LA PARANZA DEI BAMBINI di Claudio Giovannesi, 2019

LA PARANZA DEI BAMBINI di Claudio Giovannesi, 2019

Un gruppo di ragazzi, tutti minorenni, sfrecciano con i loro scooters per le vie del rione Sanità di Napoli. Il sogno della loro vita è quello di procurarsi con ogni mezzo tanti soldi, sufficienti a garantire loro l’ultimo modello di sneakers o altro capo d’abbigliamento super firmato. Usano e spacciano droga e non esitano un istante ad impugnare le armi per tenere sotto controllo il quartiere. Il loro leader è Nicola che conosce a fondo le regole del gioco e sa esattamente che per affermarsi dovrà contrastare i vecchi boss malavitosi che ora detengono il potere. Letizia, la sua ragazza, lo seguirà in questa escalation di criminalità, conquistata anche lei da una vita facile, piena di lusso e di divertimenti.

 

Presentato in prima mondiale nell’edizione della Berlinale appena conclusasi, La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano che ne ha curato la sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Maurizio Braucci, ha meritatamente ottenuto l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura: la scrittura usata, senza troppi preamboli, ci porta nel cuore di una città dove anche un ragazzino inesperto può ambire a ricoprire un posto di rilievo nella malavita organizzata. Il termine paranza, indicato per un tipo di pesca che utilizza le reti a strascico, in gergo camorristico individua una piccola banda malavitosa formata da minorenni, ragazzi giovanissimi che hanno abbandonato la scuola e che hanno, come unico sogno, quello di entrare nella criminalità spicciola del quartiere in cui vivono. Per potersi imporre dovranno intanto avere una pistola, che non importa saperla maneggiare: con essa devono imparare a fronteggiare chi già detiene il potere, introducendosi nel traffico della droga che consente loro di procurarsi in breve tempo una grande quantità di denaro. Divenuti i capi indiscussi che controllano gli affari, di fronte alla loro ingenua sfrontatezza e, talvolta, efferatezza nell’usare le armi, anche i vecchi boss si arrendono e cedono il passo.

Il film di Giovannesi, regista molto sensibile verso i problemi dei giovani (ricordiamo Alì ha gli occhi azzurri del 2012 e Fiore del 2016), ha dichiarato di non volere assolutamente guadagnarsi una funziona pedagogica ma semmai illustrare una realtà, tutta napoletana, dove gli stessi giovani si sentono costretti ad una scelta criminale, per lo più inconsapevoli dei rischi e del prezzo molto alto che prima o poi dovranno pagare. Una decisione quindi determinata dalla contingenza di soddisfare per sé, e per la propria famiglia, dapprima dei bisogni primari per poi arrivare a comprarsi quei generi di lusso che rappresentano, ai loro giovani occhi, veri e propri status symbol del potere.

I due interpreti Francesco Di Napoli (Nicola) e Viviana Aprea (Letizia), così come tutti gli altri, sono attori non professionisti incredibilmente presi dalla strada e alla loro prima esperienza cinematografica.

A differenza di Gomorra di Matteo Garrone, anch’esso ispirato all’omonimo best seller di Saviano, La paranza dei bambini seppur in ambito camorristico ci mostra un aspetto un po’ diverso, quasi tenero, intriso di un realismo estremo che ci porta ad osservare la vita pulsante dei quartieri napoletani dove, nonostante le brutture che questi ragazzi vivono, aleggia una profonda umanità, sentimento che in fondo anima anche le loro giovani coscienze.

La giuria della Berlinale, che quest’anno è stata presieduta da Juliette Binoche, così come riferivano alcuni rumors che circolavano prima della premiazione, aveva mostrato grande apprezzamento per il film, la cui sceneggiatura risulta “impastata” di violenza e amore nel decrivere le vicende dei suoi protagonisti, verso un ineluttabile epilogo sul quale il regista si è volutamente astenuto dall’esprimere alcun giudizio morale.

