CYRANO DE BERGERAC di Edmond Rostand, adattamento e regia di Nicoletta Robello Bracciforti

CYRANO DE BERGERAC di Edmond Rostand, adattamento e regia di Nicoletta Robello Bracciforti

(Teatro Eliseo – Roma, 30 ottobre/25 novembre 2018)

Parigi 1640. Cavalieri e servi, paggi e cadetti, attori e spettatori, gente del popolo, c’è tutta una società sulla scena a comporre gli ingredienti della pièce di Rostand, rappresentata per la prima volta nel 1897 è destinata ad avere lunga vita sulle scene per il suo grande valore affidato alla forza dell’arte e della parola. Saranno i romantici versi di Cyrano o la bellezza giovanile di Cristiano a conquistare il cuore della bella Rossana?

 

Al via la stagione numero cento del teatro Eliseo con il Cyrano di Barbareschi. Un numero importante di anni, tanti quanti ci separano dalla morte di Edmond Rostand, autore della commedia, che veniva a mancare esattamente l’anno in cui in teatro si apriva per la prima volta il sipario. Una doppia occasione allora per celebrare questo spazio dedicato all’arte scenica e all’intrattenimento. Ed è proprio un omaggio all’arte la regia di questo spettacolo, cinque quadri divisi in due atti, con cambi di scena a vista. Numerosa la compagnia in scena: 23 attori si dividono le oltre 45 parti che Rostand aveva scritto. C’è un’intera società a essere rappresentata nella storia, in cui è ravvisabile la nostra, fatta di chiacchiere e sfide, spavalderia “guasconesca” e apparenza, che trovano campo fertile tra i social che quotidianamente frequentiamo attraverso lo schermo dei nostri telefonini. Ma siamo nel Seicento e allora al posto degli schermi elettronici abbiamo una quadreria tutta a intorno alla scena, cornici che vanno a coprire tutta la scatola magica dal pavimento del palcoscenico fin sopra la graticcia, lasciando visibile tutta la struttura del teatro stesso, che solitamente è coperta dalle quinte e dal fondale. Una scena avvolgente e di grande impatto visivo quella creata da Matteo Soltanto arricchita dalle cappe, dalle piume, dalle gorgiere e dai merletti nel disegno dei costumi di Silvia Bisconti. Possiamo dire senza ombra di dubbio che l’impegno nella produzione di questo spettacolo ha dato i suoi ottimi frutti. Bravi anche gli allievi e le allieve del corso di recitazione della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté che accompagnano, con estrema concentrazione e precisa cadenza ritmica, la recita in versi martelliani di Luca Barbareschi nel ruolo principale. In fondo è Cyrano il centro di tutta l’azione, è lui il segreto regista e architetto che sta dietro i movimenti di Cristiano, è lui la parola eccellente che fa innamorare Rossana e che sferza a duello l’arroganza della nobiltà, ancor prima della sua veloce spada. Barbareschi ce lo restituisce in tutta la sua forza, quella che costringe l’attore in scena per tutta la durata della pièce, con una recitazione potente e energica, ben studiata, ma che sa diventare commovente quando deve appoggiare il bacio (il famoso “apostrofo rosa”), che consegna alla sua amata con una leggerezza tale da sembrare una piuma del suo cappello che si poggia delicatamente a terra. Viva l’arte e viva la potenza della parola viene da dire quando la recita è finita: è l’arma con cui Cyrano combatte l’arroganza e la protervia di De Guiche e l’ignoranza di Cristiano, e fa volare alto Rossana che ha orecchie e cuore per ascoltare.

data di pubblicazione:03/11/2018


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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ETÁ di Daniel Auteuil, 2018

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ETÁ di Daniel Auteuil, 2018

Daniel (Daniel Auteuil) è sposato da molti anni. La sua vita è ormai serenamente routinaria e ben regolata dietro un’apparente solida facciata di armonia e complicità coniugale. Conosciuta però in una cena fra coppie, la giovane e seducente nuova compagna del suo miglior amico (Gérard Depardieu), anche lui over 60, perde la testa per lei, inizia a fantasticare fra pensieri, immagini e desideri, tentato dal piacere della conquista e di una nuova relazione affettiva …

 

