da Paolo Talone | Dic 3, 2018
(Teatro Brancaccio – Roma, 22 novembre 2018/6 gennaio 2019)
Il parroco di un paesino di montagna riceve una telefonata inaspettata da Dio in persona, un secondo diluvio universale sarà mandato sulla terra e lui dovrà costruire un’arca per mettere in salvo tutta la gente del paese.
Sono passati 44 anni da quando venne messo in scena la prima volta a Roma Aggiungi un posto a tavola della ormai allora consolidata coppia Garinei e Giovannini e il suo successo, per nostra fortuna, non sembra volersi arrestare: siamo di fronte a un vero e proprio miracolo teatrale.
Sarà perché inizia favolisticamente con “C’era una volta, anzi c’è …” o perché la storia è ambientata in un paesino qualunque, che potrebbe a buon grado chiamarsi Utopia, il paese dove, parafrasando Oscar Wilde, l’umanità continua ad approdare per vedere intorno a sé un paese migliore, ma gli ingredienti per un grande spettacolo ci sono tutti e credo anche raffinati per questa edizione 2018, che si avvale dell’aiuto di una sviluppata tecnica che incanta ancora un pubblico numeroso e eterogeneo come quello del Brancaccio queste sere.
È uno spettacolo che continua a coinvolgere e a piacere, nonostante la società a cui allude, un’Italia anni ’70 sconvolta forse dai poteri ma tutto sommato ancora felice e speranzosa, ormai sia superata. Necessari si fanno allora gli adattamenti al testo e si arricchiscono i personaggi di nuove sfumature e battute, ma senza sconvolgerne la bellezza e la forza originali.
Della storica e costosissima messa in scena si è scelto di riprendere tutto, perché Aggiungi un posto a tavola sono i costumi pastello di Giulio Coltellacci (riadattati da Francesca Grossi), ma soprattutto le sue fantastiche scene in legno montate ingegnosamente su un doppio girevole, arricchite da nuovi effetti speciali, come per esempio il contributo video di Claudio Cianfoni che ci restituisce una impressionante scena del diluvio. E ancora le musiche di Armando Trovajoli, le cui melodie rimangono in testa per giorni, anche queste riarrangiate per l’occasione secondo un gusto contemporaneo da Maurizio Abeni, già allievo di Trovajoli, e eseguite dal vivo, come nei migliori teatri del West End, da un’eccezionale orchestra di sedici professori. Non possiamo poi non menzionare il corpo di ballerini/cantanti che ripete le coreografie originali di un altro grande maestro e talento italiano, Gino Landi, presente alla recita.
Ma sono anche i temi trattati nella storia a rendere questo spettacolo eterno. C’è l’amore prima di tutto, quello innocente e infantile di Clementina per don Silvestro, ma anche quello animalesco e bucolico di Toto per Consolazione. Ci sono l’amicizia e la solidarietà di una società che si muove tutta per uno scopo comune, espresse soprattutto nella canzone della formica. Ma c’è anche l’accoglienza del diverso e dello straniero: Consolazione, inizialmente respinta per la sua poco onorevole professione, viene finalmente accolta da tutti e messa tra coloro che verranno salvati. E ancora il sacrificio del singolo per la comunità, don Silvestro che rinuncia a salire sull’arca per non abbandonare il suo gregge confuso dalle parole del cardinale che lo accusava di pazzia. Tutti temi che risuonano ancora oggi familiari alla nostra esperienza.
A tener viva la tradizione un cast di attori e cantanti eccezionali guidati da un commosso Gianluca Guidi, che ci restituisce un don Silvestro degno del padre, fedele all’originale ma tuttavia spontaneo e naturale, Emy Bergamo, nel ruolo di Consolazione, Marco Simeoli in quello del Sindaco Crispino, il divertentissimo Piero Di Blasio nel personaggio di Toto, l’Ortensia di Francesca Nunzi e la new entry del gruppo, la giovane Camilla Nigro, nel ruolo di Clementina, a cui facciamo i nostri auguri per la sua carriera, chiaro segnale che le nostre scuole sanno lavorare bene nel coltivare buoni talenti. Ovviamente un applauso caloroso è andato anche a la voce di lassù, Enzo Garinei.
