IL VIZIO DELLA SPERANZA di Edoardo De Angelis, 2018

IL VIZIO DELLA SPERANZA di Edoardo De Angelis, 2018

Se la speranza è un vizio è difficile toglierselo, soprattutto se è il carburante che alimenta la resistenza e l’attesa, per poi rinascere. 

 

Il corpo di una bambina si impiglia tra le reti calate nel fiume Volturno: ha indosso l’abito bianco della prima comunione, imbrattato di sangue. È ancora viva quando un uomo la issa sulla propria imbarcazione. Nelle baracche lungo quello stesso fiume vivono donne-schiave che vendono il proprio corpo in cambio di una esistenza polverosa e terribile, dove non c’è posto per vite future. Su quel fiume conduce la propria esistenza anche Maria che, assieme al proprio cane, traghetta prostitute incinte, perlopiù nigeriane, per ordine della orribile Zi’Mari, allo scopo di andare a vendere i figli che stanno per partorire. È inverno, piove e fa freddo, addirittura nevica: Maria compie ogni azione con dedizione e fedeltà nei confronti di quella “padrona ingioiellata” che è proprietaria anche della sua vita e di quella di sua madre che, inerme all’interno di una di quelle baracche lungo il fiume, se la fa scorrere addosso senza dare nulla in cambio a quella figlia così amorevole e devota.

Ancora una volta Castel Volturno è il luogo dove Edoardo De Angelis “blinda” la sua storia, una parabola laica con una connotazione quasi arcaica, ambientata in un sottomondo campano dove sembra impossibile trovare tenerezza, speranza.

L’impressione che di pancia si prova vedendo il film, che ha già vinto il premio del pubblico alla Festa del cinema di Roma ed i premi come miglior regista e migliore attrice protagonista al Tokyo International Film Festival, è quella di una lenta resistenza umana di fronte alle atrocità, senza che ci sia una vero e proprio obiettivo se non quello di aspettare un evento, qualcosa che ti faccia capire che vale la pena ancora di combattere e continuare a sperare. Secondo il regista la nascita di un figlio, non quando tutto è pronto ad accoglierlo ma quando non ci sono affatto le condizioni per farlo, è l’evento che può sollevare vite disperate.

Il film non eguaglia Indivisibili, ma ha una lirica che arriva diritta al cuore, che ci desta come lo schiaffo che riceviamo da neonati per farci capire che siamo venuti al mondo.

La musica, affidata al grande Enzo Avitabile, e la sceneggiatura a quattro mani di De Angelis e Umberto Contarello, fanno de Il vizio della speranza un film profondo, suggestivo come un presepe dei nostri tempi bui, ricco di metafore dalla prima all’ultima scena, intriso di un lirismo che commuove e colpisce.

data di pubblicazione:21/11/2018


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MORTO TRA UNA SETTIMANA (O TI RIDIAMO I SOLDI) di Tom Edmunds, 2018

MORTO TRA UNA SETTIMANA (O TI RIDIAMO I SOLDI) di Tom Edmunds, 2018

William (Aneurin Barnard) è un giovane scrittore che non riesce a pubblicare nulla, è privo di affetti, è depresso ed ha deciso di porre fine alla sua esistenza senza senso. Dopo una decina di tentativi tutti falliti tragicomicamente, ingaggia Leslie (Tom Wilkinson) un killer professionista in età avanzata perché provveda lui a “suicidarlo” entro una settimana. Anche il killer, a sua volta, ha i suoi problemi con il Boss della sua “organizzazione” perché deve riuscire a raggiungere la quota prevista di omicidi, pena il suo pensionamento anticipato; inoltre, ahinoi, proprio subito dopo aver sottoscritto il contratto, il nostro William scopre finalmente validi motivi per vivere e sognare. Ma … il contratto è contratto …

 

Tom Edmunds debutta con questa pellicola sia come sceneggiatore sia come regista e ci regala subito, con buon istinto artistico ed in modo convincente, nonostante la serietà dell’argomento trattato, una divertente commedia permeata di un dark humour molto inglese. Il suicidio è un argomento così serio che prescindendo, a priori, dal fare riferimento a valori morali, l’autore l’affronta scientemente portando subito il racconto molto oltre le righe ed anche oltre il piano dell’ironia, ricercando talora effetti molto comici. La narrazione stessa sembra non volersi prendere troppo sul serio. In realtà il film è invece un’occhiata comica sul senso della vita e sulle ragioni per viverla e giunge ad esaltare proprio la forza della vita stessa rispetto a qualsiasi altra situazione umana. Una storia quindi bizzarra e surreale che non annoia, anzi, al contrario, rallegra e sorprende con idee e situazioni brillanti che, a tratti, fanno anche sentire l’influenza o il ricordo di alcune scene e situazioni già viste in In Bruges del 2008.