Auteuil, è nuovamente davanti e dietro la cinepresa, ha adattato personalmente per lo schermo la storia da una pièce teatrale di successo e ci regala oggi una commedia a mezze tinte, a metà fra un piccolo dramma ed una commedia borghese buffa ed a tratti divertente. L’autore osserva il mondo di oggi e ci parla, apparentemente dal punto di vista maschile, dei tormenti dell’animo, della solidità e dell’ipocrisia delle convenzioni sociali, del desiderio e della frustrazione del quotidiano. Contemporaneamente misura anche le certezze, più o meno tediose, della vita di coppia a fronte della novità e delle aspettative esaltanti di una fuga passionale con una donna giovane, bella e seducente. Tutto ciò viene preso dal cineasta e fuso poi in un prodotto filmico che si pone fra il farsesco e la commedia leggera, in una fantasia amorosa ricca di una comicità tutta esteriore.

Il film gira tutto sulla perfetta integrazione fra immagini reali e sogni ad occhi aperti, fino al punto in cui Realtà e Fantasia si fondono. La scommessa sulla riuscita del lavoro è proprio in questa progressiva fusione che arriva a farci prendere coscienza delle due diverse realtà. Si passa così dalla commedia buffa al piccolo dramma e si scoprono tutte le falle nella perfetta vita coniugale. Un bell’imbroglio amoroso, immaginario o reale che esso sia, che porta però ad una riflessione interessata sulla vita, le amicizie, le illusioni, le certezze ed i bilanci veri delle relazioni di coppia.

E’ ovvio che in un lavoro che è quasi come una rappresentazione teatrale filmata, la recitazione, dopo il testo, sia la parte fondamentale. Ebbene, la realizzazione è resa ben vivace da un quartetto di commedianti di gran qualità che recitano tutti in modo impeccabile i loro rispettivi ruoli. Auteuil e Depardieu, da bravi vecchi mattatori, con istinto e sensibilità mostrano fra loro un’alchimia che non li obbliga a forzare la recitazione per essere giusti quanto necessario. Fanno loro ottima sponda una sempre eccellente Sandrine Kimberlain nel ruolo della furba moglie ed Adriana Ugarte così brava, splendida e seducente che risulta veramente difficile anche per lo spettatore non soccombere davanti al suo fascino.

La pellicola pecca però, a tratti, di scarsa profondità e finezza di analisi, talora infatti le situazioni sono troppo caricaturali, forse, direi, eccessive e ripetitive, e qualche clichè conformista e prevedibile di troppo, appare qui e là, al punto che il ritmo, la meccanica narrativa e la stessa recitazione ne risentono.

Pur con questi piccoli difetti, Sogno di una notte di mezza età resta comunque un film con un tema un po’ desueto ma pur sempre gradevole, un’occasione di momenti di svago domenicale, una discreta commedia di costume, non priva di interesse e dallo humour semplice ed efficace. Insomma un piccolo film, distensivo, divertente, ben interpretato e leggero, che proprio nella sua stessa leggerezza ha la sua forza ed anche la sua debolezza; un film che seduce lì per lì ma poi scompare presto senza rimorsi o polemiche.

data di pubblicazione:02/11/2018


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TI PRESENTO SOFIA di Guido Chiesa, 2018

TI PRESENTO SOFIA di Guido Chiesa, 2018

Un padre separato, premuroso e concentrato sulla figlia Sofia, anni 10 reincontra una sua vecchia fiamma che non vede da tempo. È il colpo di fulmine tra Gabriele (Fabio De Luigi) e Mara (Micaela Ramazzotti). Lui è proprietario di un negozio di strumenti musicali ed ex musicista che ha abbandonato il sogno di sfondare nel rock per prendersi cura della figlia Sofia (Caterina Sbaraglia), una bambina di 9 anni che in camera insieme ai peluches ha i poster di Deborah Harry. Lei fotografa affermata che viaggia in giro per il mondo, indipendente, single e senza nessun desiderio di maternità.

 

L’amore sembrerebbe trionfare ma c’è un grosso ostacolo da superare: lei non vuol sentire neanche parlare di bambini. Gabriele decide quindi di nasconderle la presenza di Sofia. L’impresa però non sarà per niente facile e Gabriele finisce per impelagarsi in un pasticcio di bugie e sotterfugi per nascondere la presenza dell’una all’altra.