Uno spettacolo da non perdere per chi ama il teatro e che ci auguriamo di rivedere per molte stagioni ancora.
data di pubblicazione:03/12/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 2, 2018
Volume gigante monografico a ricordare uno dei più grandi disegnatori degli anni ’80, fortunatamente indimenticato come Andrea Pazienza o Lorenzo Mattotti, trent’anni prima del grande successo di Zerocalcare. Riceviamo questo volume a cui abbiamo contribuito perché Stefano (perito tragicamente, rinvenuto cadavere parecchi giorni dopo il decesso per una micidiale overdose) si formò nel crogiolo rivista Underground Combinazioni, uscita per diversi numeri anche per il fondamentale contributo economico di Francesco De Gregori. Era il periodo in cui vendevamo per strada il nostro aperiodico appoggiandoci a Stampa Alternativa improvvisando festival di cultura popolare underground autogestiti e en plein air nei parchi romani, facendo i conti con qualche improvvido pusher. Tipo di poche parole ma di sicuri tratti di penna, amante di Frank Zappa, poi frequentatore di testate ben più importanti come Cannibale o Frigidaire l’icastico e graffiante Tamburini. Michele Mordente, un estimatore della generazione successiva, da decenni si batte per la conservazione della memoria del grande disegnatore e questo testo è un doveroso tributo al suo eccentrico genio, ai suoi zombie metropolitani, anticipatrici dell’era dell’isolamento della frammentazione e della penuria. Tamburini non ha fatto in tempo a godere della fama retroattiva perché se ne é andato, poco più che trentenne, nel 1986, in totale anonimato. Una sparizione discreta in linea con la personalità di un personaggio che viveva dentro i propri fumetti, respirando integralmente l’aria del tempo. Che era, inevitabilmente, quella di un generico riflusso, dopo il ’68-’69 e dopo il 1977. Oggi è il tempo della mancata distinzione della destra con la sinistra, del libro come merce, del fumetto valorizzato come opera d’arte. Immaginiamo che Stefano avrebbe risposto con uno sberleffo a tutto ciò. Da perfetto ammiratore di Marcel Duchamp e dei suoi oltraggi all’arte contemporanea. Forse si è risparmiato un imperfetto vivere anche se non sappiamo quanto di volontario c’è stato nel suo andarsene e lasciarci orfani.
data di pubblicazione:02/12/2018
da Daniele Poto | Nov 28, 2018
(Teatro Eliseo – Roma, 27 novembre/9 dicembre 2018)
Aristofane in salsa music hall. Profondamente contaminato e straniante. Un esperimento riuscito a metà con I frombolieri Ficarra e Picone lanciati in un ambito più impegnato.
Two men show? Questo ma non solo. Difficile oggi per i costi di produzione del teatro contemporaneo mandare in scena venti attori, sia pure supportati da una scenografia esaurientemente plebea. Puoi condurre l’operazione se hai la fortuna di gestire due attori famosi come comici che tentano il salto di qualità di un pubblico embedded. Particolarmente nella prima all’Eliseo si respira aria di casa con il classico contorno di Vip buoni per tutte le occasioni e soprattutto quando c’è l’occasione di un invito da Barbareschi. La miscela della comicità greca, riattualizzata ai giorni nostri (con chiare icone di contemporaneità, come i bagagli del servo), condita da un coro molto moderno, ha un effetto straniante. La discesa all’inferno del duo (Ficarra e Picone in cerca di benessere e di buona accoglienza si scambiano ripetutamente i ruoli) culmina in una sorta di processo collettivo paragonabile a un talk show televisivo, una sfida tragica tra Eschilo ed Euripide. Non è un giallo rivelare chi vinca ma più del verdetto finale contano i contenuti. Che dimostrano come anche tante centinaia di anni fa fosse difficile condurre in porto un progetto di reale democrazia. Allo spettatore il compito di riattualizzare i messaggi in scena, per la verità mai troppo scoperti. Non si può evidentemente parlare di rispetto del testo in un’operazione che vuole sfrondare gli anacronismi e che si picca di numerosi contributi musicali. Sulla carta il copione poteva risultare indigesto ma nell’operazione di manipolazione Barberio Corsetti non ha rinunciato a picchi di eccentricità. Ficarra nel rispetto dei personaggi prevale su Picone che però ha un paio di brevi lampi interpretativi. Il duo è sorretto da un cast all’altezza soprattutto per ballo e canto. Il Dioniso che scende nel regno dei morti è un personaggio incredibilmente vivo e le ansietà di oggi vengono modulate dai lirismi che abbondano in un esperimento decisamente coraggioso. Siamo curiosi di immaginare cosa sarà d’ora in poi il futuro teatrale di Ficarra &Picone che sottolineavano ironicamente l’apprezzamento di un pubblico che ha scelto di disertare la visione di Roma-Real Madrid.
