da Daniele Poto | Mar 18, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 7/17 marzo, poi in tournèe in Italia)
Una commedia inizialmente amabile poi infinitamente nera. Con ruoli che si ribaltano in un enigmatico gioco crudele gioco di famiglia.
Ha 35 anni di vita questa energica commedia drammatica, un ossimoro che riassume le sue varie tinte e corde. Grande ammirazione per la perfetta empatia degli interpreti. Nella prima parte prevale la madre ipocondriaca sul figlio stizzito ma in fondo remissivo. Ma poi i ruoli si ribaltano e cambiano rapporti di forza, di equilibrio e persino le voci. Quella stridula della madre riacquista vitalità e si svecchia del simulacro iniziale. Al divertente succede lo sgomento e la decifrazione di un perfetto gioco di ruolo intessuto grazie all’arma della parola. Scenografia spoglia con una serie infinita di bicchieri al piano di sotto, un bisogno di acqua, una simbolica soddisfazione della sete e congrua spazialità a disposizione. I due familiari duellano e più che il fioretto usano la spada mostrando la crudeltà degli intrecci. Erta piaciuta a Ionesco questa rappresentazione per i caratteri un po’ misteriosi e ambigui dell’assunto. In effetti la trama è irraccontabile e la sua interpretazione è totalmente affidata alla fantasia e allo spirito speculativo e indagatore dello spettatore. Violenza e schizofrenia, di un piccolo gruppo di famiglia in un interno. Si scoprirà quanto sia solo un pretesto la comparsa del figlio che va a coabitare con la madre per aiutarla a convivere con una malattia incurabile. C’è molto di più e di non detto dietro questo meritevole ausilio. Nel finale, quando si sciolgono in un abbraccio, i personaggi ma anche gli attori hanno praticamente la stessa età. Miracoli della mimesi, della tecnica e della parola che è la grande manovratrice di uno spettacolo che ha riscosso calorosi consensi. Imma Villa, già protagonista di Scannasurice, è indimenticabile in un ruolo in cui mostra grande talento.
data di pubblicazione:18/03/2019
Il nostro voto:
da Antonella Massaro | Mar 17, 2019
(Teatro de’ Servi – Roma, 15/31 marzo 2019)
La famiglia, gli affetti e il passato assumono una consistenza particolare quando la malattia irrompe nel recinto apparentemente invalicabile delle mura domestiche. Proprio nel momento in cui risulta chiaro che il presente non sarà eterno, si ha l’impressione che tutti i nodi vengano al pettine, che tutte le parole non dette siano riportate a riva dalle onde del mare, che tutti i segreti siano pronti per essere svelati.
Grazia (Viviana Toniolo) e Adamo (Stefano Messina). Una madre e un figlio. Un’insegnante e uno scrittore. I due sono legati da un affetto profondo e radicato, anche se costellato da una serie di silenzi e da una rete di segreti su cui, in fondo, ogni famiglia poggia le sue fondamenta.
Adamo è un autore di soap-opera, che non sono come le telenovelas: le soap-opera sono scritte per non avere mai una fine, mentre le telenovelas sono destinate, prima o poi, a finire. Dopo una delusione lavorativa, Adamo torna a casa dalla sua mamma, desideroso del tepore di quel nido nel quale si ha l’illusione di sentirsi al sicuro. Grazia, però, sta facendo i conti con una malattia diagnosticatale da poco: ha deciso di non parlarne con suo figlio, ma i segreti emergono in superficie con una prepotenza alla quale non avrebbe senso alcuno opporre resistenza.
Due soli attori e una scenografia ridotta all’essenziale, che riempiono lo spazio scenico con leggerezza e intensità. I protagonisti restituiscono l’impressione di una simbiosi equilibrata e, al tempo stesso, profonda. Viviana Toniolo è semplicemente impeccabile nelle vesti di Grazia, icastica burbera dal cuore (in fondo) molto tenero.
Segreti di famiglia non è tanto uno spettacolo sulla malattia e sulla morte o, meglio, sulla fine della vita. È piuttosto una riflessione sul dolore dell’abbandono e sulla comprensione reciproca, sull’importanza del dialogo e sulla forza dell’amore.