Alla base di questa gradevole opera prima c’è dunque una perfetta sceneggiatura ben costruita ed autoironica, ma la sua brillantezza deriva anche dal gioco dei ruoli dei vari personaggi, tutti perfettamente disegnati e caratterizzati, da un ritmo sempre sostenuto e poi dalla talentuosa interpretazione dell’ottimo cast di attori britannici. Spiccano, fra tutti, i due protagonisti che sembrano quasi rispecchiarsi l’uno nell’altro: il giovane A. Barnard già apprezzato nel recente Dunkirk, e, soprattutto, il collaudato T. Wilkinson. La sua performance è così eccellente che riesce ad asciugare il suo ruolo fino a dare con la sua recitazione tutto il senso della noiosa routine accumulatasi negli anni, quasi il killer fosse un banale e stanco impiegato prossimo al pensionamento. Una interpretazione ricca di eleganza e finezza, veramente tutta british style e soprattutto understatement.

Cogliere il senso di una Commedia è sempre anche molto soggettivo perché dipende, ovviamente, anche dal senso individuale di humour di ciascuno spettatore, ma, riteniamo di non sbagliare definendo Dead in a week (or your money back) una più che eccellente british dark comedy che non si prende mai troppo seriosamente e che oltre a far sorridere fa anche ridere. Un piccolo e piacevole film che certamente assicura un gradevole divertimento così come una fredda bevanda, o, se preferite, come una bella tazza di tè inglese, che si apprezza al momento in cui la si gusta per poi dimenticarsene molto gradevolmente, piano piano, dopo un po’…

data di pubblicazione:21/11/2018


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NON CI RESTA CHE PIANGERE di Roberto Benigni e Massimo Troisi, 1984

NON CI RESTA CHE PIANGERE di Roberto Benigni e Massimo Troisi, 1984

Scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi, con la collaborazione per la sceneggiatura di Giuseppe Bertolucci, Non ci resta che piangere è un film culto. Tentare di raccontarne la storia è alquanto difficile, perché il film è un bizzarro sfogo di creatività dei due interpreti. Pare che Benigni e Troisi chiesero alla produzione molto tempo per scrivere il copione ma alla fine si presentarono solamente con due appunti:ci perdiamo nel medioevo e andiamo a fermare Cristoforo Colombo”.

Siamo nella campagna toscana ed è l’estate del 1984. Saverio, maestro elementare, e Mario, bidello, sono amici. Un giorno nel tornare in macchina verso casa, per evitare l’attesa di un passaggio a livello, imboccano una strada secondaria, ma un’improvvisa tempesta li costringe ad alloggiare per la notte presso una locanda. L’indomani accade l’impensabile: scoprono da un passante di trovarsi a Frittole, un borgo toscano ed è il 1492, anzi “Mille e quattrocento quasi Mille e cinque”. A questo punto la loro avventura, indietro nel tempo ed in un luogo non sempre ben definito, ha inizio e nel contesto del borgo di Frittole accadono gli episodi più disparati. Saverio e Mario incontrano Vitellozzo, sua madre Parisina e decidono di lavorare nella loro bottega. Mario fa la conoscenza di Pia, fanciulla di una famiglia ricca, con la quale inizia a vedersi affacciandosi dal muro di cinta della casa di lei. Nel frattempo Vitellozzo viene arrestato e Saverio scrive invano una lettera a Girolamo Savonarola per ottenerne la liberazione. I due amici si imbattono in Leonardo da Vinci (siamo in Francia?). In una taverna incontrano l’amazzone Astriaha che ha il compito di fermare l’arrivo in Spagna (?) di qualunque straniero per garantire che le tre caravelle di Colombo possano salpare: in quella occasione Saverio rivela a Mario di voler fermare Colombo per impedire la nascita del fidanzato americano di sua sorelle Gabriella, che l’ha fatta tanto soffrire. I due amici infine, nel tentativo di tornare in Italia, scorgono da lontano del fumo: convinti di essere finalmente tornati nel Novecento, cominciano a correre verso quel fumo e scoprono a malincuore che si tratta di Leonardo che nel frattempo ha scoperto la locomotiva, facendo tesoro dei loro goffi insegnamenti!

