida proposta dalla compagnia diretta da Simone Derai e Marco Menegoni. Quattro ore di spettacolo ed un teatro colmo soprattutto di giovanissimi in cui la variabile tempo scorre senza sussulti, grazie a una costruzione che lentamente cattura l’occhio e assorbe la mente ed a una estetica fatta di classico e ancestrale, ma anche di performing e multimediale, in un’atmosfera rarefatta che viaggia al di sopra di qualsiasi riferimento temporale.

La storia è quella nota della mitologia e parte da Atreo, padre di Agamennone, che somministra al fratello Tieste i propri figli da lui trucidati e affida al sopravvissuto Egisto il ruolo del vendicatore. Elena che scappa con Paride, Agamennone che sacrifica la figlia Ifigenia, il trono di Argo edificato sui cadaveri, Clitennestra che vendica la figlia ed uccide marito e Cassandra, Oreste che è tenuto dall’imposizione di un oracolo a uccidere la madre e a vendicare il padre.

Il dolore della fine e la filosofia che porta rimedio al dolore: ecco la lezione dei Greci.

Il testo eschileo è inizialmente assunto nella sua integralità, ma con linguaggi e strumenti propri della compagnia attraverso riferimenti letterari e salti culturali: registrazioni e canti, lunghi monologhi e una colta babele di linguaggi per meditare su alcuni temi capitali della civiltà occidentale, ma anche un’indagine sulle possibilità di comunicazione del teatro stesso. La storia degli Atridi diventa una interrogazione sul male e sulla violenza, sulla tragedia e sul mondo, sul destino e sulla morte e sulla filosofia che aiuta a comprendere e a sopravvivere.

Le orazioni di Menegoni diventano un racconto denso e immediato sul senso della morte, sui rituali con cui questa è stata inscritta all’interno della nostra esistenza o invece nascosta o offuscata.

L’Orestea, composta da tre parti (Agamennone, Schiavi, Conversio), parte dalla saga della famiglia di Agamennone e man mano si sublima fino a perdere i connotati elementari della storia per diventare movimento, immagine, concetto.

Agamennone, la cui durata copre metà dello spettacolo, è reso pressoché nella sua interezza, a partire dalla caduta di Troia, il ritorno in patria del sovrano e della schiava Cassandra, l’assassinio del re per mano di Clitennestra e di Egisto. Tutto è vivo e reale: Clitennestra che diffonde un requiem per le vittime della guerra, Cassandra che recita in armeno il proprio dolore, Agamennone forte e virile che celebra il proprio ritorno ed attorno un susseguirsi di corse, processioni, pause ieratiche. Un registratore annuncia le vendette, le maledizioni e le morti, il sangue che scorrerà.

Schiavi e Conversio, secondo e terzo capitolo delle trilogia sono meno terreni e fisici: nessun tribunale si riunisce a decidere il destino di Oreste, solo una folta schiera di presenze tra anime e sopravvissuti che alla fine trovano nell’arte e nella filosofia il senso ed il superamento del dolore.

Orestea è la storia del nostro mondo in rivolta, è la storia che del male che ci affligge cui fa da contraltare la fragilità del bene, ma è anche una meditazione sul valore e sulla speranza del cambiamento e sulla fede nella giustizia, quanto di più importante e necessario oggi. Un’esperienza da vivere nel silenzio e nella riflessione, dilatata nel tempo lungo e breve della rappresentazione.

Da applausi.

data di pubblicazione:08/10/2018

TUTTI IN PIEDI di Fanck Dubosc, 2018

TUTTI IN PIEDI di Fanck Dubosc, 2018

Preceduto dall’eco del grande successo ottenuto nei mesi scorsi nelle sale francesi, arriva ora da noi Tutti in piedi, l’esordio dietro la macchina da presa di F. Dubosc già apprezzato oltr’Alpe come attore e sceneggiatore di grido. Per il suo debutto come regista l’autore sceglie un tema che non può non farci subito pensare a Quasi Amici, riuscendo, come il duo Nakache e Toledano, ad affrontare, con abilità, nei toni classici della Commedia, e con il giusto grado di delicatezza, di tenerezza ed anche di scherzosità, un tema non certamente facile quale l’incontro con l’handicap.

