CARMINE STREET GUITARS di Ron Mann Canada, 2018

CARMINE STREET GUITARS di Ron Mann Canada, 2018

All’incrocio tra Carmine Street con Bleecher Street, nel cuore di un Greenwich Village, sempre più turistico, sopravvive una piccola bottega artigiana, a prima vista un negozio di chitarre, che ci racconta piccole storie e amore per la musica.  É il  Carmine Street Guitars  gestito dal 1990 da un dolce artigiano, che realizza casse e manici dei suoi pezzi  unici con legname antico,  che lui chiama “le ossa di New York”, recuperato da edifici dismessi della città: alberghi, bar, persino chiese. Ron Mann, il regista,”entra” per cinque giorni nella vita del negozio di Rick Kelly, ricco di aneddoti, personaggi e tante chitarre.

 

Se già una fabbrica di chitarre tra le più famose nel mondo, pensate alla Gibson o alla  Fender, è quasi un laboratorio artigianale, seppure organizzato a modo di catena di montaggio per adeguarlo a grandi produzioni (la sola Gibson a Nashville realizza seimila chitarre all’anno), immaginate cosa possa essere la piccola impresa di Rick Kelly e della sua giovane e biondissima assistente Cindy Hulej, nei 300 metri quadri di Carmine street! Si tratta di una bottega laboratorio, gestita da sole tre persone: Rick e Cindy, già menzionati e la vecchia e arzilla “mom” di Rick, telefonista e contabile, dove regna sovrano un apparente disordine. In quello spazio, si realizzano pezzi unici  di bellissime chitarre per musicisti, ma anche si riparano o ritoccano o modificano  quelle degli affezionati clienti. E che clienti..! Nei cinque giorni, ripresi senza fronzoli velleitari dalla cinepresa del regista, si alternano alcuni dei migliori chitarristi della scena  rock, jazz e country, contemporanea, oltre ad  appassionati più o meno famosi. Non potendoli ricordare tutti, vediamo presentarsi nel negozio, Bill Frisell e Marc Ribot che ci deliziano, provando i raffinati strumenti o chiacchierando amabilmente di legni o di un Village che va scomparendo, Christine Bougie (Bahamas) che non si limita a provare una chitarra , ma canta  una dolce ballata, come pure Eleanor Friedberger. Ancora, fra gli altri, si affacciano Nels Cline che vuol regalare una chitarra speciale al leader della sua band (Wilco), Jeff Tweedy che ha perso da poco il padre (e prenderà la preziosa Mc Sorley,  appena realizzata da Rick col legno datato 1854 della più antica birreria di New York), Charlie Sexton della band di Dylan e Jaime Hince dei Kills. Interessante è il dialogo con Jim Jarmush (che ha prodotto il docufilm), cui molto deve lo stesso Rick in quanto fu il regista, anni prima, a regalargli i primi  preziosi legni antichi che diedero l’idea del laboratorio.

Inutile dilungarsi: il film è un susseguirsi di chiacchiere intelligenti (sul perché Rick ama le Fender, sulle qualità del palissandro, sulla speculazione edilizia al Village), di test su chitarre, di musica acustica o elettrica ad alto livello, di tante cose che rendono questo piccolo documentario una chicca imperdibile per appassionati e non.

Al regista Ron Mann, canadese autore eclettico che passa con grande disinvoltura dal Jaz (Imagine the Sound), ai fumetti, (Comic Book Confidential), va il merito non da poco di aver saputo rappresentare al meglio, in un’ora e mezzo, questa piccola oasi di sogni e semplici  emozioni al centro della città, culla del più sfrenato consumismo. Non sappiamo quante possibilità avremo di vedere questo piccolo gioiello sugli schermi delle nostre città (la miopia e l’inerzia dei distributori nostrani è  notoria), ma se così non fosse cercate di  non perderlo: ne vale assolutamente la pena!