Le questioni portate sul palcoscenico sono di quelle che inducono a riflettere, che costringono a interrogarsi, ma la scrittura di Enrico Luttmann riesce, specie attraverso la pungente ironia di Grazia, a stemperare i toni, a guidare lo spettatore nel labirinto di un percorso sospeso tra passato e futuro, con il presente a fare da problematica cerniera.
Particolarmente meritoria, poi, la decisione della direzione del Teatro de’ Servi che, dopo la replica pomeridiana del 16 marzo, ha ospitato l’incontro Persona e dignità – la vita e i suoi confini. Consapevolezza e libertà di scelta, al quale hanno preso parte, tra gli altri, l’autore e il regista dello spettacolo Segreti di famiglia e Mina Welby, in qualità di Presidentessa dell’Associazione Luca Coscioni. Il connubio tra il teatro e l’impegno civile riesce sempre a produrre buoni frutti: bisognerebbe solo ricordarlo più spesso.
data di pubblicazione: 17/03/2019
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mar 17, 2019
(Teatro Franco Parenti – Milano, 21/26 maggio 2019)
Beauty Dark Queen, Lo strano caso di Elena di Troia, ovvero il racconto assolutamente personale di Stefano Napoli sulla figura Elena, la donna più bella del mondo che fu causa di guerre e sciagure. In scena Menelao, Paride, Elena, Afrodite, Eros ed una statuetta per raccontare la dark queen dalla bellezza fatale, oggetto di discordia tra uomini e donne assolutamente meravigliosa anche nella sua vecchiaia, quasi idealmente un sequel rispetto all’altra sua opera, Circus Dark Queen dedicato a Cleopatra. Una donna al centro dei desideri degli uomini ed in mezzo l’eterno gioco dell’amore, dei fraintendimenti, dei sotterfugi, del caso.
Regista colto e originale, Stefano Napoli, insieme alla sua compagnia Colori Proibiti, porta avanti da anni un rigoroso percorso di sperimentazione, fondato sul linguaggio del corpo sul movimento, sul non parlato e sull’espresso.
Un teatro plastico ed evocativo, fatto di micro storie dal sapore antico che rimanda ai fotogrammi del cinema dei Lumiere, un teatro che stimola la memoria visiva dello spettatore , fatto di citazioni e rimandi, di musica, di oggetti arcaici ed essenziali.
Un teatro che racconta l’amore malato che trasforma in prede i predatori, in una lotta per la sopravvivenza al termine della quale non ci saranno né vincitori né vinti.
Una storia cupa di bellezza e discordia, frutto dei capricci degli dei, una storia di desiderio di possesso, di donne che si difendono chiudendosi nella freddezza del cuore e che si chiude nello splendore effimero di un vestito importante, quasi una parabola vintage del mito. È una forma artistica di racconto, un modo intelligente di esprimere e raccontare con coraggio e passione, pensato ed esplicitato con cura maniacale.
Si gioca con un sipario aperto a metà che diventa cornice, oppure si utilizza uno spazio prossimo alla platea per andare oltre ed arrivare a tutti. Si racconta la tragicità degli eventi legati alla vanità e alla contesa attraverso il sarcasmo che sdrammatizza ed emoziona.
Sarà in scena a Milano al Teatro Franco Parenti dal 21 al 26 maggio 2019.