Alle scorribande di Saverio e Mario abbiamo deciso di associare una duplice ricetta: la crema catalana e la crème brulèe, una di origini spagnole l’altra francese. Esse sovente vengono confuse in quanto entrambe sono caramellate, con lo zucchero in superficie, tuttavia la differenza c’è ed è sostanziale: la crème brulèe (dal francese: crema bruciata) si differenzia da quella catalana sia il per il metodo di cottura perché non viene cotta sul fuoco ma con un procedimento di bagnomaria, sia per il fatto che viene usata la panna liquida invece del latte e nessun tipo di amido. Iniziamo la nostra descrizione dalla crema catalana.

INGREDIENTI: 1 litro di latte – 200 g di zucchero – 50 g di maizena o fecola di patate o amido di frumento – 6 tuorli d’ uovo -1 stecca di cannella – un baccello di vaniglia – buccia di limone – zucchero di canna

PROCEDIMENTO:

Versare in una tegame capiente il latte (tranne due cucchiai che metterete da parte), la buccia del limone, il baccello di vaniglia inciso per lungo, metà dello zucchero, la stecca di cannella e portare a bollore, facendolo sobbollire per 5 minuti a fuoco dolcissimo; poi togliere dal fuoco. Nel frattempo, diluite la maizena (o l’amido di frumento o la fecola di patate) nel poco latte freddo rimasto. Quindi rimuovere la buccia del limone, il baccello di vaniglia e la cannella dal latte che abbiamo fatto sobbollire. In una ciotola capiente, montare con la frusta i tuorli con lo zucchero, finché il composto non diventa chiaro, omogeneo e cremoso; incorporate quindi prima la soluzione di latte e maizena attraverso un colino per trattenere eventuali grumi, mescolando finché il composto non risulterà ben amalgamato, e a questo punto, aggiungere a filo il latte caldo continuando a mescolare. Rimettete il tegame sul fuoco tenendo la fiamma bassa e mescolate continuamente per circa 2/3 minuti dall’ebollizione, finché non si addensa, evitando che la crema resti troppo tempo sul fuoco, perché potrebbe stracciarsi.. Versare il tutto in ciotoline dal bordo basso, lasciare stiepidire per 30 minuti, poi metterle a freddare in frigorifero. Al momento di servire, spolverizzare la superficie della crema con lo zucchero di canna e caramellare con l’apposito accendino altrimenti, se ne siete sprovviste, mettete le ciotole sotto il grill del forno caldo, per due minuti al fine di ottenere la croccante crosticina.

A questo punto per chi volesse toccare con mano e, soprattutto, assaporarne con il palato, la differenza, ecco la nostra versione della crème brulèe.

INGREDIENTI: 250 ml di Panna Fresca – 80gr di zucchero – 4 tuorli di uovo – 1 bustina di vanillina– zucchero di canna.

PROCEDIMENTO:

In un pentolino scaldate la panna senza portarla a ebollizione. Nel frattempo in una ciotola sbattete i 4 tuorli d’uovo con lo zucchero fino a creare una crema omogenea e spumosa, di colore chiaro. Aggiungere la vanillina alla panna, farla sciogliere bene e a quel punto versare la panna tiepida con la vanillina nella ciotola con le uova, continuando a mescolare. Mettete la crema in delle coquottes di ceramica apposta per la cottura in forno e fate cuocere a bagnomaria a 180° per 35 minuti. Una volta pronte lasciate raffreddare, cospargete con un cucchiaio di zucchero di canna e caramellate o con l’apposito bruciatore oppure infornate con l’impostazione grill per qualche minuto.
E adesso preparate la punta del vostro cucchiaio, per questo delicatissimo dessert, ricordando come “ad Amelie piace rompere la crosta della Crème brulèe con la punta del cucchiaio” da Il favoloso mondo di Amelie.

