da Giovanni M. Ripoli | Apr 14, 2019
La famiglia Wilson (genitori e due figli) appartenente alla borghesia afro-americana torna nella casa d’infanzia nella California del Nord, auspicando di trascorrervi una lieta vacanza estiva. Adelaide Wilson, però, ha un passato difficile alle spalle e un trauma irrisolto, legato proprio a un episodio accaduto nel Luna Park di Santa Cruz. La donna “sente” che qualcosa di terribile sta per accadere e la sua ossessione trova l’incredibile e angosciante risposta al suo ritorno da una intensa giornata al mare…
Su Noi, la critica americana si è sbizzarrita nel leggervi significati ben oltre una semplice fruizione di un film di genere. Tale stampa “entusiasta” ha ritenuto la seconda prova di Jordan Peele (New York 1979) di non facile classificazione e migliore del già acclamato Scappa-Get Out. Come già per il suo primo film, infatti, solo apparentemente si è parlato di un horror tout court, quindi pellicola di genere, ma, in realtà, intendendo anche altro. Se Get Out, premiato con gli Oscar per la migliore sceneggiatura originale, era stato definito un “thriller a sfondo politico e anti-razziale”, Noi, a parte la maggiore adesione all’horror nella sua migliore accezione, se vogliamo, è stato letto come horror contaminato con la psicanalisi (il tema del doppio malefico). Atteso alla fatidica seconda prova, Peele non delude e conferma tutto il suo fantasioso talento regalandoci una storia inquietante, curiosa e originale (una mamma che cerca di mettere in salvo la propria famiglia in un Paese invaso da “doppelganger” assetati di sangue umano…) in cui, come si dice banalmente, c’è tanta roba! (troppa?) Tutti gli stilemi del genere horror sono rispettati appieno: la suspence, il commento musicale in crescendo (inclusa una strepitosa Good Vibrations dei Beach Boys), il brivido, lo splatter, in un perfetto montaggio che amplifica al massimo gli intenti della sceneggiatura, disseminata di continui indizi (per esempio, il modo di parlare delle due donne che cambia di continuo…) che poi conducono alla sorprendente rivelazione finale, che, ovviamente si lascia agli spettatori. Forse alcuni dei riferimenti alla realtà statunitense possono sfuggire a noi europei (per esempio, l’evento Hands Across America, citato nei titoli di testa, iniziativa benefica del 1986 dove celebrità come Michael Jackson, Michael J.Fox e Ronald Reagan si tenevano per mano), certo il tema del razzismo, più evidente in Get Out, qui appare più sfumato a vantaggio delle differenze sociali ed economiche e dell’American Dream, ma il tema del doppio, la domanda su chi realmente noi siamo, su chi abbiamo vicino, la paura del diverso, sono i dubbi e le inquietudini che il regista sollecita di continuo e volontariamente lascia senza risposte. Va riconosciuto dunque che pur non trattandosi del capolavoro di cui parla una certa critica, siamo di fronte a un film horror assai ben fatto, un horror che stando al passo con i tempi, rivaluta il genere e pone alcuni quesiti legittimi sui destini dell’umanità. Fra gli spaventati e credibili attori, spiccano la brava Lupita Nyong’o (Adelaide Wilson), già premiata con l’Oscar per 12 Anni Schiavo e la “cattiva” Elisabeth Moss, entrambe nel doppio ruolo. Suggerimenti finali: per gli amanti del genere certamente da vedere, per tutti gli altri con cautela.
data di pubblicazione:14/04/2019
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da Rossano Giuppa | Apr 9, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 2/14 aprile 2019)
In scena al Teatro Quirino di Roma dal 2 al 14 aprile per la regia di Guglielmo Ferro Otto donne e un mistero, la celebre commedia noir di Robert Thomas, nota al grande pubblico anche per il film tratto nel 2002 dall’omonimo titolo, diretto da François Ozon con Catherine Deneuve e Isabelle Huppert, che ebbe un grande strepitoso successo di pubblico. Una versione italiana piacevole e ben strutturata che non perde nel difficile confronto con testo e film.
