da Maria Letizia Panerai | Dic 20, 2018
Robert Redford sceglie di interpretare, per il suo addio alle scene, il ruolo di un attempato rapinatore di banche. Il suo Forrest Tucker ci fa ripensare a tutti quei personaggi che abbiamo tanto amato e continueremo ad amare, ribelli e fuorilegge alla Butch Cassidy, imbroglioni ma ricchi di fascino come ne La stangata e intrisi di infinita classe come Il grande Gatsby.
Forrest Tucker, dopo aver messo a segno infiniti colpi in banca e ben 18 evasioni da ogni tipo di penitenziario, compresa quella clamorosa dal carcere di massima sicurezza di San Quintino, continua insieme ai suoi “vecchi compagni” di avventura a commettere rapine, spostandosi di contea in contea. Il suo è un vero e proprio talento naturale, manifestatosi sin dai tempi del riformatorio, che Forrest continua ad esercitare anche in età più che matura, con gioiosa sfacciataggine e una generosa dose di buone maniere. Un vero e proprio ladro gentiluomo che continua ad organizzare colpi leggendari, nonostante abbia alle calcagna il detective John Hunt (interpretato da un bravo Casey Affleck), rapito a tal punto dall’abilità di quest’uomo da essere felice di non poterlo catturare. Danny Glover e Tom Waits vestono i panni degli altri due componenti la “over the hill gang” e una brava Sissy Spacek quelli di una vedova che si innamora di Forrest nonostante l’insolita professione che questi si sia scelto.
Old man & the gun, presentato durante l’ultima edizione della Festa del cinema di Roma, è un film godibile, ben ritmato, destinato sicuramente a riscuotere il successo che merita, grazie anche alla carismatica presenza di Redford. Tratto dalla storia vera di questo straordinario rapinatore di banche che, dopo aver portato a termine l’ultimo geniale colpo della sua lunga carriera, fu rispedito in prigione alla veneranda età di 80 anni, Old man & the gun vuole essere a cominciare dal titolo l’ultima immagine autoironica che questo grandissimo e poliedrico artista, coetaneo del personaggio che interpreta, ha voluto lasciare al suo pubblico.
E se ci piace pensare che l’andatura un po’ incerta e le giacche con le spalle un po’ scese siano un modo per il Grande Robert di “gigioneggiare” con lo spettatore instillandogli un inevitabile sentimento di tenerezza, attraverso i suoi occhi tuttavia non possiamo che intravedere la lunga carrellata dei personaggi della sua prolifica carriera che ci accompagneranno ancora per moltissimo tempo, e ancora.
data di pubblicazione:20/12/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Dic 14, 2018
La cronaca di un anno tumultuoso nella vita di una famiglia borghese che vive nel “quartiere bene” di Città del Messico chiamato ROMA. Un anno visto con gli occhi umili e sensibili di Cleo, domestica attenta ma anche governante affettuosa e complice dei bambini e parte anche lei della famiglia.
Ho approfittato, prima del suo passaggio in esclusiva su Netflix, per correre a vedere proiettato sullo schermo cinematografico il film con cui Cuarón ha vinto il Leone d’oro al recentissimo Festival di Venezia e di cui ci aveva già riferito brevemente ma con acuta precisione di giudizio la nostra M. Letizia Panerai nei suoi Appunti di viaggio dal Lido di Venezia del 31 Agosto.