ROMA EUROPA FESTIVAL Nudità, di Mimmo Cuticchio e Virgilio Sieni

ROMA EUROPA FESTIVAL Nudità, di Mimmo Cuticchio e Virgilio Sieni

(Teatro India – Roma, 13/18 novembre 2018)

Il fascino e la bellezza del dialogo tra un corpo e una marionetta. In scena insieme, Mimmo Cuticchio e Virgilio Sieni e i loro mondi che si parlano, camminano, si siedono, cadono, si voltano, si toccano e si sfiorano. È Nudità lo spettacolo in scena al Teatro India di Roma dal 13 al 18 novembre 2018 per il Roma Europa Festival, una produzione Compagnia Virgilio Sieni, Associazione Figli d’arte Cuticchio, con la collaborazione di Fondazione Romaeuropa. 

L’intesa e la corrispondenza tra Danza e Opera dei Pupi è unica. I due maestri hanno lavorato sull’anatomia della marionetta e sulle possibilità che il corpo del danzatore ha inglobare e far rivivere tecniche e azioni non umane. In scena marionetta e corpo, un incontro e un ascolto fatto di braccia, mani, gambe, busti, gesti e posture, scambiate e reinterpretate. E’ di fatto un incontro tre: due uomini ed un’anima di legno viva e cosciente. A darle respiro è il suo burattinaio che appare e scompare, ma che gioca solo apparentemente un ruolo secondario rispetto ad entrambi.

Chi segue l’altro? È il danzatore o la marionetta? Riprendendo i gesti l’uno dell’altro, entrambi si fermano, si guardano, si inginocchiano, rotolano a terra, si toccano, si distanziano. C’è un contatto ora forte ora accennato, nel gioco delle differenti dimensioni. All’inizio nudo e poi rivestito dell’armatura completa, il burattino si muove e racconta se stesso mentre Sieni ne placa l’impeto con un abbraccio dopo avergli preso delicatamente la spada e lo scudo, deponendoli a terra. Nell’ultimo quadro al finale ecco l’apparizione di un piccolo angelo di legno che sfiora il corpo a terra del danzatore, muovendo con dolore e fatica le sue braccia come ali spezzate, ferite.

Per la sua azione coreografica Sieni ha scelto una musica creata da Angelo Badalamenti, soffocata e minimalista, di grande impatto, ma la vera magia della creazione perfomativa sta nella sua semplicità e naturalezza, realizzata grazie alla genialità dei due artisti.

data di pubblicazione:21/11/2018

 

POLLOCK e la Scuola di New York

POLLOCK e la Scuola di New York

(Complesso del Vittoriano- Ala Brasini – Roma, 10 ottobre 2018/24 febbraio 2019)

In mostra al Vittoriano un piccolo assaggio delle opere più significative di un gruppo di artisti che, insieme a Jackson Pollock, formarono a New York una vera e propria scuola, con l’intento di sovvertire gli stilemi imposti dalle correnti pittoriche che, negli anni immediatamente a ridosso della seconda guerra mondiale, si erano concentrate principalmente a Parigi. I pittori di quella scuola, definiti “irascibili” per aver contestato la loro esclusione da parte del Metropolitan Museun of Art ad una collezione d’arte contemporanea, diverranno i protagonisti di un vero e proprio Espressionismo Astratto che porrà le basi di un movimento anticonformista, capace di influenzare la cultura moderna e post moderna fino ai giorni nostri.

Il visitatore che si accinge a ispezionare questa piccola raccolta proveniente dal Whitney Museum di New York rimarrà sicuramente un poco deluso per l’esiguità delle opere esposte che, pur offrendo un significativo esempio di ciò che identifica l’astrattismo, non soddisfano appieno l’emozione di colui che si trova per la prima volta ad incontrare Pollock, il più importante rappresentante di quella corrente artistica. Si potrà almeno accontentare di ammirare il suo celebre Number 27 del 1950, certamente più che indicativo per farci comprendere la nuova tecnica pittorica del dripping, che partendo dalla pittura automatica surrealista riesce a creare, con la colatura del colore, una serie di immagini spontanee che trovano spazio sulla tela affrancandosi dall’uso del cavalletto per trovare invece singolare sistemazione sul pavimento, pronta a ricevere la creatività dell’artista. Altro termine coniato “ad hoc” è action painting che vede il coinvolgimento di tutto il corpo dell’artista con il suo gesto danzante intorno alla tela, una sorta di percorso di ricerca dell’inconscio effettuato attraverso la stesura sgocciolata del colore sulla superficie.