Siamo nella notte del ventiquattro dicembre in una villa praticamente isolata a causa delle abbondanti precipitazioni nevose dove otto donne, tutte tra di loro in stretta connessione con Marcel il padrone di casa perché parenti, amanti o dipendenti, sono lì presenti per festeggiare il Natale.
Fuori la neve ostacola qualsiasi spostamento, la figlia Suzanne (Claudia Campagnola), è appena tornata dall’Inghilterra portando un po’ di allegria e di buon umore in un contesto non particolarmente leggero. Abitano quella casa Gaby (Anna Galiena), moglie di Marcel, Augustine (Debora Caprioglio), sorella di quest’ultima abituata a origliare dietro le porte, innamorata del cognato, c’è la suocera l’avara Mamy (Paola Gassman) malata immaginaria su una sedia a rotelle. A completare il quadretto familiare ci sono Catherine (Mariachiara Di Mitri), l’altra figlia di Gaby e Marcel, Pierrette (Caterina Murino), sorella di Marcel e infine la Sig.ra Chanel (Antonella Piccolo), governante della casa e Louise (Giulia Fiume), la cameriera con i suoi segreti.
Prima che la festa di Natale cominci si scopre però che Marcel è morto in circostanze misteriose: assassinato con una coltellata alla schiena. D’improvviso gli otto personaggi femminili si ritrovano in una prigione claustrofobica, dove ciascuna sospetta dell’altra e dove ognuna esaspera la propria personalità e conflittualità con le altre.
Chi è stata a ucciderlo? La governante a servizio da tanto tempo? La moglie del morto? La sorella che continuava a chiedergli soldi? Le figlie stesse? La vecchia madre? La cognata isterica e austera, con i suoi desideri inespressi? La nuova cameriera? Inizia un gioco al massacro che vede coinvolte le donne nel ruolo di vittime e aguzzine. La commedia noir si snoda tra supposizioni e sorprese che sistematicamente smentiscono le ipotesi, rendendo la narrazione divertente e coinvolgente. Le otto attrici si calano nei personaggi con bravura e personalità, realizzando un isterico quadro corale convincente. E la soluzione di un giallo alla fine giunge senza un finale scontato. Un susseguirsi di colpi di scena e di pistola, sospetti che sistematicamente finiscono per ricadere da una all’altra donna, grazie a rimbalzi e rimandi: tutte ogni volta colpevoli e poi innocenti fino all’ultima.
Un piacevole mix di noir, sarcasmo e comicità. Una compagnia di attrici di talento tutte in grado di raccontare segreti, ambizioni, visioni personali, istinti e voglia di sopravvivenza a scapito di tutto e tutti.
data di pubblicazione: 9/04/2019
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da Antonio Iraci | Apr 8, 2019
(Museo dell’Ara Pacis – Roma, 6 aprile/ 27 ottobre 2019)
E’ stata inaugurata in questi giorni, presso il Museo dell’Ara Pacis, una mostra molto interessante sulla figura dell’Imperatore Claudio e delle sue due ultime mogli Messalina e Agrippina nel contesto della corte imperiale caratterizzata da efferati fatti di sangue, intrighi e vicende a dir poco ardite.
Claudio nacque fuori dal territorio italico, esattamente a Lugdunum, l’attuale Lione, nel 10 a.C. ed, a causa delle sue precarie doti fisiche e psichiche, non era mai stato seriamente preso in considerazione da Augusto il quale, come suo successore, avrebbe preferito indicare il fratello Germanico che però morì in strane circostanze. Designato il figlio Caligola per le sue indiscusse abilità politiche ma che disgraziatamente rimase ucciso in una congiura di palazzo, il posto rimase vacante in favore di Claudio che a cinquant’anni venne acclamato imperatore dal corpo militare dei pretoriani.