data di pubblicazione:28/11/2018
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Nov 26, 2018
(Musei Vaticani – Braccio di Carlo Magno – Roma, 20 novembre 2018/16 febbraio 2019)
É stata da poco inaugurata, presso la Galleria del Colonnato della Basilica di San Pietro nel cosiddetto Braccio di Carlo Magno, una interessante mostra d’arte russa, una sorta di potlatch, cioè uno scambio di doni tra i Musei Vaticani e la Galleria Tret’jakov di Mosca. Una vera e propria forma di ringraziamento nei confronti della Pinacoteca Vaticana che generosamente, quasi due anni fa, si era separata, per alcuni mesi, dei quadri più importanti della sua collezione in occasione dell’esposizione Roma Aeterna tenutasi con enorme successo proprio a Mosca.
I dipinti esposti accompagnano un percorso apparentemente casuale, disposti senza un ordine cronologico che, partendo dalle icone, continua poi con opere dell’Ottocento fino ad arrivare al Novecento attraverso una pittura che pur distinta nei singoli elementi segue una linea armonica. All’inizio della galleria il visitatore si trova di fronte una serie di icone e tra queste la famosa Crocifissione di Dionisij eseguita nel Cinquecento, opera che racchiude in sé più che simbolicamente l’idea da parte dell’artista di voler rappresentare il divino e dare così forma a ciò che per natura è ineffabile e inconoscibile. Queste pitture, che nella tradizione costituiscono il punto di riferimento dell’identità nazionale, vengono definite “quadri capitali” perché costituiscono dei veri e propri capisaldi della cultura russa. I dipinti dell’Ottocento rappresentano il nucleo più importante dell’intera collezione, fondata da Pavel Tret’jakov, e riguardano essenzialmente opere di pittori che nel 1870 costituirono una corrente i cui componenti venivano definiti “ambulanti” perché contrari agli schemi ufficiali imposti dell’Accademia Imperiale di Belle Arti. Tale movimento, simile a quello dei macchiaioli in Italia, degli impressionisti in Francia e dei preraffaelliti in Inghilterra, nella buona sostanza era espressione di un determinato realismo critico ribelle a qualsiasi forma di ordine costituito. Entrando nel Novecento il visitatore viene catturato dal “quadrato nero”, opera del celebre Malevič, pioniere dell’astrattismo geometrico e fondatore del suprematismo. Tale avanguardia, i cui dipinti furono presentati per la prima volta nel 1915 alla Mostra Futurista di San Pietroburgo, fu chiamata così perché l’artista riteneva essenziale la supremazia della sensibilità pura dell’arte a discapito delle apparenze esteriori ed effimere della natura.