La fortuna, non casuale, spingerà Pollock ad entrare nel circolo culturale che ruotava attorno alla collezionista Peggy Guggenheim che, finanziando l’acquisto del suo studio, contribuirà concretamente a renderlo una delle figure più rappresentative tra le varie correnti avanguardiste di quegli anni.

Il percorso espositivo ci fa incontrare altre figure della Scuola di New York tra le quali l’olandese Willem De Kooning che, pur rimandando ad una matrice realista, mira a rappresentare una visione deformata e violenta della stessa realtà e l’americano Franz Kline i cui lavori in bianco e nero sono il risultato di una certa “spontaneità studiata”, ossimoro per indicare che il suo dipinto spontaneo era in effetti scaturito da diversi disegni preparatori. L’attenzione viene comunque catturata da due importanti dipinti di Mark Rothko che forse un poco si discostano dal tema proposto: pur partendo da una ricerca sull’astrazione e sull’espressionismo, le sue opere si concentrano su grandi tele con pochi e intensi colori dove ogni piccolo dettaglio sembra rivolto ad una visione metafisica del reale, una sua personale proiezione verso la morte.

L’incidente mortale di Pollock nell’agosto del 1956, causato dal suo perenne stato di ebbrezza, segnerà come uno spartiacque da quella che poi verrà definita la cultura pop moderna: la sua fine sarà l’inizio di un nuovo modo di concepire l’arte basato sull’anticonformismo, l’introspezione psicologica e la sperimentazione spontanea. Stessi elementi questi che ritroviamo ad esempio nella musica jazz di quegli anni, una nuova forma musicale basata sull’improvvisazione collettiva degli interpreti che non seguono alcuno percorso ragionato.

La mostra, con il patrocinio della Regione Lazio e di Roma Capitale – Assessorato alla Crescita Culturale è stata organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con The Whitney Museum of American Art, New York e curata da David Breslin, Carrie Springer e Luca Beatrice.

data di pubblicazione:20/11/2018

CHESIL BEACH di Dominic Cooke, 2018

CHESIL BEACH di Dominic Cooke, 2018

Oxford, inizi degli anni Sessanta. Durante una conferenza pacifista sul disarmo nucleare Florence e Edward si incontrano: ricca e promettente violinista lei, modesto e promettente storico lui. Un amore a prima vista con il prevedibile epilogo nel tanto agognato matrimonio. I due sposi si amano molto solo che la prima notte di nozze, in un romantico albergo davanti l’immensa distesa di Chesil Beach, tra di loro qualcosa non funziona, compromettendo seriamente quella vita di coppia appena iniziata.

 

 

Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore inglese Ian McEwan, il film ci parla di due giovani che si amano profondamente ma che sono incapaci di affrontare con leggerezza anche il più innocente contatto dei loro corpi, a causa del condizionamento pesante che il contesto sociale puritano vigente in quegli anni ha sulle le loro vite. Come molti della loro età sono ignari che di lì a poco sarebbero finalmente saltati quei castranti tabù sessuali che avevano reso infelici intere generazioni, grazie all’esplosione di quella che fu definita una vera e propria rivoluzione culturale.