Dopo Classe Z  Guido Chiesa torna dietro alla macchina da presa per dirigere De Luigi e la Ramazzotti in Ti presento Sofia fortemente ispirato alla sceneggiatura del riuscito film argentino Sin Hijos, uscito in Italia col titolo Se permetti non parlarmi di bambini.

Chiesa, che firma la sceneggiatura con Nicoletta Micheli e Giovanni Bognetti, manifesta l’intento di provare andare al di là dei cliché con l’inversione dei ruoli tra l’uomo che rinuncia alla carriera per mettere la figlia al centro della propria vita e viceversa una donna che di figli non ne ha voglia non solo per dedicarsi appieno al lavoro, ma anche perché i bambini non li può sopportare.

Presentato quest’anno nella sezione Alice nella città all’interno della Festa del cinema di Roma, tra tante tematiche forti e dense, la pellicola di Guido Chiesa ha portato un po’ di leggerezza.

Il film è a tratti divertente, da domenica pomeriggio, la coppia di protagonisti funziona e Sofia, interpretata dalla bravissima Caterina Sbaraglia, per la prima volta sullo schermo, intenerisce anche per una naturale vis comica che le appartiene, ma risulta poco credibile quello che ruota attorno ai protagonisti. Un tocco grottesco ed ironico probabilmente avrebbe reso il film più interessante.

data di pubblicazione:31/10/2018


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IL PRIMO UOMO di Damien Chazelle, 2018

IL PRIMO UOMO di Damien Chazelle, 2018

Presentato in prima mondiale il 29 agosto al Lido di Venezia, Il primo uomo ha inaugurato il Concorso della 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Intimo ed emozionante, non delude questo nuovo film di Damine Chazelle, a 49 anni dall’allunaggio dell’Apollo 11; la pellicola, interpretata da Ryan Gosling, Jason Clarke e Claire Foy e prodotta dalla Universal Pictures, è stata definita dallo stesso Barbera “un lavoro personale, affascinante e originale, piacevolmente sorprendente al confronto con gli altri film epici del nostri tempi, a conferma del grande talento di un regista tra i più importanti del cinema americano di oggi”.

 

Spazzati via romanticismo, sentimento e musica che avevano caratterizzato La La Land e le “frustate” del batterista di Whiplash, il giovane e talentuoso regista si muove in un territorio completamente diverso, concentrandosi sulla figura di Neil Armstrong negli otto anni che precedettero la missione NASA che lo fece sbarcare sulla luna, in un resoconto in prima persona di un uomo piuttosto reticente ad esprimere i propri sentimenti, padre e marito attento, umile, e non solo la figura iconica che tutto il mondo conosce. Chazelle è riuscito nell’ardua impresa di rispettare il carattere dell’uomo più che descrivere il mito, cercando di mostrarne le emozioni nella vita di tutti i giorni, indagando su ciò che ad ogni missione lasciava sulla terra riuscendo, grazie alla sua collaudata abilità di regista, a dare libero sfogo a quello che è il desiderio recondito di ogni bambino di diventare astronauta, come fosse la cosa più semplice al mondo. Non bisogna dunque essere dei supereroi, perché il suo Neil non lo è. La sceneggiatura, scritta da Josh Singer (Oscar per Spotlight) alterna ai momenti professionali, ricostruiti con meticolosa minuziosità, una tranquilla vita familiare, fatta di gioie e dolori che contribuirono, secondo il regista che si è nutrito dei racconti dei figli di Armstrong e della moglie nonché del libro di James R. Hansen, a creare il personaggio pubblico che tutti conosciamo.

Nel luglio 1969, Armstrong comandò la missione di allunaggio Apollo 11; nelle fasi di avvicinamento prese il controllo del modulo lunare sino a farlo atterrare in una zona poco rocciosa: uscito dal Lem, posò il suo piede sinistro sul suolo lunare e fu il primo essere umano a camminare sulla luna. Di quella conquista Armstrong disse: “La cosa più importante della missione Apollo fu dimostrare che l’umanità non è incatenata per sempre a un solo pianeta, e che le nostre visioni possono superare quel confine, e che le nostre opportunità solo illimitate”.