Film decisamente da vedere.

data di pubblicazione:19/02/2019


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L’ALBERO spettacolo dell’Odin Teatret, regia di Eugenio Barba

L’ALBERO spettacolo dell’Odin Teatret, regia di Eugenio Barba

(Teatro Vascello – Roma, 13/24 febbraio 2019)

Il tronco di un albero è piantato in mezzo alla scena, le sue radici sono forti. I tronchi sono sparsi a terra in attesa di essere ricongiunti al fusto, si spera che torni a dare nuovi frutti. È il centro indiscusso di tutta l’azione scenica, al quale si rivolgono strani personaggi, che incarnano con estremo coinvolgimento dello spettatore pezzi cruenti e storie atroci di cronaca che purtroppo sono accaduti, anche in tempi recenti.

 

La compagnia dell’Odin Teatret, creata dal talento e dalla passione di Eugenio Barba, compie quest’anno 55 anni e festeggia a Roma il suo compleanno con una serie di iniziative tra laboratori, incontri, mostre che dureranno ancora fino alla fine di febbraio. Per Accreditati.it abbiamo partecipato allo spettacolo che in questi giorni sta andando in scena al teatro Vascello, L’albero. Chi conosce la compagnia sa che il protagonista assoluto di tutta la performance è lo spazio, luogo di incontro tra lo spettatore e l’attore, entrambi chiusi in questo luogo a parte, creato a posta sul palcoscenico del Vascello, dove si entra con timore e rispetto, una specie di tempio sacro, per assistere non solo a uno spettacolo, ma a un evento, un’esperienza destinata a colpire la coscienza. La scenografia ci avvolge, ne siamo un elemento essenziale con la stessa dignità e partecipazione di cui ne fanno parte gli attori. Tra chi guarda lo spettacolo si crea un insolito legame, determinato dalla percezione, tutta fisica, di essere testimoni di qualcosa che ci sovrasta ma che pure ci riguarda, ci trascina, ci coinvolge. È un’esperienza del corpo, dell’anima e dei sensi. Il linguaggio della parola è solo uno tra i tanti linguaggi che si usano sulla scena, non è neanche il più importante forse. Gesti e azioni compiuti dagli attori travolgono emotivamente lo spettatore fino a comunicargli l’orrore, la sofferenza, la speranza che questo percorso fatto insieme vuole realizzare. Gli attori stessi della compagnia, composta da elementi di varia nazionalità, sono un concentrato di talento e bravura, ma anche di storia personale che si mischia a quella della cultura da dove provengono. Tutto di loro viene trasportato e donato sulla scena, lo si percepisce. Ogni loro attitudine artistica e umana è coinvolta in questo estenuante gioco creativo e reale che è il teatro.

L’albero è una metafora, rappresenta la vita degli uomini che viene calpestata da altri uomini, simili ai primi solo nell’aspetto. Ma rappresenta anche la speranza, quella che si nasconde nell’infinito delle cose, del potere creativo e magnanimo della natura, di un possibile dio. Intorno a questo albero girano due monaci yazidi, che lo coltivano e se ne prendono cura nonostante due signori della guerra, uno europeo e l’altro africano, tentano di seminargli intorno sofferenza e distruzione. Sperano che la pianta torni a essere ricca di frutti per sfamare quegli uccelli che un giorno sono fuggiti dalla sua sterilità. Due cantastorie presentano via via i personaggi di questa visione. Una madre urla il suo dolore per la figlia morta, della quale conserva la testa in una zucca che porta sempre con sé. Una bambina gioca tra i rami con le sue bambole sognando di volare con il padre che aveva piantato l’albero per lei quando era nata. Alla fine spuntano i frutti e gli uccelli tornano, è la festa del cuore, è la riconciliazione con il tutto che ci circonda.

data di pubblicazione:18/02/2019


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LA MIA ITACA – DA GORIZIA A… GORIZIA: I MIEI VIAGGI BASKETTARI di Tonino Zorzi – edizioni Basket coach.net

LA MIA ITACA – DA GORIZIA A… GORIZIA: I MIEI VIAGGI BASKETTARI di Tonino Zorzi – edizioni Basket coach.net