data di pubblicazione:06/09/2018








22 JULY di Paul Greengrass, 2018

22 JULY di Paul Greengrass, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Il 22 luglio 2011 l’estremista di destra Anders Behring Breivik in un duplice attentato in Norvegia uccide 77 persone innocenti. Il primo atto terroristico con una autobomba in piena Oslo davanti al palazzo del primo ministro, il secondo, circa due ore dopo, sull’isola di Utoya quando, travestito da poliziotto, spara su dei ragazzi inermi che partecipavano ad un campeggio estivo organizzato dal partito Laburista Norvegese. Praticamente il più cruento attacco criminale che il paese dovrà subire senza poter affrontare con la necessaria tempestività le conseguenze di un gesto folle, ideato da una mente folle con la lucidità e la determinazione che caratterizzano un’impresa terroristica di questa portata.

 

Il film di Paul Greengrass, regista inglese che ha portato sul grande schermo fiction di grande calibro nonché storie tratte da avvenimenti reali tra cui Bloody Sunday, con il quale nel 2002 vinse l’Orso d’Oro a Berlino, e Captain Phillips-Attacco in mare aperto con il quale nel 2013 ottiene 6 Nomination agli Oscar con Tom Hanks come protagonista. Il lavoro si basa sul libro della giornalista Asne Seierstad Uno di noi che raccoglie la diretta testimonianza di un superstite alla strage seguendo il suo racconto minuzioso prima e durante il processo contro il killer, quest’ultimo interpretato in maniera egregia dall’attore e musicista norvegese Anders Danielsen Lie. Non è la prima volta che la strage di Utoya viene presentata al cinema dal momento che nell’ultima edizione della Berlinale era stato proposto al pubblico U-July 22 del regista Erik Poppe, 72 terribili minuti di piano sequenza cadenzati dai colpi di fucile con cui il terrorista dava la caccia ai fuggitivi. I due film quindi affrontano lo stesso soggetto ma da due angolazioni completamente differenti. Mentre nel film di Poppe lo spettatore condivide con i protagonisti quei momenti di terrore lasciandosi coinvolgere emotivamente vivendo quasi insieme alle vittime ogni istante della strage, mentre la figura del terrorista si intravede appena in un fotogramma, 22 July di Paul Greengrass, presentato in concorso a Venezia, pone in risalto la personalità di colui che organizza l’attentato e soprattutto esamina le motivazioni politiche che lo hanno spinto a organizzare la carneficina. Greengrass stesso afferma che, partendo dall’idea che le vicende del mondo vanno osservate con coraggio per poterle meglio affrontare, con il suo lavoro intende raccontare di quei fatti che sconvolsero l’intera opinione pubblica norvegese lasciando nei sopravvissuti ferite materiali e psicologiche inguaribili.

Tuttavia, al contrario del film di Poppe, decisamente adrenalinico, 22 July di Paul Greengrass pur essendo bene interpretato, soffre di momenti di pura retorica inducendo il pubblico ad abbandonarsi a minuti di noia nonostante si tratti di un action politico che di per sé dovrebbe essere alquanto movimentato.

data di pubblicazione:06/09/2018







VOX LUX di Brady Corbet, 2018

VOX LUX di Brady Corbet, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Venezia 2018 documentari belli e strutturati come film dautore e film dautore strutturati come documentariÈ il bello della Mostra. Così può infatti apparire, a prima vista, Vox Lux di Brady Corbet. una pellicola inizialmente sgranata, una voce narrante (la splendida voce di W. Dafoe), macchina a mano, e poi la narrazione ripartita, dopo un prologo, in sezioni riferite agli anni presi in esame per le vicende narrate.

