da Daniele Poto | Nov 15, 2018
Se il teatro è conflitto e scoppio delle contraddizioni attraverso un dialogo serrato, oggi Yasmina Reza, unitamente a David Mamet, rappresenta la punta più acuminata e popolare del mainstream scenico. Il suo Carnage ha fatto scuola e questo successivo piccolo atto unico ne è la diretta conseguenza e applicazione su un piano che -potremmo definire- più frivolo. Il nodo del contendere è un quadro. Una di quelle opere contemporanee che quasi nessuno capisce ed interpreta ma che ha un valore commerciale ragguardevole per la semplice firma dell’autore. Il quadro appunto è la scintilla che accende una vivace discussione tra due collaudati amici. E c’è un terzo incomodo piuttosto casuale. Che non ha alcuna competenza di arte ma che, molto semplicemente, non vorrebbe intaccare il legame di amicizia con i due. Se tre è il numero perfetto, anche a tre la concatenazione del dialogo teatrale punta fortemente su questo numero. Andamento prevedibile? Mica tanto. Lo spariglio è l’attentato alla composizione, il beffardo disegno che ne intacca la consistenza. Danno irreversibile? Niente affatto. L’amicizia è salva ed il sottofondo morale è che mantenerla in vita è più importante del valore effimero di una presunta opera d’arte. Naturalmente l’ambiguità è nel fondo. I due amici e litiganti sapevano della possibilità di restaurare il quadro facendolo tornare al primitivo splendore? O solo uno dei due sapeva ed ha lasciato fare l’altro? Come si vede la realtà anche teatrale può non essere mai facilmente decifrabile. Dunque anche in questo lavoro c’è un “Dio del massacro” attivo e funzionante. La ricetta della Reza è collaudata. A qualcuno potrà apparire un po’ ripetitiva ma gli ingredienti del cocktail funzionano in un crescendo nevrotico di grande efficacia. Lo spettacolo da cui è tratto il libretto ha avuto grande successo in Francia ed è stata tradotto e importato in Inghilterra e negli Stati Uniti, in attesa di approdare in Italia. Vista l’esiguità della trama in questo caso è estremamente improbabile una trasposizione cinematografica.
data di pubblicazione:15/11/2018
da Antonella Massaro | Nov 13, 2018
Un giudice, una donna, la vita privata che non riesce a tenere il passo con quella professionale, soprattutto quando né il diritto né la religione né l’etica offrono quelle risposte che solo la coscienza è in grado di suggerire.
Fiona Maye (Emma Thompson) è un giudice dell’Alta Corte britannica e spesso si trova a confrontarsi con le questioni che, pur gravitando intorno alla sfera del diritto di famiglia, finiscono per impattare la bioetica e il biodiritto: come quando il giudice Maye deve decidere se autorizzare o meno la separazione di due gemelli siamesi nella consapevolezza che uno di loro morirà.
Fiona è una donna tanto decisa e risoluta sul lavoro quanto, neanche a dirlo, debole e vulnerabile nella sua vita privata: il matrimonio con Jack (Stanley Tucci) vive un momento di crisi e di fronte al bivio tra lavoro e famiglia Fiona sembra vacillare.
Proprio in questo momento arriva sulla sua scrivania il caso del giovane Adam (Fionn Whitehead), un diciasettenne Testimone di Geova che, pur gravemente malato, rifiuta per ragioni religiose la trasfusione di sangue che potrebbe salvargli la vita. Da una parte la libertà di autodeterminazione del singolo, espressa attraverso i suoi genitori (Ben Chaplin e Eileen Walsh) perché ancora minorenne; dall’altra parte la fede, con la sua irrinunciabile carica di irrazionalità. Il giudice Maye, seguendo una procedura per molti aspetti irrituale, decide di incontrare Adam in ospedale, forse per cercare nei suoi occhi quello che non riesce a trovare nella legge.
L’incontro rappresenterà uno spartiacque tanto nella vita di Fiona quanto in quella di Adam, ponendo il giudice al crocevia tra diritto e giustizia e dimostrandole quanto sia complicato tenere fuori i sentimenti da un’aula di tribunale.
