BEN IS BACK di Peter Hedges, 2018

BEN IS BACK di Peter Hedges, 2018

Una madre, un figlio, l’amore indissolubile che li tiene legati, l’inferno della tossicodipendenza che trasforma le persone ma non i sentimenti.

 

È la vigilia di Natale. Holly Burns (Julia Roberts) e la sua famiglia allargata si preparano per la rappresentazione annuale in chiesa, per i regali, per la cena in cui ogni ingrediente deve essere quello giusto. Manca solo un tassello allo splendido mosaico che si va componendo: manca Ben (Lucas Hedges), il figlio maggiore di Holly, che sta cercando di disintossicare il suo corpo e la sua anima dal terribile demone della droga. Così, quando Ben si materializza di fronte alla porta di casa, Holly non riesce a trattenere le sue lacrime di gioia. La sua seconda figlia Ivy (Kathryn Newton) e il suo secondo marito (Courtney B. Vance), invece, sono terrorizzati: hanno paura che Ben non sia pronto, che non sia ancora capace di mantenere le sue promesse, che la droga tenga ancora in ostaggio la parte migliore di un ragazzo cui è stata rubata la spensieratezza dell’infanzia e della gioventù.

Holly e Ben raggiungono un accordo: Ben potrà restare a casa solo ventiquattro ore, poi tornerà nella comunità presso la quale sta faticosamente portando avanti il suo programma di disintossicazione. Holly si divide tra la gioia e il sospetto, tra l’amore della madre di Ben e il terrore della madre di un tossicodipendente.

Il ritorno di Ben, in effetti, non si rivela privo di conseguenze. A seguito di un incidente in casa, Holly e suo figlio inizieranno uno spasmodico viaggio proprio durante la notte di Natale: un viaggio che per Holly somiglia molto a una discesa agli inferi, che la porterà a guardare negli occhi le persone e i luoghi, colmi di disperazione e di degrado, in cui Ben ha trascorso buona parte della sua giovane vita. Holly imparerà a conoscere meglio suo figlio e, soprattutto, il temibile potere oscuro dell’eroina. Nonostante tutto, però, resterà la madre di Ben, pronta a rischiare anche la sua vita pur di essere presente quado suo figlio avrà bisogno di lei.

Ben is back, seguendo le cadenze di una parabola del figliol prodigo in versione contemporanea, è certamente un film che si caratterizza per una buona scrittura, a cui però manca un tratto che lo caratterizzi in maniera decisiva: l’impressione è quella di un racconto, pur nel complesso godibile e, nell’ultima parte, commovente, che non riesce a raggiungere le vette del film “da incorniciare”. Inappuntabile e da applausi la prova di Julia Roberts, il cui volto è capace di raffigurare l’intera gamma delle emozioni da cui è travolto il suo personaggio: la felicità, la paura, l’orgoglio, il coraggio, la disillusione. Non sempre all’altezza il coprotagonista Lucas Hedges, diretto dal papà Peter, che, per contro, non riesce a reggere il peso delle innumerevoli ed eterogenee sfaccettature che affrescano un personaggio indubbiamente complesso.

Un film da vedere, dunque, se non altro per il “coraggio” di riportare sul grande schermo il tema della tossicodipendenza, molto di moda negli anni Novanta e rispetto al quale è bene che (almeno) il cinema non spenga i riflettori.

data di pubblicazione: 30/12/2018


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L’ANIMALE CHE MI PORTO DENTRO di Francesco Piccolo – Einaudi editore, 2018

L’ANIMALE CHE MI PORTO DENTRO di Francesco Piccolo – Einaudi editore, 2018

Uno degli scrittori più letti, reclamizzati e (forse) sopravvalutati del mainstream ha voluto offrirci un nuovo manifesto del maschilismo. Più probabilmente il successo dei precedenti testi ha indotto l’editore a invitare Piccolo a raschiare il pozzo dei ricordi autobiografici regalandoci questa summa di avventure sessuali, pensieri maliziosi, tradimenti che fa fatica a convivere con il quadretto pacifico della vita nella famiglia Piccolo.