Il giovanissimo autore, l’americano B. Corbet, appena trentenne è già quasi un mostro sacro in quanto apprezzato talento sia come attore sia come regista fin dal suo primo esordio dietro alla macchina da presa con L’Infanzia del capo, premiato proprio qui a Venezia nella sezione Orizzonti nel 2015, e si concede autorialmente questo vezzo per affrontare senza inibizioni l’appuntamento con la sua opera seconda in concorso al Festival. L’avvio semidocumentaristico di cui dicevamo è infatti lo spunto per il regista per concentrarsi sugli ultimi venti anni, dal 1999 al 2017, illustrando gli eventi che hanno segnato definitivamente il nostro modo di vivere e pensare e che hanno inciso e modificato per sempre i comportamenti sociali e culturali del Mondo Occidentale in senso lato. Come ha dichiarato in conferenza stampa lo stesso regista: “il suo è un racconto sulla sindrome post-traumatica dell’Occidente, una riflessione sull’ansia collettiva che ci caratterizza ormai tutti… e… sull’intreccio fra cultura pop, spettacolo e violenza…”

Lo spunto narrativo interessante è la vicenda della giovane Celeste (Raffey Cassidy, da adolescente, e poi Natalie Portman, da adulta) sopravvissuta alle ferite riportate durante una strage nella scuola ove studiava e divenuta poi, quasi inconsapevolmente, una pop singer conosciuta ed idolatrata in tutto il mondo, aiutata dalla sorella (Stacy Martin) che, in effetti è la vera autrice dei testi e delle musiche. Metaforicamente, come la nostra Società anche Celeste subisce una trasformazione, e da dolce, ingenua, pulita e sincera ragazza la ritroviamo, passato un decennio, ormai divenuta una donna cinica, dura, indifferente ed egoista, una star violenta, irrispettosa e priva di affetto per la figlia e preoccupata solo per la sua carriera, un essere privo di riconoscenza anche verso la sorella che sempre l’ha sostenuta in tutte le sue vicende umane ed artistiche. Celeste è, secondo il regista, tutta la nostra Società che, persa ormai definitivamente la propria innocenza, in una sorta di sindrome post trauma, vive ormai cinicamente in un alternarsi umorale con la dura realtà che è costretta ad affrontare. Due anni dopo Jackie e lo splendido Il cigno nero del 2008, torna sugli schermi di Venezia una bravissima ed autorevole N. Portman nei panni di Celeste allorché è divenuta ormai una Star tanto brava, quanto disperata e sgradevole. Nel film l’attrice canta e balla su musiche composte da una cantante pop australiana e si conferma splendida interprete sia nella recitazione sia nelle parti coreografiche, con lei anche un buon Jude Law nel ruolo del suo agente. Sembra tutto perfetto, ottimo regista, ottimi interpreti, ottimi coprotagonisti, soggetto interessante… ma … ma il risultato è un film discontinuo. Sembra che qualcosa si sia perso strada facendo. L’opera è bella, ben recitata, ben diretta, ma è come priva di anima e vita, manca una vera passione ed il risultato sembra quasi didascalico…”ecco quel che volevamo rappresentare…”. Anche questo film quindi è un film di un valido autore, ma proprio per questo non basta essere “più che sufficienti”, ci si aspettava decisamente qualcosa di più.

data di pubblicazione:05/09/2018







WERK OHNE AUTOR di Florian Henckel von Donnersmarck , 2018

WERK OHNE AUTOR di Florian Henckel von Donnersmarck , 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Sin da bambino Kurt Barnert aveva deciso che nella sua vita si sarebbe occupato solo di arte, ed in particolare della pittura, anche se il suo primo impatto con essa fu visitando una mostra a Dresda di pittori contemporanei. I lavori esposti saranno poi definiti dal nascente nazionalsocialismo come “Arte Degenerata” in quanto considerata frutto di menti malate che distorcevano i principi stessi dell’opera classica a vantaggio di idee riprovevoli e fuorvianti. Il film è il percorso artistico di Kurt Barnert, che lo vede attraversare diverse fasi: dapprima al servizio dell’ideologia comunista dopo la caduta del nazismo, successivamente a contatto con le avanguardie postmoderne, fino ad approdare alla maniera espressiva a lui più consona che consistette nel rappresentare ciò che in quel momento della sua vita considerava di più autentico.