Non entro nelle polemiche sul ruolo di Netflix, o sui diversi atteggiamenti assunti dalle Direzioni dei Festival di Cannes e di Venezia sull’ammissibilità o meno in concorso di film destinati a circuiti diversi dalle sale cinematografiche. Personalmente sarei del parere che Netflix sia un danno per il vero Cinema, ma bisogna anche realisticamente convenire che i dissennati vincoli della Distribuzione avrebbero costretto un film come questo, pur se bello, solo in poche sale di qualità, limitandone la fruizione ad un numero ristretto di spettatori. D’altra parte occorre ammettere anche che il Cinema non è più solo arte, talento e fascinazione, ma è, sempre di più, un prodotto necessariamente destinato alla più ampia consumazione e quindi … la forza tentatrice della capacità produttiva e distributiva on line è sempre più irresistibile
Con Roma il talentuoso regista torna a girare nel suo Messico con un film molto personale che segna un ritorno alle sue origini sociali e culturali, alle sue memorie, ed ai suoi ricordi di infanzia. Ed è proprio con lo sguardo tenero e dolce della memoria che l’autore affronta temi tanto personali quanto anche universali: la famiglia, l’assenza, l’indifferenza, la maternità, la morte, il dolore, la dedizione e l’abnegazione, parlandoci anche delle lotte sociali, culturali e studentesche senza che mai uno di questi tanti temi ecceda sugli altri. Al contrario, tutti coabitano fra loro in modo naturale in un racconto fluido e con i giusti momenti di interruzione di tono, grazie anche a sequenze piene di humour. Il merito è tutto in una regia sensibile ed intensa che mantiene sempre appassionato il ritmo narrativo, con una capacità che sembra semplice ma è, in effetti, tanto elaborata quanto efficace. La messa in scena, in uno splendido “bianco e nero” privo di contrasti e di un’eccezionale profondità di campo, è sobria ed attentissima ai particolari fino anche ai dettagli. Il regista che, oltre a firmare la sceneggiatura ed a curare il montaggio, è anche Direttore della fotografia, privilegia piani fissi e soprattutto magnifici piani sequenza, che sono poi il suo marchio stilistico, per darci visioni panoramiche con movimenti della camera lenti proprio per evidenziare la visione d’insieme. Questo ritmo calmo, come se il Tempo si estendesse all’infinito, è scientemente ricercato per agevolare l’introiezione da parte dello spettatore del contesto, dei personaggi e dei loro comportamenti.
La vicenda ambientata nel 1970/71 è uno splendido souvenir di un mondo che sta cambiando, di una Società in ebollizione, di bambini che crescono, di adulti che affrontano la vita. Un’opera sensibile con personaggi disegnati con tocchi leggeri. Una visione realista senza giudizi di sorta da parte dell’autore, in una visione che quasi non cerca risposte alle vicende che si sviluppano siano esse allegre o tragiche, quasi una poesia del quotidiano.
Di sicuro il film è un canto, una vera ode alle donne, al loro grande coraggio, alla loro forza, alla loro resilienza, al legame naturale di solidarietà che consente loro di far fronte sia alle gravidanze non volute sia agli abbandoni subiti e di dare e avere sempre una speranza.
Dunque un film autoriale, delicato, elegante e di classe innegabile, un film che dà emozioni fin dalla prima sequenza di apertura. Un film da cercare di vedere assolutamente.
data di pubblicazione:14/12/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Paolo Talone | Dic 13, 2018
(Teatro Quirino – Roma, 11/23 dicembre 2018)
Venuta a conoscenza del tradimento del marito con la moglie del suo scrivano Ciampa, Beatrice Fiorica organizza la sua vendetta, mettendo sulla pubblica piazza i fatti. Inutili i tentativi dei suoi familiari e del delegato Spanò nel dissuaderla dal suo progetto: lo scandalo scoppia. Sarà Ciampa a occuparsi di riaccordare le note impazzite di questo dramma privato che tale deve rimanere.
Nato dalla fusione di due novelle, come spesso è accaduto per i drammi pirandelliani, Il berretto a sonagli è uno dei testi dove la poetica del drammaturgo siciliano appare in tutta la sua complessità e chiarezza. Il contesto di una Sicilia primo novecentesca è solo il pretesto sul quale si appoggia un dramma intimo e devastante come quello di Ciampa, eroe per eccellenza come lo sono tanti personaggi di Pirandello. Le scene, che in questa produzione richiamano un gusto orientale, frutto del lavoro della giovane artista giapponese Keiko Shiraishi, che ambienta il primo atto in un giardino realizzato con degli alberi dipinti su grandi paraventi, non hanno un particolare valore simbolico, quanto suggeriscono una semplice scelta estetica. La visione registica verte invece sull’affermazione del testo e della parola, affidata soprattutto a una voce importante e profonda di un bravo Sebastiano Lo Monaco, regista anche della pièce. Il suo è un Ciampa giovane che ha appena passato la quarantina, ancora nel pieno delle forze e della dignità. Non è un personaggio quindi anziano, come spesso è stato rappresentato da grandi interpreti nel passato, e si fa più chiaro e forte il suo dolore e la volontà di mascherare e confondere il suo dramma del tradimento della moglie. Ha ancora molto da perdere in immagine, un percorso sociale ancora da svolgere, un amore ancora da mantenere, seppure questo in forma di recita. Sua rivale sulla scena l’altra vittima dell’adulterio, Beatrice, interpretata da Marina Biondi, brava nel ripetere la rabbia legata all’offesa, anche se la scelta di gridare il suo dolore fin dall’inizio ha bruciato e consumato troppo in fretta lo sviluppo del personaggio, rendendolo piatto e a tratti sgradevole.