Lo scrittore avrà voluto miscelare gli accadimenti e raccontare alla moglie che gran parte della narrazione è pura fiction? Se così cadrebbe rovinosamente il presupposto biografico, il tema della verità del rivelarsi agli altri che è una sorta ermeneutica del libro. In ogni caso dunque incappiamo in una contraddizione. Piccolo non emana simpatia e dall’infanzia alla maturità un po’ decadente dei suoi 54 anni (non portati benissimo diremo) ci dispensa un repertorio di erezioni, masturbazioni, atti sessuali di impotenza, non risparmiandoci particolari neanche sulla fimosi (circoncisione) e sulle proprie emorroidi. Una caduta agli inferi greve e spesso immotivata che non giova alla compostezza del racconto. Che non è più letteratura ma saggistica con frequenti citazioni letterari su influenze che sembrano atte ad allungare il brodo. Così il volume appare un po’ lo specchio di tante infelice e poco ispirata letteratura italiana contemporanea, la rivelazione di scrittori che scrutano il proprio ombelico e si sentono padroni dell’universo. In fondo è una valutazione che fa bene alla letteratura perché indirettamente ci spinge a rivolgerci alla lettura di Saul Bellow, Bernard Malamud, Philip Roth, a temi più universali e sostenibili.

L’animale che è dentro Piccolo, mai frenato, ci solleva la curiosità di conoscere il prossimo escatologico orizzonte letterario del celebrato scrittore contemporaneo, arricchito dalle sceneggiature ma in fondo assolutamente risolto nel rapporto con sé stesso. Se dobbiamo credere a quanto vuole farci credere in questo libro di amena ma certo non indispensabile lettura. Si arriva fino in fondo con un certo sentore di stupefazione per il vuoto pneumatico del concetto di fondo: l’uomo italiano è incorreggibile.

data di pubblicazione: 27/12/2018

STUDIO DA LE BACCANTI di Emma Dante

STUDIO DA LE BACCANTI di Emma Dante

(Teatro India – Roma, 22 dicembre 2018/5 gennaio 2019)

La partenza è un laboratorio ed una ricerca sul mito greco, prendendo a riferimento un testo apparentemente distante e devastante, Le Baccanti di Euripide. È lo spettacolo Studio da Le Baccanti, in scena al Teatro India dal 22 dicembre 2018 al 5 gennaio 2019. Una discesa negli inferi interiori alla ricerca delle origini del misticismo e delle contraddizioni della cultura e della religione. Emma Dante, insieme agli allievi dell’Accademia Silvio D’Amico, ne estrae un teatro fisico, trasgressivo che sa di euforia e di morte: una elaborazione che lavora sull’ebbrezza e sulle contraddizioni giovanili.

 

Le Baccanti è considerata una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi. Esaspera il tema della forza della religione, il suo messaggio è un monito a tutti gli uomini ad adorare sempre gli dei e a non mettersi contro di essi. Un’accezione religiosa però non certamente positiva: Dioniso si dimostra una divinità assolutamente spietata nel punire chi non aveva creduto in lui, al punto di sterminare i suoi stessi parenti ed esiliare i sopravvissuti.

Dioniso, nato dall’unione tra Zeus e Semele,donna mortale vuole convincere tutta Tebe di essere un dio e non un uomo. A tale scopo per prima cosa ha indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, che sono dunque fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (le Baccanti). Ma Penteo, re di Tebe, rifiuta strenuamente di riconoscere un dio in Dioniso e lo fa arrestare.

Le Baccanti intanto hanno invaso alcuni villaggi, devastando tutto e mettendo in fuga la popolazione. Dioniso, parlando con Penteo, riesce allora a convincerlo a mascherarsi da donna per poter spiare di nascosto le Baccanti. Una volta che i due sono giunti sul Citerone, però, il dio aizza le Baccanti contro Penteo che si avventano su di lui e lo fanno a pezzi per punire colui che non aveva creduto nella natura divina di Dioniso.

Il progetto è partito da un’attenta analisi del testo, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, focalizzandosi principalmente sulla presenza del coro. La suggestione create dalla stessa regista e dal suo staff (Carmine Maringola alle scene, Sandro Maria Campagna per i movimenti scenici, Serena Ganci per le musiche e gli arrangiamenti corali, Cristian Zucaro alle luci) sono come sempre sorprendenti ed efficaci grazie al gioco delle luci, alla gestualità dei corpi ai dettagli espressivi, alla fluidità del racconto, alle scelte musicali. Straordinario nella sua semplicità l’impianto scenico. Una densità emotiva ed una forza d’urto che dal palco si trasferisce agli spettatori.