Tratto dal best seller La ballata di Adam Henry di Ian McEvan, che firma anche la sceneggiatura del film di Richard Eyre, Il verdetto mostra il suo più evidente punto di debolezza proprio nella scrittura, scarsamente incisiva, poco empatica e pericolosamente incline ad annullarsi in quello stereotipo della “donna in carriera” che finisce per fagocitare l’intera storia. La concatenazione di eventi innescata dall’incontro tra Fiona e Adam conduce in maniera fin troppo prevedibile all’esito della storia, senza che la componente “giudiziaria”, che pure dovrebbe rappresentare il perno centrale del film, riesca a emergere in maniera convincente.
Inutile soffermarsi sull’interpretazione di Emma Thompson, tanto intensa quanto misurata, che certamente rappresenta la punta di diamante del film. Resta sotto tono Stanley Tucci, confinato nel ruolo di “spalla” rispetto a un personaggio, quello del giudice Maye, indubbiamente pervasivo. Strepitoso Jason Watkins, nel ruolo del cancelliere del giudice Maye che, probabilmente, è uno dei personaggi più riusciti del film.
data di pubblicazione: 13/11/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 12, 2018
(Teatro della Cometa – Roma, 6/18 novembre 2018)
Monologo a tutto campo. Senza ritenzione né censura. One man show che funziona. Con il contributo sonoro di Gianluca Sambataro al pianoforte.
Tutto il mestiere e la capacità affabulativa di Maurizio Micheli, ormai più che settantenne (ma l’umorismo non ha età) in novanta minuti di spassoso divertissement attorno a usi e costumi italici. Una piccola copia del format di Mi voleva Strehler da parte di un attore a vocazione comica di sicuro mestiere e con numeri pirotecnici nel proprio bagaglio. A tratti divagazioni irresistibili mentre, sul filo della memoria, si scatenano note da karaoke, a soggetto e, apparentemente a libera improvvisazione. Il protagonista cuce lo spettacolo con il piccolo pretesto della permanenza in una sala d’attesa di Equitalia. Il clima è vagamente kafkiano. Vengono chiamati dall’altoparlante numeri a casaccio, c’è gente che aspetta da cinque giorni in quell’angusta sala. Il protagonista dunque ha tutte le possibilità di sfogarsi e suscita risate a scena aperta quando recita Leopardi con l’accento marchigiano. I due poli regionali della comicità di Micheli sono toscano-pugliesi. E dunque che si parli di Marina di Cecina o di Bari la sua inflessione dialettale rivela tutte le doti di imitatore-intrattenitore. Potrebbe anche leggerci l’elenco del telefono con quella verve ammiccante empatica che si salda con la viva simpatia dello spettatore in una pomeridiana di estimatori ma con pochissimi giovani (segno dei tempi?). E quando termina lo spettacolo vorresti chiedere il bis tanto la valigia dell’attore di Micheli s’immagina piena di ulteriori doni da porgere all’utente di teatro. L’interprete è unico e solo in scena ma la sua capacità evocativa crea, con il contributo di regia, altri personaggi imaginari che fanno parte di un vissuto a cui guardiamo con simpatia e con le capacità di una memoria che sembra non appartenere più al Paese e alla sua tradizione. Chi conosce realmente il proprio destino in una sala di Equitalia, un incubo per tanti italiani, ora burocraticamente dismessa ma non per questo dimenticata e rimossa?