In Italia, quel 20 luglio del 1969, sarà ricordato non solo per la più lunga diretta mai affrontata dalla nostra televisione (circa 25 ore), ma anche per quel “Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare!” riferita al modulo lunare Eagle, che il giornalista Tito Stagno pronunciò con una manciata di secondi in anticipo rispetto all’inviato Ruggero Orlando, il quale in collegamento da Houston subito dopo replicò “Ha toccato in questo momento”. La disputa tra i due cronisti sul momento preciso dell’allunaggio, coprì ai telespettatori italiani la storica frase di Neil Armstrong “Qui base della Tranquillità, l’Aquila è atterrata”.

Neil Armstrong è scomparso nell’agosto 2012 per le conseguenze di un intervento chirurgico di bypass coronarico: aveva compiuto 82 anni. Il film ci consegna l’immagine di un uomo come tanti, che tuttavia ha scritto una delle importanti pagine della storia del secolo scorso.

data di pubblicazione:31/10/2018


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LA DISEDUCAZIONE DI CAMERON POST di Desiree Akhavan, 2018

LA DISEDUCAZIONE DI CAMERON POST di Desiree Akhavan, 2018

In una Festa del Cinema particolarmente attenta alle tematiche “di genere”, come quella appena conclusasi a Roma, The Miseducation of Cameron Post si colloca dalla prospettiva, ironica ma disillusa, dell’età adolescenziale.

 

Cameron (una impeccabile Chloë Grace Moretz) è una liceale che cerca di sembrare come tutte le altre ragazze della sua età, con tanto di brufoloso accompagnatore al ballo della scuola. Intrattiene però una relazione con la coetanea Coley (Quinn Shephard), che fa parte del suo stesso gruppo di studio della Bibbia: è un rapporto coinvolgente e idilliaco, ma quando le due ragazze vengono scoperte, Cameron è costretta a “ricoverarsi” nella comunità religiosa God’s Promise.

All’interno del centro i ragazzi deviati, affetti dalla sindrome ASS (attrazione per persone dello stesso sesso) o, sono chiamati a un processo di rieducazione che dovrebbe portarli a prenderli consapevolezza dei loro peccati e a guarire, con l’aiuto di Dio e dei responsabili della comunità, dalle proprie perversioni.

Il percorso alla quale Cameron è chiamata risulta a tratti paradossale. Da una parte, la causa di tutti i mali sembra essere proprio quella famiglia tradizionale, basata su sane relazioni eterosessuali, di cui tutti cantano il mito e dovrebbe rappresentare la salvezza dal peccato. Dall’altra parte, gli educatori, pur ostentando serenità e sicurezza, sono forse più instabili emotivamente degli ospiti che pretenderebbero di rieducare. L’incontro con Jane Fonda (Sasha Lane) e Adam (Forrest Goodluck) servirà a Cameron per portare a termini il suo processo di “diseducazione”

Il film di Desiree Akhavan, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultima edizione del Sundance Festival, è tratto dall’omonimo romanzo di Emily M. Danforth, che ha acceso i riflettori sull’equivoca realtà dei centri di rieducazione americani per ragazzi che di problematico hanno solo i pregiudizi con cui sono chiamati a fare i conti.

I toni del racconto, mai morbosi o eccessivamente cupi, rendono plasticamente la “normalità” di quello che si pretende di additare come anormale, restituendo l’impressione che la realtà distorta e “diseducativa” sia proprio quella attorno a cui è costruito God’s Promise: il karaoke con canti religiosi e le band rock che intonano canti al Signore.

data di pubblicazione:31/10/2018


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IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO di Eli  Roth, 2018

IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO di Eli Roth, 2018

Una magica avventura vissuta dal giovane Lewis (Owen Vaccaro) che rimasto orfano va a vivere dal misterioso ed eccentrico zio Jonathan (Jack Black) in una casa particolare ma apparentemente tranquilla. Ben presto il ragazzino si rende conto di strani fenomeni e presenze tutto attorno a lui e scopre anche che lo zio e la sua vicina Mme Zimmerman (Cate Blanchet) sono in realtà dei maghi e che dentro le mura della casa è nascosto un orologio capace di provocare … la fine del mondo!