Il regista Dominic Cooke, ben noto in Inghilterra per le sue performances teatrali, con la sua prima regia cinematografica si cimenta portando sul grande schermo Chesil Beach, attenendosi fedelmente al testo nel rappresentare il dramma di Florence (Saoirse Ronan) e di Edward (Billy Howle). In quella prima notte di nozze la giovane Florence cercherà in tutti i modi di lottare con un inspiegabile senso di vergogna e persino di disgusto forzando il proprio corpo ad accettare qualcosa che sente come innaturale, pur di non deludere le aspettative del marito. Edward, al contrario, incapace di contenere l’impazienza per il suo primo approccio sessuale, è fortemente impacciato per paura di non saper gestire correttamente il contatto con il corpo della consorte. Entrambi, sopraffatti da un reciproco imbarazzo nell’affrontare il proprio dovere coniugale, manifestano da subito la loro inadeguatezza nel tentare di allentare quella palpabile tensione emotiva, non riuscendo a trovare le parole appropriate per evitare che la frustrazione di quell’atto mancato si tramuti in fallimento, il fallimento in amarezza, l’amarezza in rabbia per non essere riusciti ad interpretare in tempo ognuno il silenzio dell’altro.

I continui flashback a cui ricorre il regista aiutano lo spettatore ad inquadrare i differenti contesti sociali di provenienza dei due giovani sposi e a distogliere lo sguardo da quel nervosismo che paralizza il loro primo rapporto. Il film, che a tratti può risultare lento per l’assenza di veri e propri colpi di scena, si sofferma tuttavia giustamente sui personaggi che ruotano attorno ai due protagonisti, per aiutarci a comprendere quanto tutti fossero ancora molto restii ad accogliere quel vento di libertà che presto avrebbe soffiato su di loro.

La sceneggiatura, curata dallo stesso McEwan, si perde purtroppo sull’ultima parte rompendo l’incanto di quel finale sospeso, sia pur immaginabile, che era stato abilmente espresso dall’autore nel romanzo d’origine.

data di pubblicazione:19/11/2018


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NELLA GIUNGLA DELLE CITTÀ di Bertold Brecht, adattamento e regia di Alessandro De Feo

NELLA GIUNGLA DELLE CITTÀ di Bertold Brecht, adattamento e regia di Alessandro De Feo

(Teatro Trastevere – Roma, 15/18 novembre 2018)

Chicago anni Venti del secolo scorso, il ricco Shlink, immigrato orientale proprietario di una grossa fabbrica di legname, entra in una biblioteca e trascina in una lotta senza motivo l’impiegato di turno, il giovane George Garga. Il primo pretende di comprare le opinioni del secondo, sfidandolo fino a che questo non cede alla tentazione di accettare tutta l’azienda che il potente imprenditore gli offre. Il ribaltamento della condizione sociale che si determina scatena il dramma, che si estende a tutti coloro che gravitano intorno ai due personaggi fino alla soluzione finale, dove un terzo individuo, finora insignificante, si appropria dell’azienda del primo e della famiglia del secondo.

Quando Bertold Brecht scrisse questa opera il teatro epico era ancora lontano dall’essere teorizzato, ma già dietro questo dramma, composto quando l’autore aveva appena 23 anni, si trova espressa, chiaramente in forma ancora germinale, la domanda che stimolerà tutta la sua produzione a venire: può il teatro rappresentare la società? Questo testo è quindi un esperimento per Brecht, tanto che ci fu bisogno di una riscrittura sei anni dopo la prima pubblicazione del 1922. Fare teatro allora diventa un vero e proprio atto di coraggio: lo fu per l’autore alle prime armi e lo è ancora oggi per questa compagnia in scena fino a domenica nel piccolo teatro di Trastevere e lo è per lo stesso teatro che ha scelto di mettere in cartellone il titolo. Coraggio e passione muovono questa messa in scena, povera e essenziale, perché il teatro si fa anche con i vestiti e gli oggetti che troviamo in cantina o buttati negli armadi, e l’impatto è straordinario e lascia ammirati. Brecht in fondo proponeva un teatro altro che fosse capace di staccarsi dallo sfarzo e dall’ingente impiego di mezzi che le grandi produzioni anche all’epoca richiedevano. La magia sta proprio nello scoprire in questi teatri “minori” e quasi sconosciuti compagnie di attori che sperimentano con dignitoso gusto testi antichi che altrimenti rimarrebbero incastonati nelle pagine polverose di un libro e di questi si deve lodare lo sforzo, genuino e sincero, che si legge nelle membra tese del corpo, nella concentrazione dello sguardo, nel sudore, vero, che cola dalla fronte.

