FAHRENEITH 11/9 di Michael Moore, 2018

FAHRENEITH 11/9 di Michael Moore, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Alla sua maniera, il regista americano racconta come vanno le cose nel suo Paese spostando la sua attenzione e invertendo le date dal terribile 11 settembre (le torri gemelle), l’l1/9 del suo precedente Fahreneith, premiato con la Palma d’Oro a Cannes, al 9/11 (giorno dell’elezione di Donald Trump a Presidente degli Usa). Nel suo lungo documentario mostra i tanti volti di un’America divisa e lacerata, con riferimenti al passato e ai tanti personaggi che la compongono, senza fare sconti ad alcuno.

 

Anche a Steve Bannon, non esattamente un radicale, piace Michael Moore, e non potrebbe essere diversamente, il regista nativo di Flint, Michigan, realtà che tante volte ritorna nelle sue pellicole come emblema della barbarie del capitalismo senza regole (in Roger&Me dell’89 era la General Motors a chiudere la fabbrica e gettare sul lastrico migliaia di persone con le loro famiglie, oggi è il governatore dello stato a consentire l’avvelenamento da piombo nell’acqua per gli abitanti, in maggioranza popolazione afro-americana, a causa di un nuovo acquedotto che pesca in un fiume tossico). In proposito, una scena illuminante è quella dell’ex presidente Obama, su cui fondavano molte speranze i cittadini di Flint che finge di bere l’acqua locale, sostanzialmente confermando la versione che si tratti di acqua non pericolosa per l’organismo, contro tutti i pareri medici e le tante malattie riscontrate in loco. Quindi, al di là di ogni possibile accusa di partigianeria politica, Moore ne approfitta per colpire violentemente lo stesso partito democratico, reo di aver abdicato ai temi sociali e popolari (boicottando Sanders, ritenuto candidato poco moderato) e, in pratica, ponendosi sullo stesso piano del partito di Trump. Trump che viene eletto fra lo stupore e la sorpresa generale di quasi tutti i media, ma non di Moore che girando per tutti gli stati americani aveva colto meglio le vere sensazioni della gente. Naturalmente, non è tenero verso il suo Presidente, dipinto per quello che è, un assai disinvolto imprenditore, un uomo volgare e decisamente impreparato e primo ad essere sorpreso dalla sua clamorosa elezione. Lo stile per narrare il tutto è quello provocatorio ma anche spesso decisamente ironico del regista. A volte si può non essere d’accordo con il suo grido rivoluzionario e trasgressivo, ma non si può non riconoscere una capacità indiscussa di catturare l’attenzione della gente con riprese e flash back di grande impatto. Quanto si vede, peraltro ribadito nella conferenza stampa, sta nelle due domande fondamentali che permeano l’intero godibile film : “come diavolo siamo finiti qui?” e “dove diavolo andremo a finire di questo passo?” Chissà se riuscirà a raccontarcelo prossimamente! Da vedere per riflettere ma sorridendo!

data di pubblicazione:21/10/2018








OLD MAN & THE GUN di David Lowery, 2018

OLD MAN & THE GUN di David Lowery, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Robert Redford sceglie di interpretare, per il suo addio alle scene, il ruolo di un attempato rapinatore di banche. Il suo Forrest Tucker ci fa ripensare a tutti quei personaggi che abbiamo tanto amato e continueremo ad amare, ribelli e fuorilegge alla Butch Cassidy, imbroglioni ma pieni di fascino come ne La stangata e ricchi di infinita classe come ne Il grande Gatsby.