 

Eli Roth, sceneggiatore ed attore americano, è conosciuto come regista per la sua realizzazione di film splatter e gore che altro non sono che sottogeneri del cinema horror per adulti. Quanto di più macabro, sanguinolento e violento si possa immaginare. Chi avrebbe mai potuto pensare che dopo gli eccessi dei suoi film l’autore avrebbe saputo annacquare i suoi furori dirigendo un film come questo, destinato invece ad un pubblico di famiglie e di giovanissimi, traendo ispirazione da un romanzo per ragazzi di costante gran successo negli Stati Uniti: The house with a clock in its walls

di J. Bellair, pubblicato nel remoto 1973. Il regista è di certo lontanissimo dall’avere il gusto o il tocco di Spielberg nel saper passare da un genere all’altro, eppure questo non gli impedisce di mettersi alla prova in un cinema del tutto opposto a quello da lui abitualmente frequentato e cimentarsi con quest’ultima sua pellicola nel mondo del Fantasy e Mistery per il grande pubblico. L’autore attinge palesemente sia al mondo della “magia bianca” di Harry Potter, sia all’universo della “magia nera di Tim Burton senza però eguagliare la ricchezza del primo né riproporre la follia poetica del secondo. Siamo anche dalle parti di Jumanji e di Cronache di Narnia in una storia parimenti ricca di trovate ingegnose e di personaggi accattivanti ed anche in quelle dei Gremlins ma, in ogni caso arriviamo anni ed anni dopo di loro, è stato tutto già visto e ne siamo distanti anche per qualità!

Comunque sia, nulla di nuovo, la lotta fra il Bene ed il Male è una costante e funziona sempre, come funzionano sempre anche il percorso di crescita adolescenziale e la famiglia. Il risultato dell’operazione risulta quindi accettabile, soprattutto grazie anche al notevole contributo di attori talentuosi ed in particolar modo di C. Blanchet. Sia la due volte premio Oscar che J. Black sono infatti molto convincenti ed a loro agio nei panni dei loro personaggi e ci divertono sembrando divertirsi anch’essi. Certo a tratti non si può non pensare con nostalgia a Robin Williams ed a quanto sarebbe stato a pennello nel ruolo dello zio. La prima parte del film risulta però troppo lunga e lenta, il regista non riesce infatti a catturare immediatamente l’attenzione dello spettatore ed il film sembra così girare un po’ a vuoto. L’ingresso in scena dei due attori riesce però a restituire un po’ di ritmo e un po’ di magnetismo all’azione e la pellicola finalmente decolla sostenuta dalla direzione artistica che gioca fra sequenze ipercolorate e sequenze scure, senza ovviamente tralasciare lo spirito e le atmosfere gotiche del romanzo originale. Pur non totalmente riuscito Il Mistero della Casa nel Tempo è comunque una discreta commedia fantasy per famiglie, colorata e kitch, che regala quasi due ore di distrazione gentilmente inquietante, qualche brivido e nulla più. Un film quindi che, di sicuro, non rivoluziona né porta nulla di nuovo al Fantasy, ma che comunque resta pur sempre un discreto prodotto per ragazzi, ricco di creatività ed un bell’omaggio alla magia, che trova una sua esatta collocazione nella fascia media, media-alta del Genere. Quanto poi alla traiettoria creativa di Eli Roth va forse detto che il regista resta tuttora una speranza di genialità artistica che non si è però ancora concretizzata nella sua interezza perché l’autore sembra non riuscire a liberarsi da una sua visione del cinema quasi come pietrificata e da una scrittura troppo rigida che lo confinano ancora in un segmento di qualità molto, molto, molto lontano da possibili modelli quali i Tim Burton, gli Zemekis o gli Spielberg.

data di pubblicazione:31/10/2018


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IL GATTO di Georges Simenon, regia di Roberto Valerio

IL GATTO di Georges Simenon, regia di Roberto Valerio

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 25 ottobre/11 novembre 2018)

Letteratura a teatro. Più nera che gialla. Piccoli crimini coniugali all’interno di una famiglia squassata. Muoiono un gatto e un pappagallo. Troppo facile rinvenire l’assassino.