Un libro può contenere una vita? Domanda retorica ma che si pone misurando la vitalità di un giovane 83enne innamorato della stessa e del basket. Racconto di 70 anni di esistenza completamente votata a una professione che è anche una vocazione. Tonino Zorzi è stato prima un ragazzino molto vivace, poi un promettente cestista, quindi un capocannoniere scudettato, infine un coach che ha avuto anche missioni speciali nel guidare la nazionale italiana di pallacanestro. Non si sarebbe mai ritirato se le condizioni di salute non lo avessero costretto. E dunque in questo volume-confessione, totalmente affidato a inesistente velleità letterarie si rivela appieno: esuberante, eccessivo, sopra le righe. Non è un libro specialistico perché contiene un pezzo di trasformazione dell’Italia sportiva e non solo. Dall’oratorio all’americanizzazione spinta. Dunque di qui la libera scelta di non affidarsi a un ghost writer per tradurre in bella calligrafia i racconti sparsi di questa errabonda esistenza. Il volume è spartano e non curato, trabocca di ripetizioni e di refusi. Ma la voglia di raccontare di Zorzi erompe e scardina gli schemi e si fa perdonare la mancata revisione che avrebbe giovato alla migliore confezione e accessibilità del testo. L’anziano che affabula ha il viso dolce di un bambino che distilla dolci ricordi ad aneddoti, affogati in un mare magnum di amicizie. Si tratteggia il basket dei pionieri, della pallonessa, di quando le trasferte nell’Urss venivano ripagate con l’importazione di caviale barattato con le calze di seta. Ricordi vintage dell’epoca che fu, anche sotto canestro. Si espande la generosità di Zorzi nel lanciare giocatori d’avvenire e nell’innamorarsi delle piazze cestistiche che ha frequentato, entrate nel midollo come una seconda pelle. Zorzi ha attraversato tutta la penisola, mai negandosi un ingaggio: da Gorizia a Reggio Calabria, vivendo anni ricchi e anni grami, ma con intatto il sorriso e la soddisfazione di chi è pagato per fare nella vita il mestiere che più gli piace. Altro non avrebbe saputo scegliere né fare.

data di pubblicazione:18/02/2019

IL PRIMO RE di  Matteo Rovere, 2019

IL PRIMO RE di Matteo Rovere, 2019

Oltre e prima del Mito e della Leggenda, la storia realisticamente rivisitata di Remo e Romolo, il loro viaggio verso la libertà durante il quale gli Dei o il Fato faranno sì che uno di essi sarà il futuro re di Roma

 

Finalmente un film italiano ambizioso, spettacolare ed originale, lontano per contenuti e qualità dalla produzione corrente della nostra cinematografia. Matteo Rovere si è coraggiosamente assunto il compito di riscrivere la leggenda della fondazione di Roma con il supporto economico di una coproduzione Italo-Belga, il contributo storico-culturale di alcune prestigiose Università, di attori, maestranze, tecnici e troupe altamente professionali. Il risultato offertoci dal giovane regista è veramente apprezzabile, una storia originale e girata con il forte impegno di risultare la piú autentica e la piú veritiera possibile. Tutto è decisamente realistico: costumi ed ambientazioni, fino allo stesso linguaggio usato per gli scarsi dialoghi: il latino, o meglio, un corretto “ proto-latino” opportunamente sottotitolato. La cosa non disturba affatto, dopo poco lo spettatore è talmente preso dalla narrazione filmica e dall’intensità della recitazione dei protagonisti, che ci si scorda dei sottotitoli. Anzi … tutto sembra ancora più vero. La realizzazione può far ricordare film come Apocalypto di M. Gibson, ed il gioco dei rimandi  non si ferma certo qui; il ruolo della natura cosi incombente ed immanente nelle sue valenze spirituali ci può certamente ricordare The New World di T. Malick, così come la lotta per la sopravvivenza fra boschi e paludi non può non ricordarci The Revenant di G. Iñarritu.

Pur con tutti questi possibili rimandi, l’opera di Rovere è però originalissima e supportata da una fotografia più che eccellente, tutta in luci naturali, proprio per evidenziare il ruolo di coprotagonista della Natura, un mondo inospitale, selvaggio e ferino fatto di boschi oscuri e paludi, ove la storia ha il suo decorso naturale e lo stesso spettatore si trova immerso partecipe anche lui della lotta per la sopravvivenza.