Il film presentato oggi in concorso a Venezia vuole esplorare su cosa spinge l’uomo a ricercare la propria identità artistica, e lo fa essenzialmente attraverso la storia d’amore dei suoi protagonisti Kurt (Tom Schilling) e Ellie (Paula Beer) e il percorso di formazione che li legherà indissolubilmente per tutta la vita; sullo sfondo inizialmente le crudeltà del nazismo, con le sue aberrazioni che non sembrano aver fine anche molti anni dopo, quando tutto sembra oramai sepolto dai nuovi slanci di democrazia. A tutto questo sopravvive l’arte che di per sé racchiude uno dei più grandi enigmi dell’umanità dal momento che sfugge a qualsiasi formula precostituita e nello stesso tempo però riesce sempre a suscitare in chi ne fruisce emozioni uniche ed indescrivibili.

Il film ripercorre una parte della storia tedesca, dalla guerra alla distruzione post nazista, alla ricostruzione, fino ad arrivare alla Repubblica Democratica Tedesca e alle sue fanatiche ideologie di stampo sovietico. In questo contesto si innesta la storia d’amore di due giovani che sembrano non aver paura di quello che si sviluppa intorno a loro, soprattutto delle esecrabili azioni del padre della ragazza privo di qualsiasi scrupolo verso tutti, persino verso la sua stessa figlia pur di difendere l’idea perversa della purezza della razza.

I 188 minuti di proiezione, questa è la durata del film, scorrono in un attimo tanto appassionante è la storia e tanta è la bravura degli attori. Tra questi Sebastian Koch, nella parte del cinico Professor Carl Seeband, già presente tra l’altro nel film Le Vite degli Altri, opera prima del regista Florian Henckel von Donnersmarck del 2006 premiato agli Oscar come miglior film straniero e che ottenne anche tre European Film Awards, sette German Film Awards, il BAFTA e il David di Donatello. La fotografia è curata da Caleb Deschanel, più volte nominato agli Oscar, che ha recentemente diretto alcune puntate della serie TV Twin Peaks.

Nella stesura della sceneggiatura il regista ha trovato ispirazione nell’opera di Gerhard Richter, dal quale ha appreso quanto basta per portare sullo schermo l’idea del potere universale dell’arte, dal momento che ogni opera che si rispetti non ha bisogno del suo autore ma appartiene a tutti senza identificarsi con il soggetto specifico che l’ha creata.

Il pubblico in sala ha manifestato entusiasmo e, secondo chi scrive, non ci sarebbe da meravigliarsi se Werk ohne Autor vincesse il Leone.

data di pubblicazione:05/09/2018








AT ETERNITY’S GATE (ALLE PORTE DELL’ETERNITÀ) di Julian Schnabel, Venezia 2018

AT ETERNITY’S GATE (ALLE PORTE DELL’ETERNITÀ) di Julian Schnabel, Venezia 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Dio è natura, e la natura è bellezza in queste parole pronunciate da Van Gogh (W. Dafoe) è riassunto tutto il significato e la vera chiave di lettura con cui il cinquantenne e talentuoso regista americano J. Schnabel ha inteso rappresentare il rapporto con la natura del pittore olandese negli ultimi tormentati ma anche fruttuosi anni della sua vita. Anni spesi tutti fra le campagne di Arles nel sud della Francia, alla ricerca ossessiva della giusta luce e del giusto sole per i suoi paesaggi, fra gli incontri scontri con Gaugin e fra continui ricoveri e dimissioni dal nosocomio di Saint Remy.

 

Schnabel si è affermato giovanissimo con un film su un altro pittore maledetto, Basquiat nel 1998, ha poi vinto ai festival di Venezia e di Cannes fino all’Oscar come migliore regista nel 2008 con il suo Lo scafandro e la farfalla. Appassionato ed apprezzato pittore oltre che regista, l’autore ci racconta, con cognizione di causa e dichiarata empatia, tutte le difficoltà dell’essere pittore, del dipingere la Natura, la ricerca dell’attimo di follia sottostante l’esplodere della scintilla creativa/artistica. Come da sua dichiarazione resa durante il Festival, il suo intento era proprio di centrare il suo racconto sul “significato e sul tormento dell’essere artista”. Il film può quindi essere tutto qui, non siamo però davanti ad un classico biopic, anzi siamo ben lontani, forse anche per qualità, da quelli che lo hanno preceduto: Brama di vincere del 1956 di V. Minnelli, con un indimenticabile K.Douglas, e dal più recente Vincent e Theo del 1998 di R. Altman, e poi ovviamente, lontanissimi dalle tante produzioni più o meno divulgative od artistiche sul pittore olandese che unitamente al nostro Caravaggio, per drammaticità delle loro vite, per l’eccezionalità della loro Arte e per l’amore degli appassionati, condivide il record di essere al centro di innumerevoli documentari o fiction in tutto il mondo.