Bellissimo e intenso il lavoro sulla fisicità e sul ritmo dei giovanissimi protagonisti, mai banali o eccessivi, ognuno con una specifica identità espressiva, unici nel loro essere acerbi e veri.

data di pubblicazione: 26/12/2018


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TROPPA GRAZIA Gianni Zanasi, 2018

TROPPA GRAZIA Gianni Zanasi, 2018

La giovane geometra Lucia (Alba Rohrwacher), ragazza madre dell’adolescente Rosa, tenta di sopravvivere e di rimanere a galla barcamenandosi in piccoli lavoretti che talvolta lei stessa, nonostante la sua figura femminile esile, graziosa ed angelica, si trova in buona fede ad “estorcere” imponendo consulenze o pareri alle direzioni di cantiere in cui si intrufola mossa, in primis, dall’irrefrenabile voglia di far bene e garantire che l’edificazione, il progetto siano in regola con le regole del piano regolatore, delle mappe del catasto e dell’agenzia del territorio.
Nei maldestri e a volte rischiosi tentativi di sbarcare mensilmente il lunario, Lucia viene designata, proprio per la sua disperato bisogno di lavorare, dal sindaco Paolo (Giuseppe Battiston) per mettere “ordine” nelle mappe di classamento di alcuni ettari di terreno della campagna del viterbese dove un suo amico imprenditore (Thomas Trabacchi) dovrà realizzare un impianto alberghiero di lusso. Lucia, la quale ha da poco messo alla porta il compagno Arturo (Elio Germano), si tuffa in questo incarico che ben presto diverrà la fonte dei tormenti della sua coscienza. Lucia si rende conto di alcune irregolarità tra il progetto edile in fase di avvio e la reale conformazione dei terreni interessati dall’imminente edificazione, ma il sindaco le chiede di chiudere un occhio. Non appena si trova costretta a rinnegare i suoi principi di geometra corretta che agisce nel rispetto delle regole, Lucia inizia ad avere delle apparizioni: una giovane Madonna, dai modi talvolta aggressivi, le chiede di bloccare i lavori del progetto e di costruire una Chiesa su quell’area.
Il film, vincitore del premio Label nella sezione Quinzaine dell’ultima edizione del Festival del cinema di Cannes, è una commedia che timidamente, in una chiave a tratti tragicomica, ricorre ad una storia del paranormale per raccontare come ormai la vera normalità – sicuramente in Italia come in altri paesi – sia quella di un modus operandi conforme al non rispetto delle norme, dei piani regolatori, dei vincoli a tutela dell’ambiente e del paesaggio. Tutti lavorano chiudendo un occhio, violando o fingendo di non conoscere il limite della regola posta nell’interesse comune ed ecco che allora deve scomodarsi addirittura la Madonna per rimettere in riga quelle “perle rare” che a discapito della loro esistenza, del successo e dell’affermazione economica personale, agiscono nel rispetto del prossimo e della legalità. Che direzione prenderà Lucia? Cosa si cela sotto quei terreni?
Troppa grazia parte sicuramente da una buona intuizione e regala qualche sorriso grazie alla bravura del cast, a cominciare da Alba Rohrwacher, Elio Germano e il cameo di Carlotta Natoli (nel ruolo della migliore amica di Lucia). Tuttavia, la storia non fluisce, a tratti è troppo lenta, non ha il ritmo che probabilmente con qualche minuto in meno – ad esempio eliminando una serie di dialoghi e momenti spenti e inutili tra i personaggi di Lucia e Arturo (quest’ultimo davvero superfluo nella sceneggiatura) – e con dei migliori effetti speciali sarebbe stato meno banale e più sensato seppure nell’ambito di un racconto del paranormale.
Probabilmente in contrapposizione con il parere della giuria della sezione Quinzaine a Cannes 2018, il film non prende l’attenzione dello spettatore e non convince, salvo per la bravura della protagonista che finalmente veste i panni di un personaggio imperfetto e sorretto da una certa vis comica.
data di pubblicazione: 26/12/2018

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IL GIOCO DELLE COPPIE di Olivier Assayas

IL GIOCO DELLE COPPIE di Olivier Assayas

La storia di due coppie: un editore che deve far fronte alla rivoluzione digitale che investe il mondo della scrittura e dell’editoria, sua moglie attrice di successo (Juliette Binoche), uno scrittore autobiografico, depresso, e la sua compagna (Nora Hamzawi). Un quartetto e, con loro, i loro amici intellettuali parigini, tutti indistintamente, ciascuno a modo suo, in preda a dubbi e perplessità sulle loro scelte di vita e professionali davanti ai cambiamenti che sono costretti a subire e che non sono più in grado di controllare.