Spazio anche alla commedia, con un contorno di attori ai quali è stato caricato l’aspetto comico e grottesco del personaggio, per meglio contrastare il paradosso di una società costruita sul buon senso e sul falso perbenismo a scapito del vero dramma della coscienza.
Un classico da vedere e da apprezzare in una versione ragionata e coraggiosa.
data di pubblicazione:13/12/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Dic 13, 2018
(Sala Umberto – Roma, 11/16 dicembre 2018)
Sia chiaro, stiamo parlando di un lavoro nato negli anni ‘70, una pièce di una delle coppie più trasgressive del teatro italiano: Dario fo e la moglie-compagna Franca Rame. Questo a sottolineare che i tempi potrebbero/dovrebbero essere cambiati(?) e così alcune situazioni come la condizione della donna nella società. Ma, anche rispetto al lavoro riproposto nella interpretazione di Valentina Lodovini, che avrebbe potuto pagare dazio al tempo trascorso. Invece, a tutto merito della riproposta del testo di Fo e Rame, questa edizione non ne risente ed ha una sua nuova e provocatoria ragion d’essere anche ai nostri giorni.
Certamente questo restyling sarebbe piaciuto agli autori, come pure – siamo sicuri – la generosa prestazione della bella (quando ci vuole) e brava Valentina Lodovini li avrebbe convinti. Lo spettacolo, che in origine prevedeva cinque monologhi, ne ha, nell’allestimento di Sandro Mabellini (il regista che ha riletto il testo originario) quattro, ma regge bene nella sua giusta durata e nell’alternanza dei temi. Il monologo, “la mamma fricchettona” che compariva nell’originale, è stato sostituito da “Alice senza meraviglie”, forse il meno riuscito dei quattro riproposti alla Sala Umberto, ma, anche questo comunque ottimamente reinterpretato dall’attrice di Umbertide. In sintesi, lo spettacolo si compone di monologhi a metà strada tra il comico e il grottesco, tutti giocati sulla condizione femminile. Nel primo c’è una donna, sola in casa, anzi segregata in casa, con infante e cognato “eccitato”, che conversa con una immaginaria vicina della sua finta apparente felicità secondo i canoni del tempo(?): televisione, elettrodomestici, senza però godere del rispetto del marito. Nel secondo, assistiamo a una esilarante prova “di orgasmo”, ovvero un monologo sul sesso di sicura presa. Nel terzo, viene esplorato il complesso ruolo della donna sul lavoro (madre-moglie-operaia) e nel quarto, il già citato “Alice senza meraviglia”, a comporre, definire e completare un quadro grottesco, sociale, popolare ed etico. Molte delle frustrazioni delle donne di ieri, ma, purtroppo anche di oggi, sono riproposte in tutta la gamma dei sentimenti e delle emozioni che li connotano. Gran merito, inutile dirlo, è legato all’interpretazione della Lodovini che dimostra, più che al cinema, di avere nelle sue corde sicure doti espressive ed emozionali. Le sue donne sanno essere ora comiche, ora umane, intellettuali o trasgressive e la generosa prestazione dell’attrice rende appieno le diverse facce del ruolo della donna di ieri ma attualizzandole al contesto odierno. Valentina supera la prova, sulla scena non si risparmia: ride, balla, canticchia, soffre, offrendo una performance di grande impatto fisico e maturità artistica. Anche i tempi dello spettacolo risultano ben dosati per una fruizione che il pubblico ha decisamente gradito.