 

Due attori esperti per tradurre un romanzo breve (o un racconto lungo) in palcoscenico in una scena simbolicamente semplice. Un tavolo, due poltrone dedicate, una scala che porta a un’immaginaria camera da letto. Questa la minuta logistica dove si traduce il massacro quotidiano della vita domestica di due over che, per solitudine e per mancanza di alternative, non hanno trovato niente di meglio che mettersi insieme, sposarsi e continuare a coltivare la propria insopportabilità del vivere. Lei odia il gatto, lui ricambia con un profondo disamore per il pappagallo. Nell’instancabile gara alla consumazione delle energie psichiche e nervose dei protagonisti sono i due animali domestici a farne le spese. Ma la sorpresa è dietro l’angolo. Perché anche quell’odio è insostituibile e non può essere surrogato da crudeltà accessorie. Simenon quando vuole sa essere spietato. La sua pagina è evocata, distante come una didascalia ma letterariamente icastica e di grande efficacia. Il piccolo mondo degli orrori quotidiani è quello che lui stesso ha sperimentato tradendo innumerevoli volte la consorte con una vita replicante alternativa. Elia Schilton e Alvia Reale con grande esperienza fanno rivivere il dramma domestico dissimulando ironia (i due si parlano alla fine solo con dei bigliettini insultanti). Descritto un orrore realistico e claustrofobico che allude a una banlieu parigina spoglia e disadorna. Era lo spettacolo d’apertura di stagione. L’amore è lontano e in questo secondo matrimonio dei due è impossibile ritrovarne le perdute tracce. Dunque disprezzo, rabbia, desiderio di libertà e frustrazione nella piccola e meschina vita di tutti i giorni. Lei cuce, lui legge il giornale, scorre il silenzio della loro divisione, specchio di incomunicabilità. La produzione è della compagnia di Umberto Orsini che ha creduto in questo piccolo ma significativo teatro drammatico da camera.

data di pubblicazione:29/10/2018


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SOLDADO di Stefano Sollima, 2018

SOLDADO di Stefano Sollima, 2018

I Cartelli Messicani del narcotraffico si occupano anche del lucroso transito clandestino di esseri umani e di infiltrare terroristi nel territorio degli Stati Uniti. Dopo aver subito da parte di quest’ultimi un sanguinoso attacco suicida, il Governo Americano decide di reagire usando gli stessi metodi brutali dei nemici che combatte, organizzando il rapimento della figlia di un capo clan, facendone ricadere la colpa su gang rivali e scatenare così una guerra fratricida fra le bande del Cartello. Della missione segreta è incaricato l’agente Graves (Josh Brolin) e con lui anche il misterioso Alejandro (Benicio del Toro). La situazione però degenera, occorrerà chiudere l’operazione costi quel che costi.

 

Dopo il grande successo di critica e di pubblico, ottenuto nel 2015 da Sicario era più che evidente che avremmo presto visto un suo seguito. Soldado riprende infatti tutti gli elementi del precedente film, a partire dalla valida sceneggiatura dell’ottimo Taylor Sheridan, i luoghi poi sono sempre gli stessi: i territori selvaggi della frontiera fra Messico e Stati Uniti, anzi, il senso del paesaggio è proprio uno degli elementi di continuità, unitamente alla lotta contro i Cartelli ed ai due protagonisti, due personaggi sempre più disillusi e privi di scrupoli in un universo ancora più brutale e cupo. La nuova pellicola non è però la semplice replica di quella che abbiamo già visto, tutt’altro. L’italiano Sollima che, dopo il successo di Gomorra, subentra nella regia al pluripremiato canadese Villeneuve (Blade Runner 2049), vince senza alcun dubbio la scommessa di questa sua prima produzione internazionale. Il nostro regista afferma la sua diversità stilistica e la sua personale visione creativa ricreando tutto un altro mondo in cui la violenza è l’elemento dominante unitamente alla corruzione che pervade un universo amorale, selvaggio e brutale ove gli individui lottano solo per la sopraffazione o la sopravvivenza. Mentre il tocco di Villeneuve era un po’ visionario ed estetizzante, quello di Sollima è invece molto più realistico, direi classico, essenziale e decisamente orientato verso l’azione con scene spettacolari di formidabile efficacia e di assoluto virtuosismo cinematografico. In questo nuovo duro contesto, in questo “abisso” non c’è più posto per protagoniste femminili, e l’autore concede così molto più spazio ai due carismatici protagonisti e alla costruzione di una realtà ormai solo e soltanto tutta maschile. Brolin e B. del Toro, entrambi sempre talentuosi e tesi ad approfondire il lato umano dei loro personaggi, sono perfetti in due parti tagliate sempre più su misura per loro. Il primo è imponente con la sua recitazione classica, il secondo, con una interpretazione di prim’ordine, accentua l’aspetto tenebroso e fascinoso del personaggio che diviene tanto più ambiguo quanto più sembra assumere una rilevanza tutta sua nell’evoluzione della storia stessa.