data di pubblicazione:17/03/2019
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Mar 15, 2019
Starr (Amandla Stenberg) è una 16nne afro-americana, vive due vite. La prima nel suo quartiere periferico ed emarginato dove la maggior parte delle persone sono nere e povere e dove dominano le gang e le droghe. La seconda è invece nel suo ambiente scolastico in uno dei migliori istituti privati della città ove l’hanno iscritta i genitori per darle migliori opportunità e dove il contesto è bianco e ricco. Non è facile per la ragazza vivere in equilibrio in questi due mondi così lontani e diversi fra loro. Un giorno, dopo una festa da vicini di casa, un suo amico d’infanzia viene ucciso senza aver fatto nulla da un poliziotto bianco. Starr è l’unica testimone, gli equilibri saltano ed inizia per lei un viaggio di scoperta di se stessa, delle sue convinzioni, appartenenze e verità …
Tillman è un affermato sceneggiatore e discreto regista americano che ha esordito nel 2000 con Men of honor e ci regala oggi un’opera forte, evocativa e bella, tratta da un romanzo di successo di pari titolo di A. Thomas. Un film che può sembrare essere solo una storia di crescita e formazione giovanile, un teen-movie sui problemi amorosi adolescenziali, in realtà il regista sa andare ben oltre lo spirito narrativo di cornice e realizza un lavoro che parla non solo ad un audience giovanile ma anche ad un pubblico adulto di tutte le età. Difatti, sia pure dalla prospettiva di una giovane, ci fa riflettere tutti su: dignità dell’individuo, forza della verità, solidarietà familiare, giustizia sociale ed identità individuale e collettiva.
Starr è una ragazza che è alla ricerca del suo “essere chi” e scopre ciò in cui credere e ciò che effettivamente è, solo dopo una presa di coscienza di se stessa davanti alla brutalità della polizia, del razzismo e della violenza di ogni tipo. Tutto il film è in perfetto equilibrio fra mondo scolastico e storia individuale da una parte, e mondo emarginato e dramma sociale dall’altra, senza sacrificare mai spazio e qualità di nessuna delle due parti. La narrazione è supportata da una buona sceneggiatura dietro la quale si vede tutta la forza del libro da cui è tratta, i dialoghi sono ben definiti e realistici, il ritmo è costante senza pause o cedimenti. La regia sa poi abilmente alternare momenti di allegria o leggeri con svolte drammatiche, sentimenti di dolcezza e rabbia individuale con sentimenti di commozione e rabbia collettiva. La composizione del cast, come tipico delle produzioni americane, è perfetta fin nei ruoli più marginali. Emerge su tutti, e, praticamente, illumina il film con la sua bellezza e con il suo splendido sorriso, la giovanissima e talentuosa Stenberg. La sua interpretazione ha una forza creativa che cresce in capacità e profondità in ogni scena, cesellando con intensità il suo personaggio. Nel ruolo del padre giganteggia Russel Hornsby.
Il film di Tillman è senza dubbio un film da vedere e da godere, uno dei suoi migliori. Un film che è anche fortemente rappresentativo della realtà odierna della comunità nera degli Stati Uniti, stretta fra una nuova auto rappresentazione di se stessa sul piano della famiglia, della comunità, delle nuove generazioni e, di contro, la permanenza di vecchi pregiudizi e mai scomparsi razzismi. Un film che è uno sguardo giovane, fresco e consapevole su tale realtà e che merita tutta la simpatia, l’empatia e gli apprezzamenti dello spettatore. Decisamente un bel film.
data di pubblicazione:15/03/2019
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da Daniele Poto | Mar 12, 2019
Il giallo di Mirella Gregori è agganciato gioco forza a quello della ben più popolare Emanuela Orlandi. Scherzo dei cold case o fortuna? A tutt’oggi non c’è una sicura risposta per argomentare se ci sia un filo di connessione tra le due tragiche scomparse. L’Italia è il Paese dei Misteri (Ustica, Strage di Bologna,etc) e dunque non c’è troppo da meravigliarsi per la sparizione di quasi 36 anni fa di una semplice ragazza del Nomentano che risponde a una voce anonima dal citofono, lascia la propria casa per una piccola divagazione a Villa Torlonia e da quel giorno non fa più ritorno nella propria abitazione lasciando un vuoto immenso nei genitori. Sciacalli, false piste, l’irruzione sulla scena del crimine di Alì Agca, i sospetti sul Vaticano: una ridda inestricabile di congetture piove sulla vicenda abilmente riassunta da un giornalista che si interessa alla viva cronaca e che si è appoggiato alla collaborazione dell’Associazione Penelope e della sorella di Mirella per ricostruirci, a distanza di tanti anni, un complesso vivo di circostanze, di sospetti, lanciando più di un’ombra sugli approfondimenti dell’inchiesta e sulla noncuranza iniziale con cui il caso viene trattato. La prefazione di Pietro Orlandi che in queste settimane conduce un programma sugli “scomparsi” aggiunge forza ed emotività alla narrazione per queste storie il cui capolinea sembra lontano. Ogni tanto riaffiora una voce, una supposizione, una possibile sepoltura senza che ci sia mai una conferma, un avvaloramento della pista investigativa. A fronte dei possibili assassini fa la comparsa una società degradata fatta di depistatori, di approfittatori che non hanno fornito indicazioni utili nonostante il miraggio di un appetibile ricompensa messa in campo dalle famiglie Orlandi e Gregori, nonostante la differenza di possibilità economiche. I parenti superstiti non hanno neanche una tomba su cui pregare e coltivano una speranza che si fa più flebile con il passare degli anni anche se le vicende in questione sono vive nell’immaginario collettivo di tutti gli italiani.