data di pubblicazione:13/12/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 12, 2018
Storia di un retropensiero infame. Un gossip, un pettegolezzo ripreso dai giornali e diventato un caso social di Stato. Uno scrittore importante durante la presentazione di un suo libro meditando sulla sorte riservata alla nave Aquarius si abbandona in pubblico a un commento catastrofico, quasi augurandosi che dalla morte di un bambino il Paese potesse rimeditare il trattamento riservato ai migranti. Trattasi di pensiero politicamente scorretto specie se proveniente dalla sinistra politica. Così il giorno dopo (e i mesi dopo) Albinati deve fare i conti con un conto salato da pagare a un’affermazione che non è ideologica ma appartiene a quelle derive a cui spesso noi ci abbandoniamo. Altro dire è che da questa esile vicenda (così vanno le cose in Italia) un editore gli chieda un seguito. E quindi che da una mezza gaffe, da una parola uscita di senno, nasca un libro che richiederebbe ben altra complessità. Dunque poco più di cento smilze pagine per un piccolo affresco sociologico sul come, sul dove, sul quando della piccola vicenda quasi che Albinati (absit iniuria verbis) volesse sfruttare l’incidente per costruirci su altri incassi editoriali. Indubbiamente l’input è solo lo spunto per una riflessione più generale sulla società dello spettacolo e del pregiudizio, su come i mass media e un finto diritto alla partecipazione permetta a tutti di intervenire su tutto. Che non è democrazia ma tecnicamente chiacchiericcio di fondo, spesso non basato su reali argomentazioni. Così Albinati si abbandona a una lunga auto-difesa e divaga volentieri per dare costrutto a un libro su richiesta, di quelli che si montano su in quattro e quattro otto ma si dimenticano altrettanto velocemente perché basati su deperibili fatti d’attualità. Il problema dell’editoria italiana è che sono questi principalmente i libri che si comprano e si leggono. E bisognerebbe chiedersi il perché se qualcuno fosse interessato a sviscerare i limiti culturali di queste operazioni costruite a tavolino.
da Maria Letizia Panerai | Dic 11, 2018
Cosa accade se di fronte ad un lutto, le persone che restano non si comportano secondo “i canoni” che la società detta ed il dolore suggerisce? Mastandrea dedica il suo primo film da regista a chi resta, ossia a coloro cui spetta mostrare pubblicamente il proprio dolore che, non sempre, trova una naturale ed immediata esternazione.
Carolina Secondari (Chiara Martegiani) ha da poco perso il marito Mario, morto in fabbrica a seguito di un incidente sul lavoro. Il suo dramma privato diventa pubblico e politico, coinvolgendo la piccola comunità di Nettuno dove i coniugi Secondari vivono e dove si stanno per tenere i funerali di Stato. Carolina però non piange, non riesce a disperarsi, è bloccata: prova in tutti i modi a provocarsi quella naturale reazione ad un evento così atroce, ascoltando la musica che tanto piaceva a Mario o apparecchiando per la cena come se lui fosse lì, ma nulla scatena in lei la “giusta” reazione. Non è aiutata in questo neanche da Cesare, il padre di Mario, operaio anch’esso che porta dentro di sé il peso di aver convinto il figlio a seguirlo in fabbrica ma che mantiene con orgoglio e fierezza quella durezza da combattente per i diritti della classe operaia. Neanche Nicola, la pecora nera della famiglia e fratello maggiore del defunto, che si materializza dopo anni di volontario allontanamento dalla famiglia, riesce a consolare Carolina, forse perché troppo preso nel rinfacciare a Cesare di aver fatto di Mario un martire per ideali che lui non ha mai condiviso. Ed anche il piccolo Bruno, figlio di Carolina e Mario, in apparenza sembra più preoccupato a fare le “prove” di un suo ipotetico intervento ai funerali del padre, piuttosto che elaborare emotivamente la perdita. Ognuno di loro, dunque, “non si dispera”.
Mastandrea ha messo tutto sé stesso dietro la macchina da presa di Ride: le sue convinzioni, quel suo modo spontaneo e originale di recitare, in un lavoro sicuramente molto pensato e vissuto, dando a Chiara Martegiani il compito di “rappresentarlo” come suo alter ego al femminile. Carolina infatti, nel modo di esprimersi, nell’ironia dello sguardo, nel modo di camminare trascinandosi dietro i piedi a fatica, nel dare al suo corpo una postura ed una andatura scanzonata e disillusa, è Valerio Mastandrea.