Un sequel dunque di notevole robustezza, intensità e personalità, supportato da una messa in scena efficace, da tecniche di ripresa affascinanti, da una regia asciutta e rigorosa, da un montaggio con un ritmo incalzante ed adrenalinico senza mai tempi morti che affascina letteralmente lo spettatore unitamente ad una musica ossessiva, cupa ed opprimente che sottolinea però perfettamente lo svolgersi dell’azione, la tensione e gli scoppi di violenza.

Soldado è un ottimo film di genere, un eccellente thriller d’azione, certo è anche cinema commerciale ma è di buona fattura e molto convincente. Il film è poi pervaso da una singolare vena di malinconia, di tristezza e assurdità fuori del tempo, quasi fosse preso dal “senso della fine” provato dai suoi eroi/antieroi, che richiama esplicitamente le atmosfere proprie di un western crepuscolare. Per gli appassionati del genere le due ore di spettacolo voleranno via troppo velocemente, ma … si preannuncia già nel finale stesso, l’arrivo di un terzo e forse conclusivo episodio.

data di pubblicazione:28/10/2018


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BAD TIMES AT THE EL ROYALE di Drew Goddard, 2018

BAD TIMES AT THE EL ROYALE di Drew Goddard, 2018

Drew Goddard apprezzato sceneggiatore e regista statunitense (Quella casa nel bosco, 2011), ha inaugurato con la sua opera seconda la 13ma edizione della Festa del Cinema di Roma. Il film è ambientato nella fine degli anni 60. Sette personaggi si incontrano in un hotel fra la California ed il Nevada. L’albergo, oggi decaduto e quasi deserto, è stato nel passato un dorato rifugio di ricchi e famosi d’ogni tipo ed origine. Ognuno dei sette sconosciuti non è ciò che pretende di essere e nasconde un segreto, dal curioso al terribile fino al pericoloso. Durante la notte avranno tutti la possibilità di rivedere le proprie vite e …

 

Un inizio fulminante. Fin dalla prima sequenza il regista si impadronisce dello spettatore e lo incatena subito alla sua poltrona. Tutta la prima parte del film è infatti assolutamente affascinante ed ipnotizza letteralmente, nell’intento esplicito di omaggiare sia il cinema noir, sia la letteratura poliziesca dell’epoca, sia il Tarantino di The Hateful Eight, riproponendone atmosfere, situazioni, riprese, dialoghi e strutture narrative. Come già nel suo primo film Goddard intendeva decostruire il Genere Horror, così in questa sua nuova opera decostruisce di fatto e con notevole perizia filmica, tutto il Cinema Noir Classico ricorrendo ad una messa in scena complessa, articolata su più piani visivi e narrativi, una sorta di film multiplo, in cui ripropone tutti gli stilemi del Genere ed anche i suoi stessi sottogeneri fino all’hard boiled. Ne risulta un suggestivo mix fra noir, mistery-movie, dramma criminale, thriller, film di rapina e gangster con non ultimo e, quasi ovviamente nel sottofinale, un classico rimando al modello dei modelli: il Western. In una parola, Goddard destruttura tutto quanto lo spettatore già conosce e si attende e, gli restituisce in cambio un modello tutto nuovo, tutto diverso, ma parimenti intrigante: un film Neo-Noir.