Le opere di questa esposizione, nel fondere insieme l’arte antica con quella moderna, si inseriscono perfettamente nel percorso architettonico del Bernini e contribuiscono a creare delle tappe di un cammino spirituale, un vero pellegrinaggio in armonia con il genius loci in cui ci si trova, fulcro della cultura e dell’arte proprio dei Musei Vaticani.
data di pubblicazione:26/11/2018
da Antonio Jacolina | Nov 25, 2018
Ritratto della leggendaria corrispondente di guerra Marie Colvin (Rosamund Pike) del Sunday Times di Londra. Spirito senza paura e ribelle ad ogni conformismo, la giornalista ha dedicato la sua vita personale e professionale a raccontare la Verità sulle conseguenze delle guerre sulle persone innocenti, dando voce, nei suoi reportage, a coloro che non hanno voce: le vittime civili dei conflitti, di ogni conflitto.
Già presentata con discreto successo alla 13ma Festa del Cinema di Roma, esce ora sui nostri schermi l’opera prima di M. Heineman. Il regista già noto autore di documentari si cimenta con questo suo primo lungometraggio con un biopic poco reverenziale sugli ultimi dieci anni della vita della leggendaria reporter. Il film è basato su un reportage apparso su Vanity Faire ci racconta di una donna coraggiosa ed impegnata al punto tale da rischiare ogni volta la sua vita per le sue storie giornalistiche ma anche e soprattutto di una donna intimamente vulnerabile, traumatizzata ed empaticamente sensibile ai drammi cui assisteva per poterne poi scrivere e darcene notizia.
Heineman, pur non tralasciando di rappresentarci i contesti bellici, filmando anzi scene di guerra con abilità di vero documentarista, si sofferma infatti con intelligenza ed intensità sul lato più personale ed umano della giornalista, sulla sua guerra interiore (da qui il titolo del film), sul conflitto fra la sua vita personale e la sua vita professionale per la quale lei sacrifica relazioni affettive e sogni materni accumulando traumi psicologici e fisici che la dilaniano interiormente. Una guerra privata quella della Colvin, una guerra anche con se stessa, con le sue ambizioni, le sue paure, le sue sfide, la sua solitudine, i suoi disturbi. Nel film si ride, si piange e si soffre con la giornalista assistendo al suo progressivo degradarsi nello spirito e nel corpo a somiglianza delle tante tragedie cui assiste vivendone sempre, come proprie, le angosce, gli incubi, la rabbia ed i dubbi. È qui la vera abilità del regista, nella sua capacità di mantenere, con un forte senso del tempo e del luogo, il giusto ritmo della vicenda e la costante tensione narrativa, facendo evolvere la storia in modo lineare fino agli eventi finali durante la guerra civile in Siria, con il solo supporto di alcuni flasback che servono ad illuminare lo spettatore sul carattere, i comportamenti ed il labirinto di orrori che sono sepolti nella mente della reporter dopo essersi confrontata con il peggio che l’umanità può offrire. A questo lavoro del direttore si aggiunge ovviamente quello molto convincente di R. Pike, degna veramente di essere presa in seria considerazione per la prossima stagione di premi. L’attrice fa letteralmente suo il film, incarnando anima e corpo il personaggio, quasi appropriandosene lavorando di cesello sui registri vocali e sugli atteggiamenti, e ci prende e ci fa vivere poi le emozioni e gli incubi di una donna tormentata da ciò che testimonia e dalla rabbia e dall’impotenza di non poterlo evitare. All’eccezionale Pike fanno da corona ottimi caratteristi o coprotagonisti: Tom Hollander ed il sempre bravo Stanley Tucci, e, non ultimo, Jamie Dornan (ex… cinquanta sfumature di grigio, nero e rosso e prossimo nuovo Robin Hood) nei panni del fotografo di guerra che accompagnava la Colvin.
A Private War non è certamente un film perfetto, alcune storie sottostanti risultano alquanto deboli, alcune sequenze sono troppo insistite, l’amalgama fra pulsione documentaristica e narrazione filmica non sempre è armonico, però, nel complesso, il risultato è un buon film che vale la pena di vedere ed apprezzare. Un buon film commovente e coinvolgente, a tratti affascinante, che non è mai svenevole, sentimentale o convenzionale nel raccontarci il valore della Verità e quello che è stato l’impegno personale e professionale di una grande reporter.
data di pubblicazione: 25/11/2018
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da Paolo Talone | Nov 23, 2018
(Piccolo Eliseo, 15 novembre – 2 dicembre 2018)
Scena grigia di una provincia inglese qualunque, quattro amici si ritrovano insieme nei pressi di un molo. Di fronte a loro solo il mare e i pensieri. Sono vestiti a lutto e bevono birra, Frankie è morto e come loro aveva solo 25 anni. Chi era Frankie? Cos’è la vita di provincia?