 

Film che ho perso alla recente Mostra di Venezia e che ho inseguito poi sui nostri schermi romani. Ma … lo dico subito, una delusione! Assayas è un regista e sceneggiatore francese con oltre 20 anni di carriera e discreti successi, suoi i recenti Sils Maria (2014) e Personal Shopper (2016) accolti entrambi positivamente sia da critica che dal pubblico di cinefili. Questa volta l’autore cambia registro e fa un’escursione nel mondo dell’editoria per parlarci dei mutamenti in atto come spunto per poterci poi parlare anche delle conseguenze dei mutamenti di costume nelle relazioni di coppia. Tutti sono doppi, tutti i personaggi hanno delle doppie vite e dei doppi fini (ben più corretto il titolo originale Double Vies, perché non mantenerlo? Vecchia questione questa dei titoli originali mal tradotti o fuorvianti), di cui il regista ci svela progressivamente segreti, ipocrisie e compromessi. Tutto è doppio: nelle vite, nelle coppie, nei libri autobiografici, nella realtà e nella politica. Il tema è certamente interessante, per l’autore non c’è una verità assoluta, tante infatti sono le possibili messe in scena della vita e tutte sono contraddittorie. Il regista avanza dubbi e domande riflettendo sulla cultura, sulla società che si evolve e sul fallimento della politica e delle utopie. Temi interessanti, ma risultati non certo all’altezza. Tanto pretestuoso è infatti lo spunto di affrontare il mondo dell’editoria, tanto pretestuoso, banale ed aneddotico è poi lo sviluppo filmico che ne consegue. Una specie di divertissement molto radical-chic, tutto intellettuale e fine a se stesso, un giochino che potrebbe, forse, riuscire a toccare le menti degli spettatori, ma non certo le loro emozioni.

Il Cinema francese, si sa, è da sempre un cinema molto “parlato” ove il linguaggio, le parole hanno un ruolo fondamentale, significativo e talora poetico, ma, nel nostro film i personaggi parlano, parlano e parlano senza mai arrivare ad alcun punto, il punto forse è solo il parlare ed il continuare a parlare. Se intenzione di Assayas era poi di voler prendere in giro una certa borghesia parigina persa fra cene e salotti intellettuali in cui si dibatte di argomenti di moda solo nel loro mondo esclusivo, il risultato è, ancora una volta, scarso perché poco convincente, privo del necessario mordente, di raffinatezza ed intelligenza. Al contrario, anche il discorso dell’autore si avvita su se stesso e sul piacere narcisistico di ascoltarsi parlare.

Un po’ poco, un po’ troppo poco direi io, da un autore come Assayas. Il film mostra fin dall’inizio tutti i suoi limiti, sarebbe forse bastato limitarsi ad accennare, invece il regista tende a sottolineare ed ancora a sottolineare cosicchè la storia inizia dopo poco a girare a vuoto, perdendo ogni mordente, salvo che lo spettatore voglia appassionarsi ai dibattiti fra intellò durante le varie cene, tutti eguali e tutte eguali.

Una storia povera, una quasi pigrizia di scrittura e sciatteria di riprese che lascia fin da subito perplessi. Un film decisamente non riuscito nonostante la buona interpretazione della Binoche e della Hanzawi e qualche lampo di humour, o piuttosto, di sarcasmo. Speriamo solo che Assayas torni presto ad essere all’altezza di se stesso con molte meno chiacchiere e più impegno

data di pubblicazione: 26/12/2018


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COLD WAR di Pawel Pawlikowski, 2018

COLD WAR di Pawel Pawlikowski, 2018

In un arco di tempo fra il 1949 ed il 1964, nella Polonia Staliniana, nella Parigi Bohémienne e nell’Europa divisa dalla Guerra Fredda, Wiktor (Tomas Kot) musicista polacco, alto borghese, colto e raffinato, incontra la giovane Zula (Joanna Kulig) di origini modeste ma passionale e talentuosa cantante con un pizzico di follia. Si innamorano per sempre, Wiktor di lì a poco fugge all’Ovest, ma l’amore li unisce, si perdono, si ritrovano. Un amore impossibile e distruttivo. Due innamorati che pur amandosi non riescono a poter stare insieme.