Il prodotto è tecnicamente ben costruito con una serie di flash-backward e back stories che grazie all’abilità del regista sembrano inserirsi quasi per magia nelle vicende rappresentate. Al centro della narrazione e di ogni singola storia è sempre il tema costante dell’autore, vale a dire il ritratto della condizione umana e la sua eterna dualità, quale che essa sia, fra verità e menzogna, tra avidità e falsa saggezza. Il risultato finale è un film sorprendente, interessante che non lascia mai indifferenti, ma, pur tuttavia, a voler essere molto esigenti, un film che resta in parte non perfetto, incompleto.

Difatti la somma di intrighi e situazioni, per quanto ben costruiti, conduce al Nulla e, proprio quando il regista vorrebbe o dovrebbe dire qualche cosa di più, viene a mancare quel guizzo talentuoso che, viste le premesse, ci si aspetterebbe e l’autore sembra quasi adagiarsi nel mero compiacimento del raccontare le singole storie, nell’eccesso di fatti e spiegazioni, perdendosi così nell’autocontemplazione stessa. Nonostante un finale lungo e magnifico, la seconda parte del film è difatti molto più convenzionale e perde un bel po’ del ritmo iniziale. L’impegno del regista e sceneggiatore è ben supportato da un gruppo di attori tutti perfetti, ben calibrati ed a loro agio nei ruoli, su tutti spicca l’interpretazione del sempre grande J. Bridges. Fa poi da sottofondo costante una colonna sonora di musiche anni sessanta precisa, come altrettanto precisa è la ricostruzione della location e la scelta dei toni dei colori d’epoca della splendida fotografia e delle messe in scena. Pur se parzialmente imperfetto Bad Times at the El Royale resta pur sempre una conferma di un regista da continuare a seguire con attenzione per abilità e personalità e, soprattutto, un eccellente esempio di buon cinema popolare finemente confezionato e godibile dall’inizio alla fine.

data di pubblicazione:27/10/2018


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THREE IDENTICAL STRANGERS di Tim Wardle, 2018

THREE IDENTICAL STRANGERS di Tim Wardle, 2018

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)

Il film del documentarista Tim Wardle, che prima di approdare alla Festa del Cinema di Roma è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival, parla dell’incredibile storia di tre fratelli americani nati il 12 luglio del 1961 da madre single e che, tramite un’agenzia di adozione ebraica, furono dati separatamente in adozione in tre diverse famiglie, di diversi livelli economico-sociali.

 

 

 

Ciascuna delle famiglie dei neonati, ignare che il loro figlio adottivo avesse dei fratelli, accettò dall’agenzia che il loro bambino, per almeno 10 anni, venisse monitorato di tanto in tanto da degli assistenti con il pretesto di voler tutelare la crescita del minore nel migliore dei modi possibile.

La storia non sarebbe venuta a galle se, al compimento del diciottesimo anno di età, due dei tre fratelli non si fossero incontrati casualmente al college: la loro foto, finita su molti giornali, arrivò agli occhi del terzo fratello che si palesò. I tre divennero ben presto delle celebrità, oggetto di interesse da parte della stampa, della televisione e persino Madonna li volle in un suo film. Sul perché i tre fratelli fossero stati separati alla nascita, l’agenzia di adozione rispose che era l’unico modo per garantire loro la possibilità di essere adottati all’interno di una famiglia, cosa difficile se al contrario fossero rimasti uniti. Ma nel 1995, il giornalista investigativo Lawrence Wright pubblicò un articolo in cui rivelò che i tre gemelli, assieme ad altre coppie di gemelli monozigoti separati alla nascita, furono oggetto di un lungo studio da parte dello psichiatra Peter B. Neubauer.

Il documentario di Tim Wardle oltre che essere fatto molto bene, è anche molto interessante perché racconta minuziosamente tutta l’intrigata e dolorosa vicenda. Vittime infatti, oltre ai tre fratelli, furono le famiglie adottive, “ingannate” in un periodo in cui la legislazione sulla tutela dei minori aveva sicuramente dei buchi tali da permettere la separazione di tante coppie di gemelli, senza che la cosa fosse ascrivibile ad un reato, seppur ad oggi rimane comunque un atto eticamente riprovevole che ha segnato in modo profondo le loro vite.

Il film dovrebbe essere distribuito a fine dicembre nelle sale italiane.

data di pubblicazione:27/10/2018