 

Jocelyn (F. Dubosc) imprenditore di successo, bugiardo e seduttore cronico, profitta di un malinteso per cercare di conquistare la nuova vicina di casa facendole credere di essere costretto su una sedia a rotelle. La ragazza gli presenta però sua sorella Florence (Alexandra Lamy) che è realmente disabile motoria a seguito di un incidente. Come nei migliori classici, Jocelyn si ritrova inevitabilmente preso nei lacci dell’Amore e del suo stesso inganno.

Come dicevamo, siamo proprio nei canoni classici, letterari, teatrali e cinematografici della Commedia: due personaggi, apparentemente totalmente diversi fra loro, si incontrano grazie ad un equivoco o ad una disabilità di uno di loro, per arrivare poi a stimarsi o ad amarsi e successivamente riuscire insieme a far fronte alla Realtà. Un soggetto molto delicato che però Dubosc, regista, sceneggiatore, autore anche dei dialoghi oltre che attore, riesce a trattare con eleganza e tenerezza, senza alcuna condiscendenza, mantenendo sempre i toni brillanti, con una messa in scena ricca di sorprese e con un ritmo costante. Il regista riesce infatti a giocare con i sentimenti dello spettatore senza tradirli e passa abilmente dal riso alle lacrime ed al sorriso grazie alla vivacità delle situazioni attentamente elaborate ed ai dialoghi perfettamente cesellati, trovando sempre il giusto tono anche nel susseguirsi delle varie gag , in un equilibrio perfetto fra commedia e dramma, senza mai cadere nella facile trappola del sentimentalismo o degli stereotipi cui il soggetto poteva indurre. Il successo del film è certamente dovuto anche ad un casting riuscitissimo. Gli attori sembrano divertirsi e ci divertono, una menzione speciale va fatta per la Lamy che è come un raggio di sole nel film e gli da vita quando appare sullo schermo. La sua espressività ci restituisce l’immagine di una donna bella che ha vissuto, riso, sofferto e riflettuto e che, nonostante l’incidente subìto, vuole e riesce ancora ad amare con un fascino emotivo tale da attrarre nell’anima e nel cuore chi pensava di vivere solo del proprio narcisismo. Altro punto di forza della Commedia, oltre ai dialoghi, sono in genere, anche i suoi personaggi secondari, ed infatti nel film, a fianco dei protagonisti, il regista si avvale di uno stuolo di secondi ruoli, tutti più che perfetti. Dunque, Tutti in piedi è, ancora una volta una gradevole, simpatica, elegante e romantica commedia. Una “commedia francese” di charme e bon-ton, in un mix equilibrato di momenti di humour e momenti di tenerezza. Un film che conferma che è possibile fare dei buoni film con dei buoni sentimenti. Film apprezzabili da ogni fascia di pubblico, se solo i nostri distributori avessero l’intelligenza di proporli in tutte le sale cinematografiche e non invece in circuiti limitati. Mi rifiuto infatti, tenacemente, di dover pensare che il nostro pubblico sia più ottuso od abbia meno gusto di quello francese, o, peggio ancora, il contrario.

data di pubblicazione:07/10/2018


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GIRL di Lukas Dhont, 2018

GIRL di Lukas Dhont, 2018

Lara è un adolescente androgino impegnato in un percorso che lo porterà a diventare una ragazza a tutti gli effetti. Il mondo che lo circonda, dalla famiglia alla scuola, è molto sincero nei suoi confronti e, senza pregiudizi o ammiccamenti di sorta, tutti lo vedono già al femminile. Con ferma determinazione, Lara decide di sottoporre il suo “scomodo” corpo alla rigida disciplina della danza con massacranti esercizi per realizzare, unitamente ad una appropriata cura ormonale per il cambio di sesso, la sua massima aspirazione di diventare una ballerina.