La mostra, attraverso un curatissimo percorso espositivo, ci presenta i vari personaggi attraverso installazioni audio-visive e preziose opere d’arte provenienti da importanti musei italiani ed internazionali che hanno contribuito ad elevare il valore dell’esposizione ad un livello molto alto. Tra i più importanti oggetti di interesse storico e archeologico esposti, troviamo la famosa Tabula Claudiana su cui è impresso il discorso tenuto da Claudio in Senato nel 48 d.C. sull’apertura ai notabili galli del consesso senatorio, nonché il prezioso cameo con il ritratto dell’imperatore, per gentile concessione del Kunsthistorisches Museum di Vienna, ed il piccolo ritratto bronzeo di Agrippina Minore proveniente dalla Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo.
La Mostra, così articolata, ha saputo ben evidenziare la vita e il regno di un imperatore che, nonostante fosse discusso dagli storici del tempo, mostrò al contrario grandi abilità politiche nel prendersi cura del suo popolo e nel promuovere grandi lavori pubblici, contribuendo così allo sviluppo e all’espansione dell’impero romano. Suscita curiosità il rapporto intrigato di Claudio con le sue quattro mogli e soprattutto con la lasciva Messalina, uccisa con il suo consenso, e con la nipote Agrippina, sua ultima moglie, considerata l’artefice della sua morte allo scopo di agevolare la successione al figlio Nerone.
Il grande evento Claudio Imperatore. Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia è stato curato da Claudio Parisi Presicce e Lucia Spagnuolo, ideato dal Musée des Beaux-Arts de Lyon che ha ospitato l’esposizione sino allo scorso 4 marzo. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali e da Ville de Lyon, la mostra è sicuramente da non perdere in quanto ci presenta uno dei più controversi imperatori romani e ci fa scoprire gli elaborati meccanismi di corte e le spietate congiure per la conquista del potere.
data di pubblicazione:08/04/2019
da Daniele Poto | Apr 8, 2019
(Teatro delle Muse – Roma, 28 marzo/14 aprile 2019)
High class e proletariato. Favola alla Pretty woman per cuori stagionati in un interno. L’intellettuale spiantato cade preda sentimentale di una colf frizzante…
La vis comica di Luciana Frazzetto, di casa in uno dei suoi abituali teatri, contamina Franco Oppini, forse alla più convincente prova di attore solista dopo l’ormai lontana uscita dai Gatti di Vicolo Miracoli. Due tempi per passare dal severo distacco emozionale tra padrone e colf, alla piena corresponsione dei sensi in una pochade che trasmette allegria e ingenuità ricorrendo a una comicità di grana grossa ma ben funzionale alla leggerezza del plot. Trattasi di prova anche fisica per la Frazzetto che ha vari ed adeguati toni di recitazione per far precipitare la commedia verso l’inevitabile conclusione. C’è un terzo trascurabile ago della bilancia nei panni del fratello del protagonista (Antonio Tallura), apparentemente insospettabile e irreprensibile uomo d’affari che cerca di riportare alla realtà il fratello perennemente in bolletta. Un fortuito scambio di valigie alla Feydeau rivelerà al contrario la sua natura di uomo sessualmente trasgressivo. Si gioca sul contrasto dell’italiano politicamente scorretto della Frazzetto con la presunta superiorità culturale del padrone di casa. Ma anche sui gusti diversi, sull’amore frustrato dello scrittore rifiutato dagli editori verso una repulsiva donna snob che compare solo al telefono, sul solipsismo di un affetto inizialmente rivolto verso il pesciolino Pierfrancesco, ignaro testimone della vicenda. Come nelle belle favole è la colf che riporta alla vita reale le illusioni del protagonista, riscattando lei stessa un passato di carcerazione per aver ucciso il marito. E il letto è solo il punto terminale di un affetto che matura svolta dopo svolta. Come un irresistibile sottofondo destinato a sbocciare nel lieto fine, nonostante le differenze di classe. Si gioca anche sul dialetto, tra lo scalcinato romanesco della Frazzetto e il compassato gergo lombardo di Oppini.
data di pubblicazione:08/04/2019
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Apr 8, 2019
Bisogna innanzitutto premettere che, per chi avesse intenzione di leggere un libro horror, non è questo il libro adatto. Temo che gli insuperabili titoli pubblicati nel ventennio ‘70/’80 siano ormai solo, ahimè, un lontano ricordo: anzi direi che, in questo racconto, di horror non v’è proprio nulla.