Un testo brillante, giovane, ironicamente intelligente, attuale, solo in apparenza banale, ma mai scontato, che ha guadagnato a Norris il premio Bruntwood 2013. Siamo davanti a un esperimento di scrittura che strizza l’occhio a un Samuel Beckett per il vuoto che i personaggi si portano dentro, ma anche al teatro epico di Brecht, con le sue didascalie che ci informano su dove siamo e a che ora si sta svolgendo l’azione. Il tempo e il ritmo della narrazione sono serrati e mantengono l’attenzione accesa dalla prima all’ultima battuta di questi dialoghi, solo ad un primo ascolto banali. Il testo in fondo è costruito su conversazioni quotidiane che possono svolgersi dovunque, in un bar come in una camera da letto. La storia rappresentata non ha tanto il sapore di un racconto, quanto l’intensità di un lampo che illumina una situazione, la morte del giovane Frankie, uno come tanti in questo luogo di provincia, dove è difficile mostrarsi per quello che si è realmente e dove gli altri fanno fatica a capire e a capirsi. Non è neanche permesso ai suoi amici chiedersi o darsi risposte sulla morte del loro amico, nei posti di provincia salvare la faccia è più importante di qualsiasi altra cosa. Si deve saper tacere la verità, meglio viverla per sé, meglio scappare altrove. Con uno straordinario meccanismo dialogico, fatto di battute che accennano ma non dicono mai chiaramente, Norris riesce a rendere reali questi personaggi, mostrandoci quanto basta per poterne capire la loro più intima essenza. So here we are (Eccoci qua, dunque!) è il titolo originale della pièce inglese.
La situazione iniziale l’abbiamo descritta: quattro amici aspettano su una banchina in riva al mare che arrivi l’ex fidanzata del loro appena defunto amico per compiere un ultimo gesto laico di commiato per lui. Ci si chiede come sia potuto succedere che abbia avuto quell’incidente che gli ha causato la morte. La seconda parte del testo è un flash back sulla notte dell’incidente. Qui si scopre cosa è accaduto a Frankie le ultime ore prima di morire. La storia si intreccia piano piano in maniera perfetta come i filamenti di una ragnatela. I punti si collegano tra loro attraverso un gioco drammaturgicamente perfetto. La verità viene finalmente fuori.
Un testo affascinante quello messo in scena da Silvio Peroni e bravi tutti gli attori della compagnia che meritano di rimanere in scena a godersi l’applauso prolungato e sentito del poco (ahimè!) pubblico presente. Uno spettacolo azzeccato che è ottimo preludio al festeggiamento del centenario del teatro Eliseo.
data di pubblicazione: 23/11/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Nov 22, 2018
Accompagnata dai suoi due figli, Laura torna da Buenos Aires al suo paese natale in Spagna per il matrimonio della sorella. Tutto sembra andare per il meglio quando, al termine della festa di nozze, la sua giovane figlia scompare, cambiando in modo drammatico il corso degli eventi e i rapporti all’interno della famiglia e della stessa comunità.