Gli attori tutti sono bravi, in particolare sono poi eccellenti i due protagonisti Borghi (Remo) ed Alessio Lapice (Romolo). Certo il film è, a tratti, violento, ma la violenza era una realtà pervasiva di quei tempi, cosi come lo era l’influenza della superstizione o religione sulle azioni degli uomini. Siamo molto lontani dai kolossal in costume, dai peplum eleganti e finti di americana memoria o, dai “sandaloni” italiani con una Roma in cartapesta, siamo invece in un mondo arcaico, selvaggio e primitivo ma reale, fatto di fango, buio, paura e coraggio bestiale.

Una sfida vinta e vinta bene quella di Matteo Rovere. Un film lontanissimo dal banale, dall’ordinario e dalla mediocrità. Un film che, pur con qualche caduta di ritmo, forse troppo lungo e con un finale quasi retorico, avrà comunque un sicuro apprezzamento anche internazionale. Un film infine, da poter leggere anche con le chiavi di lettura attualissime del conflitto tutto umano fra realismo e rispetto del divino, vale a dire le vicende della condizione umana. Un cinema veramente coraggioso ed ambizioso! Ce ne fossero di film così.

data di pubblicazione:18/02/2019


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L’ORSO D’ORO AL FILM ISRAELIANO SYNONYMES di Nadav Lapid

L’ORSO D’ORO AL FILM ISRAELIANO SYNONYMES di Nadav Lapid

Seppur la critica internazionale presente a questa edizione della Berlinale abbia sin da subito accolto molto favorevolmente il film di Nadav Lapid, giovane regista e sceneggiatore di Tel Aviv, stupisce ugualmente l’assegnazione di un premio così importante come l’Orso d’Oro al suo Synonymes che, a parere di molti, è stato un po’ sopravvalutato. Il film narra delle vicende del giovane Yoav che decide di fuggire da Israele perché l’aria è diventata per lui irrespirabile, per trovare rifugio a Parigi dove cercherà in tutti i modi di integrarsi iniziando ossessivamente a perfezionare il suo francese. Sicuramente un film di valore interpretato in maniera mirabile dall’attore israeliano Tom Mercier, che ha saputo ben esprimere l’idea e lo spirito decisamente politici che il regista, in aperta polemica con il suo paese, ha voluto imprimere al suo film. Grande è stata poi la soddisfazione per il cinema italiano, dal momento che sono stati premiati ben due dei tre film presentati: Dafne di Federico Bondi come miglior film per la Sezione Panorama e La paranza dei bambini, in selezione ufficiale, che è stato premiato con l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura. Entrambi, secondo chi scrive, hanno vinto meritatamente il premio, dimostrando ancora una volta che il cinema italiano, sovente così bistrattato in patria, riesce al contrario ad ottenere riconoscimenti nei più importanti festival internazionali come questa Berlinale appena conclusasi.

Ecco l’elenco completo dei premi assegnati ai film in concorso:

 

Orso d’Oro per il Miglior film a Synonymes di Nadav Lapid;

Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria a Grâce à Dieu di François Ozon;

Orso d’Argento per il film che apre Nuove Prospettive a Syspemsprenger di Nora Fingscheidt;

Orso d’Argento per la Migliore Regia a Angela Schanelec per il film Ich war zuhause, aber;

Orso d’Argento per la Miglior Attrice a Yong Mei nel film cinese Di jiu tian chang;

Orso d’Argento per il Miglior Attore a Wang Jingchun sempre nel film cinese Di jiu tian chang;

Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura a Giovannesi, Saviano e Braucci per La paranza dei bambini;

Orso d’Argento per il Miglior contributo artistico a Rasmus Videbaek per la fotografia in Out Stealing Horses.

E così questa 69esima edizione della Berlinale si è conclusa in maniera non proprio soddisfacente, a detta di molti. Nella cerimonia di chiusura si è voluto più volte ringraziare il contributo di Dieter Kosslick che ha diretto la Berlinale per ben diciotto anni. L’anno prossimo la direzione passerà a Carlo Chatrian, attualmente responsabile artistico del Locarno Film Festival.

