da Daniele Poto | Gen 28, 2019
(Teatro di Carbognano – Viterbo, 27 gennaio 2019 e poi in tournée)
Una soap opera per soli uomini. Tra colpi di scena, malintendimenti sessuali, le consuete e note storie di corna. Si ride, a volte a crepapelle.
Una prima nazionale riuscita per un format che vive da almeno dieci anni ad attori cambiati con una scena funzionale, una succulenta torta di matrimonio girevole che mostra interno e esterno del claustrofobico luogo che racchiude le vicende di quattro single ai ferri corti con la vita. In coabitazione per difficoltà economiche, con problematici rapporti con l’altro sesso. 3 + 1 perché la variabile impazzita è l’arrivo in questo universo fatto di regole, di ordine e di apparente pulizia un vicino di casa in rotta con la moglie. Nicola Pistoia, il diversivo, è una presenza scenica importante ed è un po’ il centro dell’affabulazione con i suoi numeri istrioneschi che derapano dal copione e lo vivacizzano con tic, brusche svolte neuronali, cambiamenti di umore. Invano il trio preesistente cerca di assorbirlo e/o respingerlo. L’invasore s’insedia nei confini di casa e tracima di problemi irrisolti. Quando uno dei tre cercherà di convincere la moglie a riprenderselo si scatenerà la gag più farsesca delle due ore di commedia, spesso con grossa grana di comicità. Altro che persuasione, la moglie adirà a un secondo tradimento facendo saltare in aria tutte le finzioni e i buoni propositi. Lo spettacolo è godibile, in due tempi. Con un quartetto che promette di mettere a regime una buona coesione, recuperando qualche piccola incespicatura con il mestiere e una discreta dose di improvvisazione. Sta nel mestiere dell’attore sfruttare persino la balbuzie per far ridere il pubblico. Ora il cast girerà fino a tutto marzo battendo i luoghi della provincia italiana, sfruttando una formula convincente di teatro leggero. I movimenti di scena sono significativi. Una finestra è utile per un’idea di fiducia. Fuori c’è il mondo, spesso incomprensibile, se è mondo di donne per questi single allo sbando.
data di pubblicazione:28/01/2019
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Gen 25, 2019
Inghilterra XVIII secolo, gli Inglesi sono in guerra con la Francia. La regina Anna (Olivia Colman), donna fragile, malata e capricciosa, siede sul trono, ma, di fatto, governa per lei la sua favorita ed intima amica lady Sarah Churchill (Rachel Weisz) prendendosi cura sia del Regno sia della Regina stessa. L’equilibrio va in crisi quando lady Sarah concede generosamente di lavorare a corte alla sua lontana cugina, la giovane Abigail (Emma Stone). Costei, nobile decaduta e povera, dietro alla facciata di umiltà ed innocenza, cela in verità una subdola e fredda voglia di rivalsa e di potere. Tra dissimulazioni, intrighi, sotterfugi ed amori saffici si apre una lotta senza quartiere fra le due dame per le grazie della volubile regina e per il potere.
Già pluripremiato a Venezia, da dove nei suoi Appunti di viaggio ce ne aveva fornito alcuni accenni con la sua brillante sintesi ed acutezza di giudizio la nostra M. Letizia Panerai, arriva oggi sui nostri schermi, ricco di altri premi e di ben dieci nomination per i prossimi Oscar l’ultimo film di Lanthimos. Il giovane regista greco è uno dei cineasti più sorprendenti ed originali per la natura dei suoi lavori e per la traiettoria singolare che ha saputo costruirsi nel corso di un breve lasso di tempo. Gli sono bastati infatti appena un pugno di film per essere inserito dai critici nel gruppo dei pochi autori di valenza internazionale, grazie al suo talento artistico, al suo humour surreale e dissacrante ed al suo gusto per una satira sociale molto caustica e libera da ogni tabù.