data di pubblicazione:12/03/2019
da Rossano Giuppa | Mar 10, 2019
(Teatro Vascello – Roma, 5/10 marzo 2019)
Sonia Bergamasco porta in scena al Teatro Vascello dal 5 al 10 marzo 2019 una stupefacente storia tutta al femminile dando forma e immagine alla scrittura forte e appassionata di Violette Ailhaud, autrice de L’uomo seme. Uno spettacolo sofisticato e profondo, in cui voce, canto e movimento si alternano e si sovrappongono in maniera armonica. Una storia sulla crudeltà della guerra e sul desiderio di amore e di maternità delle donne.
Scritto nel 1919 e tenuto segreto per volontà dell’autrice, fino al 1952, questo breve racconto viene pubblicato in Francia nel 2006 e diviene notissimo soprattutto con il passa parola. Tradotto in molte lingue, viene messo in scena da Sonia Bergamasco che lo ho ripensa e lo costruisce in chiave di ballata.
In un villaggio di montagna dell’Alta Provenza, all’indomani della Grande Guerra, tutti gli uomini sono morti. Il paese è abitato solo da donne e bambini. Violette Ailhaud, testimone dei fatti, trova solo allora le parole per raccontare di quando, ancora ragazza, il suo villaggio aveva vissuto un’identica tragedia. Nel 1852 tutti gli uomini di un piccolo paese vengono uccisi, deportati o imprigionati perché ostili al colpo di stato di Napoleone III. Restano solo mogli, figlie, madri e fidanzate che con dolore e tenacia, cercano di ricostruire la comunità.
Le donne stringono un patto: condivideranno il primo uomo che metterà piede nel villaggio. Avrà precedenza quella che lui toccherà per prima. Subito dopo, il seme maschile sarà diviso senza generare rivalità. Quando un uomo arriva casualmente nel villaggio, però, la forza del desiderio e la fascinazione introducono una novità nel corpo e nella mente della protagonista. I due si innamorano, si desiderano, merito anche del comune amore per i libri. L’uomo rispetterà il patto, farà quel lavoro perché lo ritiene un suo dovere, perché gli piacciono le cose ben fatte, ma lo farà senza amore e andrà via. I figli nasceranno e saranno di tutto il villaggio.
Sonia Bergamasco ideatrice, regista ed interprete dello spettacolo, racconta lo spaccato di vita di una giovane donna, le sue lacerazioni ed il suo innamoramento che la farà vibrare ma che alla fine resterà sospeso. Ma è anche il suo racconto della guerra dal lato delle mogli e delle madri e della voglia di vita e di rinascita di queste donne.
La Bergamasco coinvolge il quartetto vocale pugliese delle Faraualla (straordinarie Loredana Savino, Gabriella e Maristella Schiavone, Teresa Vallarella) e il suono delle percussioni di Rodolfo Rossi per un percorso musicale atavico e ancestrale che fonde ritmi, voci, linguaggi e suoni. Un allestimento raffinato che si avvale delle scene e dei costumi di Barbara Petrecca e del disegno luci di Cesare Accetta. Al centro un enorme albero spoglio con i rami come braccia aperte e sofferenti, un dolmen quasi sacro e protettivo, simbolo della forza della natura e della vita nonostante tutto.