È quindi proprio e solo sulla vicenda dell’essere artista di Van Gogh che si sofferma il regista cercando di renderci con passione e partecipazione gli aneliti della sua anima, la sua sensibilità, l’affannosa ricerca creativa, la complessità ed il tormento della sua fragile personalità. Schnabel si fa però prendere proprio da questa sua passione, da questa sua empatia, tenta di trasmetterci quanto prova l’artista, ed ecco allora che la macchina da presa viene volutamente usata quasi come un pennello, quasi a voler restituire allo spettatore la follia visionaria del pittore. Abbondano quindi primi piani prolungati, ci sono inquadrature sfuocate, dissolvenze, camera a mano che accompagna l’artista nel suo camminare, quasi pellegrino, fra le campagne ed i boschi alla ricerca dell’attimo e dell’apparizione del Paesaggio, dell’Infinito e dell’Eternità. Ne risulta così, a tratti, quasi danneggiata anche l’intensa e vibrante interpretazione di W. Dafoe, supportato da un pregevole cameo di una splendida E. Seigner. Purtroppo questo eccesso di mentalismo e le contraddizioni di cui sopra rallentano ed appesantiscono il giusto ritmo del film ed incidono fin troppo sul modo di raccontare, riducendo brio ed incisività. Dunque, uno Schnabel sempre autoriale e buono, ma molto lontano dalle eccellenze cui ci eravamo un po’ abituati.

data di pubblicazione:04/09/2018








LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO di Emanuele Scaringi, Italia 2018

LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO di Emanuele Scaringi, Italia 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Il film, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, segna la regia dell’esordiente,Emanuele Scaringi, ma deve molto, almeno come idea di partenza, a Zerocalcare (al secolo Michele Rech) autore della graphic novel che ha ispirato la storia e collaborato alla sceneggiatura (con Valerio Mastandrea e Oscar Glioti). La pellicola è la storia del ventisettenne Zero, disegnatore di belle speranze che vive nel quartiere di Rebibbia, arrabattandosi con piccoli lavoretti di sostegno. A casa trova la sua coscienza critica nei panni di un surreale armadillo che lo tiene con i piedi per terra con i suoi consigli. La svolta nella sua vita avverrà in occasione della notizia della morte della sua giovane “vecchia amica” Camille, suo amore adolescenziale, che lo porrà difronte alle scelte importanti della vita.

 

Non saprei dire se i tantissimi appassionati dei fumetti di Zerocalcare hanno ritrovato nella versione cinematografica de La Profezia dell’Armadillo le stesse suggestioni della graphic novel, ma circoscritta al nuovo cinema italiano rivolto ai millennials, il film di Scaringi si presenta come operina fresca e di facile fruizione seppure non banale e, pregio non poco, mai volgare o compiaciuta. Il racconto scorre agile, alternando momenti di autentico divertimento ad altri più tristi e meditativi. Non era facile trasportare sullo schermo il diario a fumetti di Zero, ma l’operazione può dirsi parzialmente riuscita. Deve i suoi principali meriti alla buona sceneggiatura sottostante, ad un commento musicale robusto ma congruo (da Joe Strummer a Boris Vian, da Paradiso ai The Rapture) e, in special modo, ad uno stuolo di attori in ottima forma e mai sopra le righe, normale difetto di molte pellicole nostrane. In particolare, il protagonista, impersonato da Simone Liberati, trentenne attore di Ciampino, è impareggiabile nel mostrare fobie, tic ed idiosincrasie di Zero, ma è ben coadiuvato da altri giovanissimi di talento: l’amico “il secco” Slim (Pietro Castellitto), la dolce Camille (Sofia Staderini). In ruoli da adulti ritroviamo la delicata Laura Morante (la madre imbranata del protagonista), l’armadillo (Michele Aprea, irriconoscibile nella sua imbragatura) e due sportivi famosi: Vincent Candela (il padre di Camille) e Adriano Panatta in un divertente cameo autoreferenziale. Dunque, un buon esordio e certamente, nello stanco panorama nostrano, un’opera intelligente e vivace che piacerà certamente a giovani e giovanissimi (in fondo parla dei loro problemi!), ma che ha tutte le caratteristiche per farsi apprezzare anche da un pubblico più esigente.