Stephen King ci riporta nella cittadina di Castle Rock nel Maine.
Nella prima scena Scott Carey, il protagonista del romanzo, si sta recando dal suo storico amico Bob Ellis, medico in pensione, per raccontargli cosa gli stia accadendo: Scott sta perdendo costantemente peso e, benché il suo fisico resti immutato e lui mangi porzioni sempre più abbondanti, l’ago della bilancia scende inesorabilmente verso lo zero.
La storia che percorreremo con Scott vedrà come protagoniste anche le sue nuove vicine di casa, Missy e Deirdre proprietarie del nuovo ristorante messicano Holy Frijole, coppia omosessuale con la quale, dopo un inizio piuttosto turbolento, comincerà un’amicizia molto affettuosa ed estremamente profonda.
Come dicevo non è certo il libro che ci si aspetterebbe da King, sicuramente lo stile è il suo, limpido e accattivante e qualsiasi storia racconti rimane innegabilmente un grande affabulatore ma, mi accorgo sempre più, di avere difficoltà a recensirlo come il Re, il Maestro; forse sono rimasta ancorata a titoli come IT, Christine la macchina infernale, Pet Sematary (non dimentichiamoci che Castle Rock è stata la cittadina di Cujo).
Mi pare evidente che questo libro sarebbe dovuto essere un omaggio a colui che King definì, in una datata intervista rilasciata al Corriere della Sera, il suo maestro: Richard Matheson, autore di Tre millimetri al giorno, il cui protagonista era proprio Scott Carey.
Nel corso dell’intervista King dice di Matheson: “Quando la gente parla di questo genere, immagino che citi per primo il mio nome, ma senza Richard Matheson io non sarei nemmeno qui… È venuto fuori quando c’era bisogno di lui, e questi racconti mantengono intatto tutto il loro originale fascino ipnotico.
State attenti: siete nelle mani di uno scrittore che non chiede pietà e non ne concede.
Vi spremerà fino all’osso, e quando chiuderete questo libro vi lascerà con il più grande regalo che uno scrittore possa offrirvi: il desiderio di leggerlo ancora”
Ma in questo racconto, estremamente delicato, King dà più peso alla deriva “buonista” della redenzione, da parte di Scott, degli abitanti di Castle Rock nei confronti di Missy e Deirdre – che mi è sembrato un cliché veramente non degno di lui – che alla storia in sé.
Che dire, non mi ha convinta.
data di pubblicazione:08/04/2019
da T. Pica | Apr 7, 2019
Dopo mesi di attesa è finalmente arrivato nei cinema italiani il remake di Dumbo, uno dei cartoni animati Disney più celebri e amati, realizzato da Tim Burton.
Siamo nel 1919 e la colorata “famiglia” del Circo Medici, capeggiata dal fanfarone Maximilian (Danny Devito) arriva, dopo un lungo tour itinerante, a casa. Contemporaneamente ritorna dalla guerra, appena finita, Holt Farrier (Colin Farrell) che si riunisce ai due figli, Milly e Joe, che nel frattempo hanno perso la madre. Il nuovo scenario non è certo tra i più sereni: c’è una crisi dilagante, l’appezzamento di terra dove una volta si stabiliva il Circo è diminuito, per sopravvivere Maximilian ha dovuto vendere i cavalli di Holt e una serie di mobili. Sono però rimasti gli elefanti e tra questi c’è una new entry: un’elefantessa indiana che di lì a qualche ora mette al mondo il suo piccolino che, tuttavia, viene subito schernito e visto come l’ennesima zavorra del barcollante Circo: il piccolo elefante (Jumbo) ha due orecchie enormi, deformi, che addirittura lo fanno inciampare e cadere su se stesso. La madre, per difenderlo dagli attacchi e gli scherni di un membro del circo e, la