L’uomo seme è infatti il racconto di un femminile arcaico legato al cerchio delle stagioni e ai rituali della terra. Queste donne sopportano la violenza e gli oltraggi della guerra e dell’odio ma soprattutto ricercano quell’istinto di sopravvivenza che è una riflessione profonda sul potere della vita, sulla forza del desiderio e sulla capacità delle donne di guardare al futuro.
data di pubblicazione:10/03/2019
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mar 9, 2019
(Teatro India – Roma, 6/10 marzo 2019)
Quattro figure popolano lo spazio tra un fondale nero ed un termosifone bianco. Tagliarini inizia a narrare il suo sogno e il suo incontro con una Deflorian barbona e problematica e pian piano ognuno si piega alla propria esigenza di raccontare e raccontarsi. Si apre cosi Il cielo non è un fondale lo spettacolo di Daria Deflorian ed Antonio Tagliarini in scena al Teatro India di Roma dal 6 al 10 marzo 2019. Un racconto urbano basato sulle memorie che quattro voci intrecciano fra loro, creando strade, connessioni e incroci, un puzzle di monologhi interiori che vengono fuori intervallati al canto. Il recitato è spontaneo, privo di accessori, dosato e diretto. Le parole riflettono le esistenze all’interno di luoghi familiari e privati nei quali ognuno manifesta il proprio spazio intimo.
In una metropoli di tutti e di nessuno, appaiono e scompaiono le figure di Alom, il venditore di rose che un tempo era un generale nell’esercito del Bangladesh, di Mohamed il cuoco pakistano, della vera barbona incrociata nel giardino del sogno e che assomiglia a Daria, e poco importa se siano ricordi di autentici incontri o fantasmi rimasti impigliati. Una struttura estremamente semplice, una recitazione minimale e naturale, un testo equilibrato e profondamente ironico, capace di esasperare e celebrare ogni piccolo elemento o imprevisto quotidiano, la possibilità di far diventare assurdo ogni piccolo episodio trascorso e contemporaneamente di innalzarlo a situazione condivisa o condivisibile per la sua verità innegabile.
Così senza continuità e senza un apparente filo logico e narrativo si arriva alle riflessioni domestiche di Daria Deflorian ed il suo rapporto con il termosifone in ghisa alternato alla parodia con le proprie ambizioni di attrice, alle fughe notturne al supermercato, dosate con raffinata e consapevole comicità.
Uno spettacolo che restituisce un senso di familiarità al pubblico che si ritrova in quelle piccole confessioni sulle proprie abitudini che si scontrano con la realtà esterna e le sue tempistiche schizoidi, in uno stato di completo sfasamento con il circostante.
Un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che parte dal sogno secondo una ritmica efficace di incontri e di confronti, di cadute e di incidenti, di parole e di canzoni. I quattro attori (i bravissimi Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini) esplorano la nostra condizione urbana, aprendo un dialogo tra finzione e la realtà e finendo per popolare la scena di termosifoni bianchi di ghisa, unici elementi in grado di riscaldare le coscienze e diffondere calore.
data di pubblicazione:09/03/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Mar 8, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 5/17 marzo 2019)
Il potere della calunnia genera il dramma in casa Platania, dove un capofamiglia troppo moralista preferisce prendere le parti di una governante creduta da lui esempio ineccepibile di virtù. Ma la verità viene fuori e a morire per i sensi di colpa sarà proprio chi ha diffamato un’innocente cameriera.
Leopoldo Platania è un borghese siciliano che vive a Roma con tutta la sua famiglia. Alle spalle il doloroso ricordo della figlia adolescente, che si suicidò in seguito a un rimprovero dato con troppa forza. Si capisce immediatamente che un granitico moralismo impera nella sua mente, fino a renderlo cieco e sordo, incastrato nei pregiudizi delle regole dell’agire corretto. L’estrema adorazione per la governante francese appena assunta, che conquista immediatamente la stima dell’uomo per i suoi modi severi e rigidi, non gli fanno vedere la verità. Caterina Leher, questo il nome di lei, in realtà è una donna infelice che nasconde un tormento. Per un disegno vile e calcolatore accusa di omosessualità la povera cameriera Jana, che viene cacciata per questo a malo modo dalla casa e rispedita in Sicilia. In realtà è lei a vivere questa condizione di diversità e quando verrà scoperta sul fatto, perché la verità poi si manifesta sempre, supplicherà ipocritamente il perdono. Da esempio di perfezione assoluta si rivela così il prototipo dell’antieroina per eccellenza. La recitazione di Ornella Muti, nei panni della governante, conferisce al personaggio quel grado di colpevolezza e di punizione autoinflitta che lo distingue.