Accolto con grande curiosità a Cannes, dove fu film di apertura, la pellicola del talentuoso regista iraniano è piaciuto al grande pubblico e assai meno ai critici. Questi ultimi, probabilmente spiazzati dalla scelta di Farhadi al suo primo film di genere, uno psico thriller (?) girato nella regione della Mancha in un piccolo centro non lontano da Madrid, non hanno mancato di sottolineare diverse carenze della pellicola, forse non all’altezza dei precedenti capolavori del regista. In un eccesso di zelo professionale, certamente memori della perfezione di lavori quali, l’incantevole, Una Separazione e, il non distante, Il Cliente, hanno ingiustamente “massacrato” Tutti lo Sanno, relegandolo a livello di feuilleton, infarcito di clichè (il paesello spagnolo, gli amorucci dei ragazzi sul campanile), indebolito da una recitazione di maniera (Bardem) o esageratamente “calcata” (“una Penelope Cruz in cerca di Oscar”). Schierandomi, invece, decisamente dalla parte di una critica “acritica”, e quindi dalla parte di un pubblico non necessariamente di bocca buona, ma anche confortato dalla visione del film in lingua originale (il perfezionismo di Farhadi, ad esempio, fa correttamente parlare con accenti catalani o argentini i rispettivi protagonisti in base alla loro provenienza), non ho ravvisato particolari difetti. La storia non è nuova, ma la preparazione all’improvviso accadimento (il rapimento della giovane figlia di Laura), attraverso la messa in scena dell’arrivo di Laura “l’argentina”, gli aspetti della realtà provinciale del piccolo centro vinicolo della Mancha, con i suoi segreti e rancori, sono descritti con sufficiente credibilità. Il ritmo tambien è adeguato alla vicenda: toni leggeri e smorzati all’inizio, briosi per la festa di matrimonio, volutamente più lenti a sottolineare la drammaticità degli eventi dopo il rapimento repentino e misterioso della giovinetta. Ovviamente, come sempre nei film di Farhadi, tutto è studiato: ricerca dei dettagli, riprese, montaggio e colonna sonora di assoluto livello e grandi attori e comprimari a completare la prima pellicola, diversa, del talentuoso artista iraniano.
Niente di negativo sugli attori, Bardem è ormai versatile e collaudato e, nelle vesti del sanguigno, generoso Paco, combattuto fra diverse emozioni e stimoli contrapposti, offre un’ennesima confortante prova. Altresì Penelope Cruz (Laura), senza essere Sarah Bernhardt, è misurata e credibile nel ruolo di madre disperata. Quando poi, arriva dall’Argentina, Ricardo Darin (Alejandro, il marito di Laura), ci troviamo di fronte a un gigante, un attore impagabile, pur alle prese con un personaggio ambiguo e imperscrutabile. Non da meno, sono i comprimari fra cui, la bella e brava Barbara Lennie nel ruolo della dubbiosa moglie di Paco e Eduard Fernandez, il saggio cognato. Volutamente ho lasciato allo spettatore di scoprire meandri psicologici e il finale della trama thriller della pellicola per non sottrarre il piacere di un film che comunque non delude e tiene sempre alta la tensione. Sotto certi aspetti, dunque, anche muovendosi in un contesto per lui nuovo, Farhadi, nella sua prima prova in lingua spagnola, non delude e, muovendosi ancora una volta intorno ai temi delle separazioni e delle sparizioni, riesce a mantenere il pubblico concentrato e in apprensione per tutta la durata del film.
data di pubblicazione:22/11/2018
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da Paolo Talone | Nov 21, 2018
(Teatro Olimpico – Roma, 20 novembre/16 dicembre 2018)
Una madre, un padre, un figlio, una figlia, una famiglia perfetta alle prese con il da farsi di tutti i giorni. Un fatto improvviso però accade e scombina gli equilibri di tutti, creando disorientamento e riflessioni. Ma non disperiamo, il finale da commedia riporta in scena la tranquillità che avevamo all’inizio.
La tournée in giro per l’Italia di Non mi hai più detto ti amo arriva a Roma e riceve una partecipazione di pubblico eccezionale e sorprendente, merito certamente di un’ottima pubblicità, ma anche della coppia, già sperimentata con successo due decenni fa nel musical Grease, Cuccarini-Ingrassia. Il teatro è strapieno per la prima, da notizie rubate in sala si viene a sapere che ben 200 persone in più rispetto alla capienza degli oltre 1400 posti di cui il teatro Olimpico dispone, erano in lista di attesa per una poltrona. Guardando a questi numeri si rimane colpiti e si capisce che il tipo di spettacolo, una commedia leggera che affronta un tema sempre eterno come la famiglia, attira un pubblico vasto e variegato.