data di pubblicazione:12/11/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 12, 2018
Per leggere un manuale sulla depressione ricorreremo a Borgna e a Recalcati. Per constatare la sua traduzione in letteratura, nella vita di tutti i giorni, possiamo avvalerci dell’eclettico Andrea Pomella che, oltre a combattere il male, riesce frequentemente a cambiare lavoro e a prodursi in saggi su Caravaggio, Van Gogh e i Musei Vaticani con la stessa disinvoltura con cui rientra nei panni del malato cronico. L’arte regala seducenti connessioni con la psico-somatica. Il trauma dell’autore è in distacco interiorizzato con il padre. Ma la tara viene saldata a fine libro perché dopo quaranta anni il personaggio rimosso torna a essere genitore, nonno, parente integrato nella famiglia di Pomella. Trattasi di un ritorno alle origini che non cancella la sofferenza precedenza ma la resetta. L’autore vive una depressione creativa in cui sfrutta l’eccesso di sensibilità per leggere un mondo diverso, filtrato dai medicinali specifici e dalle alterne fortune degli incontri con la psicoterapia (personaggi distratti, a volte sinceramente appassionati). Il merito del libro è di restituirci un universo fatto di normalità e di crisi. Un mondo molto capitolino, fatto di vive, di quartieri, di passeggiate riconoscibili. Ci troviamo a partecipare, sia pure dall’altra parte della barricata, come soggetti apparentemente sani e sull’altra, seconda barricata: quella di una lettura attenta e partecipe. Pomella si mette a nudo e infittisce la sua trama narrativa di cittadini puntualmente restituire in bibliografia finale. Appare chiaro che il rimando illuminante, l’accensione è Il male oscuro di Giuseppe Berto, romanzo che nel ’68 venne ridimensionato per la sua evidente estrazione borghese, finendo col venire ampiamente rivalutato in seguito. Pomella alimenta un rapporto quasi fisico con quella trama attraverso la casa di Berto e il suo ricordo. Quel romanzo è un memoir, un percorso da seguire quasi obbligato per uscire dalle spire della depressione e combattere un male che a volte è un nemico esplicito e non più tanto oscuro. La voce dell’uomo che trema è uno scritto importante, a tratti profondo. Che stimola più che far discutere.
data di pubblicazione:12/11/2018
da Antonietta DelMastro | Nov 12, 2018
L’incipit del libro mi ha molto incuriosita, anche se temevo potesse essere un rifacimento de Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, mentre non è affatto così, i tempi trattati sono molto diversi anche se hanno, come base, la sudditanza della donna nei confronti dell’uomo. Nei ringraziamenti l’autrice scrive: “Spero che questo libro ti abbia fatto arrabbiare un po’. E che ti abbia fatto riflettere”, e con me ha assolutamente raggiunto l’obiettivo!
È stata una lettura coinvolgente, una storia inquietante che viene narrata, in prima persona, da Jean McClellan, una scienziata specializzata in neurolinguistica: è lei che ci spiega cosa sia quel braccialetto che ogni donna porta al polso e che conteggia ogni sillaba emessa, perché il nuovo governo degli Stati Uniti, il Movimento per la Purezza, impone a ogni donna di pronunciare un massimo di 100 parole al giorno, senza alcuna possibilità di “sconti”; e non è tutto, le donne hanno dovuto rinunciare al passaporto, al conto in banca, al lavoro, all’istruzione, perché “Un giorno da mia figlia ci si aspetterà che sappia fare la spesa e gestire le faccende di casa, che sia una moglie devota e diligente, e per queste mansioni serve saper contare e non certo conoscere l’ortografia, né la letteratura. E non serve nemmeno avere una voce”.
L’“idea” da cui prende spunto il nuovo governo è quella di un ritorno al passato più sereno, in cui la donna è la regina del focolare… ma non è chiaramente questo l’obiettivo finale, le donne sono state colpite duramente ma non sono le sole, la stessa sorte viene riservata anche agli omosessuali, ai “traditori” del nuovo pensiero, tutti i colpevoli vengono trasferiti in “fattorie” in cui la loro giornata è fatta di lavori forzati e silenzio più assoluto, lontani dalle famiglie e dagli affetti.
Forse perché madre di due giovanotti che mi amano profondamente e che si trasformano in due bodyguards quando usciamo insieme, sono rimasta particolarmente sconvolta nel vedere il cambiamento del rapporto da Jean e Steven il suo figlio maggiore “Mostri non si nasce, si diventa. Pezzo dopo pezzo, arto dopo arto, creazioni artificiali di uomini folli che, come l’incauto Frankenstein, credono sempre di saperla più lunga degli altri.”
Durante la lettura le emozioni si accumulano, l’ansia cresce e con lei la voglia di continuare a leggere, di arrivare alla fine nella speranza di trovare una via di uscita; i capitoli volano via veloci e il pathos tiene il lettore con il fiato sospeso fino alla fine che, a mio avviso, è stata troppo sbrigativa e, forse, più adatta a un thriller fantascientifico più che a un romanzo di questo genere.