sera successiva, del pubblico diventa suo malgrado protagonista di un episodio di violenta distruzione del tendone e di pericolo per i circensi e gli spettatori e viene restituita al suo venditore. Ha così inizio la solitudine dei Jumbo, che ora tutti chiamano Dumbo per via del suo aspetto goffo e deforme. Grazie all’amorevole amicizia di Milly e Joe, che lo convincono a esibirsi mostrando la sua capacità di volare affinché Maximilian abbia i soldi per poter ricomprare la sua mamma, Dumbo diventa la star del Circo Medici. Il richiamo di pubblico e il successo desta però l’attenzione di Mr Vandemere (Michael Keaton), direttore di Dreamland (una città del divertimento che ricorda le atmosfere del Paese dei balocchi del cartone Disney Pinocchio), il quale si accaparra la star Dumbo inglobando nella propria realtà – una fittizia società sfavillante – il Circo Medici. Ma non è oro tutto quello che luccica e l’avidità e il cinismo di Vandemere escono subito allo scoperto. Unica nota positiva la madre di Dumbo è stata inserita nell’attrazione dell’isola dell’incubo di Dreamland e allora avrà inizio un piano per liberare la mamma di Dumbo e riconquistare tutti insieme la libertà. E’ evidente come il Dumbo “timburtiano” abbia ben poco del pachiderma disneyano: al netto dell’impressionante somiglianza dei due elefantini – uno frutto del carboncino di Walt Dinsey e l’altro della “matita digitale” – e di un paio di richiami alla ninna nanna Bimbo Mio (interpretata dalla cantante Elisa) e all’immagine delle bolle di sapone che divengono elefanti rosa (molto più originale e moderna la loro versione disneyana), il Dumbo di Tim Burton racconta una storia tutta sua dove ovviamente si vuole raccontare, attraverso i “diversi”del Circo Medici – tra cui Holt senza un braccio, la Sirena del Circo Medici strizzata nella sua burrosa taglia Large e il deforme Dumbo – come non ci si debba vergognare delle proprie imperfezioni, ne porle come le fondamenta di una serie di complessi e limiti alla libera affermazione ed espressione di noi stessi e della nostre personalità e aspirazioni. Nonostante il film scorra e nella parte finale abbia anche un tono avvincente, personalmente ho avvertito l’assenza di quel qualcosa di magico che solo Walt Dinsey anche grazie alle parentesi musicali – dalle cornacchie che cantano “ne ho vedute tante da raccontar ma mai un elefante volar” agli psichedelici, a tratti moderni allucinogeni, elefanti rosa “son qua, son qua…” – aveva creato rendendo il disegno della storia di un piccolo elefante diverso davvero magico e unico, indelebile. Tim Burton ha messo in scena un Dumbo moderno dove ha inserito una moltitudine di piccole storie e messaggi che gli danno quasi un’originalità tutta sua. Sicuramente, ricreare la magia di un cartone con una storia e una sequenza di episodi, immagini e musiche incastonate nell’immaginario collettivo non era un’opera facile, ma in ogni caso la nuova versione umanizzata desta curiosità.
data di pubblicazione:07/04/2019
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da Antonio Jacolina | Apr 7, 2019
Abel (Louis Garrel)e Marianne (Laetitia Casta) sono separati da più di otto anni. Si ritrovano al funerale del migliore amico di lui, l’uomo per cui lei lo aveva lasciato. Tornano insieme, ma il tempo è passato e le cose son molto cambiate: c’è il piccolo figlio di lei che semina dubbi sulla morte del padre e, c’è soprattutto la giovane e bella Eve (Lily-Rose Depp) da sempre innamorata di Abel.