Nella giungla delle città non è testo facile da rappresentare né da seguire, quello che si narra non è altro che una lotta immotivata tra individui che nella stessa società ricoprono differenti e opposti ruoli, ma sicuramente arricchisce di nuovi concetti la nostra esperienza e rende i piccoli teatri come questo luoghi dove vale la pena ogni tanto di andare a trascorrere una piacevole e costruttiva serata.

data di pubblicazione:16/11/2018


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MOBIDIC di Karl Weigel, regia di Massimo De Rossi

MOBIDIC di Karl Weigel, regia di Massimo De Rossi

(Teatro Vittoria – Roma, 8/18 novembre 2018)

Terrorista, uomo di teatro, millantatore? Il protagonista dà vita a un incubo ragionato con presenza femminile, cantante e danzante.

Non Moby Dick ma Mobidic a causa di un’importante doppia citazione nei 90 minuti della pièce ma senza alcun filo logico-temporale con l’opera di Melville se non la fascinazione di quel testo quasi sacro, metafora dell’esistenza. Lo spettacolo aspira alle vette della poesia e del lirismo, le sfiora ma non le raggiunge. C’è poca azione e dunque l’ampio scenario teatrale (teatro nel teatro) deve essere per forza movimentato nel gioco della conoscenza tra il protagonista e la sfortunata cassiera, rimasta prigioniera del suo improvvisato carceriere. Prova d’attore per De Rossi. Terrorista posticcio, colpito da un’amnesia dissociativa che gli ha fatto perdere la memoria e il senso della realtà. Ma la dissociazione è reale o simulata? Questo è un dubbio che circola nello spettacolo e che deve essere sostenuto dall’interpretazione della giovane libellula spaurita Roberta Anna a cui spetta il difficile compito di deuteragonista spaesata e cangiante. Prima sospettosa, poi, quasi improvvisamente, solidale e premurosa, forse in ragione anche di qualche bicchiere di troppo. Il suono di una sirena rompe il lungo sequestro di una notte. Si valorizza la filosofia dell’attimo. L’attimo in cui si perde la memoria, l’attimo in cui si sfiora l’accarezzante idea del suicidio (non portata a termine). La scena appare a volte troppo grande, troppo disseminata di sedie e la musica (il ballo) sembrano quasi un pretesto di riempimento perché la parola non risulti troppo tesa e invasiva. Teatro tradizionale che affonda le proprie radici nella forza del testo più che nel gesto anche se le coloriture di De Rossi sono ammirevoli rispetto anche alle reazioni di un pubblico un po’ spaesato. Il Professore smemorato è uno che dimostra di saperla lunga. Curiosa la ripresa di un fatto realmente accaduto, sfruttato per un impianto teatro solenne e ambizioso.

data di pubblicazione:16/11/2018


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ZERO UNO INFINITO di Mario Fiorentini e Ennio Peres – Iacobelli editore, 2018

ZERO UNO INFINITO di Mario Fiorentini e Ennio Peres – Iacobelli editore, 2018

Per caso è di vostra conoscenza uno scrittore-matematico che abbia già compiuto cento anni? Il miracolo di lucidità e di intatta capacità pubblicistica è di Mario Fiorentini che ha scritto un pezzo di storia d’Italia da partigiano e ora, celebratissimo, firma con il rinomato giocologo Ennio Peres, un agile e stimolante volumetto che è utile esercizio per la mente oltre che ripasso di alcune nozioni rimosse da molti italiani rispetto al periodo scolastico. Gli obiettivi conclamati del testo sono evidenti: fornire uno strumento gioco e creativo per invogliare i lettori di qualsiasi età allo studio della matematica (materia comunemente, ma a torto, considerata ostica e arida); offrire una serie di spunti stimolanti per riuscire ad approfondire, operando su problemi pratici, la potenzialità degli strumenti matematici. Cibo per la mente ma apprezzabile anche dai profani della materia. Fiorentini è stato professore di geometria superiore all’Università di Ferrara per 25 anni e ha studiato da autodidatta la matematica fino a raggiungere la sospirata laurea. Proprio questo percorso dal basso gli ha ispirato la praticità e il contatto con la vita di tutti i giorni, respirando senso comune e divertimento, nella stesura del libro in combinato disposto con Peres che invece è autentico specialista dell’enigmistica oltre che un pezzo di storia della sinistra italiana. La creatività e la fantasia alimentata dal gioco sono un utile antidoto all’azzardo e alle sue seduzioni. Il punto d’arrivo di molti degli esercizi presentati è sorprendente e Peres ne ha dato una prova al quartiere Esquilino proprio nel giorno di una festa dedicato al compleanno in tripla cifra di Fiorentini, nell’occasione impossibilitato a intervenire per un comprensibile stress da festeggiamento. Una cultura scientifico-matematica certo non contribuisce a risolvere i problemi del Paese ma è una gradevolissima consolazione personale per i cultori della materia, in gran parte lettori dell’immarcescibile Settimana Enigmistica, la rivista che coltiva con orgoglio le centinaia di tentativi di imitazione.