La 70esima edizione avrà luogo dal 20 Febbraio al 1 marzo 2020 e noi di Accreditati ci auguriamo di essere ancora una volta presenti, con l’impegno e l’amore per il cinema che da sempre ci caratterizzano.

data di pubblicazione:16/02/2019

BERLINALE [9] – ELISA Y MARCELA di Isabel Coixet, 2019

BERLINALE [9] – ELISA Y MARCELA di Isabel Coixet, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

È il 1889: siamo in un piccolo paese della Galizia in Spagna. Elisa e Marcela frequentano la stessa scuola cattolica presso un convento di suore. Sin dal primo incontro nasce tra di loro una immediata empatia che in poco tempo si trasformerà in una passionale relazione. Divenute entrambe maestre, decidono di vivere la loro relazione, comportamento scandaloso non tollerato tra gli abitanti del luogo. Nell’estate del 1901 Elisa decide di prendere l’identità del defunto cugino Mario e così, raggirando il parroco, potrà sposare regolarmente in chiesa l’amata Marcela e vivere come una coppia etero. L’inganno verrà scoperto e da quel momento inizierà per loro un periodo molto triste e pieno di insidie.

 

  

La regista catalana Isabel Coixet ha ottenuto un discreto successo nel 2005 con il film La vita segreta delle parole, presentato al Festival di Venezia nella Sezione Orizzonti e premiato in patria con ben quattro premi Goya, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia. A Berlino si era fatta già notare nel 2003 con La mia vita senza me e lo scorso anno con The Bookshop, pellicole che hanno ottenuto ampi consensi da parte del pubblico e della critica.

La Coixet sembra prediligere nei suoi lavori tematiche al femminile, come anche in questo suo ultimo lavoro presentato in concorso alla Berlinale, in cui viene affrontata una relazione tra due donne in un tempo in cui era intollerabile. Le immagini in bianco e nero trovano ispirazione da una vera foto che ritrae Marcela e Elisa, quest’ultima in sembianze maschili, il giorno delle loro nozze. Le inquadrature indugiano molto sulle protagoniste come per dare più risalto alla vicenda che le coinvolge, in una spirale sempre più drammatica, entrambe vittime di un contesto che non può accettare la loro unione sentimentale. La regista è molto brava nel voler sottolineare il coraggio dimostrato dalle due donne e la determinazione nel voler a tutti costi salvare il loro amore. Molto singolare è il fatto che il matrimonio non fu mai annullato anche se aspramente condannato, in un paese come la Spagna che passerà attraverso una dittatura di molti anni e che nel 2005 fu uno dei primi paesi democratici europei a legalizzare l’unione tra due individui dello stesso sesso.

L’unica critica al film è forse quella di voler indugiare troppo sull’intimità delle due donne, egregiamente interpretate da Natalia de Molina (Elisa) e Greta Fernàndez (Marcela), con delle semi-soggettive che di proposito allungano esageratamente i tempi di ripresa, anche se l’effetto ottenuto è funzionale alla storia che si articola in un periodo a cavallo tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, in cui le apparizioni in pubblico per le donne di un certo contesto sociale erano contenute e limitate. La pellicola prodotta da Netflix, presente per la prima volta a Berlino, non è stata accolta favorevolmente da tutta la critica presente alla Berlinale: si spera comunque che venga distribuito nelle sale cinematografiche italiane così come è avvenuto per Roma, premiato quest’anno a Venezia con il Leone d’Oro e in odore di Oscar.

data di pubblicazione:15/02/2019








ENRICO IV di Luigi Pirandello regia di Carlo Cecchi

ENRICO IV di Luigi Pirandello regia di Carlo Cecchi

(Teatro Argentina – Roma, 12/24 febbraio 2019)