data di pubblicazione:04/09/2018








MONROVIA, INDIANA di Frederick Wiseman, 2018

MONROVIA, INDIANA di Frederick Wiseman, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Frederick Wiseman, a torto o a ragione è considerato attualmente uno dei registi storici della documentaristica. Con un passato da laureato in legge (ha anche insegnato alla Boston University) e qualche anno trascorso fra le forze armate e variegate esperienze parigine, dopo il rientro negli Stati Uniti, si fece notare con il suo primo lungometraggio World Cool che segnò l’inizio di una importante carriera.

A Venezia lo ricordiamo per il premio alla carriera nell’edizione 2014 e per l’appassionato Ex libris-The New York Public Library del 2017, viaggio all’interno della biblioteca pubblica della Grande Mela, fondamentale spazio per la vita culturale e la stessa coesione sociale dei newyorkesi. Col suo Monrovia,Indiana ci racconta la vita quotidiana di un piccolo centro agricolo dell’America più profonda.

 

Diciamolo subito, non è solo la durata del documentario (143 minuti), peraltro eccessiva, ma l’intera operazione a lasciare perplessi. Il ritmo è decisamente lento persino per la tipologia dell’opera, alcune scene si prolungano oltre il dovuto mettendo a dura prova la resistenza di un pubblico pur appassionato ai confini del masochismo. Ciò premesso, è evidente che l’idea di partenza era valida, come è giusto riconoscere diversi spunti di interesse; il regista, infatti, mostra non solo la realtà sociale ed economica di uno stato non ricchissimo, ma intende soffermarsi sui valori stessi che permeano quel tipo di realtà: doveri, vita religiosa, una certa autenticità, spesso messi a confronto con altri stereotipi decisamente contrari nella stessa società americana.

Quindi, il film ci mostra nelle oltre due ore uno spaccato della vita quotidiana di Monrovia, eretta a campione di una faccia dell’America contemporanea meno nota, rappresentata in tutti i suoi molteplici aspetti. Wiseman sostiene la tesi che la forza e le contraddizioni di questa società non sempre sono state apprezzate o comprese dalle grandi città della East e della West Coast americana. Nelle parole del regista le motivazioni primarie per il suo ultimo lavoro:

“Ho pensato che un film incentrato su una piccola comunità rurale del Midwest sarebbe stato il giusto corollario alla serie che ho realizzato sulla vita americana contemporanea. Monrovia, nello Stato dell’Indiana, mi ha affascinato per le sue dimensioni (1400 abitanti), la sua ubicazione (non avevo mai diretto un film nel Midwest rurale) e gli interessi culturali e religiosi condivisi dalla comunità locale”.