 

 

Forrest Tucker, dopo aver messo a segno infiniti colpi in banca e ben 18 evasioni da ogni tipo di penitenziario, compresa quella clamorosa dal carcere di massima sicurezza di San Quintino, continua insieme ai “vecchi compagni” di avventura a commettere rapine, spostandosi di contea in contea. Il suo è un vero e proprio talento naturale, manifestatosi sin dai tempi del riformatorio, che Forrest continua anche in età più che matura ad esercitare con gioiosa sfacciataggine e una generosa dose di buone maniere. Un vero e proprio ladro gentiluomo che continua ad organizzare colpi leggendari, nonostante abbia alle calcagna il detective John Hunt, interpretato da un bravo Casey Affleck, rapito a tal punto dall’abilità di quest’uomo da essere felice di non poterlo catturare; Danny Glover e Tom Waits vestono i panni degli altri due componenti la“over the hill gang” e una brava Sissy Spacek quelli di una vedova che si innamora di Forrest nonostante l’insolita professione che questi si sia scelto.

Old Man & the Gun è un film godibile, ben ritmato, destinato sicuramente a riscuotere il successo che merita, grazie anche alla carismatica presenza di Redford. Tratto dalla storia vera di questo straordinario rapinatore di banche che, dopo aver portato a termine l’ultimo geniale colpo della sua lunga carriera, fu rispedito in prigione alla veneranda età di 80 anni, Old Man & the Gun vuole essere l’ultima immagine autoironica che questo grandissimo e poliedrico artista, coetaneo del personaggio che interpreta, ha voluto lasciare al suo pubblico.

E se ci piace pensare che l’andatura un po’ incerta e le giacche con le spalle un po’ scese siano un modo per il Grande Robert di “gigioneggiare” con lo spettatore instillandogli un inevitabile sentimento di tenerezza, attraverso i suoi occhi non possiamo che intravedere la lunga carrellata dei personaggi della sua prolifica carriera che ci accompagneranno ancora per moltissimo tempo, e ancora.

data di pubblicazione:20/10/2018








AN IMPOSSIBLY SMALL OBJECT di David Verbeek, 2018

AN IMPOSSIBLY SMALL OBJECT di David Verbeek, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Durante uno dei suoi frequenti viaggi di lavoro, un fotografo olandese fissa con la sua macchina fotografica l’immagine di una bambina con il suo aquilone, sola in una strada buia di Taipei. Tornato a casa quella foto, più di ogni altra, evocherà in lui un’infanzia oramai lontana e stimolerà, nel presente, una maggiore presa di coscienza di sé e della solitudine che lo circonda.

 

 

Dopo aver visto questo ultimo film del regista olandese David Verbeek ci si chiede spontaneamente se la fotografia fissi solo l’immagine che rappresenta o se si debba andare oltre per esplorare tutto un universo che essa stessa racchiude, davanti e dietro l’obiettivo. Forse quello scatto non è altro che quel minuscolo buco nero, quella particella microscopica che racchiude però in sé la massa di tutto l’universo: un nanosecondo che concentra il passato e il futuro e in buona sostanza tutta l’eternità. La foto della bambina con il suo aquilone fa sì che la sua giovane vita possa intrecciarsi con quella del fotografo e non solo nell’istante preciso in cui viene realizzata; la piccola, divenuta adulta, trova nell’abbandono del suo migliore amico la forza di reagire e di costruirsi una propria esistenza, mentre il giovane sembra vagare ancora tra un posto e l’altro del globo terrestre per trovare una propria identità. In un momento di totale alienazione, troverà finalmente il modo per interrogarsi e cercare una spiegazione del perché la vita lo rende triste, solo e incapace di realizzare i sogni e le aspirazioni proprie della sua infanzia.

Il regista David Verbeek, che nel film interpreta praticamente se stesso, ci mostra un mondo delicato ma nello stesso tempo freddo, dove non vi è spazio per il sentimento e per la comunicazione interpersonale. Ecco quindi che per lui la fotografia non è altro che l’espressione di una ricerca sociale stratificata, parole che per chi gli sta accanto risultano intrise del nulla ma che per lui sono l’essenza propria del suo esistere. Il montaggio della pellicola permette che le sequenze temporali si sovrappongano proprio per sottolineare il fatto che ognuno è sospeso nel tempo in una dimensione indefinita.