Enrico IV è una pietra miliare del teatro pirandelliano e della sua intera poetica. L’opera, in calendario al Teatro Argentina dal 12 al 24 febbraio 2019 per la regia di Carlo Cecchi, porta in scena i grandi temi della maschera, dell’identità, della follia e del rapporto tra finzione e realtà attraverso le vicende di un uomo, un nobile dei primi del Novecento, che da vent’anni vive chiuso in casa vestendo i panni dell’imperatore Enrico IV di Germania (vissuto nell’XI secolo), prima per vera pazzia, poi per simulazione ed infine per costrizione. Ciò che va in scena è la follia del teatro, un teatro che guarda al reale svelando il suo gioco e gli inganni interiori. Il testo è alleggerito dall’originale in quanto i lunghi monologhi sono ridotti in maniera estrema, secondo un linguaggio contemporaneo in una messa in scena che alterna atmosfera di prove aperte e di rappresentazione e nella quale Carlo Cecchi sfodera ironia, sarcasmo ed intelligenti intuizioni fuori copione.

 

 

Il regista focalizza la sua attenzione su quell’uomo che decide di portare avanti la messinscena di Enrico IV in pellegrinaggio da Matilde di Canossa ben oltre gli effetti della caduta da cavallo. Per anni vive una vita patinata e fiabesca con l’aiuto di quattro uomini pagati per fingersi suoi consiglieri, ma a un certo punto riconquista la ragione e si rende conto che tutti lo prendono per pazzo. Allora capisce che esserlo gli conviene, permettendogli di osservare, da fuori, la grande sceneggiata predisposta per lui, che coinvolge anche la donna che amava, Matilde Spina, l’amante di lei Tito Belcredi, un dottore che vuole provocargli uno choc per farlo rinsavire. Cancella la propria vita per scegliere il teatro e per il teatro impazzisce e continua a fare quella recita che dapprima è una tragedia e poi diventa farsa.

Adattatore, regista e attore proprio nei panni del protagonista, Cecchi non si prende per niente sul serio e procede a una sforbiciata radicale del proprio personaggio riuscendo a usare finzione e umorismo ai fini di un gioco che spiazza e confonde lo spettatore: l’intreccio di normalità e follia, la perdita d’identità, il rapporto tra reale e maschere che indossiamo o che gli altri ci costringono a indossare, il fallimento della scienza, la rinuncia alla vita per non affrontare la sofferenza, la follia come fuga e rifugio – qui aleggiano la mascherata e il teatro nel teatro. A sostenere la struttura performativa alcuni bravi attori che fanno parte del vissuto di Cecchi: Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Tirifirò, insieme a Chiara Mancuso, Remo Stella.

Carlo Cecchi esaspera la finzione, dimostra la falsità di quella macchina teatrale che vive grazie a personaggi, che si nutre di gesti stereotipati non reali. E non è un caso che l’ultima battuta sia «Su, alzati, domani c’è un’altra replica», perché il Teatro offre la possibilità e la libertà di riprovare e rifare. La tragedia allora si trasforma in farsa e la macchina del teatro continua.

data di pubblicazione:15/02/2019


Il nostro voto:

BERLINALE [8] – GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA di Teona Strugar Mitevska, 2019

BERLINALE [8] – GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA di Teona Strugar Mitevska, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Petrunya ha 31 anni ed è laureata in storia, ma non riesce a trovare lavoro perché nel piccolo villaggio della Macedonia, dove vive ancora con i genitori, a nessuno interessa quel titolo di studio e che ad averlo sia una donna. Il giorno dell’epifania è usanza che il prete ortodosso della comunità getti nelle acque gelide del fiume Vardar una croce di legno: tutti i ragazzi si tuffano per cercare il prezioso oggetto che, secondo la millenaria tradizione del luogo, gli assicurerà fortuna durante l’intero anno. Tornando a casa, dopo un ennesimo colloquio di lavoro fallito, Petrunya assiste alla cerimonia e, senza alcun indugio, si getta vestita e riesce a recuperare il crocifisso. Questo fatto renderà furiosi gli uomini del paese che da quel momento in poi non le daranno più pace.