data di pubblicazione:16/11/2018

VA PENSIERO ideazione e regia  di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari

VA PENSIERO ideazione e regia di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari

(Teatro Argentina – Roma, 13/19 novembre 2018)

Una rappresentazione corale e sociale per raccontare l’Italia vista nel suo disagio ma anche nella speranza di un possibile risorgimento. È Va Pensiero, il nuovo spettacolo del Teatro delle Albe, una drammaturgia di Marco Martinelli, che condivide l’ideazione e la regia con Ermanna Montanari, realizzato in coproduzione con ERT ed in scena al Teatro Argentina di Roma dal 13 al 19 novembre.

 

Il testo si ispira ad un fatto di cronaca: siamo all’inizio degli anni 2000 e un vigile urbano di una piccola città dell’Emilia Romagna si fa licenziare pur di mantenere la propria integrità di fronte agli intrecci di mafia, politica e imprenditoria collusa.

Un coro di attori ed un coro di voci (a Roma la Corale Polifonica Città di Anzio) che cambia in ogni contesto in cui lo spettacolo viene rappresentato, che testimoniano l’esigenza di far esplodere la voce del popolo, prigioniero di sottosistemi collusivi, di paure e di sfiducia nelle Istituzioni, che deve ritrovare la forza di rompere la rete che lo opprime. Ed il riferimento all’Italia risorgimentale ed all’opera di Verdi ed al Nabucco in particolare, con la sottomissione degli ebrei da parte dei babilonesi, conferisce alla narrazione una riflessione storica di spessore.

Un lunghissimo lavoro di ricerca, raccolta di testimonianze e documentazione partendo dalla vicenda di Donato Ungaro, l’ex vigile urbano di Brescello. Nella storia c’è un sindaco (Ermanna Montanari) che spesso ripete che la legge è sopra ogni cosa per poi mettere sopra la legge i suoi interessi personali. La Zarina, come viene definita dai suoi concittadini, ha vinto le elezioni diventando primo cittadino proprio come era il volere del padre, sindaco prima di lei. Vincenzo Benedetti (interpretato da Alessandro Argnani) torna in paese e diventa vigile urbano e giornalista mosso da nobili intenzioni, convinto dell’utilità e dell’importanza del suo lavoro. Si trova però a dover fronteggiare un sistema di poteri a lui sconosciuto.

Emergono così le losche figure dell’ufficio stampa del comune (Roberto Magnani), dell’imprenditore legato alla ‘ndrangheta (Ernesto Orrico), Rosario e Maria (Salvatore Carusoe Tonia Garante), gelatai in esilio per scappare alla camorra, un piccolo imprenditore locale (Alessandro Renda) che cambia idea di fronte ai soldi. Non tutti capiscono ciò che succede, oppure fanno finta di non vedere come la segretaria del sindaco (Laura Readaelli), o l’amico d’infanzia della Zarina (Gianni Parmiani) che non può credere alla presenza della mafia.

Un spaccato del sottobosco velato del nostro Paese, ma anche una speranza di presa di coscienza da parte di tutti per guardarsi dentro e ritrovare il senso delle parole giustizia e democrazia.

Va pensiero è anche una grande opera artistica: straordinari gli attori, le atmosfere, i tempi.

Il Teatro delle Albe evoca ancora una volta la cultura come portavoce di un dramma e di un dolore, portando sul palco la difficoltà o l’incapacità del popolo, per poi trasformarlo in coscienza e desiderio di rinascita.

data di pubblicazione:15/11/2018


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