A conferma della poliedrica ricchezza e vivacità creativa e realizzativa del Cinema Francese e della capacità dei suoi giovani autori di saper rappresentare tutte le variegate sfaccettature della realtà sociale e culturale del Paese, siamo passati dalle emarginazioni e preoccupazioni sociali di Les Invisibles di cui abbiamo già scritto, alla rappresentazione di un altro aspetto della realtà francese: quel certo mondo tutto e proprio parigino con personaggi belli e brillanti, presi fra problemi d’amore, appartamenti e lavori di prestigio e locations da cartolina della città. A tal proposito, abbiamo visto ieri in anteprima nazionale, in occasione di questa IX edizione del Festival del Nuovo Cinema Francese, L’homme fidèle, l’opera seconda di L. Garrel, giovane e già affermato attore, dotato di talento vivace, geniale figlio d’arte nonché marito di Laetitia Casta (cos’altro di più?). Il talentuosissimo Garrel, con questo suo nuovo film di cui è tutto: cosceneggiatore, attore e regista, mette in scena le vicende di un uomo combattuto ed incerto fra le strategie amorose di due donne, incapace di fare le proprie scelte e che si affida al Destino pronto a farsi prendere da colei che l’ama di più. Un triangolo amoroso assai complicato in cui l’alter ego del regista: Abel, sembra una marionetta contesa nel gioco d’amore. Uno studio sentimentale ben cesellato, un gioco di manipolazione intrigato ed intrigante dai risvolti noir, al cui centro è un piccolo uomo apparentemente goffo, innocente e fedele, affascinato dalle donne e dall’eterno mistero femminino, e, nel contempo, incapace di comprenderle e di capire come poter essere amato da loro.
Figlio di un grande regista della Nouvelle Vague il giovane cineasta ci regala un film in cui umori, sapori e tocchi ricordano scientemente e maliziosamente proprio la Nouvelle Vague: il modo stesso di filmare, l’uso della voce fuori campo, le riprese in esterno lungo le strade di Parigi, l’alter ego che ricorda tantissimo l’Antoine Doinet, alter ego di Truffaut, le varie situazioni, il triangolo amoroso… Citazioni e rimandi a non finire, che fanno la gioia dei cinefili. Una Nouvelle Vague però rivisitata, modernizzata con accenti più ironici e comici che non seri, una variazione sui problemi amorosi resa attuale e fatta con il gusto per l’assurdo, un bel po’di humour ed una falsa suspense. In buona sostanza il regista dimostra di saper attraversare abilmente tutti i generi: dalla commedia di costume al thriller fino alla commedia romantica, con un tocco di maestria e di gradevole furbizia, regalandoci alla fine un film brillante e malizioso, da gustare con piacere. Un film che, questione di ritmo, di atmosfere, di chimica visiva, si fa piacere subito, presentandosi con una sequenza iniziale folgorante che incanta lo spettatore e preannuncia ciò che sarà il film.
Garrel filma, come abbiamo detto, con eleganza, furbizia e malizia e con un tocco minimalista, senza enfasi, ma, in ogni caso è bravo e può permettersi di giocare a fare il piccolo Truffaut o a ricreare atmosfere sentimentali/letterarie alla Sautet, aggiungendoci anche un leggero profumo di W. Allen. Un bel gioco che ha anche il buon gusto, o l’intelligenza, di essere breve e di non fare troppo. Il film infatti dura solo un ora ed un quarto!
La gradevolezza del film è alimentata anche dalla recitazione degli interpreti, tutti nel loro giusto ruolo e felici di recitare e recitare bene. Dunque un film ben scritto, con dialoghi, come è tipico dei film francesi, intelligenti e finemente cesellati. Una delicata commedia romantica, leggera e piena di humour. Un piccolo bijou di cinema che fa venir voglia di continuare a seguire le vicende del suo attore regista e che è come un buon bonbon che si gusta e di cui si conserva un piccolo sapore di dolcezza e felicità, sognando di gustarne presto un altro ancora.
data di pubblicazione:07/04/2019
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da Antonio Jacolina | Apr 5, 2019
Un centro di accoglienza per donne senza fissa dimora deve chiudere. Alle assistenti sociali che lo dirigono non restano che tre mesi per provare a reinserire nella Società le donne di cui si occupano. A questo punto ogni mezzo è utile, tutto è ormai permesso: equivoci, raccomandazioni, bugie, falsificazioni.