 

Dopo IDA, Oscar 2015 quale miglior film straniero, ecco di nuovo sui nostri schermi il talentuoso regista polacco con un film già premiato a Cannes per la migliore regia ed appena poche settimane fa, con l’ EFA (gli Oscar europei) come miglior film europeo 2018. Pawlikowski ci conferma tutta la sua maestria autoriale con un’opera visivamente impeccabile, con una regia, movimenti di camera, inquadrature e uso dei primi piani assolutamente originali e magistrali. Cold War è fotografato in un elegante bianco e nero che rende affascinanti le atmosfere della tormentata storia d’amore. Un bianco e nero contrastato, drammatico ed a tratti denso e velato per renderci l’alone di spaesamento della realtà narrata ed il grigiore della vita quotidiana ed anche l’interiorità tormentata dei due protagonisti smarriti nel loro amore. Il film è in effetti la storia di un amore tormentato ed appassionato, un amore assoluto, viscerale ed autodistruttivo, così tumultuoso, intenso e disperato che i due innamorati non riescono quasi a sopportarne il peso e si autodistruggono essi stessi pur non riuscendo a smettere di alimentare il sentimento che li unisce. Un amore così forte da tenere unite due anime che si riconoscono come destinate a vivere insieme, ma, non così forte da vibrare all’unisono e contemporaneamente quando le due anime riescono a viverlo. La storia fra i due è poi resa difficile ed è condizionata anche dalla situazione politica, dallo spaesamento derivante dalla lontananza dalla loro Polonia e, soprattutto dalla loro differenza di origini e cultura, dai loro forti temperamenti e dalle loro convinzioni. I due protagonisti sono materialmente lacerati fra il legame che li unisce ed il contesto che li separa. Una lacerazione sempre più distruttiva. Sullo sfondo della storia, solo sullo sfondo, malgrado il titolo, l’Europa che risorge dalle rovine della guerra mondiale, ma è già divisa, lacerata anch’essa dalla cortina di ferro della guerra fredda fra comunismo e libertà. Quasi una metafora. Il regista riesce ad esplorare le profondità di questa relazione impossibile rendendoci con assoluto pudore la purezza dei sentimenti dei protagonisti, la loro malinconia silenziosa e tutta la complessità di un legame che va ben oltre la loro stessa esistenza.

Il racconto si sviluppa per omissioni, condensato per elissi in soli 84’(evento raro oggigiorno, epoca di film lunghissimi), come sfogliando un album di foto, poche scene, brevi riprese, solo accenni di vita, lasciando poi allo spettatore ed alla sua immaginazione di ricrearsi ciò che succede alla vita ed ai sentimenti dei personaggi, nei lunghi spazi temporali che intercorrono fra un incontro e l’altro.

Il vero filo conduttore del film, quasi fosse un terzo protagonista, è la musica. Una musica che è sempre presente fin dalle prime inquadrature ed è l’elemento chiave per capire il racconto, in particolare la canzone “Cuori”, più volte cantata dalla protagonista in vari arrangiamenti, che di volta in volta affascina, lega o fa separare i due innamorati, anticipando nel suo testo tutto il senso della storia di questi due cuori attratti e contrapposti in un amore senza pace.

Volendo trovare dei difetti, a parte forse un certo squilibrio fra la parte iniziale e la storia d’amore, credo si possa rilevare che il regista non entri adeguatamente in profondità negli aspetti esistenziali dei suoi personaggi e si limiti invece a mostrarcene solo i segmenti di vita che li uniscono e poi li separano. Manca, a mio giudizio, un maggiore coinvolgimento, per cui alla fine il film risulta un’opera bella da vedere ma forse un po’ troppo fredda che coinvolge solo in superficie. Straordinaria ovviamente l’interpretazione dei due attori principali che rendono tutta la dolente sensualità del tormento delle anime e dei cuori dei loro eroi.