La Favorita, dopo The Lobster ed Il Sacrificio del cervo sacro, film entrambi, a dir poco, spiazzanti, è difatti il suo terzo progetto internazionale ed il primo di cui si limita alla sola regia. E che regia! Il film non delude nessuna delle attese che lo precedevano perché assistiamo al risultato di un lavoro prodigioso e riuscito sulle forme del cinema spettacolare e commerciale attuale. Il regista infatti si impadronisce e si diverte con i codici e le convenzioni dei film storici, dei drammi in costume e dei biopic, e, con ingegnosità ed audacia li fa propri, ne cambia radicalmente il registro e ne rende un insieme amalgamato che, nel contempo, è però radicalmente nuovo e del tutto originale. Può sembrarci un film apparentemente semplice, ma, in realtà è ben più complesso ed affascinante di tutte le precedenti realizzazioni dell’autore. Un film che dovrà essere rivisto per meglio coglierne tutti i vari piani di lettura. Pur uscendo dall’astrazione dei suoi pregressi lavori, il regista ama infatti continuare a sorprendere e spiazzare lo spettatore proprio mentre sembra avergli offerto un modo ed una prospettiva concreta, sia pur insolita e corrosiva, per leggere la storia che viene narrata.
Il film non è assolutamente il remake di un qualcosa già visto, al contrario è un’opera in tutto e per tutto originalissima e, se proprio vogliamo cedere al gioco dei rimandi, un qualche richiamo si può provare a fare solo al grande Kubrick di Barry Lyndon od anche al Greenaway di Compton House per alcuni tocchi scenici e per alcune riprese a lume di candela per restituire le atmosfere cupe dell’epoca.
Fra costumi sontuosi ed arredi di interni fastosi, l’autore ci racconta dunque di un intrigante gioco di amore e potere che vede coinvolte tre donne con pochi scrupoli, quale mero spunto per poi fare una amara e durissima riflessione sull’arrivismo, sull’egoismo, sul potere e, soprattutto sul desiderio del potere fine a se stesso, costi quel che costi pur di primeggiare sugli altri. Contemporaneamente il regista ci regala anche uno studio sulle rivalità al femminile, ove invidie, gelosie, competizione, manipolazione, uso della forza della bellezza o sfruttamento della debolezza psicofisica, dei sentimenti e del bisogno di affetti divengono tutte armi da usare, con pari cinismo e crudeltà, come armi vere, ed allora sesso e potere divengono ben presto lame pericolose e a doppio taglio. Pur cambiando il contesto narrativo, per Lanthimos resta sempre costante elemento distintivo della sua narrazione filmica la condanna inesorabile dell’animo umano ad essere sempre corrotto dal potere, dall’avidità e dalle sue debolezze nascoste. Per raccontarci tutto ciò l’autore mette in scena un mondo di immagini lussuose, un perfezionismo fastoso di ambientazioni, arredi ed acconciature, ripreso spesso, ma senza infastidire però troppo lo spettatore, con inquadrature in fish-eye o con primi piani o grand’angoli, per sottolineare così che l’immagine è al servizio della narrazione e rendere altrettanto palese allo spettatore che la storia e la realtà raccontate sono parzialmente finte e deformate, rendendo in tal modo il tutto molto più moderno.
Una regia quella di Lanthimos sempre dinamica e creativa ma mai eccessiva, una direzione che con ritmo incalzante tiene lo spettatore incollato allo schermo per seguire gli sviluppi narrativi dei complotti e dei giochi delle tre donne. Sono proprio le tre attrici protagoniste che danno con la loro recitazione un qualche cosa di intrigante ed interessante in più al film che lo rende alla fine quasi perfetto. Sono loro che tengono la ribalta e reggono tutte le scene in un film in cui non c’è spazio reale per gli uomini. La recitazione del Trio è veramente a livelli elevati, difficile dire chi interpreti meglio il suo personaggio. Di sicuro la Colman rende in modo perfetto tutto il disagio psicofisico della sovrana, ma non le son da meno le altre due alle prese entrambe con personaggi dalle molteplici sfaccettature. Lanthimos ha dunque superato la sfida con brio squisito ed audacia e si conferma un autore non semplice e nemmeno leggero, ma , di sicuro, geniale e di innegabile talento, capace di raccontare il passato giocando con elementi contemporanei ed in modo moderno.