 

Teona Strugar Mitevska è una regista di Skopje al suo debutto qui alla Berlinale. Il suo film, presentato in concorso, è un’amara satira contro la sua società perché ci racconta della ribellione di una donna contro la rigida mentalità patriarcale ancora vigente in Macedonia. La pellicola se da un lato ha aspetti veramente divertenti e al limite del grottesco, d’altro lato invece induce ad una amara riflessione sull’atteggiamento machista di alcuni paesi come quello di questa storia. È pur vero che la ragazza ha infranto un’antica tradizione religiosa, in una competizione che vede la partecipazione solo di individui di sesso maschile, anche se di fatto le autorità non trovano alcuna legge dello stato che vieti espressamente ad una donna di partecipare. L’atto di ribellione, accompagnato dalla tenacia di resistere agli insulti e alle intimidazioni dell’intera comunità, si può certo considerare il primo tentativo di riscatto da parte di Petrunya che, in quel contesto, sembra non avere pari opportunità rispetto agli uomini. Anche in famiglia la donna non trova sostegno e comprensione da parte dei genitori che la considerano un peso inutile e che difficilmente troverà marito non essendo più giovanissima.

Tra il serio ed il faceto il film ci manda un preciso messaggio di emancipazione femminile che fa fatica a decollare. Il ruolo della protagonista è assegnato a Zorica Nusheva nei panni di una donna che oramai non crede più nelle leggi, civili o religiose che siano, né si aspetta alcun riconoscimento per quello che è e per quello che rappresenta. Una lode particolare però va alla regista per aver usato con ironia un linguaggio diretto che, senza tanti preamboli ,ridicolizza l’atteggiamento della chiesa ortodossa e delle pubbliche istituzioni che sembrerebbero quasi indurre alla misoginia.

Di fronte al caso divenuto di dominio pubblico, dove Petrunya rischia addirittura il linciaggio, interviene pure la giornalista Slavica (Labina Mitevska) che cerca in tutti i modi di far carriera sfruttando l’occasione con uno scoop sensazionale per la televisione; sagace l’osservazione di uno dei tanti intervistati: e se Dio fosse in realtà donna?

data di pubblicazione:14/02/2019








BERLINALE [7] – DER GOLDENE HANDSCHUH di Fatih Akin, 2019

BERLINALE [7] – DER GOLDENE HANDSCHUH di Fatih Akin, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Zum Goldenen Handschuh, che in italiano sarebbe ”al guanto d’oro”, era un localaccio malfamato molto frequentato negli anni settanta che si trovava nel famoso quartiere a luci rosse St. Pauli di Amburgo. In questo bar, luogo di ritrovo di ubriachi e di vecchie prostitute, Fritz Honka andava a reclutare le sue donne per portarsele a casa nel vano tentativo di possederle sessualmente. Al suo ennesimo fallimento scaricava la sua rabbia uccidendole per poi smembrare i loro corpi e nasconderli in un ripostiglio. Una misera storia con un misero epilogo.

 

  

Fatih Akin, nato ad Amburgo da genitori turchi emigrati in Germania negli anni sessanta, è un regista e sceneggiatore oramai noto in campo internazionale dopo i successi ottenuti con La sposa turca che vinse nel 2004 l’Orso d’Oro qui a Berlino e l’European Film Award; successivamente con Ai confini del Paradiso fu premiato al 60esimo Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura mentre nel 2009 con Soul Kitchen ebbe a Venezia il Leone d’Argento, Gran premio della Giuria. Il film presentato in concorso in questa edizione della Berlinale è tratto da un fatto di cronaca vera che riguarda Fritz Honka, un serial killer la cui storia aveva ispirato nel 2016 Heinz Strunk a scrivere un romanzo subito considerato un interessante caso letterario. Colpito dalla vicenda criminale, che aveva scosso in quegli anni l’opinione pubblica tedesca, Fatih Akin porta ora sul grande schermo gli omicidi di Honka, facendo una minuziosa rappresentazione dei fatti, o meglio misfatti, dell’assassino. Lo spettatore viene quasi costretto a subire la scena in uno spazio claustrofobico dove oltre al feroce delitto dovrà pure assistere alla mutilazione del cadavere. Non certo di conforto è lo spettacolo dell’umanità che si incontra nel famoso locale di Amburgo: ubriachi senza fissa dimora e prostitute dai corpi informi avvolti in panni sudici e maleodoranti e la cui esistenza non interessa a nessuno. Nonostante la perfetta ricostruzione del singolare appartamento del serial killer e di ogni singolo dettaglio estetico, ci si chiede il perché di tutta questa messa in scena. Non sembra ravvisarsi una minima indagine psicologica della figura del protagonista e del suo background che possa in qualche modo dare una spiegazione circa gli efferati omicidi. Si nota però una certa rara convergenza tra ciò che Honka pensava delle donne e come in effetti vengono rappresentate nel film: solo carne da macello. Si tratta quindi di vedere l’umanità attraverso gli occhi di un individuo il quale patologicamente non ha più nulla di umano così come le vittime, private della vita prima ancora di essere uccise.