Cold War è un film drammatico sentimentale, un grande amaro canto d’amore, qualche critico lo ha anche definito “un film per cinefili o solo per Festival alla ricerca del capolavoro”, forse sì forse no, comunque sia, Cold War è un film da vedere che fa riflettere e su cui si deve riflettere e che forse andrebbe rivisto due volte per poter poi dire di aver già visto, fin da subito, un bel film.

data di pubblicazione:23/12/2018


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QUESTI FANTASMI di Eduardo De Filippo, regia di Marco Tullio Giordana

QUESTI FANTASMI di Eduardo De Filippo, regia di Marco Tullio Giordana

(Teatro Argentina – Roma,18 dicembre 2018/6 gennaio 2019)

Pasquale Lojacono, uomo di mezza età e senza un lavoro, si è appena trasferito con la giovane moglie Maria in un grande appartamento in uno stabile seicentesco. Il nuovo inquilino vorrebbe avviare una pensione per ristabilire la propria economia e forse anche il difficile rapporto con la moglie, ma l’attività stenta a decollare per via della cattiva nomina che ha la casa, che si crede infestata da fantasmi. Tuttavia i soldi arrivano lo stesso, forse per il favore di qualche anima che ha preso a ben volere Pasquale o forse perché a intervenire è la benevola mano di qualcun altro.

 

 

Incorniciata in una scenografia che rispetta fedelmente le indicazioni lasciate dall’autore, arricchita da una fila di panni stesi proprio in alto sul boccascena a definire la matrice popolare dell’opera, la commedia si accende sulle tavole del teatro Argentina, prendendo fuoco dalla piccola fiammella della candela portata in scena dal portiere Raffaele per illuminare il grande atrio dell’appartamento dove i tre atti della vicenda si svolgono. La messa in scena di Marco Tullio Giordana rende omaggio alla grande tradizione eduardiana, rispettandone la concezione di base di una storia costruita su personaggi comuni, popolari, sulle credenze e sulle incertezze di una umanità costantemente appesa tra il desiderio di essere felice e una realtà non priva di preoccupazioni. Pasquale Lojacono, interpretato superbamente da Gianfelice Imparato, è un personaggio maturo, consapevole, calamitico, che non si arrende davanti alla sconfitta e che è molto più acuto di quanto la commedia voglia farcelo pensare. Celebre la scena del caffè preso sul balcone dopo il riposo pomeridiano, dove il suo fantomatico interlocutore, il professor Santanna, lo addita come “becco”, ma lui becco non è perché il becco a cui fa riferimento è quello della caffettiera. Tragedia e commedia si mischiano, abitano un unico piano. Anzi la commedia prende forma proprio dal dramma e se ne nutre fino a diventare esilarante. È la magia del teatro eduardiano, è la capacità tutta napoletana di sfidare la vita con ironia e acuta intelligenza. Tutto questo non si perde in questa edizione, merito anche di una compagnia, la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, guidata dalla straordinaria Carolina Rosi nei panni di Maria, che da prova di saper tramandare una lezione anche nel coraggio dell’innovazione. Al testo non mancano aggiunte e aggiustamenti che non vanno a guastare minimamente la bellezza di questa opera d’arte ancora fresca e fruibile da un pubblico moderno.

Appuntamento da non perdere quindi per queste feste. Lo spettacolo sarà in scena fino al 6 gennaio.

data di pubblicazione:21/12/2018


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GAGMEN – I FANTASTICI SKETCH con Lillo&Greg

GAGMEN – I FANTASTICI SKETCH con Lillo&Greg

(Teatro Olimpico – Roma,18 dicembre 2018/6 gennaio 2019)

Tutto quello che vi fa ridere di Lillo&Greg, ma anche di Greg&Lillo, riproposti in scena al Teatro Olimpico da martedì 18 dicembre al 6 gennaio. La novità è offerta dal richiamo a super eroi mica tanto super, ed è l’occasione per festeggiare i primi 25 anni dell’affiatata coppia alle prese con i loro variegati repertori.