La Favorita è un film autoriale pienamente riuscito che piacerà al grande pubblico ed ai cinefili.
data di pubblicazione:25/01/2019
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da Daniele Poto | Gen 24, 2019
Una guida didattica, una cartolina dall’Italia o un caleidoscopio dei meravigliosi borghi non conosciuti di quello che una volta era definito il Bel Paese? Il sottotitolo è illuminante:“più di venti ragioni per visitare venti regioni”. Gioco di parole a parte questo è un libro da sfogliare e da centellinare in occasioni di viaggio perché per ogni regione italiana offre luoghi inconsueti e poco frequentati, ricette abbastanza misteriose, curiosità e folclore. Di tutto un po’ all’insegna della divulgazione della ricerca di conoscenza senza particolare ambizioni intellettualistiche. Il gran formato è adiuvante per l’estetica delle foto. L’impaginazione è spartanamente schematica ma il valore aggiunto sono le testimonianze di cittadini del luogo (scrittori, entusiasti archeologi) che spendono un eloquente biglietto da visita per la propria terra. L’Italia è l’unico Paese europeo con 100 città (circa) da 100.000 abitanti e oltre. E ciascuna con una propria specificità e un rigoglioso patrimonio culturale. Non a caso nell’anagrafe dei luoghi tutelati dall’Unesco l’Italia è saldamente al primo posto con un 6% di presenze. Purtroppo a questa materia prima estetica non corrisponde un analogo primato del turismo. In questo settore addirittura l’Italia è scivolata giù dal podio occupando al momento il quarto posto, superata persino dalla lontana Cina. Il manuale regionale tocca luoghi impensati e impensabili compresa quella regione su cui si fa spesso ironia:“Ma il Molise esiste?” La chiarezza espositiva ne fa un gradevole compendio scolastico, strumento per non specialisti appartenendo in modi molto estensivi al repertorio della letteratura da viaggio.
Un originale capitolo a parte è dedicato alle feste tradizionali e qui si immerge in un mondo ancora per molti versi inesplorato la cui ricerca a suo tempo fu innescata dagli studi sulle tradizioni popolari di De Martino e Carpitella. Italia unica, diseguale, contraddittoria, ricca di fascino e purtroppo anche di una natura spesso devastata colpevolmente dall’uomo.
data di pubblicazione:24/01/2018
da Maria Letizia Panerai | Gen 24, 2019
Una romantica storia d’amore che diviene struggente perché conosce la tristezza della separazione, ma che invece di spegnersi si autoalimenta. E così l’amore diviene strumento per difendersi dalle ingiustizie e dal dolore, quell’amore che rende forti se viene instillato sin da bambini, come cura per affrontare le brutture del mondo.
Siamo nel quartiere di Harlem a Manhattan negli anni ’70. Tish ha appena diciannove anni ed ama profondamente Alonzo, detto Fonny, che ne ha ventidue: i due sono cresciuti insieme, inseparabili sin dalla tenera età e, seppur giovanissimi, il loro è un legame profondo. I genitori di lei ne sono perfettamente consapevoli, forse perché anche loro si amano ancora molto, mentre quelli di Fonny, perennemente in lite, non vedono di buon occhio la ragazza. Queste diverse vedute non impediscono alla coppia di progettare un futuro insieme e l’improvvisa gravidanza di Tish consolida quel legame già così stretto. Ma i loro romantici progetti di una felice vita in comune s’interrompono allorquando Fonny viene accusato di un reato che non ha commesso.
If Beale Street Could Talk di James Baldwin è il romanzo da cui Barry Jenkins ha tratto ispirazione per il suo Se la strada potesse parlare. Presentato con successo durante l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, la pellicola riesce a mescolare, fedele al racconto, romanticismo e tristezza, melanconia e dolcezza, rabbia e dolore. “Beale Street è una strada di New Orleans, dove sono nati mio padre, Louis Armstrong e il jazz. Ogni afroamericano nato negli Stati Uniti è nato a Beale Street, è nato nel quartiere nero di qualche città americana, sia esso a Jackson, in Mississippi, o a New York. Beale Street è la nostra eredità. Questo romanzo parla dell’impossibilità e della possibilità, della necessità assoluta, per dare espressione a questo lascito…”
Il tema principale del film è l’amore, coniugato attraverso l’indissolubile legame di coppia dei due giovani protagonisti e l’altrettanto indissolubile legame di loro con le famiglie di appartenenza, legame di cui fanno parte anche le amicizie del quartiere in cui Fonny e Tish sono nati e diventati grandi, attraverso un codice sacro non scritto tramandato in tutte le famiglie afroamericane. E così, quando il più naturale dei progetti naufraga in seguito ad un’ingiustizia, l’amore instillato sin da piccoli rende forti e pronti a sopportare anche la più dura delle prove.