La commedia, che subì la censura proprio perché tratta anche il tema dell’omosessualità, nonostante sia stata scritta nel 1952, dimostra con sconcertante chiarezza di essere ancora attuale, non fosse altro che per il disorientamento che crea ancora la percezione della diversità e l’agghiacciante facilità con cui a volte si giudicano le vite altrui. Ecco giustificata allora una messa in scena del tutto fedele al testo, anche nelle didascalie. L’interpretazione naturalista si apprezza molto nella recitazione di Enrico Guarneri, nel ruolo di Leopoldo, ma si vede anche nella costruzione della scenografia, che ripropone esattamente l’interno di un appartamento borghese anni Cinquanta. Unico elemento simbolico le pareti, recise a salire come da un colpo di sciabola, che da una parte richiamano l’imperfezione della morale vigente sulla quale è costruita la società, dall’altra sono presagio dell’esistenza recisa della protagonista, che sul finale si toglierà la vita dopo aver appreso la notizia della morte di Jana.
data di pubblicazione:08/03/2019
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Mar 6, 2019
L’istante in cui una coppia si spezza… Anna (Valeria Bruni Tedeschi) è stata lasciata dal compagno (Riccardo Scamarcio) appena pochi attimi prima che lei vada a richiedere un finanziamento per il suo nuovo film e si metta poi in viaggio per riunirsi, come tutte le estati, al resto della sua vasta famiglia nella grande casa in Costa Azzurra.
Anche questo quarto film della Bruni Tedeschi, presentato fuori concorso all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ritorna, quasi riprendendo il filo interrotto nella sua precedente opera Un Castello in Italia del 2013, sul tema familiare e sulla figura del fratello scomparso nel 2006. L’artifizio è il classico film nel film. É difatti nella grande magione altoborghese di famiglia che Anna cerca, pur fra le variegate ed ingombranti presenze dei parenti: la figlia, la sorella con il marito, la madre, la zia, altri amici, segretarie e dame di compagnia, nonostante l’assenza del compagno il cui arrivo è costantemente sollecitato e sperato, prova, dicevamo, a ritrovare se stessa, ad uscire dalla sua confusione emotiva, affettiva e creativa, cercando una ispirazione per riuscire a scrivere la sceneggiatura del suo esile film autobiografico. Nella villa sono tanti, ai familiari si aggiungono ed intrecciano le storie della servitù, un incrocio di storie, di relazioni, fra i “piani alti” ed i “piani bassi”, quasi come in un film di Altman. Nonostante tutto questo cercarsi, parlarsi, incontrarsi, il vero elemento dominante in tutti i piani della villa è però la Solitudine. La solitudine delle occasioni perdute e sprecate e, con essa, la Paura e quindi le speranze residue, le illusioni, i desideri e gli amori tanto agognati quanto frustrati. Con tutto ciò il Tempo, quel tempo che inesorabilmente scorre e porta via i sogni ed infine la Morte che appare e scompare con il tempo stesso. La Bruni Tedeschi ha ormai un suo proprio stile sia come attrice sia come regista. Può essere tanto allegra, leggera, eterea, delicata, nevrotica, quasi evanescente, quanto anche precisa e tagliente. Questo suo film è ironico, tenero, ingenuo e paradossale, ma anche capace di far sorridere e commuovere senza cadere nella seriosità grazie al dono dell’autoironia con cui la regista descrive se stessa e quello che è stato, e forse ancora è, il suo ambiente familiare altoborghese franco-italiano. Il film ha un buon ritmo, soprattutto nella prima parte è molto gradevole ed elegante nell’alternarsi ed intrecciarsi ironico delle storie fra servitù e padroni, poi rallenta un po’ per tornare a recuperare brillantemente in un finale onirico-felliniano sincero ed appassionante.