 

Se le risate del pubblico rappresentano un indice di gradimento assoluto, potremmo dire che i nostri simpatici eroi godono di un riconoscimento popolare pari quasi quanto quello dell’attuale governo… Questo almeno a giudicare dalla presenza e dal calore che il pubblico della prima (vips, generone romano, colleghi più o meno famosi e tanti giovani, vecchi e bambini) ha loro tributato, dunque, un pubblico entusiasta ed eterogeneo. Da qui l’accostamento al Salvimaio. Claudio Gregori e Pasquale Petrolo (Greg: quello alto e Lillo quello basso…) sono infatti trasversali, possono piacere a destra e a sinistra e al centro: hanno attraversato – e ancora lo fanno imperterriti – tutti i generi della comicità, da quella più facile e immediata, diciamo “nazional-popolare” a quella più sofisticata, mutatis mutandis, alla Woody Allen o ai Marx Brothers, sempre comunque in chiave personale e in salsa romanesca. Grazie a una forte vis comica connaturata e ad una immediata simpatia, i due spaziano dal teatro al cinema, dalla radio alla televisione e sanno altresì recitare, ballare, suonare (basti ricordare l’esperienza di Latte e i Suoi Derivati). Naturalmente, non tutti gli sketch sono allo stesso livello e, a voler essere critici, spesso si ha la sensazione – inevitabile – di averli già visti, senza peraltro riuscire a frenare un sorriso o una risata in virtù della resa irresistibile della coppia in scena. Ecco allora che il nuovo (?) spettacolo imbastito per festeggiare i loro 25 anni sulla scena, si trasforma in un gioioso riassunto delle puntate precedenti, dove l’originalità è rappresentata dalle scenette legate a presunti supereroi e agli intermezzi musicali (un’unica canzone interpretata in differenti stili) del bravo Attilio Di Giovanni. Nell’occasione i due, ma anche i loro comprimari Vania della Bidia ( “la bonona” oggetto del desiderio) e Marco Fiorini, reggono il gioco dello sfottò della razza umana nella sua più bieca normalità in modo convincente, regalando un divertimento sicuro per oltre due orette. Nello spettacolo che andrà in scena fino al prossimo 6 gennaio ci sono molti dei “cavalli di battaglia” del duo e qualche simpatica novità, ma, il senso di tutta l’operazione è quello di una festa dove si ride facilmente senza pensare troppo, in linea con quello che gran parte degli italiani hanno voglia di fare in tempi non estremamente sereni.

data di pubblicazione:20/12/2018


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LO SCHIACCIANOCI ideazione e coreografia di Massimiliano Volpini, con i danzatori del Balletto di Roma

LO SCHIACCIANOCI ideazione e coreografia di Massimiliano Volpini, con i danzatori del Balletto di Roma

(Teatro Vascello – Roma, 18/31 dicembre 2018)

La rilettura in chiave “ecologica” di un classico è la proposta del coreografo Massimiliano Volpini in scena fino al 31 dicembre al Del Vascello. La storia solo marginalmente ricorda la complessa e lunga favola di fine Ottocento, indissolubilmente legata alla grande musica di Tchaicovsky.

 

Non c’è delusione, ma evidente sorpresa nella fruizione del celebre balletto così rivisitato. Stupisce la nuova ambientazione ( non più la dimora borghese della fiaba di E.T.A. Hoffman) che ci conduce nei bassifondi di una metropoli fra “un popolo degli abissi” o “invisibili” o ribelli senza causa, alle prese con problemi di sopravvivenza e in lotta perenne con agguerriti “vigilanti”/topi. A ricordarci vagamente l’originale ci pensa la storia dei due giovani (Clara e Il Fuggitivo) che provano a superare il muro che divide la città affrontando cruenti scontri che ricordano La battaglia dei topi dell’originale  trasformandola in lotte di strada. A un certo punto, sembra di essere dalle parti di West Side Story, ma il coinvolgente incedere della musica e la bravura dei giovani protagonisti,  pur alle prese con le  nuove coreografie, tranquillizzano anche gli spettatori più scettici. Il viaggio immaginato dal fantasioso Massimiliano Volpini ha certamente i suoi pregi, certamente, quello della sorpresa: non ci sono i pupazzi e soldatino di recupero ma un’ambientazione da periferia in abbandono. Ne consegue che anche i costumi nella scena di apertura sono bizzarri e gli stessi  materiali  come il cartone, il legno, il vetro  fanno pensare a una scelta ecologica del suo ideatore (un riciclo virtuoso?). Dimenticando però tutto quello che c’è dietro (retropensieri sul concetto di festività, smarrimento delle identità sociali, lotta al sistema…), lo spettacolo ha comunque una sua forte ragion d’essere grazie alle coerenti coreografie e l’abilità dei giovani della compagnia del Balletto di Roma, tutti particolarmente espressivi e ben affiatati,  con Eleonora Pifferi (Clara) e Paolo Barbonaglia (Il Fuggitivo) su tutti. A riportarci, sia pure marginalmente, dalle parti dell’originale ci pensa un secondo atto, più tradizionale, che regala anche  il balletto sulle punte di innegabile fascino per i cultori del genere.