Barry Jenkins, premio Oscar per il bellissimo Moonlight e di fresca nomination ai prossimi Oscar per la sceneggiatura non originale di questo film – a cui si aggiunono le nomination a Regina King come attrice non protagonista e alla colonna sonora – è riuscito a trasferire sullo schermo non solo il poetico romanticismo ma soprattutto la forza inscalfibile dell’amore di cui parla Baldwin, che nasce da un “contagio” che si eredita in famiglia e che riesce a coinvolgere emotivamente anche lo spettatore.
data di pubblicazione:24/01/2019
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da Antonio Jacolina | Gen 22, 2019
Ancora una volta torna al cinema la tragica vicenda umana e politica di Maria Stuarda (Saoirse Ronan) giovane vedova del Re di Francia, Regina di Scozia nonché pretendente al trono d’Inghilterra in contrasto con la cugina Elisabetta I (Margot Robbie). Una rivalità fra donne e regine e, nello sfondo, il più ampio conflitto fra le fazioni cattoliche e protestanti sia inglesi che scozzesi nella seconda metà del 1500.
In attesa dell’ormai prossima uscita dell’attesissimo La Favorita del geniale ed irriverente Y. Lanthimos, grande favorito ai prossimi Oscar, complice anche un pomeriggio di pioggia, non abbiamo saputo resistere alla fascinazione di questo classico che non tramonta mai ed alla voglia di pregustare il sapore degli intrighi delle corti e dei palazzi reali, scozzesi od inglesi che siano.
La quarantenne J. Rourke apprezzata regista teatrale inglese, debutta oggi dietro la cinepresa affrontando coraggiosamente e con maestria un tema ed una storia già portata sugli schermi cinematografici per ben 8 volte. Restando fedele alle sue origini ed avvalendosi di un buon adattamento curato da B. Willimon, l’autore di House of cards, la regista costruisce un dramma molto classico che, oltre che sul conflitto di potere fra due regine, si centra soprattutto sul confronto fra due donne, due donne autorevoli in un universo però dominato dal maschile e dal patriarcale. L’autrice, adattando la storia ai nostri tempi, quasi una metafora dell’attuale, si focalizza essenzialmente, in una loro contrapposizione costante, sul diverso ruolo delle Regine e delle donne nelle due diverse corti reali e nella Società dell’epoca in genere. E’ la storia di due donne forti ed indipendenti che cercano, al loro meglio, di gestire e mantenere il loro potere, incapaci però di conciliare le proprie personali discordie con le strategie, gli intrighi politici che le circondano.
La regia segue con fluidità e giusto ritmo narrativo la vicenda delle due sovrane, quasi in parallelo, in una continua lotta a distanza fatta tutta di congiure e tradimenti, allorchè poi la narrazione diviene troppo ricca concorrono a farle da valido sostegno le ottime interpretazioni delle due protagoniste, fino al culmine narrativo del loro faccia a faccia finale fra rivalità ed affascinazione reciproca di vere combattenti. Un incontro questo mai avvenuto nella realtà, ma un “falso” ormai diventato “storico” in tutte le trasposizioni, per accentuare la tensione drammatica del racconto.
Entrambe le attrici sono vincenti. La Ronan si consacra definitivamente come ottima attrice, capace di esprimere con naturalezza affascinante tutti i sentimenti e la sensualità della regina di Scozia. Alla sua altezza è la Robbie che dopo l’exploit di Tonya si conferma come un sicuro talento.