La Tedeschi è aiutata e circondata dai suoi veri familiari: la madre, la zia e la figlia ed anche da un affiatato gruppo di attori: l’ottima ed asciutta Valeria Golino nei panni della sorella, l’esperto P. Arditì perfetto nel ruolo del cognato ed inoltre uno stuolo di ottimi, direi magnifici, caratteristi francesi. Un piccolo ma gradevole film, una piacevole e garbata conferma da parte della Tedeschi, Forse la vita privata della privilegiata famiglia della Tedeschi potrà non interessare e probabilmente potrà anche infastidire, ma… se fosse tutto immaginario sarebbe un bel soggetto cinematografico.
data di pubblicazione:06/03/2019
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da Antonio Iraci | Mar 6, 2019
Silvia, anche se deve ancora compiere undici anni, dimostra una certa maturità: è molto brava a scuola e sa cavarsela in tutte le situazioni che la vedono impegnata in prima persona. Suo malgrado vive in una situazione familiare molto pesante, con una madre perennemente depressa e un padre che cerca di barcamenarsi in casa tenendo per quanto possibile la famiglia unita. La bambina, che vive a Pistoia, ha il grande desiderio di visitare Roma ma, nonostante le reiterate promesse dei genitori, non riesce ad esaudire questo desiderio fino al giorno in cui decide di partire da sola, con il coraggio e la determinazione che la contraddistinguono. L’incontro sul treno con Emina, ragazza rom, le aprirà un mondo finora a lei sconosciuto dove lo spirito di sopravvivenza e l’affetto daranno origine a situazioni contraddittorie seppur pregne di una profonda umanità.
Selezionato e premiato in vari festival internazionali, finalmente approda nelle sale italiane La fuga di Sandra Vannucchi, al suo esordio per la regia. Il film trova ispirazione da un’avventura realmente vissuta dalla regista quando a dieci anni decise di fuggire di casa per recarsi da sola a Roma e visitare la città all’insaputa dei suoi genitori. La storia raccontata nel film, tuttavia, prende una piega diversa perché la protagonista fugge da una situazione familiare disastrosa con una madre in totale stato depressivo ed un padre tutto impegnato a tenere unito un menage familiare che va letteralmente a pezzi. Ancora una volta ritorna sul grande schermo – basti pensare al tema principale sul quale si è basata l’ultima edizione della Berlinale – la famiglia come specchio della società e il disagio che i minori, in alcune situazioni di particolare indifferenza genitoriale, devono sostenere e sopportare. Ci si trova di fronte a una totale assenza di dialogo e di interesse verso le reali esigenze affettive, surrogate spesso con oggetti quali playstation, telefonini o zainetti alla moda. La fuga di Silvia non nasce solo come atto di ribellione per attirare l’attenzione su di sé, ma si trasforma nel desiderio di scoprire un mondo nuovo che le possa aprire prospettive di crescita. Determinante l’incontro con una coetanea rom: tra di loro, così diverse per estrazione sociale e cultura, nascerà un’amicizia profonda e un reciproco aiuto.
La fuga racconta una storia delicata che ci emoziona profondamente per la sua semplicità e che ci permette di sondare la sensibilità di una bambina che soffre per il rifiuto di essere ascoltata. Film indipendente, low budget, girato tra la Toscana e Roma, ha come protagonisti Donatella Finocchiaro e Filippo Nigro nel ruolo dei genitori di Silvia, interpretata dalla giovanissima Lisa Ruth Andreozzi, che per questo ruolo ha già ottenuto una menzione speciale al Festival di Woodstock, alla sua seconda esperienza cinematografica dopo aver interpretato nel 2015 il ruolo di Martina ne Il professor Cenerentolo di Leonardo Pieraccioni.
Bravi anche gli altri attori non professionisti provenienti da un campo nomadi romano dove sono state girate alcune riprese del film che mostrano la condizione disumana in cui i rom sono costretti a vivere.
Ottima la fotografia di Vladan Radovic, già vincitore del David di Donatello nel 2015 con il film Anime Nere di Francesco Munzi.
data di pubblicazione:06/03/2019
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