Ecco, in anteprima italiana, in occasione del IX Festival del Nuovo Cinema Francese iniziato il 3 Aprile, l’attesa “opera seconda” del giovane e brillante L. J. Petit. Un film che in Francia ha già avuto un eccezionale successo di pubblico ed anche di critica. Il regista lo potremmo definire un Ken Loach à la française. Come il suo modello inglese, si muove infatti nel solco della denuncia sociale, ma in modo molto meno tagliente e per così dire, meno vendicativo. Il suo è infatti uno sguardo lucido ma al contempo più tenero, in una fusione fra sorrisi, risate e lacrime, sull’incapacità della Società contemporanea di prendere in considerazione e di avere cura dei più fragili e degli emarginati, gli “invisibili”.
Dunque una commedia sociale che descrive, con humoure tenerezza e con pari realismo ed accenti di verità, la vita quotidiana di un centro sociale, di un gruppo di donne emarginate e delle loro assistenti sociali e del loro impegno davanti alle necessità. Una cronaca sociale tutta al femminile piena di ironia e speranza per rendere omaggio e dare voce sia alle donne di cui la Società si è dimenticata o vuole dimenticarsi, sia a quelle che provvedono a soccorrerle e cercano di reintegrarle e renderle di nuovo “visibili”.
L’abilità del regista, malgrado la serietà del tema trattato ed i rischi connessi, è proprio nel saper solo sfiorare, senza impelagarcisi, la demagogia, il buonismo, e, nel saper restare sempre ben lontano da approcci moralistici o dall’impegno militante, dandoci però ugualmente una dimensione vera, intelligente e toccante della Realtà. Un giusto e pudico dosaggio fra momenti intensi e struggenti di verità e momenti di autoironia, in cui l’ironia e lo humour sono scientemente il mezzo più efficace per superare le difficoltà. Il buon umore dunque quale alimento nutriente per dare energia alla speranza di farcela nonostante tutto, e dare forza anche alla solidarietà di gruppo.
Sostenuto da una buona sceneggiatura che compensa qualche momento morto nella narrazione, e, a voler proprio essere ipercritici, qualche piccolo eccesso di buoni sentimenti ai limiti quasi dell’autocompiacimento, il film nel complesso funziona bene e procede con ritmo sostenuto appoggiandosi ad un cast composito, e, soprattutto, ad un gruppetto di attrici di talento, giuste e tutte formidabili ed autentiche nei loro diversi ruoli.
Les Invisibles, pur nella differenza di gusti ed abitudini fra il pubblico francese e quello italiano, giustifica in parte il successo riscosso in patria, è un film certamente non nuovo ed originale, ma di sicuro intelligente, impegnato, toccante e molto realistico senza però essere pesante né tantomeno ingenuo. Un film in cui il regista amalgama abilmente toni drammatici e leggeri in una riuscita fusione di generi fra il realismo ed il mero racconto.
data di pubblicazione: 5/04/2019
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da Paolo Talone | Apr 4, 2019
(Teatro Brancaccio – Roma, 2/7 aprile 2019)
Il più celebre viaggio della storia, alla ricerca del vero amore, in questa nuova veste scenica, ricca di suggestioni visive e musiche avvolgenti. Dall’Inferno al Paradiso prende vita l’immensa opera del grande poeta fiorentino.
Il nuovo allestimento del colossal teatrale, che fu un vero evento quando venne prodotto la prima volta nel 2007, con tanto di teatro tenda piantato a posta nei campi intorno a Tor Vergata a Roma, mantiene fedele la struttura musicale originale e si arricchisce di nuovi dialoghi e nuovi effetti visivi. Il risultato è spettacolare e lascia a bocca aperta il pubblico, totalmente avvolto e coinvolto nel gioco scenico. Il cast di dieci attori-cantanti e il corpo di ballo di dodici elementi lavora con stupenda armonia e professionalità. La macchina è complessa e non è facile orchestrare le musiche, gli attori, i balletti, le proiezioni e i praticabili che si alzano e si abbassano per dare l’immagine dei luoghi percorsi dal poeta. Merito del regista Andrea Ortis, interprete anche nel ruolo della guida Virgilio, se tutto quanto funziona alla perfezione.