Decisamente diversi sono Renato Carpentieri nella parte del padre di Mario, che regala al pubblico un personaggio ricco di pathos seppur anch’esso povero di lacrime, ed il bravo Stefano Dionisi che interpreta in maniera convincente un fratello addolorato, sopraffatto tuttavia più dal livore che nutre nei confronti del genitore che in nome dei suoi ideali ha di fatto condannato a morte suo fratello.
Il film ha un’idea di fondo molto buona ed originale, ed ha anche delle trovare surreali che lo rendono accattivante, anche se poi si perde per aver aperto tanti argomenti importanti senza riuscire però in modo convincente a chiuderli tutti, restituendoci un senso di incompletezza.
Come spettatori paghiamo dunque lo scotto di un regista che ha voluto raccontare troppo, avvertendo nel contempo lo spessore delle tante cose trattate, che fanno di Ride un discreto inizio.
data di pubblicazione:11/12/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 10, 2018
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 6/30 dicembre 2018)
Un’appassionata ricognizione dentro un’anima ferita. Una prova d’attrice illuminata per un recupero letterario di scarsa utilità e di dubbio appeal.
Il teatro se non è utile è didattico. Ma è contraddizione, sviluppo scenico, movimentazione, dialettica dei contrari. Se tutto questo non viene messo in gioco il fondale è fermo e persino un po’ stucchevole. Questo il dubbio mossoci dal recupero di una poco conosciuta scrittrice napoletana (Clotilde Marghieri), espressasi in tarda età, vincitrice con questo testo del Premio Viareggio nell’ormai lontano 1974. Licia Maglietta recupera una base vintage e un linguaggio lirico ma non proprio d’attualità per virarlo su una prova d’attrice assoluta in cui non è minimamente in dubbio la sua abilità e una recitazione volutamente sopra le righe, decisamente di stampo filodrammatico. Eppure è uno degli spettacoli di punta della succursale dell’Eliseo, reggendo praticamente da solo il cartellone di dicembre. Uno spettacolo difficile e breve (sessanta minuti) che si regge sulla tensione, sulla dovuta attenzione dello spettatore. Chi era presenta in sala era venuto per l’attrice e non per la scrittrice. La saldatura tra le due mediazioni è difficile e problematica. Non ci si riesce ad appassionare se nella notte di capodanno la scrittrice si rivolge al suo giovane e seducente interlocutore Jacques (riferimento scespiriano) muovendo enigmi sulla vita, sugli anni trascorsi. C’è sentore di decadenza e di bilanci. Nel ricordo immagini di incontri con artistici e letterati, il profumo del Vesuvio, l’attaccamento alla terra, le delusioni di amicizie non ripagate. La monologante è quasi sempre immobile e recita enfaticamente, sorretta a tratti solo dal suono suadente di un’arpa…
data di pubblicazione:10/12/2018
Il nostro voto:
da T. Pica | Dic 10, 2018
A ridosso delle vacanze di Natale, in una scuola elementare italiana (non meglio identificata a livello territoriale) sono tutti in fermento per la messa in senza della recita di fine anno. Il Preside (Corrado Guzzanti) vive questo momento con grande tensione, come se fosse alla direzione di un musical interpretato da bambini prodigio. Poi le voci stonate dei bambini durante le prove generali lo riportano alla cruda realtà dove non si intravedono prospettive di successo per lo spettacolo o bambini da talent show.