Il film, decisamente ben riuscito, si lascia seguire con interesse, stimolando nello spettatore vari interrogativi sulla propria realizzazione personale e rappresentando un vero e proprio pretesto per mettersi in discussione, e per cercare ancora una volta il posto adatto dove approdare.

data di pubblicazione:20/10/2018








IL VIZIO DELLA SPERANZA di Edoardo De Angelis, 2018

IL VIZIO DELLA SPERANZA di Edoardo De Angelis, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Se la speranza è un vizio è assai difficile vivere senza di essa, soprattutto se è il carburante che alimenta la resistenza, l’attesa, per poi rinascere.

 

 

Il corpo di una bambina si impiglia tra le reti calate nel fiume Volturno: ha indosso l’abito bianco della prima comunione, imbrattato di sangue. È ancora viva quando un uomo la issa sulla propria imbarcazione. Nelle baracche lungo quello stesso fiume vivono donne-schiave che vendono il proprio corpo in cambio di una esistenza polverosa e terribile, dove non c’è posto per vite future. Su quel fiume conduce la propria esistenza anche Maria che, assieme al proprio cane, traghetta prostitute incinte, perlopiù nigeriane, per ordine della orribile Zi’Mari, allo scopo di andare a vendere i figli che stanno per partorire. È inverno, piove e fa freddo, addirittura nevica: Maria compie ogni azione con dedizione e fedeltà nei confronti della “madame ingioiellata”, padrona anche della sua di vita e di quella di sua madre che proprio all’interno di una di quelle baracche lungo il fiume preferisce farsela scorrere addosso senza reagire, senza dare nulla in cambio a quella figlia così amorevole e devota.

Ancora una volta Castel Volturno è il luogo dove Edoardo De Angelis “blinda” la sua storia, una parabola laica con una connotazione quasi arcaica, ambientata in un sottomondo campano dove sembra impossibile trovare tenerezza, speranza.

L’impressione che di pancia si prova vedendo il film è quella di una lenta resistenza umana di fronte alle atrocità, senza che ci sia una vero e proprio obiettivo se non quello di aspettare un evento, qualcosa che ti faccia capire che vale la pena ancora di combattere e continuare a sperare. Secondo il regista la nascita di un figlio, non quando tutto è pronto ad accoglierlo ma quando non ci sono affatto le condizioni per farlo, è l’evento che può sollevare vite disperate.

Il film non è equiparabile a Indivisibili, ma ha una lirica che arriva diritta al cuore, che ci desta come lo schiaffo che riceviamo da neonati per farci capire che siamo venuti al mondo.

La musica, affidata al grande Enzo Avitabile, e la sceneggiatura a quattro mani di De Angelis e Umberto Contarello, fanno de Il vizio della speranza un film profondo, intriso di un certo lirismo, suggestivo, ricco di metafore dalla prima all’ultima scena, che commuove e colpisce.

data di pubblicazione:19/10/2018








THE HOUSE WITH A CLOCK IN ITS WALLS di Eli  Roth, 2018

THE HOUSE WITH A CLOCK IN ITS WALLS di Eli Roth, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Una magica avventura vissuta dal giovane Lewis (Owen Vaccaro) che rimasto orfano va a vivere dal misterioso ed eccentrico zio Jonathan (Jack Black) in una casa particolare ma apparentemente tranquilla. Ben presto il ragazzino si rende conto di strani fenomeni e presenze tutto attorno a lui e scopre anche che lo zio e la sua vicina Mme Zimmerman (Cate Blanchet) sono in realtà dei maghi e che dentro le mura della casa è nascosto un orologio capace di provocare … la fine del mondo!