In ogni caso un romanzo che consiglio assolutamente di leggere.
data di pubblicazione:12/11/2018
da Rossano Giuppa | Nov 12, 2018
(Teatro India – Roma, 9/12 novembre 2018)
Un altro pezzo di storia contemporanea, ancora personaggi scomodi e difficili, portati in scena da Elvira Frosini e Daniele Timpano, Gli Sposi, Nicolae Ceausescu ed Elena Petrescu, capaci di soggiogare la Romania per più di vent’anni, ovvero il più sanguinario tiranno dei paesi del blocco comunista e sua moglie. Dittatori per caso, ignoranti ed arroganti, giustiziati davanti alle telecamere di tutto il mondo il 25 dicembre 1989.
Un racconto intimo e politico, Gli Sposi, buffo e crudo tratto da testo del drammaturgo francese David Lescot, rivisitato a modo loro dallo straordinario duo Frosini/Timpano ed in scena al teatro India dal 9 al 12 novembre.
Frontali davanti al pubblico, soli e costantemente in scena, sciorinano con impeto quella che è la propria storia e insieme a quella del paese che hanno devastato.
Un palco nudo, il vuoto della dittatura; solo due sedie e altrettanti microfoni per amplificare l’ascesa e la fine dei due protagonisti. Siamo in Romania, pochi anni dopo la Grande Guerra, quando il Movimento Legionario della Guardia di Ferro, di estrema destra ha preso il potere dopo la caduta dell’Impero asburgico. Al regime militare si contrappone il Partito Comunista Romeno, considerato illegale, nel quale il balbuziente giovane Ceausescu e l’operaia Petrescu militano attivamente.
Arrestato più volte, Ceausescu, incontra nel campo di concentramento Gheorghe Gheorghiu-Dej, un importante elemento del Partito Comunista, che lo sosterrà nella sua escalation gerarchica all’interno del partito negli anni che seguiranno e porteranno il socialismo al potere in Romania.
La coppia Ceasescu-Petrescu nel frattempo si sposa nel dicembre 1947.
L’uno parla dell’altra: si raccontano, si rintuzzano, a loro modo si amano, rivivono in scena dagli esordi rivoluzionari al consolidamento del potere.
Elena e Nicolae provengono entrambi dalla campagna, da famiglie semplici: lui è timido e balbuziente, lei studia i polimeri. Scelgono entrambi di militare nel partito comunista e concentrano pian piano nelle proprie mani ogni potere fino a divenire padroni assoluti del proprio paese. Sono goffi, mediocri, non hanno appeal eppure la loro ascesa è rapida e fatale. Incontrano i potenti del mondo e si costruiscono palazzi monumentali, acquistano lauree in chimica e riducono in povertà la popolazione romena. Sarà lei sarà la mente dell’ascesa al potere del suo compagno con la sua ambizione e sete di rivalsa.
Straordinari entrambi gli interpreti/registi nel raccontare la banale mediocrità di una coppia cinica e potentissima: storia di contraddizioni, di soprusi, di avidità tra canti socialisti e hit italiane tradotte in romeno, tra vita privata e incontri pubblici.
Una pièce tragica e ironica al tempo stesso, un testo drammaturgico che scorre con leggerezza fino alla fucilazione che li unisce per sempre, come da loro ultimo desiderio.
Un video mostra l’odierna Romania consumistica: il paese è finalmente libero e può aprirsi all’Occidente ma il mondo kitsch e patinato che ne viene fuori non è certo esaltante.
Un cronoracconto fatto di parole e movimento: il gesticolare convulso con la mano di Ceausescu, la sua balbuzie, l’influenza di una moglie inflessibile, i pugni socialisti levati al cielo, la fuga, tragicomica in elicottero e poi in macchina, fino alla cattura ed alla fucilazione, tutto evocato con rumori e piccoli gesti. L’analisi e la condanna della natura del potere, qualunque esso sia.
data di pubblicazione:12/11/2018
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Nov 8, 2018
(Museo di Roma in Trastevere, 20 ottobre 2018/3 marzo 2019)
Prima mostra fotografica a Roma tutta dedicata all’artista-fotografa Lisetta Carmi, oggi ultranovantenne. La Carmi con i suoi scatti ha voluto segnare una sorta di percorso personale, caratterizzato da una non casuale visione della realtà, dando essenzialmente “voce” a chi non ce l’ha: gente umile, emarginata e povera, ma con una tale ricchezza interiore da riuscire ad esprimere con rabbia la volontà di costruire un mondo migliore.