 

Il ventisettenne cineasta belga Lukas Dhont, qui alla sua opera prima, dopo aver ricevuto ampi riconoscimenti a Cannes insieme al protagonista Victor Polster, è oramai sulla strada verso Hollywood visto che Girl rappresenterà il Belgio ai prossimi Oscar 2019 come miglior film straniero. Merito del regista è quello di aver regalato agli spettatori una storia particolare, molto diversa da quelle così spesso rappresentate sul tema della disforia di genere, nelle quali principalmente si è parlato della sofferenza psicologica di un individuo alla scoperta di una propria identità sessuale e, quasi sempre, in contrasto con un atteggiamento sociale a lui apertamente ostile. Lara infatti, pur ancora fisicamente vincolata al genere maschile, è vista oramai da tutti come una ragazza e come tale si comporta in tutte le situazioni. Qui non ci troviamo di fronte alla tolleranza di una società, sicuramente più evoluta di quella italiana, ma si va oltre in quanto tutti considerano Lara non solo come vuole essere considerata, ma lo fanno senza alcun tabù. L’originalità del film è quella di farci entrare all’interno di quel corpo per condividerne anche i turbamenti adolescenziali, alla ricerca di un duplice posizionamento: sociale e sessuale. Lara, contrariamente a molti giovani della sua età, sa perfettamente dove vuole arrivare ma la sua età non le concede i tempi giusti, prefiggendosi di raggiungere gli obiettivi rapidamente, impaziente di attendere il periodo necessario per preparare il proprio corpo alla trasformazione finale. Un corpo che infatti fa resistenza e che sembra non volersi adattare con tempi così stretti da lei imposti. Fondamentale per il percorso è la figura paterna (Arieh Worthalter) di Lara, che assume nei suoi confronti un atteggiamento sempre attento, premuroso ma mai patetico, complice in questo lungo cammino verso il suo radicale cambiamento.

Mai una caduta di stile in entrambi i protagonisti, uniti in qualcosa di veramente grande ma che loro stessi affrontano con una semplicità a volte disarmante, punteggiata solo da attimi sporadici in cui prevale il puro senso del pudore. Attimi in cui ognuno cerca di guardarsi dentro per capire meglio cosa fare e soprattutto come farlo.

Film delicato e introspettivo, se vogliamo anche pieno di sofferenza, ma il tutto trattato con un rigore cinematografico ed una pulizia delle immagini, soprattutto nei lunghi primi piani, da cui emerge una professionalità da lasciare veramente sbalorditi.

data di pubblicazione:07/10/2018


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BLACKKKLANSMAN di Spike Lee, 2018

BLACKKKLANSMAN di Spike Lee, 2018

Ambientata negli anni a cavallo fra i sessanta e i settanta nella cittadina di Colorado Springs, la vicenda di Ron Stallworth è la storia vera di un giovane aspirante detective di colore che riuscì ad infiltrarsi con successo tra i membri del Ku Klux Klan con il supporto di un ufficiale di polizia ebreo.

 

Con un ardito paradosso si possono riscontrare nella cinematografia afro-americana sul razzismo gli stessi tratti della sinistra in politica, ovvero la tendenza a dividersi pur avendo in mente un fine comune. A sostegno della tesi, va il fatto che un regista come Spike Lee è stato più spesso applaudito dai bianchi statunitensi, ricevendo al contempo pesanti critiche dalla parte nera. “Il fardello dell’uomo bianco” è un vecchio problema e purtroppo non di ieri: le immagini finali del film, tratte da filmati originali girati a Charlotte l’estate del 2017, mostrano il raduno di nazisti e suprematisti bianchi che sfilano indisturbati con il reale commento di Donald Trump che ipocritamente ridimensiona il fenomeno. Ecco allora che, con il richiamo all’attualità, Spike Lee salda il passato dell’intrigante racconto con il presente che deve fare ancora i conti con un razzismo sempre vivo nel suo paese e non solo… Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes (Premio Speciale della Giuria), il film di Lee, non il primo sul tema (ricordo La Setta dei Tre K del 1951, quasi dimenticato, ma anche Mississippi Burning o il più recente Jasper Texas, la città dell’odio, solo per citarne alcuni) è il riuscito spaccato degli anni in cui c’era già stato Martin Luther King, l’omicidio dei Kennedy, le Black Panthers e un capo dell’FBI omofobo e razzista come Edgar Hoover. E Lee sceglie Colorado Springs, distante da Selma, Montgomery, Atlanta, dunque dagli stati più coinvolti nei fatti legati alla segregazione razziale, per ambientare a suo modo un film (la storia incredibile ma vera dell’agente nero che contatta al telefono un capo del Klan e del suo amico, detective bianco che realmente partecipa, sotto copertura alle riunioni del KKK, riuscendo a far arrestare i razzisti della zona) che è thriller, ma anche denuncia, che indigna, ma sa strappare risate, che fa riflettere ma sa farsi ammirare per il montaggio e le musiche, che ha, inoltre, negli interpreti (John David Washington,f iglio di Danzel e Adam Driver) un’altra riuscita freccia al suo arco. Con il suo talento al vetriolo Spike Lee confeziona un’analisi reale e visionaria allo stesso tempo scegliendo, volutamente toni non aspri, per riportare alla luce un tema drammatico e tristemente ancora attuale per quello che può dirsi uno dei suoi film più riusciti.