Di contro la regista, pur senza essere innovativa, dimostra di avere una buona mano, la messa in scena è elegante, ma talora l’approccio è solo estetico, un po’ freddo e senza coinvolgimento, quasi didascalico, ed allora il ritmo narrativo diviene incostante. Nuoce soprattutto al film, quasi snaturandolo oltre misura, l’insistenza di voler rendere troppo moderna la vicenda, finendo così con il darci più un ritratto emotivo che non un ritratto storico dei rapporti fra le due regine. Di qui poi una serie di forzature, di libertà ed inaccuratezze storiche ed anacronismi eccessivi che a nulla giovano e che invece sicuramente deluderanno ed irriteranno gli appassionati di Storia o della Verità storica. Viste le precedenti celebri trasposizioni e interpretazioni sarebbe ben difficile per il nostro film distinguersi, per cui dovendo escludere, gioco forza, ogni confronto, Maria Regina di Scozia, va visto non certo come un capolavoro, ma solo come un film più che onesto, ben curato, elegante e ben recitato. Un film con alcuni difetti, ma comunque un film da poter senz’altro vedere, apprezzare e godere per poi passare oltre, in attesa, fra qualche anno, di una nuova trasposizione.
data di pubblicazione:22/01/2019
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da Rossano Giuppa | Gen 19, 2019
(Teatro India – Roma, 16 /20 gennaio 2019)
Dal 16 al 20 gennaio 2019 al Teatro India, torna lo spettacolo Famiglia, della drammaturga e regista Valentina Esposito, fondatrice della factory Fort Apache Cinema Teatro, un progetto teatrale rivolto a detenuti ed ex detenuti per il loro inserimento nel sistema spettacolo.
Intenso e coinvolgente, Famiglia è un’antica ma non sbiadita fotografia di una famiglia in cui, nonostante le concordanze apparenti, ciascuno “tira dritto per una strada”, tutti provvisoriamente riuniti, tre generazioni tra vivi e morti, il giorno del matrimonio dell’ultima e unica figlia femmina: una cerimonia apparentemente tradizionale in cui si cannibalizzano e si divorano i sentimenti e gli affetti; una polveriera carica di amore e odio che sta per esplodere.
Essenziale ed evocativo, dotato di elementi figurativi spogli, Famiglia è testimonianza di un’umanità marginale, perdente, cruda per un racconto che è poesia amarissima e profonda.
Essenza del manifesto di attività che FACT (Fort Apache Cinema Teatro) esplicita sin dalla sua costituzione nel gennaio 2014 per volontà di Valentina Esposito, autrice e regista impegnata per oltre un decennio nelle attività teatrali all’interno del Carcere di Roma Rebibbia.
Insieme a Marcello Fonte, tanti attori straordinari (ex detenuti e non) che danno vita al dramma: uno spettacolo che prova a scandagliare l’anima dei personaggi facendo perno anche sulla sofferenza legata ai lunghi anni di reclusione affrontata da molti di loro. Ecco allora che il matrimonio dell’ultima e unica figlia femmina di una numerosa famiglia tutta al maschile, diventa pretesto per riunire tre generazioni di persone legate da antichi dolori e incomprensioni, per rimettere sullo stesso tavolo i padri dei padri e i figli dei figli, e consumare una vicenda d’amore e d’odio, di affetti e violenza, di solitudine. Un teatro dal sapore antico, da primo Nekrosius, fatto di oggetti ripescati nel quotidiano, di nenie e di veli da spose, di bianco, di nero e di rosso, forte di una coralità estrema, di fotogrammi intensissimi, pittorico ed esteticamente sofisticato nella essenzialità.
data di pubblicazione:19/01/2019
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da T. Pica | Gen 19, 2019
A quasi due mesi dall’uscita nelle sale italiane, potevamo noi Accreditati non scrivere di uno dei film più acclamati degli ultimi anni? E già, a quanto pare, e la permanenza in sala la dice lunga, Bohemian Rhapsody del regista Bryan Singer è tra i film che ha più incassato negli ultimi 20 anni e la corsa al botteghino non pare destinata ad esaurirsi.