Lorella Cuccarini è Serena, una madre e una moglie perfetta, non si poteva scegliere un’attrice migliore per questo ruolo oserei dire, ma che in seguito a qualcosa che le accade, non sveleremo cosa per non andare a togliere il gusto dell’unica sorpresa di cui la trama è fornita, si scopre anche e soprattutto donna. Giulio, interpretato con spontanea naturalezza e maturità da un bravo Giampiero Ingrassia, è suo marito, medico e padre forse un po’ distratto. La coppia ha due figli, maschio e femmina naturalmente, da poco usciti dall’adolescenza che si trovano a dover affrontare la novità che accade e sconvolge la loro innocenza e a maturare inevitabilmente attraverso un percorso di accettazione e di presa di coscienza.
Lo spettacolo è supportato da un apparato scenografico curato al minimo dettaglio, che non ambisce a demandare a fattori simbolici altri significati. Tutto concorre a sottolineare un super realismo nel quale ognuno possa rispecchiarsi: in fondo la storia che si racconta potrebbe capitare a tutti…se almeno tutti avessimo una famiglia “normale”. Sicuramente una scenografia importante, completa di doppio palco girevole, che però mal si sposa a nostro avviso con un testo debole, che fatica a decollare sia nella scelta lessicale che in quella della trama, troppo televisivo anche nell’impianto forse e per questo banalmente semplice.
Bravo Fabrizio Corucci nel ruolo del signor Morosi, paziente di Giulio, al quale sono affidati brevi, ma divertenti siparietti e gag che fanno sorridere. Ci avrebbe fatto piacere che la sua parte fosse stata più lunga.
Ci aspettavamo qualcosa di più, ma uno spettacolo ben organizzato è pur sempre uno spettacolo bello da vedere.
data di pubblicazione:21/11/2018
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Nov 21, 2018
Se la speranza è un vizio è difficile toglierselo, soprattutto se è il carburante che alimenta la resistenza e l’attesa, per poi rinascere.
Il corpo di una bambina si impiglia tra le reti calate nel fiume Volturno: ha indosso l’abito bianco della prima comunione, imbrattato di sangue. È ancora viva quando un uomo la issa sulla propria imbarcazione. Nelle baracche lungo quello stesso fiume vivono donne-schiave che vendono il proprio corpo in cambio di una esistenza polverosa e terribile, dove non c’è posto per vite future. Su quel fiume conduce la propria esistenza anche Maria che, assieme al proprio cane, traghetta prostitute incinte, perlopiù nigeriane, per ordine della orribile Zi’Mari, allo scopo di andare a vendere i figli che stanno per partorire. È inverno, piove e fa freddo, addirittura nevica: Maria compie ogni azione con dedizione e fedeltà nei confronti di quella “padrona ingioiellata” che è proprietaria anche della sua vita e di quella di sua madre che, inerme all’interno di una di quelle baracche lungo il fiume, se la fa scorrere addosso senza dare nulla in cambio a quella figlia così amorevole e devota.
Ancora una volta Castel Volturno è il luogo dove Edoardo De Angelis “blinda” la sua storia, una parabola laica con una connotazione quasi arcaica, ambientata in un sottomondo campano dove sembra impossibile trovare tenerezza, speranza.
L’impressione che di pancia si prova vedendo il film, che ha già vinto il premio del pubblico alla Festa del cinema di Roma ed i premi come miglior regista e migliore attrice protagonista al Tokyo International Film Festival, è quella di una lenta resistenza umana di fronte alle atrocità, senza che ci sia una vero e proprio obiettivo se non quello di aspettare un evento, qualcosa che ti faccia capire che vale la pena ancora di combattere e continuare a sperare. Secondo il regista la nascita di un figlio, non quando tutto è pronto ad accoglierlo ma quando non ci sono affatto le condizioni per farlo, è l’evento che può sollevare vite disperate.