Nata a Genova nel 1924 da una famiglia borghese di origini ebraiche, Lisetta Carmi negli anni Sessanta abbandona la sua attività di pianista per dedicarsi interamente alla fotografia scoprendo improvvisamente l’essenza della vita da un semplice scatto. Inizia così ad andare oltre il rappresentato riuscendo a vedere quello che non c’è e imparando a percepire, da un semplice sguardo, il travaglio dell’intero genere umano. Proprio così nasce la sua vocazione fotografica, dal desiderio irrefrenabile di fissare con l’immagine il mondo interiore dell’individuo, entrare in perfetta empatia con esso per raccontare in un attimo il suo universo e inserirlo nella propria quotidianità.
Il percorso espositivo si sviluppa attraverso circa 170 immagini, tutte realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui si illustra inizialmente la realtà operaia del porto di Genova per passare poi ai particolari di tombe patrizie nel cimitero monumentale Staglieno, con i suoi gruppi scultorei a perenne memoria. Una specifica sezione viene dedicata al suo incontro con Ezra Pound: come Umberto Eco ebbe a commentare“le immagini di Pound scattate da Lisetta dicono di più di quanto si sia mai scritto su di lui, la sua complessità e natura straordinaria”. La mostra tende comunque a concentrare l’attenzione del visitatore su tre temi fondamentali concepiti inizialmente come progetti per varie pubblicazioni, con tematiche molto diverse tra di loro. Il primo del 1965 è Metropolitain dove per la prima volta vengono presentate al pubblico immagini dettagliate all’interno della metropolitana parigina accompagnate dal testo Instantanés dello scrittore e saggista francese Alain Robbe-Grillet. Il secondo del 1972 I travestiti è un importante reportage ricavato da immagini sulla comunità dei travestiti del centro storico di Genova durante un periodo di sei anni in cui lei stessa condividerà le loro problematiche legate all’identità di genere, convinta che non esistono gli uomini e le donne ma solo esseri umani. Il terzo progetto Acque di Sicilia del 1977, arricchito con testi di Leonardo Sciascia, partendo dalla ricerca dei corsi d’acqua in Sicilia intende avviare un discorso più profondo sugli abitanti dell’isola e sul loro rapporto con l’ambiente. Dopo una rapida carrellata su rinomati esponenti del mondo culturale di quel periodo (Lucio Fontana, Lele Luzzati, Carmelo Bene, Claudio Abbado, Alberto Arbasino, ecc.) il percorso si chiude con una sequenza fotografica di un parto realizzata nel 1968 all’Ospedale Galliera di Genova dove la Carmi, ignorando totalmente ogni retorica, riesce a ottenere immagini forti e dirette e quindi proprio per questo molto emozionanti.
Una mostra tutta da scoprire per catturare, con le immagini, un mondo che dal passato viene riportato alla contemporaneità per rimanere poi a futura memoria. La bellezza della verità, al Museo di Roma in Trastevere fino al 3 Marzo 2019, viene promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali a cura di Giovanni Battista Martini e con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura. Da non perdere.
data di pubblicazione:08/11/2018
da Rossano Giuppa | Nov 8, 2018
(Teatro India – Roma, 30 ottobre/11 novembre 2018)
Emma Dante rilegge in chiave originale La scortecata, una delle novelle più celebri della raccolta de Lo cunto de li cunti scritta nel Seicento da Giambattista Basile, in scena al Teatro India dal 30 ottobre all’11 novembre, un capolavoro della tradizione letteraria italiana e mondiale. Una visione originale ed intima, decisamente distante dalla maestosa trasposizione cinematografica di Matteo Garrone ma egualmente efficace nel raccontare la fiaba amara di Basile.
La magia di Emma Dante sta nella scelta di un napoletano popolato di espressioni gergali, proverbi e slang popolari, in quella modalità narrativa ancestrale fatta di movimento, voce e gestualità secondo una macchina teatrale che ancora una volta sorprende e affascina.