Il lungometraggio racconta la storia del leggendario gruppo rock pop dei Queen attraverso l’occhio del front man Freddie Mercury (Rami Malek). Freddie, così si faceva chiamare invece di Faruk, non si riconosce nei rigidi insegnamenti del padre e della sua famiglia persiana migrata in Inghilterra. In un clima di latente ribellione nei confronti degli schemi tradizionali e delle aspettative nutrite per lui dal padre, la musica è il cuore che pulsa dentro Freddie e lo spinge, come in una sorta di disegno divino già scritto, a conoscere, nella stessa serata, i 3 ragazzi che poi sarebbero diventati la sua “famiglia” dal nome Queen e l’amore della sua vita (“Love of my life” fu scritta per lei) Mary (Lucy Boynton). Siamo nel 1970 e Freddie, Brian May (un identico Gwilym Lee), Roger Taylor (Ben Hardy) e Jhon Deeacon (Joseph Mazzello) iniziano la loro inaspettata ascesa all’olimpo della musica mondiale. Come in tutte le favole però, il nostro eroe deve fare i conti con il successo, i suoi conflitti interiori mai del tutto risolti, la presa di coscienza della sua omosessualità concomitante con l’amore per Mary e i personaggi saprofiti che lo affiancheranno giocando sulle sue debolezze per trarne solo profitto, tra cui Paul Prenter (Allena Leech) che divorò Freddie portandolo a lasciare i Queen e a precipitare. Il film ben racconta l’esordio, l’ascesa, le frizioni, il momento buio del leader del gruppo, catapultando lo spettatore nel fenomenale tornado che rapì 4 giovani ragazzi, estremamente diversi tra loro ma uniti dalla passione sfrenata per la musica che ne curò la sofferenza per la comune appartenenza alla classe degli emarginati, degli incompresi invisibili della società di quegli anni.
E così, una dopo l’altra, assistiamo entusiasti alla nascita delle prime note, degli accordi e dei testi delle canzoni che poi sarebbero divenute leggenda segnando le tappe del successo dei Queen, tra cui la mitica Bhoemian Rhapsody che da il nome al film, fino al concerto Live Aid del 13 luglio 1985 che segnò il ritorno insieme dei Queen. Sul palco del Wembley Stadium di Londra Freddie ritornò sulle scene per beffare e ignorare il virus Hiv che ormai lo aveva colpito, continuando a fare quello per cui era nato: cantare e far toccare al pubblico, insieme alla sua famiglia Queen, il paradiso con un dito. Nonostante il Golden Globe recentemente vinto come “Migliore film drammatico”, Bohemian Rhapsody non spicca per particolare bravura degli attori – il protagonista Rami Malek vincitore del Golden Globe “migliore attore protagonista in un film drammatico” appare a tratti ridicolo. Infatti, la marcata ed eccessiva accentuazione dei denti incisivi sporgenti lo portano più ad assumere espressioni distorte e fuori luogo, penalizzandone sia la eventuale bravura recitativa, sia la somiglianza con il divino Freddie Mercury.
Diciamo che la forza travolgente, emozionante e commuovente del film, che nel complesso è piacevole e regge per l’intera durata, vince facile grazie al repertorio della band e alla magia della storia di questo gruppo unico nel suo genere. In ogni caso, per chi ancora fosse indeciso, un film da vedere per tornare ad appassionarsi o per conoscere meglio un pezzo di storia della musica mondiale.
data di pubblicazione:19/01/2019
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da Paolo Talone | Gen 19, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 15 gennaio/3 febbraio 2019)
Come un teorema minuziosamente elaborato, dopo l’enunciato sono gli esempi a dare dimostrazione che quanto si afferma funziona. Così il professor Gennaro Bellavista torna in cattedra, questa volta da un palcoscenico, a dare lezione al suo pubblico di discepoli.
Non poteva che essere affidata che a Geppy Gleijeses la traduzione teatrale del romanzo e del più celebre film datato 1984 Così parlò Bellavista, secondo il parere del produttore Alessandro Siani. E ha avuto ben ragione perché dopo 34 anni lo spirito del professore partenopeo, interpretato all’epoca da Luciano De Crescenzo, rivive intatto e sempre brillante per merito non solo di un bravo attore come Gleijeses (che nel film originale era Giorgio), ma anche di una squadra di artisti eccezionali e ottimi caratteristi che sono stati testimoni oculari della creazione di questo cult anni ottanta. Benedetto Casillo primo fra tutti, ancora nei panni del vice sostituto portiere Salvatore, Marisa Laurito, storica amica di De Crescenzo che nella commedia è Maria Bellavista, moglie del professore, una straordinaria Nunzia Schiano nei panni della serva Rachelina, e poi ancora Salvatore Misticone, camaleontico istrione quasi sempre in scena per il folto numero di personaggi a lui affidati.