Ottima l’interpretazione dell’attore tedesco Jonas Dassler, che ricopre il ruolo del protagonista, veramente irriconoscibile per assomigliare il più possibile all’omicida. Ci si chiede se vale la pena di sottoporsi a questo film, a tratti decisamente disgustoso e con delle scene macabre che il regista avrebbe fatto bene ad evitarci. Pubblico in sala molto perplesso…

data di pubblicazione:13/02/2019 







THAT’S LIFE! – di Riccardo Rossi e Alberto Di Risio

THAT’S LIFE! – di Riccardo Rossi e Alberto Di Risio

(Sala Umberto – Roma,12/17 febbraio 2019)

Al “centro” della sagace Trilogia di Riccardo Rossi, tra lo spettacolo L’amore è un gambero e Viva le donne, ha esordito ieri al teatro Sala Umberto di Roma il “mediano” That’slife!

 

Se avete voglia di una serata diversa, all’insegna di momenti amarcord e, soprattutto, se siete travolti (e stravolti) dal caos metropolitano serve un po’ di sana condivisione e That’s life! è lo spettacolo che fa per voi. E già, perché lo spettacolo del mattatore Riccardo Rossi è un album di istantanee delle fasi della vita dove inesorabilmente tutti gli spettatori, anche quelli che come me stazionano nella fascia “35/45 l’età dei doveri”, ritrovano una serie di “foto” proprie o di un genitore o di un caro amico.

Si parte dalla fine con la “lapidaria” è fatta! per poi riprendere le fila dal primo gemito emesso nella sala parto: ecco che ha inizio lo spassoso viaggio dei momenti topici della vita di ognuno di noi. Con l’ausilio di alcune foto e delle incursioni musicali sapientemente inserite dal navigato e sopraffino intenditore di musica Riccardo Rossi, ci si ritrova a condividere, insieme alla signora sconosciuta che ci siede accanto e al signore della fila davanti, una serie di momenti cruciali, dolci e amari, che – anche grazie alla distanza segnata dal tempo o al fatto che per alcuni sono ancora momenti noti de relato – sono tutti indistintamente unici ed esilaranti.

La fase dell’incoscienza, quella degli ottantenni, la fatidica tappa dei 50 anni, il primo vero debutto in società che si manifesta a febbraio durante l’età dell’innocenza…e in effetti è proprio questa la vita! Ogni fase, ogni età ha i suoi momenti d’oro, le sue ossessioni e le priorità cambiano. Tuttavia, il mix di emozioni, obiettivi, entusiasmi che colorano le varie tappe ci rendono tutti delle irresistibili macchiette, ci rendono tutti uguali nelle nostre fragilità, ansie, paure e nei sentimenti avvicinandoci e abbattendo i muri delle differenze artefatte e dell’indifferenza perché ad ogni età il motto è uno soltanto: barcollo ma non mollo! Questa è la vita, fatta di musica – da Stevie Wonder, a Gloria Gainor fino agli inossidabili pimpanti Rolling Stones – gaffe, siparietti, voglia di correre e di non arrendersi mai, chiudendo ogni tanto un occhio sui segnali del tempo che passa.

Uno spettacolo da non perdere per un momento di autentica condivisione esilarante!

data di pubblicazione:13/02/2019


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