La risposta del pubblico non è mancata a riprova che, anche attraverso impostazioni originali, se ben diretti e rivisitati in modo intelligente, i “classici” riusciranno sempre a sopravvivere magari   interessando nuove platee di giovani. In questa chiave Lo Schiaccianoci di Volpini può dirsi tentativo riuscito.

data di pubblicazione:20/12/2018


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CAPRI-REVOLUTION di Mario Martone, 2018

CAPRI-REVOLUTION di Mario Martone, 2018

Capri, scoppio della Prima Guerra Mondiale. Un gruppo di giovani nordeuropei ha trovato sull’isola il luogo adatto per fondare una comune e ricercare insieme l’arte e la propria stessa identità lontano dal mondo così detto civilizzato. La gente del posto, seppur con una certa riluttanza, li ha accolti bene pur avendo una propria tradizione da tutelare e trovandosi sovente in contrasto con gli ideali utopistici dei ragazzi i quali, tra danze e riti iniziatici, sperimentano con la nudità dei loro corpi il contatto con la natura selvaggia del posto.

 

Di quella stessa natura è intrisa Lucia, ragazza analfabeta che un giorno, badando alle capre, quasi per caso incontra il capo carismatico del gruppo e ne rimane attratta, iniziando così a coltivare l’autoconsapevolezza di essere una donna libera e matura a cominciare un percorso di emancipazione fuori dagli stereotipi che la famiglia le impone.

Con Capri-Revolution, presentato in concorso all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Mario Martone chiude la trilogia, dopo Noi credevamo e Il Giovane favoloso, sulla storia dell’Italia dal Risorgimento alla Prima Guerra Mondiale. La sceneggiatura, scritta insieme alla moglie Ippolita Di Majo, è perfetta in ogni suo aspetto: ambientata nel passato, ci parla dei problemi di oggi, del nostro rapporto con la natura, del progresso tecnologico e della sopravvivenza stessa dell’umanità.

Capri, con la sua essenza arcaica, quasi mitologica, trova identificazione in Lucia (Marianna Fontana, una delle due gemelle siamesi nel film Indivisibili di Edoardo De Angelis), una ragazza povera di cultura scolastica ma che è l’essenza di tutti quegli ideali di libertà e di riscatto sociale con i quali ancora oggi l’universo femminile deve ancora misurarsi. La giovane inizia il proprio percorso di liberazione esattamente come gli esuli russi, che a Capri in quegli anni si preparavano alla grande rivoluzione: in un momento storico ben preciso in cui l’Europa entrava nel conflitto mondiale, Lucia rappresenta per il regista il pretesto per parlare di due mondi contrapposti, quello della comunità dei pastori dell’isola e quello della comune di individui naturisti, omeopati, vegetariani e antimilitaristi. Il racconto prende spunto proprio dalla comune realmente fondata dal pittore spiritualista Karl Diefenbach che intendeva praticare la sua arte attraverso un radicale sovvertimento delle leggi tradizionali, in cui era di fondamentale importanza il contatto diretto con la natura, in particolare attraverso la danza. I principi basilari di questo pensiero troveranno poi sviluppo negli anni ’60 e ’70, diventando un fenomeno collettivo che portò molti giovani di quella generazione verso la ricerca di una spiritualità del tutto nuova, lontano dai condizionamenti sociali e consumistici.

Cast di ottimo livello, tra cui Donatella Finocchiaro nella parte della madre; bella la fotografia curata da Michele D’Attanasio, già vincitore nel 2017 del David di Donatello per il film Veloce come il vento di Matteo Rovere: la nitidezza delle immagini piene di colore rimanda al simbolismo dei pittori preraffaelliti e alle figure luminose ispirate all’arte neoromantica.

Il film, carico di sentimento, ben accolto dal pubblico del Festival e dalla critica, ha già ottenuto diversi riconoscimenti tra cui il Premio Francesco Pasinetti, il Premio Carlo Lizzani, il Premio Siae e Sfera 1932 oltre al Premio Arca Giovani.

data di pubblicazione:20/12/2018


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