A poche ore dalla recita, però, l’improvviso e immotivato lancio di una pietra da parte di Samir contro una finestra dell’istituto scolastico innesca un vero e proprio effetto domino tra alcuni personaggi della scuola. Infatti, la pietra, oltre a mandare in frantumi il vetro di una finestra, colpisce, ferendolo, il bidello (Valerio Aprea) il quale, a seguito del colpo alla testa cade sulle scale insieme alla moglie, la bidella Loretta (Iaia Forte) che, a sua volta, si sloga un braccio. Il Preside, già agitato per gli intoppi dei preparativi della recita, d’urgenza convoca i familiari del piccolo Samir e i coniugi bidelli per mettere fine allo spiacevole incidente. La riunione, a un’ora dall’inizio della recita scolastica, tra il Preside, la coppia dei malconci bidelli cattolici, la madre (Kasia Smutniak) e la nonna paterna (Serra Yilmaz) di Samir, entrambe mussulmane, e la maestra Roversi (Lucia Masino) buddista, disattende le speranze di celeri transazioni nutrite dal preside e non pare destinata a definirsi bonariamente, né tantomeno prima del debutto degli studenti sul palcoscenico. Infatti, paradossalmente proprio il preside, sebbene si proclami un moderno direttore scolastico regista di una recita dalla “sceneggiatura” dedicata a tutte le religioni professate dagli alunni della scuola, viene continuamente messo “alla gogna” dalle polemiche e rigide madre e nonna del piccolo Samir. A sua volta, proprio il preside si ritrova goffamente autore di frasi che infiammo gli animi dei contendenti la pretesa risarcitoria (monetaria o anche mere scuse?). Giochi di parole, malintesi, scaramucce articolate in perfetti rimpalli scoppiettanti e in una costante escalation di risvolti quasi assurdi, danno un ritmo vivace al film. Alla fine chi dovrà rispondere dell’azione dell’incauto lancio del sasso?
La prima pietra è una commedia capace di raccontare con ironia delicata la realtà moderna e il multiculturalismo della nostra società, narrandone anche alunni paradossi, talvolta estremizzati, che traggono spunto da luoghi comuni, ma, prima di tutto, dalla Prima Pietra lanciata senza un reale e oggettivo motivo da Samir (la prima pietra intesa non solo nel senso più noto “chi non ha peccato scagli la prima pietra” del Vangelo di Giovanni, ma anche come primo gesto avventato, sconsiderato e del tutto spontaneo e immotivato di Samir, ovvero il primo atto di ribellione immotivata di una lunga serie che ognuno di noi a un certo punto della propria vita inizia a compiere). Grazie a un cast di attori bravissimi (Corrado Guzzanti e Valerio Aprea sono in stato di grazia), che sembrano vestire da sempre i panni del proprio personaggio, il film è un crescendo di ilarità fino alle lacrime e racconta un momento topico per i cristiani, come le ore che precedono la Vigilia del Natale, per coloro che credono e per chi li circonda e non crede oppure crede in altro, in una chiave originale e inedita.
data di pubblicazione:10/12/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonella Massaro | Dic 9, 2018
(Palazzo delle Esposizioni – Roma, 9 ottobre 2018/20 gennaio 2019)
La mostra Pixar 30 anni di animazione, ospitata dal Palazzo delle Esposizioni a Roma, propone un viaggio nel “dietro le quinte” di alcuni dei cartoni animati che hanno segnato l’immaginario delle ultime generazioni di bambini e di adulti: Monster&Co, Toy Story, Alla ricerca di Nemo, Ratatouille, Up!, Cars, Gli Incredibili, Inside Out, solo per restare ai titoli più evocativi.
La mostra mette in primo piano quelli che solitamente, specie nei film di animazione, sfuggono all’attenzione del pubblico: coloro che pensano la storia e coloro che a quella storia danno forma e colore, attraverso uno studio scientificamente minuzioso del movimento, delle espressioni, delle caratterizzazioni grafiche di ogni singolo personaggio e del mondo creato per ospitarli. L’occasione è indubbiamente preziosa: i bozzetti e i disegni digitali, nonché le statue di alcuni degli eroi più celebrati del grande schermo animato, offrono un viaggio che gli adulti saranno in grado di apprezzare più dei bambini.
Ci si sarebbe aspettati, forse, una maggiore ricchezza di materiali e qualche sforzo in più sul piano interattivo: è vero che tutto nasce dal tratto di una matita, ma è altrettanto vero che quegli effetti di animazione che hanno fatto la fortuna della Pixar avrebbero forse meritato una maggiore valorizzazione.