É la storia di un re che si innamora della voce di un’anziana donna e ingannato dalla bellezza del suo dito mignolo mostratogli dal buco della serratura, invita l’anziana a trascorre una notte d’amore. L’anziana donna accetta ma cela il suo corpo deforme tra il buio della stanza e il bianco dell’enorme lenzuolo che copre, e insieme descrive il rapporto consumato tra i due. Scoperto l’inganno però il re si infuria con la donna e la butta dal balcone. La vecchia non muore ma resta appesa a un albero. Da lì passa una fata che le fa un incantesimo, diventata una bellissima giovane il re la prende con sé. L’incantesimo svanisce, il lieto fine non arriva e così la più giovane, novantenne, chiede alla sorella di scorticarla per far uscire, dalla pelle vecchia la pelle nuova ed essere, ancora, giovane e bella.
Quattro personaggi (il re, le due sorelle e la fata) per due attori, due uomini in uno spazio segnato da pochi arredi, con un castello in miniatura tra di loro. Due straordinari interpreti gli attori Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, con i loro corpi muscolosi e sudati in grado di rappresentare al meglio le movenze e le difficoltà fisiche due anziane. La forza e la profondità del racconto sta anche nelle due sedioline di legno, nella porta per terra, nel baule, quegli oggetti di un quotidiano passato che rendono vera e nostalgica la scena, così come la musica ancora una volta diversa ed alla fine perfetta.
Un forte epiteto sulla vanità, sul senso del ridicolo e sull’inganno dell’apparenza ma anche una riflessione più ampia sui meccanismi tribali della famiglia, sulla dolorosa vita degli emarginati, sull’accettazione dei segni del tempo.
“Me so’ stancat ‘e essere vecchia” dice la donna alla sorella, sua unica compagna nella casa tumulo in cui si sono seppellite.
Le due vecchie, stanche e sole, sembrano a malapena sopportarsi, ma hanno bisogno di tenersi per mano persino per sedersi e per far passare il tempo, nella loro miseria, inscenando ogni giorno la stessa storia.
Straordinario l’uso evocativo delle luci e degli oggetti di scena, unito alle capacità interpretative dei due attori, la forza del teatro di Emma Dante in grado di illudere con un’atmosfera relativamente leggera e comica, per poi stravolgerla senza preavviso per lo spettatore, trasformandola in un reale grottescamente bello.
data di pubblicazione:08/11/2018
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Nov 7, 2018
Un professore di Diritto (Daniel Auteuil) tanto bravo quanto reazionario, élitario, aggressivo e conosciuto per il suo gusto per la provocazione, una giovane studentessa universitaria (Camélia Jordana) di famiglia magrebina e della periferia parigina, ambiziosa ed intelligente, pronta a sfidare i condizionamenti della sua origine sociale pur di emergere ed intraprendere poi la professione legale. Il loro incontro in aula crea scintille fin dalla prima lezione. Il professore, per evitare le conseguenti sanzioni del Consiglio Disciplinare di Facoltà, accetta, suo malgrado, di preparare la giovane per il prestigioso concorso interuniversitario di eloquenza.
Il cineasta francese Y. Attal, attore e regista ben conosciuto in Francia, ha sempre rivolto lo sguardo della sua produzione cinematografica sui problemi della Società contemporanea. Anche questa volta firma, con humour e sagacia, un film ben riuscito e di attualità tutto centrato sulla virtù dell’impegno e del sacrificio come mezzo di elevazione sociale, culturale e individuale e sulla fragilità degli scambi fra personalità di diversa età e differente estrazione ed educazione. La narrazione, secondo gli schemi propri della commedia classica, riposa essenzialmente sull’antagonismo dei due protagonisti, tutto si oppone fra loro. Il cinico professore e la studentessa, due età e due visioni sociali, culturali e politiche antitetiche fra loro, eppure “condannati” a fare insieme un percorso spigoloso ma, alla fine, istruttivo per entrambi; l’una riuscirà a compiere il suo cammino di crescita grazie ai metodi antipatici ma efficaci dell’odioso docente costretto a farle da mentore, quest’ultimo, a sua volta, dopo il confronto inizierà, forse, a guardare il mondo con occhio meno negativo e, forse, ritroverà anche un proprio volto un po’ più umano.