 

Eli Roth, sceneggiatore ed attore americano, è conosciuto come regista per la sua realizzazione di film splatter e gore che altro non sono che sottogeneri del cinema horror per adulti. Quanto di più macabro, sanguinolento e violento si possa immaginare. Chi avrebbe mai potuto pensare che dopo gli eccessi dei suoi film l’autore avrebbe saputo annacquare i suoi furori dirigendo un film come questo, destinato invece ad un pubblico di famiglie e di giovanissimi, traendo ispirazione da un romanzo per ragazzi di costante gran successo negli Stati Uniti: Il Mistero della Casa nel Tempo di J. Bellair, pubblicato nel remoto 1973. Il regista è di certo lontanissimo dall’avere il gusto o il tocco di Spielberg nel saper passare da un genere all’altro, eppure questo non gli impedisce di mettersi alla prova in un cinema del tutto opposto a quello da lui abitualmente frequentato e cimentarsi con quest’ultima sua pellicola nel mondo del Fantasy e Mistery per il grande pubblico. L’autore attinge palesemente sia al mondo della “magia bianca” di Harry Potter, sia all’universo della “magia nera di Tim Burton senza però eguagliare la ricchezza del primo né riproporre la follia poetica del secondo. Siamo anche dalle parti di Jumanji e di Cronache di Narnia in una storia parimenti ricca di trovate ingegnose e di personaggi accattivanti ed anche in quelle dei Gremlins ma, in ogni caso arriviamo anni ed anni dopo di loro, è stato tutto già visto e ne siamo distanti anche per qualità!

Comunque sia, nulla di nuovo, la lotta fra il Bene ed il Male è una costante e funziona sempre, come funzionano sempre anche il percorso di crescita adolescenziale e la famiglia. Il risultato dell’operazione risulta quindi accettabile, soprattutto grazie anche al notevole contributo di attori talentuosi ed in particolar modo di C. Blanchet. Sia la due volte premio Oscar che J. Black sono infatti molto convincenti ed a loro agio nei panni dei loro personaggi e ci divertono sembrando divertirsi anch’essi. Certo a tratti non si può non pensare con nostalgia a Robin Williams ed a quanto sarebbe stato a pennello nel ruolo dello zio. La prima parte del film risulta però troppo lunga e lenta, il regista non riesce infatti a catturare immediatamente l’attenzione dello spettatore ed il film sembra così girare un po’ a vuoto. L’ingresso in scena dei due attori riesce però a restituire un po’ di ritmo e un po’ di magnetismo all’azione e la pellicola finalmente decolla sostenuta dalla direzione artistica che gioca fra sequenze ipercolorate e sequenze scure, senza ovviamente tralasciare lo spirito e le atmosfere gotiche del romanzo originale. Pur non totalmente riuscito The house with a clock in its walls è comunque una discreta commedia fantasy per famiglie, colorata e kitch, che regala quasi due ore di distrazione gentilmente inquietante, qualche brivido e nulla più. Un film quindi che, di sicuro, non rivoluziona né porta nulla di nuovo al Fantasy, ma che comunque resta pur sempre un discreto prodotto per ragazzi, ricco di creatività ed un bell’omaggio alla magia, che trova una sua esatta collocazione nella fascia media, media-alta del Genere. Quanto poi alla traiettoria creativa di Eli Roth va forse detto che il regista resta tuttora una speranza di genialità artistica che non si è però ancora concretizzata nella sua interezza perché l’autore sembra non riuscire a liberarsi da una sua visione del cinema quasi come pietrificata e da una scrittura troppo rigida che lo confinano ancora in un segmento di qualità molto, molto, molto lontano da possibili modelli quali i Tim Burton, gli Zemekis o gli Spielberg.

data di pubblicazione:19/10/2018








BAD TIMES AT THE EL ROYALE di Drew Goddard, 2018

BAD TIMES AT THE EL ROYALE di Drew Goddard, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Drew Goddard apprezzato sceneggiatore e regista statunitense (Quella casa nel bosco, 2011), inaugura con la sua opera seconda la 13ma edizione della Festa del Cinema di Roma. Il film è ambientato nella fine degli anni 60. Sette personaggi si incontrano in un hotel fra la California ed il Nevada. L’albergo, oggi decaduto e quasi deserto, è stato nel passato un dorato rifugio di ricchi e famosi d’ogni tipo ed origine. Ognuno dei sette sconosciuti non è ciò che pretende di essere e nasconde un segreto, dal curioso al terribile fino al pericoloso. Durante la notte avranno tutti la possibilità di rivedere le proprie vite e …