Non è un caso che le due “sale interattive” allestite nella mostra rappresentino le “attrazioni” che riscuotono il più evidente apprezzamento da parte del pubblico. Nella prima sala si resta letteralmente rapiti e ipnotizzati dallo zootropio, un dispositivo ottico che, attraverso una combinazione di piccole statue e di luci stroboscopiche, crea l’illusione del movimento sotto gli occhi meravigliati dei più piccoli (e non solo). La seconda sala è quella dell’Artscape, un’installazione digitale creata appositamente per la mostra e che consente allo spettatore di perdersi tra il magico fluttuare di mondi ricchi di colore e di fantasia.
Il prezzo relativamente elevato del biglietto (12,50 euro) è compensato dalla mostra dedicata a Pietro Tosi (fino al 20 gennaio 2019), ospitata dal secondo piano del Palazzo. Obbligata anche la tappa per l’esposizione gratuita Roma Fumettara (fino al 6 gennaio 2019), attraverso la quale la Scuola romana di fumetti offre visioni originali e suggestive di una città eterna che, evidentemente, ha ancora molto da raccontare.
data di pubblicazione: 9/12/2018
da Paolo Talone | Dic 5, 2018
(Teatro Quirino – Roma, 4/9 dicembre 2018)
Dramma a carattere familiare, Sorelle Materassi racconta l’impresa pirrica di Teresa e Carolina, che per mantenere e crescere l’amato nipote Remo, figlio viziato e prepotente della defunta sorella maggiore, s’indebitano fino a perdere tutto, nonostante i richiami e le avvisaglie continue della loro sorella minore, Giselda.
Si ripete al Quirino per una sola settimana uno spettacolo che ha avuto un grande successo la scorsa stagione, Sorelle Materassi, che si inserisce come un cammeo in un cartellone ricco e interessante di appuntamenti da non perdere. Noi di Accreditati.it lo avevamo già visto e recensito nell’articolo del nostro amico Rossano Giuppa (https://www.accreditati.it/le-sorelle-materassi-di-aldo-palazzeschi-adattamento-di-ugo-chiti-e-regia-di-geppy-gleijeses/), ma siamo voluti tornare lo stesso per omaggiare un invito al quale non si poteva dire di no.
Lo spettacolo si avvale della preziosa interpretazione di due grandissime attrici, Lucia Poli nel ruolo di Teresa e Milena Vukotic in quello di Carolina, sorelle, sarte per i grandi signori di Firenze, signorine perché non hanno voluto legarsi a nessuno se non a se stesse per difesa forse dal mondo, testimoni di un’Italia e di un’educazione che non esiste più, ma che le due interpreti sanno ripetere molto bene. Perfettamente accordate tra loro nella recitazione, se dovessimo incontrarle in un bar o su un autobus invece che a teatro, crederemmo davvero che siano unite da un vincolo di parentela molto stretto, tanto è impressionante la loro sintonia. Anche nella diversità dei caratteri sembrano recitare come se fossero un solo personaggio.
La regia supporta sapientemente la loro bravura e insieme dedica spazio, nel suo essenziale intervento, a un testo eccezionale, ricco di un vocabolario funzionale e ricercato. Vi trovano posto anche i silenzi, vere e proprie pause narrative consoni al racconto. Azzeccata la soluzione scenografica di mantenere vuota la stanza da lavoro dove tutto si svolge, spogliata di inutili orpelli e ridotta all’essenziale, come la vita delle protagoniste, ma ancora più geniale la presenza dell’albero di ciliegie in fondo alla scena. L’elemento rimane incorniciato dalla grande porta ad arco che dà sull’esterno dell’abitazione e solo sul finale, per un meccanismo di sollevazione della parete, si vede in tutta la sua interezza. Un groviglio di rami scuri in controluce, spoglio di foglie e di frutti, che diventa metafora delle sorelle Materassi: come gli uccelli di passaggio hanno beccato via tutto senza lasciare nulla, così Remo ha portato via ogni cosa, approfittando della generosità delle donne. Ma non solo lui se ne é approfittato, perché, come dice la serva Niobe (una bravissima Sandra Garuglieri), se non sono i passeri a mangiare le ciliegie sono i merli, e se non sono i merli sono gli stormi. Va così che si comprende che di drammi insoluti le sorelle Materassi, compresa la minore, la tormentata e rabbiosa Giselda (Marilù Prati), sono molti e dolorosi.
Uno spettacolo da vedere!
data di pubblicazione:05/12/2018
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…