Il regista è abile nell’osservare e restituirci con finezza questi due personaggi per quel che effettivamente sono, senza esaltare né stigmatizzare i loro comportamenti nel loro milieu di appartenenza e, così facendo, permette allo spettatore di confrontarsi con i problemi sociali della Realtà: l’intolleranza, i pregiudizi, la trasmissione del sapere, la volontà di emergere, i privilegi di classe, le opportunità …
Il tocco intelligente di Attal è sostenuto da una buona sceneggiatura, da una scrittura solida ed arricchita da dialoghi perfetti, brillanti e corrosivi, da un montaggio ben ritmato e, soprattutto, da un’ottima recitazione. Una coppia di protagonisti eccellenti che fanno scintille e fanno veramente il film. Auteuil, con presenza e mestiere collaudati, dona credibilità al suo professore facendo intravvedere il dolore che si porta dentro apportandogli così un po’ di umanità contenuta. La Jordana, si conferma come una sicura promessa del cinema francese, regalandoci un’ottima performance che le fa letteralmente bucare lo schermo con la sua freschezza recitativa.
Il regista è ben attento ad evitare il rischio di cadere nei facili clichè, qualcuno tuttavia sfugge alla sua attenzione e qualche sviluppo narrativo sembra anche fin troppo prevedibile o convenzionale, ciò non di meno, nel complesso riesce a navigare intelligentemente fino alla fine fra serietà, impegno e leggerezza. Quasi nemici ha lo charme di una commedia drammatica classica ben costruita, piacevole, seducente e spesso divertente. Un film molto umano, dal tono leggero, accattivante, raffinato ma efficace ed a tratti anche bello pur senza essere geniale. Una bella favola sociale che regala allo spettatore un’ora e mezza di buon cinema e che si può di certo consigliare.
data di pubblicazione:07/11/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Nov 5, 2018
Sono una entusiasta lettrice dei romanzi di Michel Bussi e ho avuto la fortuna di essere presente al Salone del Libro di Torino dello scorso anno durante la sua presentazione di Non lasciare la mia mano. Il mio giudizio è quindi, in qualche modo, di parte eppure questo ultimo romanzo non mi ha del tutto convinta: non posso certo affermare che non sia un bel libro, ma da Bussi mi aspetto sempre dei romanzi pieni di suspense, così avvincenti che ti obbligano alla lettura fin quando non si arriva alla conclusione della storia quando, finalmente, il genio di Bussi strappa il velo davanti ai nostri occhi lasciandoci completamente sbalorditi nel capire i meccanismi della vicenda.
Al contrario ho trovato un po’ lento quest’ultimo romanzo e mi è mancato il quadro che puntualmente Bussi dipinge, descrivendo sapientemente la location in cui il romanzo si ambienta e trasformandoci da lettori in spettatori.
La doppia madre si svolge a Le Havre, primo porto della Manica e maggiore città nel cuore della Normandia. Molti gli attori presenti in questo nuovo romanzo, senza alcun dubbio i principali sono l’ispettore Marianne Augresse, che con i suoi uomini si sta occupando di quella che è, probabilmente, la rapina del secolo per Le Havre e lo psicologo infantile Vasil Dragonman che sta seguendo il caso di Malone, un bambino di poco più di tre anni che gli confida che la sua mamma, “mamma da”, non è la sua vera mamma.
Il compito di tenere vivi i ricordi del bambino è affidato al peluche Guti, che gli racconta storie che parlano di pirati, di navi, di orchi, di castelli con quattro enormi torri; Guti è la memoria di Malone che, senza le sue storie, dimenticherebbe tutto nell’arco di poche settimane.
Vasil Dragonman chiederà aiuto a Marianne Augresse per indagare su quanto ci sia di vero nella storia che gli sta raccontando Malone prima che i suoi ricordi di bambino possano essere, in qualche modo, cancellati dai nuovi; a farli conoscere penserà una amica comune legata a Marianne da rapporto di profonda simpatia, affetto e stima.
Le due storie sono in qualche modo collegate, il fatto stesso che Marianne si occupi della rapina e, nei momenti liberi, della “mamma da” di Malone lo sottolinea, l’interrogativo è quale possa essere il legame che unisce le due inchieste e solo nelle ultime pagine, in cui Bussi fa emergere le vite e i rapporti tra gli attori del romanzo, capiamo finalmente quale sia il collegamento e non possiamo che apprezzare la conclusione della storia, un po’sui generis per i romanzi di Bussi, ma sicuramente intrigante.
data di pubblicazione:05/11/2018
Gli ultimi commenti…