Un inizio fulminante. Fin dalla prima sequenza il regista si impadronisce dello spettatore e lo incatena subito alla sua poltrona. Tutta la prima parte del film è infatti assolutamente affascinante ed ipnotizza letteralmente, nell’intento esplicito di omaggiare sia il cinema noir, sia la letteratura poliziesca dell’epoca, sia il Tarantino di The Hateful Eight, riproponendone atmosfere, situazioni, riprese, dialoghi e strutture narrative. Come già nel suo primo film Goddard intendeva decostruire il Genere Horror, così in questa sua nuova opera decostruisce di fatto e con notevole perizia filmica, tutto il Cinema Noir Classico ricorrendo ad una messa in scena complessa, articolata su più piani visivi e narrativi, una sorta di film multiplo, in cui ripropone tutti gli stilemi del Genere ed anche i suoi stessi sottogeneri fino all’hard boiled. Ne risulta un suggestivo mix fra noir, mistery-movie, dramma criminale, thriller, film di rapina e gangster con non ultimo e, quasi ovviamente nel sottofinale, un classico rimando al modello dei modelli: il Western. In una parola, Goddard destruttura tutto quanto lo spettatore già conosce e si attende e, gli restituisce in cambio un modello tutto nuovo, tutto diverso, ma parimenti intrigante: un film Neo-Noir.

Il prodotto è tecnicamente ben costruito con una serie di flash-backward e back stories che grazie all’abilità del regista sembrano inserirsi quasi per magia nelle vicende rappresentate. Al centro della narrazione e di ogni singola storia è sempre il tema costante dell’autore, vale a dire il ritratto della condizione umana e la sua eterna dualità, quale che essa sia, fra verità e menzogna, tra avidità e falsa saggezza. Il risultato finale è un film sorprendente, interessante che non lascia mai indifferenti, ma, pur tuttavia, a voler essere molto esigenti, un film che resta in parte non perfetto, incompleto.

Difatti la somma di intrighi e situazioni, per quanto ben costruiti, conduce al Nulla e, proprio quando il regista vorrebbe o dovrebbe dire qualche cosa di più, viene a mancare quel guizzo talentuoso che, viste le premesse, ci si aspetterebbe e l’autore sembra quasi adagiarsi nel mero compiacimento del raccontare le singole storie, nell’eccesso di fatti e spiegazioni, perdendosi così nell’autocontemplazione stessa. Nonostante un finale lungo e magnifico, la seconda parte del film è difatti molto più convenzionale e perde un bel po’ del ritmo iniziale. L’impegno del regista e sceneggiatore è ben supportato da un gruppo di attori tutti perfetti, ben calibrati ed a loro agio nei ruoli, su tutti spicca l’interpretazione del sempre grande J. Bridges. Fa poi da sottofondo costante una colonna sonora di musiche anni sessanta precisa, come altrettanto precisa è la ricostruzione della location e la scelta dei toni dei colori d’epoca della splendida fotografia e delle messe in scena. Pur se parzialmente imperfetto Bad Times at the El Royale resta pur sempre una conferma di un regista da continuare a seguire con attenzione per abilità e personalità e, soprattutto, un eccellente esempio di buon cinema popolare finemente confezionato e godibile dall’inizio alla fine.

data di pubblicazione:18/10/2018








ROMA EUROPA FESTIVAL Quasi niente, di De Florian Tagliarini

ROMA EUROPA FESTIVAL Quasi niente, di De Florian Tagliarini

(Teatro Argentina – Roma, 9/14 ottobre 2018)

Ha debuttato il 9 ottobre al Teatro Argentina in prima italiana, per una coproduzione tra Romaeuropa Festival 2018 e Teatro di Roma, Quasi niente, la nuova creazione del duo Daria Deflorian e Antonio Tagliarini.