Il film non eguaglia Indivisibili, ma ha una lirica che arriva diritta al cuore, che ci desta come lo schiaffo che riceviamo da neonati per farci capire che siamo venuti al mondo.
La musica, affidata al grande Enzo Avitabile, e la sceneggiatura a quattro mani di De Angelis e Umberto Contarello, fanno de Il vizio della speranza un film profondo, suggestivo come un presepe dei nostri tempi bui, ricco di metafore dalla prima all’ultima scena, intriso di un lirismo che commuove e colpisce.
data di pubblicazione:21/11/2018
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da Antonio Jacolina | Nov 21, 2018
William (Aneurin Barnard) è un giovane scrittore che non riesce a pubblicare nulla, è privo di affetti, è depresso ed ha deciso di porre fine alla sua esistenza senza senso. Dopo una decina di tentativi tutti falliti tragicomicamente, ingaggia Leslie (Tom Wilkinson) un killer professionista in età avanzata perché provveda lui a “suicidarlo” entro una settimana. Anche il killer, a sua volta, ha i suoi problemi con il Boss della sua “organizzazione” perché deve riuscire a raggiungere la quota prevista di omicidi, pena il suo pensionamento anticipato; inoltre, ahinoi, proprio subito dopo aver sottoscritto il contratto, il nostro William scopre finalmente validi motivi per vivere e sognare. Ma … il contratto è contratto …
Tom Edmunds debutta con questa pellicola sia come sceneggiatore sia come regista e ci regala subito, con buon istinto artistico ed in modo convincente, nonostante la serietà dell’argomento trattato, una divertente commedia permeata di un dark humour molto inglese. Il suicidio è un argomento così serio che prescindendo, a priori, dal fare riferimento a valori morali, l’autore l’affronta scientemente portando subito il racconto molto oltre le righe ed anche oltre il piano dell’ironia, ricercando talora effetti molto comici. La narrazione stessa sembra non volersi prendere troppo sul serio. In realtà il film è invece un’occhiata comica sul senso della vita e sulle ragioni per viverla e giunge ad esaltare proprio la forza della vita stessa rispetto a qualsiasi altra situazione umana. Una storia quindi bizzarra e surreale che non annoia, anzi, al contrario, rallegra e sorprende con idee e situazioni brillanti che, a tratti, fanno anche sentire l’influenza o il ricordo di alcune scene e situazioni già viste in In Bruges del 2008.
Alla base di questa gradevole opera prima c’è dunque una perfetta sceneggiatura ben costruita ed autoironica, ma la sua brillantezza deriva anche dal gioco dei ruoli dei vari personaggi, tutti perfettamente disegnati e caratterizzati, da un ritmo sempre sostenuto e poi dalla talentuosa interpretazione dell’ottimo cast di attori britannici. Spiccano, fra tutti, i due protagonisti che sembrano quasi rispecchiarsi l’uno nell’altro: il giovane A. Barnard già apprezzato nel recente Dunkirk, e, soprattutto, il collaudato T. Wilkinson. La sua performance è così eccellente che riesce ad asciugare il suo ruolo fino a dare con la sua recitazione tutto il senso della noiosa routine accumulatasi negli anni, quasi il killer fosse un banale e stanco impiegato prossimo al pensionamento. Una interpretazione ricca di eleganza e finezza, veramente tutta british style e soprattutto understatement.
Cogliere il senso di una Commedia è sempre anche molto soggettivo perché dipende, ovviamente, anche dal senso individuale di humour di ciascuno spettatore, ma, riteniamo di non sbagliare definendo Dead in a week (or your money back) una più che eccellente british dark comedy che non si prende mai troppo seriosamente e che oltre a far sorridere fa anche ridere. Un piccolo e piacevole film che certamente assicura un gradevole divertimento così come una fredda bevanda, o, se preferite, come una bella tazza di tè inglese, che si apprezza al momento in cui la si gusta per poi dimenticarsene molto gradevolmente, piano piano, dopo un po’…
data di pubblicazione:21/11/2018
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