data di pubblicazione:07/10/2018


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QUALCOSA di Chiara Gamberale, regia di Roberto Piana

QUALCOSA di Chiara Gamberale, regia di Roberto Piana

(Piccolo Eliseo – Roma, 5/7 ottobre 2018)

Fin dalla nascita la principessa Qualcosa di Troppo manifesta di essere esagerata in tutto, dall’urlo emesso al posto del primo vagito, al parlare troppo, al volere tutto e troppo sempre e comunque. Ma un giorno il dolore per una perdita importante le provoca un grosso buco nel cuore. Inizia a vagare per il regno, disperata perché non sentiva più niente … e il Cavalier Niente, sentitosi chiamare, sarà colui che l’aiuterà a capire come prendersi cura del suo spazio vuoto.

 

 

Tutto esaurito ieri sera per lo spettacolo/reading inserito nel calendario del Prologo di Stagione del Piccolo Eliseo e tratto da Qualcosa, il romanzo scritto da Chiara Gamberale e illustrato da Tuono Pettinato, tanto che il teatro ha dovuto aggiungere una replica straordinaria domenica pomeriggio alle 16:00. Grande partecipazione di pubblico richiamato sicuramente dal successo del libro che, appena uscito un anno fa, ha ottenuto da subito il favore dei lettori e della critica.

Il racconto veste i panni di una favola morale tutta moderna, perché contemporanei sono i riferimenti a cui il testo rimanda, ed è rivolta a un pubblico adulto. È facile immedesimarsi con la principessa Qualcosa di Troppo, perché rispecchia e vive in pieno un dramma che può colpire tutti: fare i conti con il dolore che causa un vuoto esistenziale dentro di noi.

Grazie al Cavalier Niente la principessa scopre di avere questo vuoto: lo scopo immediato allora è provare a riempirlo. Ma quale errore il fare fare fare troppo e il ricercare negli altri la soluzione ai nostri problemi, questo ci allontana solo dalla verità che sta nello scoprire invece, con innocente stupore, che la bellezza è dentro ognuno di noi ed è il puro fatto di stare al mondo la vera avventura. Perché affannarsi allora nella ricerca di qualcosa che è un di più?

Ecco allora che avviene la trasformazione: il troppo scompare e la principessa rimane con il suo vero nome … Qualcosa.

Lo spettacolo nel suo complesso ha ricalcato il libro, ovviamente con i dovuti tagli alla storia e ai personaggi. Necessario è stato dare spazio alla proiezione delle divertenti illustrazioni realizzate da Tuono Pettinato in quanto parte integrante della storia; brillante invece affidare alla stessa Chiara Gamberale il ruolo della principessa e alla voce di Luciana Littizzetto quello di narratrice. Bravo e ben azzeccato Fausto Sciarappa nel ruolo del Cavalier Niente e infine direi eccezionale Marcello Spinetta, che ha ricoperto tutti gli altri numerosi personaggi meritandosi l’applauso e le risate del pubblico.

Vi consigliamo certamente di andare a vedere lo spettacolo e se i biglietti dovessero essere terminati, leggete comunque il libro.

data di pubblicazione:07/10/2018


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