È evocata la storia di Giuliana, protagonista del film Il Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, interpretato da una straordinaria Monica Vitti.

Giuliana ed il suo senso di insoddisfazione e di inadeguatezza.

Una canzonetta pop esaspera la fragilità del reale ed attraversa il vuoto delle relazioni umane.

Cinque esseri umani, uomini e donne senza un nome proprio si rivelano e prendono la parola gli uni davanti agli altri: i trentenni, la quarantenne, la quasi sessantenne, il quarantenne.

Una patina li separa e rende sfocato quello che è il contatto con l’esterno. Così scena e drammaturgia si costruiscono come un territorio spazio aperto, di osmosi tra interiore ed esteriore, tra spazio intimo e spazio sociale.

Scorrono le parole e i gesti di Daria e Antonio, quelle dell’attrice Monica Piseddu, del performer Benno Steinegger, e della cantante Francesca Cuttica, una filastrocca della nostra quotidianità.

Una confessione, un racconto privato, una testimonianza di vita pulsante dopotutto.

“Giuliana è una donna borghese ma è anche una ‘selvatica vestita bene’ ed è proprio in questo senso che, alla fine, non rappresenta nulla: chiamata a rappresentare la borghesia, (poiché l’identità borghese è uno dei grandi temi del cinema dell’epoca) finisce per eccedere le rappresentazioni, comprese quelle ideologiche o sociologiche. È un punto di fuga” raccontano gli autori.

Il duo approfondisce così la propria riflessione sul significato stesso del teatro e sul ruolo dell’attore. Dramma o commedia che voglia essere, la vita è così e in quanto tale va raccontata anche attraverso quella intimità non certo serena ma a tratti ironica, a volte angosciante, a volte vuota, un quasi niente.

Un lavoro non solo sul disagio e sulla fragilità ma anche sulla purezza di una donna che il mondo non sembra più interessato ad ascoltare.

Parole, urla, riflessioni, gesti liberatori, estasi e follia per dare vita e forma ad un personaggio, moglie e madre, che attraversa il deserto della sua vita ma che certamente alla fine è più viva di tutti.

Un teatro nobile e spirituale, estetico e denso.

data di pubblicazione:16/10/2018

BOXE CAPITALE di Roberto Palma, 2018

BOXE CAPITALE di Roberto Palma, 2018

Fotografia su uno sport ridotto alla pura sopravvivenza per cattiva gestione di sistema. Vitale ancora a Roma, nicchia di un folclore che non si cancella ma semmai si trasforma.

Un film documentario che è quasi un lasciato testamentario su quello che è rimasto del pugilato a Roma, lontano dai fasti mediatici e televisivi di un tempo. Piazza di Siena ospitò nel 1933 un campionato mondiale vincente di Primo Carnera con decine di migliaia di persone assiepate nei luoghi dell’attuale Concorso Ippico. Oggi Davide Buccioni, l’unico organizzatore pugilistico della capitale, promuove nei luoghi più impensati, quando non addirittura all’aperto, quello che rimane dello sport di un tempo. Le interviste illuminanti ai maestri e ai campioni di una volta aprono uno spaccato nostalgico sulla boxe che fu. Quella che ti faceva assaporare il profumo del sudore. Un ambiente borderline, naif e insieme ruspante. Sottoproletariato di periferia spesso appannaggio di una violenza che usciva dalle sedici corde. E questo spiega anche il successo delle grandi famiglie zingare che rimbalzano dallo sport alla cronaca giudiziaria: i Casamonica, gli Spada, i Di Silvio. Alberi genealogici ricchi di campioni italiani e di partecipanti alle Olimpiadi. Mario Romersi, ex campione italiano dei medi, racconta delle epiche scazzottate con Monzon, prima che questi cancellasse Nino Benvenuti dal trono dei medi. 71’ filanti e coinvolgenti, e insieme distaccati per valutare a distanza un passato irripetibile. Il pugilato è decaduto per un’infinità di motivi ma la decadenza è ancora più viva a Roma che era una fucina di pugili e di luoghi attrezzati per questo sport in via di estinzione. Nonostante la presenza in poche sale specializzate la pellicola sta diventando oggetto di culto per chi ama una disciplina che ha regalato pagine drammatiche di letteratura, una filmografia intensa proprio in ragione della sfida cruenta uomo contro uomo. Uno sport in crisi ma che sta riscoprendo una passione tutta femminile che, in fin dei conti, potrebbe servire a rianimarlo.