La coraggiosa scelta del regista ha comunque il merito non da poco di sollevare il velo su un altro aspetto della vita americana più recente, ovvero, lo spopolamento di tante aree del Paese e aver scelto un piccolo centro con poco più di mille abitanti, come pure il rigore con cui ha trattato la materia, testimoniano del suo impegno.

data di pubblicazione:04/09/2018







ACUSADA di Gonzalo Tobal, 2018

ACUSADA di Gonzalo Tobal, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Dolores, studentessa della buona borghesia di Buenos Aires, non si fa mancare niente e vive agiata e libertina  fino al brutale assassinio della sua migliore amica. Due anni dopo, però, è l’unica sospettata di un crimine che catalizzerà in modo morboso l’attenzione mediatica, sottoponendo la giovane e tutta la sua famiglia ad una condizione di stress eccessivo. Dolores si prepara al processo trascorrendo le sue giornate, quasi segregata con i genitori e un importante avvocato che preparano la sua difesa, reclusa nella propria casa mentre i genitori fanno di tutto per difenderla. Ma quando  la data del processo si avvicina, la tensione cresce e  nella famiglia   affiorano nuovi sospetti e segreti mai rivelati prima. La stessa Dolores, con la sua fragilità, metterà a rischio l’esito stesso del processo.

  

É lo stesso regista ad offrire una chiave di lettura del film, in concorso a Venezia, che ha registrato una buona accoglienza nella sala Darsena in occasione della prima. “Come spettatore, sono vittima di un senso di inquietudine costante in presenza dei delitti atroci che la cronaca nera di continuo ci offre: un interrogativo che riguarda la natura umana delle persone vere coinvolte in esperienze in cui il confine tra pubblico e privato è offuscato dalla violenza”, Acusada è allora sia un giallo perché ne ha alcune  delle caratteristiche precipue (i dubbi sulla colpevolezza o meno della protagonista e una discreta tensione), ma è soprattutto un ritratto socio-psicologico di tutto quello che a fronte di un crimine coinvolge quanti si trovano a viverlo, principalmente familiari, amici della presunta colpevole (nella fattispecie), quelli della vittima, legali e media che cavalcano l’onda dell’audience che ogni fatto delittuoso inevitabilmente si porta dietro.

Precisando che Acusada non è film indimenticabile, ha comunque alcune frecce al suo arco: una interessante sceneggiatura (dello stesso Tobal con Ulises Porra Guardiola), una  buona fotografia (Fernando Lockett), uno stuolo di ottimi attori  su tutti Daniel Fanego, Ignacio, il padre), sia nei ruoli degli adulti sia in quelli dei giovani (in particolare, l’intensa Lali Esposito), azzeccati inserti musicali (pop e classica) a sottolineare o smorzare i momenti più drammatici. In cosa difetta  allora  la pellicola di Tobal? Evidentemente nel ritmo che presenta diverse fasi di stanca, ritmo che in ultima analisi relega un film di ottime potenzialità a livello di onesto artigianato. Mi viene da pensare a cosa poteva essere una trama del genere nelle mani di cineasti USA…

data di pubblicazione:04/09/2018







WHAT YOU GONNA DO WHEN THE WORLD’S ON FIRE? (CHE FARE QUANDO IL MONDO E’ IN FIAMME?) di Roberto Minervini, 2018

WHAT YOU GONNA DO WHEN THE WORLD’S ON FIRE? (CHE FARE QUANDO IL MONDO E’ IN FIAMME?) di Roberto Minervini, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Abbiamo visto il secondo film italiano in concorso a questa 75ma Mostra del Cinema di Venezia le cui proiezioni sono state accolte tutte con calorosi consensi dal pubblico presente. Roberto Minervini è ormai un apprezzato autore, già affermatosi e distintosi con Ferma il tuo cuore in affanno del 2013 e soprattutto con il durissimo Louisiana del 2015 presentato a Cannes nella sezione un certain regard.