Lo spettacolo, presentato al San Carlo di Napoli proprio lo scorso settembre in occasione dei novant’anni di De Crescenzo, non è solo un omaggio al suo autore, ma all’intera città e ai suoi abitanti che a detta del regista è l’unica speranza che abbiamo per salvarci da un progresso che vuole omologare tutto e tutti. La filosofia del vivere napoletano, il modo di affrontare la vita e le sue delusioni, la positività che rimane in piedi nonostante le delusioni, la gioia di vivere e di far parte di una comunità caotica, forse invadente, ma tuttavia accogliente e calorosa, sono ancora insegnamenti che valgono per noi oggi.
A ben pensare non ci voleva poi molto per portare in scena questo grande affresco, poiché quello che rappresenta in fondo è Napoli, forse la città più teatrale al mondo. Casomai la difficoltà più grande stava nel ripetere l’elenco delle numerose scene che il film risolve con l’uso del montaggio. Qui la soluzione che si è trovata vede una scena fissa, il cortile del palazzo di via Foria famoso nella pellicola, e l’utilizzo di forme di cartone a indicare via via una macchina, un aereo, la famosa lavastoviglie o il busto di Socrate. Ma a teatro basta indicare, non rappresentare con perfezione di dettaglio la realtà, e allora l’esperimento è riuscito. D’altro canto Napoli non è una città da visitare e basta, ma va compresa, bisogna saperla vedere. Dietro i panni stesi, che a un occhio non consapevole suggeriscono solo caos e non curanza, si nasconde una sottile rete di relazioni e di legami tanto che, come istruisce Bellavista, se il Padreterno volesse sollevare una casa qualunque si accorgerebbe che appresso a lei si muoverebbero tutte le atre, insieme con i fili del bucato e tutti i panni. In questo mondo di amore, come lo chiama il professore, non c’è spazio per l’egoismo, per la violenza, per l’avidità e per la prepotenza. Ecco perché il colloquio di Bellavista con il guappo camorrista, in cui si denuncia l’aspetto più brutto della città, quello di chi vuole fare i soldi facili sfruttando la gente onesta, rimane il brano più coraggioso, significativo e purtroppo ancora attuale di tutta l’opera.
Per fortuna Napoli e la napolitanità è una componente dell’animo umano ravvisabile in tutte le persone e allora il mondo dell’amore, quello di chi ama fare il presepe a Natale e preferisce il bagno alla doccia perché permette di riflettere più a lungo sulle questioni della vita, è ancora possibile.
data di pubblicazione:19/01/2019
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da Daniele Poto | Gen 16, 2019
Un meraviglioso excursus su una vita di poesia, di cultura, di intense frequentazioni letterarie. Elio Pecora, generoso ultra-ottantenne, uno dei capostipiti della poesia italiana (come autore ma anche come divulgatore e pubblicista) squaderna subito in copertina le sue relazioni più intense. E nella fotografia di gruppo c’è il Gotha del pensiero intellettuale italiano nella stagione più fervida per la lettura e l’affermazione della poesia (con tanti premi Nobel nostrani). C’è Alberto Moravia, c’è l’irrequieto Bellezza, c’è Elsa Morante. Pecora si racconta in prima persona. Il pubblico e il privato, il personale e il politico si armonizzano in un quadro di case, di interni, di discussioni, di ristoranti, a volte di feroci litigi e antipatie. Immaginare tutto questo oggi è impossibile. Perché non c’è più l’abitudine di ritrovarsi da Cesaretto o nella villa dei Moravia a Sabaudia. Non è solo una generazione di estinti, è il libro stesso che sembra destinato a sicura morte. Dunque quella di Pecora è una testimonianza ma in fondo anche un testamento di un’epoca felice. Pecora sembra aver vissuto tante vite mentre racconta la sua, unica e inimitabile. Il libro è anche la storia di un’irrequietudine di un ragazzo che trova il suo primo lavoro nella Libreria Bocca di Roma e da quel momento innesta una marcia superiore per stringere relazioni, amori, interessi. Pecora non guida la macchina ed è assai a disagio nel caos metropolitano della Roma attuale. Un disagio che registra la fine di quelle comunità e quelle intese che hanno segnato un periodo virale, immediatamente dopo la cosiddetta Dolce Vita. Italiani più poveri e più felici? Fuori dal quadretto oleografico si respirava altra aria e altra generosità anche se rivalità ed egoismi personali non mancavano alla società letterari dell’epoca. Era il mondo di fuori decisamente più permeabile e abbordabile. Pecora è una presenza, un trait d’union, un amico fidato o un appassionato confidente. Giocando questi ruoli diventa protagonista e s’insedia in un Gotha di belle teste e belle anime.