data di pubblicazione:15/10/2018

IL COMPLICATO MONDO DI  NATHALIE di David e Stéphane Foenkinos, 2018

IL COMPLICATO MONDO DI NATHALIE di David e Stéphane Foenkinos, 2018

Ancora una volta un film campione di incassi in Francia, ancora una volta il cinema francese ci regala l’opportunità di apprezzare quanto i bei ruoli di donna dominino la cinematografia di oltr’Alpe. Abbiamo già ammirato Vittoria in Tutti gli uomini di Vittoria; Aurore in 50 Primavere; Isabelle in L’amore secondo Isabelle; ed oggi abbiamo Nathalie.

Nathalie (Karin Viard), divorziata, è una donna bella e desiderabile, cinquantenne, professoressa in un Liceo parigino e madre di una diciottenne in procinto di far carriera nel mondo della danza classica. Tutto perfetto, almeno così sembrerebbe, il suo mondo inizia però a vacillare all’improvviso, quando d’un tratto si rende conto della sua reale solitudine affettiva e della sua imprevista posizione di debolezza e fragilità. La figlia, sempre più indipendente, può divenire anche una concorrente potenziale, una giovane professoressa insidia il suo prestigio e ruolo proponendo nuovi e migliori metodi didattici, l’ex marito ha una nuova e bella compagna. La svolta esistenziale, i 50 anni, divengono un peso e Nathalie inizia a considerare con occhio diverso il complicato mondo che la circonda e … si difende e … aggredisce tutti!

I fratelli Foenkinos, già affermati scrittori e sceneggiatori, a 6 anni dal loro primo lungometraggio La Delicatezza, ispirandosi ad un loro soggetto originale, tornano a firmare insieme un film dolce ed amaro, a metà strada fra la commedia graffiante e spassosa ed il dramma psicologico. Ci disegnano, con assoluta sensibilità e leggerezza, senza condiscendenze ipocrite, un delicato ritratto di una donna amabile ma destabilizzata dal passaggio dell’età. Costante della produzione filmica dei due fratelli è la descrizione dello stato di incertezza dei momenti di passaggio cruciali della vita, difatti, mentre nella loro opera prima la protagonista affrontava il disagio del lutto e della perdita, questa volta il tema è il disagio dell’ètà che avanza, le ambivalenze e le meschinerie, l’incapacità di condividere le gioie altrui e, non ultimo, anche il tabù della gelosia fra madre e figlia. I registi sono molto bravi, senza voler giudicare navigano abilmente fra dramma e commedia, mantenendo un giusto equilibrio, descrivendo solo le mille sfaccettature di un personaggio complesso, fino al punto che lo spettatore si affeziona alle sue traversie. Nathalie è difatti così totalmente umana ed autentica che nonostante le sue cattiverie, fra lei e lo spettatore non può non scattare una certa complicità. E’ una donna mezzo angelo e mezzo demonio che l’interpretazione della Viard, evitando ogni aspetto caricaturale, rende divertente, umana e simpatica, addolcendone così le tante sfaccettature ed evidenziandone, pur nella comicità delle situazioni, la sofferenza interiore di una persona che è pur conscia dei propri eccessi. Un ruolo che sembra costruito per esaltare proprio le capacità artistiche dell’attrice. Attorno a lei un cast di secondi ruoli impeccabili e ben disegnati. La scrittura del racconto è efficace, i dialoghi sono intelligenti, veri e sottilmente calibrati ed il susseguirsi di situazioni mantiene sempre elevato il ritmo narrativo. L’esito complessivo è discreto.