Con quest’ultima sua opera il nostro regista ci parla appassionatamente e coinvolgentemente della diseguaglianza e del razzismo nell’America Nera negli stati del profondo sud. Un quadro preciso ed intenso, a tratti, impietoso, ingentilito solo da un meraviglioso bianco e nero, sulla comunità afro-americana dei dintorni di New Orleans, la cui esistenza è segnata quotidianamente dalla violenza, delle discriminazioni raziali, dalla povertà ineludibile e dalla brutalità gratuita della polizia. Un film sicuramente di denuncia, ma anche un film dolce, violento, appassionato e pungente che illustra tre vicende umane emblematiche. Minervini che si era affermato inizialmente come fotografo poi come reporter, mantiene ancora questo suo approccio professionale di testimoniare direttamente ciò che rappresenta nelle sue opere, difatti ha vissuto a lungo nel 2017 con la comunità presa in esame, entrando e vivendo lui stesso la stessa quotidianità documentata, da qui la forza e l’intensità profonda e partecipativa delle sue analisi. La cinepresa è lasciata libera di riprendere la vita con lunghi piani sequenza, registrando la vita, la collera, l’impegno e le stesse riflessioni degli uomini e delle donne che ha incontrato e ripresi. Ne risulta un lavoro che va ben oltre le stesse frontiere delle categorie cinematografiche, un reportage che si distacca notevolmente dall’idea di documentario, un prodotto autoriale di tutto rispetto per contenuti e qualità filmica. Senza più dubbi Minervini può essere considerato ormai come un talento capace di osservare, ascoltare e con il grande dono dell’inquadratura.

data di pubblicazione:04/09/2018








DRAGGED ACROSS CONCRETE di S. Craig Zahler, 2018

DRAGGED ACROSS CONCRETE di S. Craig Zahler, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

I due poliziotti Brett Ridgeman e Anthony Lurasetti, sospesi temporaneamente dal servizio per avere usato metodi violenti durante una retata contro un criminale, si vedono “costretti” a procurarsi in maniera non del tutto regolare dei soldi per far fronte ai propri problemi familiari. Il primo, con una figlia adolescente molestata dai ragazzi del quartiere, sente la necessità di trasferirsi altrove anche per poter accudire meglio la moglie afflitta da sclerosi; il secondo, più giovane, pensa invece di voler mettere su famiglia. Presentatasi l’opportunità e forti della loro esperienza, i due si troveranno coinvolti in una rapina che, proprio perché organizzata da altri, sarà piena di eventi per loro del tutto imprevedibili.

S.Craig Zahler è un personaggio poliedrico in quanto regista, sceneggiatore, scrittore, direttore della fotografia e musicista. Il suo film, presentato oggi fuori concorso, vorrebbe definirsi un poliziesco, solo che non è una vera e propria detective fiction con tanto di solerti ispettori e relativo caso ingarbugliato da risolvere. In Dragged Across Concrete infatti abbiamo due poliziotti dalla mano pesante, interpretati dai grandi Mel Gibson e Vince Vaughn, che si fanno sospendere dal servizio e non sanno come sbarcare il lunario. Li vediamo scivolare quindi nel mondo della malavita e diventare loro stessi parte di essa quando decidono in entrare in una rapina sorprendendo di fatto gli stessi rapinatori. Il meccanismo del film funziona, solo che il plot sul finale è alquanto scontato, con dei colpi di scena del tutto prevedibili frutto di una sceneggiatura non proprio tra le più brillanti. Dialoghi sconnessi e fuori posto fanno da contrappunto alla indiscussa bravura dei due protagonisti, ai quali si affianca una eccezionale Jennifer Carpenter, salita alla ribalta con il film The Exorcism of Emily Rose del 2005.

Non sono sufficienti al regista le storie personali dei due protagonisti, uno oramai alla soglia dei sessanta anni che non è riuscito a fare carriera e l’altro, giovane e meno disilluso, che cerca ancora il momento giusto per dichiarare il suo amore alla ragazza che intende sposare, per rendere più accattivante l’intera vicenda narrata nel film. L’ulteriore mancanza di originalità nei personaggi secondari, contribuisce a non far decollare Dragged Across Concrete verso qualcosa che possa realmente appassionare, in un action movie che si rispetti.

Si rimane tuttavia sempre un po’ interdetti nel pensare come, dopo aver scritto e diretto Brawl In Cell Block 99 (Nessuno può fermarmi) presentato l’anno scorso a Venezia ricevendo ampi consensi da parte della critica internazionale, Zahler abbia concepito una sceneggiatura così poco priva di sostanza. Ce ne faremo una ragione.

data di pubblicazione:04/09/2018