data di pubblicazione:16/01/2019
da Giovanni M. Ripoli | Gen 16, 2019
(Sala Umberto – Roma, 15 gennaio/3 febbraio 2019)
Carlo Buccirosso interpreta il vice questore Armando Piscitelli, onesto paladino della giustizia in un commissariato di provincia. E’ spalleggiato da validi e fedeli collaboratori nella lotta al crimine, “la barbarie di tutti i santi giorni”. Non tutto andrà liscio fino al sorprendente… colpo di scena.
Carlo Buccirosso, in questi ultimi anni, sta raggiungendo il successo che merita. Attore poliedrico, ma anche autore, si divide felicemente ed equamente fra cinema (ora fa il Boss, ora l’amico affidabile, ora il piccolo truffatore) e il teatro leggero. Nell’occasione, però, ha scritto e interpretato un testo che in qualche misura può spiazzare i suoi più tradizionali appassionati. Il Colpo di Scena, è infatti quello che potremmo definire un thriller o per certi versi un divertente noir viste le implicazioni sociali e una certa durezza della narrazione in alcuni frangenti. Diciamolo subito, non è, quindi, una commedia classica, naturalmente la cifra stilistica è “alla Buccirosso” (ritmo e battute in rapida successione) ma, l’architettura dello spettacolo e gli intenti del regista non sono solo quelli del puro divertimento. In alcuni momenti, infatti, il vice questore Piscitelli (Buccirosso) ci va giù pesante e, a modo suo, lancia invettive contro il potere statale, la violenza contro le donne, la stupidità dei giovani schiavi delle mode, trasformandosi in una sorta di missionario votato a ripulire la terra dalla barbarie… in buona sostanza strappando risate ma invitando anche a riflettere … Lo spettacolo si divide in due atti ben distinti fra loro, nel primo ci troviamo in un piccolo commissariato di provincia dove l’integerrimo vice questore tiene a rapporto la sua squadra: l’ispettore Murolo, da lui tartassato perché “lecchino”, i rampanti giovani poliziotti, Varriale e Di Lauro, la sovrintendente Signorelli (“la Tettona”), affidabile e innamorata da sempre del suo capo. A parte la triste routine offerta della delinquenza spicciola, il vero nemico del vice questore è un tale Michele Donnarumma, personaggio forse losco che assurge a capro espiatorio e vittima predestinata del rigore maniacale del Piscitelli. Nel secondo atto, la scena si trasferisce nella casa di montagna dove vive il genitore del Piscitelli, ex colonnello dell’esercito afflitto da Alzheimer con a seguito badante guarda caso rumena!) e neurologa di fiducia. In quel contesto, avverranno eventi tali da minare le tetragone certezze del vice questore fino all’atteso, ma imprevedibile…colpo di scena, che, ovviamente, non si anticipa ai lettori-spettatori. Scritto, diretto e interpretato da Carlo Buccirosso, Colpo di Scena, è uno spettacolo realizzato attraverso un’abile regia, scenografie di buon impatto teatrale, dialoghi e personaggi ben caratterizzati.
Seppure un po’ schiacciati da un Buccirosso, autentico mattatore in scena, sono tutti bravi tutti gli interpreti, ottimi comprimari, tra gli altri : Gennaro Silvestro (il truce Michele Donnarumma), già ammirato nella fiction I Bastardi di Pizzo Falcone, Gino Monteleone (il tartassato ispettore Murolo), Elvira Zingone (la badante Gina), ma tutti e undici gli attori in scena, applauditi dal pubblico della Sala Umberto, in occasione della prima del 15 gennaio, hanno dato vita a un interessante progetto di teatro leggero, quindi popolare, ma al tempo stesso in grado di coinvolgere e far pensare a temi meno frivoli. Consigliato!
data di pubblicazione:16/01/2019
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