Alla fine il transfert cinematografico ricercato dai registi riesce perfettamente e lo spettatore si identifica totalmente in Nathalie perché riconosce in lei e nelle sue reazioni qualcosa di nascosto che sente potenzialmente anche proprio. Il complicato mondo di Nathalie è dunque una commedia dallo humour molto corrosivo che però funziona egregiamente e che regala allo spettatore anche un divertente processo di autoanalisi in compagnia della bellezza luminosa della brava Viard.

data di pubblicazione:13/10/2018


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GOLIARDA MUSIC-HALL regia di Paola Pace

GOLIARDA MUSIC-HALL regia di Paola Pace

(Teatro Palladium – Roma, 1/14 Ottobre 2018)

Goliarda Sapienza (1924-1996) siciliana di nascita e romana d’adozione, viene allevata insieme ai suoi numerosi fratelli a pane e rivoluzione, in un contesto storico politico dove essere sindacalisti, e per giunta socialisti, significava la prigione. Donna poliedrica e, per pura definizione, controcorrente, va a studiare presso l’Accademia di Arte Drammatica iniziando una discreta carriera come attrice di teatro e di cinema. Diventata scrittrice, non viene per niente notata dalla critica ed il suo romanzo L’arte della gioia verrà pubblicato in Italia postumo, quando all’estero era oramai diventato un best seller e riconosciuto come un capolavoro: una vera rivelazione letteraria di una meravigliosa e coraggiosa narratrice.

 

 

Sulla scena un enorme letto da dove Goliarda parla di sé, della sua famiglia, dei suoi amori. Fa da contrappunto l’intervento dello psicanalista, imposto e quindi mal tollerato, che cerca di evocare ricordi secondo una pratica che la protagonista respinge con determinazione, incapace di seguire una logica che non le appartiene. La donna non è pazza ma sente il bisogno di rintanarsi nel suo angolino, nella sua camera dove poco a poco si è creata uno scenario esclusivo tutto suo. Anche se sfinita e disillusa da una vita decisamente ostile, continua la sua lotta per affermare se stessa e per immaginarsi un nuovo mondo fatto di belle cose e forse di un nuovo passionale amore: perché lei racchiude di fatto quanto di più carnale e di intellettuale si possa trovare in una donna siciliana ,abituata a attraversare in silenzio bufere sentimentali dopo aver riscoperto l’arte della gioia e del saper essere felici.

Paola Pace, autrice della drammaturgia insieme a Francesca Joppolo, recita in teatro Goliarda proponendo in un contesto denso di pathos emotivo la traccia di alcuni tra i più noti romanzi della scrittrice catanese con particolare riferimento alla figura di Modesta, donna decisamente immorale, secondo la morale comune, che sin dall’infanzia è consapevole di essere destinata ad una vita che va ben oltre i confini della sua condizione di nascita, riuscendo a capovolgere tutte le regole del gioco pur di affermare il proprio vero piacere. Nella realizzazione dello spettacolo, già presentato con successo al Teatro Biondo di Palermo, ci si è avvalsi della preziosa consulenza artistica di Angelo Pellegrino, marito di Goliarda Sapienza, che è anche curatore della sua opera, ora interamente pubblicata da Einaudi. Modesta nell’incipit de L’arte della gioia parla di quel primo ricordo: “Eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno…”.

Lo spettacolo apre la stagione della Fondazione Roma Tre presso il Teatro Palladium con il coinvolgimento diretto della comunità accademica oggi più che mai impegnata sul fronte della formazione culturale e, nello specifico, teatrale dei giovani. Presente in sala l’oramai vecchissimo psicoanalista che a suo tempo ebbe in terapia la scrittrice divenendone poi l’amante cosa che gli procurò l’abbandono definitivo dell’attività di terapeuta.

data di pubblicazione:13/10/2018


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