La storia prende vita come un racconto ed è la voce inconfondibile di Giancarlo Giannini a narrarne gli episodi. Il Dante uomo, interpretato da Antonello Angiolillo, si ritrova a combattere la battaglia della vita in una solitudine più oscura della notte stessa. È l’amore a interrogarlo e a fargli da contrappunto e consolazione c’è l’amata Beatrice (Myriam Somma) che lo guida e lo ispira dall’alto del Paradiso. I punti più interessanti musicalmente sono proprio i duetti scritti per loro dal maestro Marco Frisina.
Il primo atto racconta la discesa all’Inferno. Qui il sommo poeta si confronta con quei personaggi che in vita hanno sbagliato e peccato nei confronti di quell’amore che guida tutte le cose. La lussuria di Francesca (Manuela Zanier) si sfoga in un canto struggente, mentre l’invidia che portò al suicidio Pier delle Vigne (Daniele Venturini) si raggela in un lamento straziante. Si prosegue ancora e il troppo amore per la virtù e la conoscenza inghiotte Ulisse e gli argonauti in un terribile mare in tempesta, così come un mare di ghiaccio intrappola per sempre nell’odio il conte Ugolino. A fatica si torna fuori e si è ancora storditi dalle tremende visioni e dallo stridio dei suoni dei gironi infernali, merito del rinforzo dato dalle percussioni dal vivo, soprattutto nel passaggio della Palude Stigia.
Il secondo atto, più debole rispetto al primo per intensità di immagini e definizione dei personaggi, ci trasporta verso l’alto. Commovente la preghiera delle anime purganti, attraverso la voce di Pia de’ Tolomei (Mariacarmen lafigliola), che invitano Dante a ricordarsi di loro quando tornerà sulla terra. Il cammino si fa più intimo e riflessivo, Dante è costretto quasi a prendere coscienza del proprio peccato e della propria finitezza prima di giungere alla visione beatifica e al perdono espresso da Beatrice per lui. Sulla strada trova spazio un altro momento, un omaggio al miracolo della creazione artistica: Dante e Virgilio si uniscono a Guido Guinizelli (Angelo Minoli) e a Arnaut Daniel (Daniele Venturini) in un quartetto armonioso a celebrazione della poesia.
Nel Paradiso il poeta può finalmente sciogliere quei dubbi che lo attanagliavano all’inizio e festeggiare così tra ali di angeli in processione le meraviglie di quell’amore che muove il sole e tutte le altre stelle.
data di pubblicazione: 4/4/2019
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Apr 4, 2019
Ha preso il via dal 3 all’8 Aprile, ancora una volta, Rendez Vous, il Festival del Nuovo Cinema Francese. L’iniziativa, come l’anno passato, si svolgerà a Roma presso il Nuovo Sacher e presso la sala cinema dell’Istituto Francese di Roma per poi partire e toccare con anteprime, focus e presenze degli stessi autori, anche varie altre città: Milano, Firenze, Napoli e Palermo.
L’iniziativa è ormai divenuta un appuntamento fisso di Primavera con il Cinema Francese in Italia e ci offre l’opportunità di scoprire alcuni dei nuovi film francesi di successo, di cogliere le nuove tendenze ed anche di incontrare i nuovi protagonisti della cinematografia d’oltralpe.
Questa IX edizione avrà un focus speciale sulla produzione di Jacques Audiard, pluripremiato ed acclamato autore e regista che, fra l’altro, presenterà personalmente, in anteprima nazionale, il suo ultimo ed insolito lavoro in lingua inglese: il western The Sisters Brothers, vincitore del Leone d’Argento all’ultimo Festival di Venezia e di ben quattro Césars in Francia. Un western atipico ed anomalo, con un ricco cast hollywoodiano, che l’autore decodifica radicalmente, sublimando il genere fino a farne una insolita saga ricca di gusto e di humour, con buona pace degli amanti del western classico.
A parte l’incontro con Audiard, la rassegna è, ancora una volta, l’occasione, anzi l’opportunità per gli amanti del Cinema e di quello Francese in particolare,di seguire gli sviluppi più recenti di una cinematografia vitalissima per produzioni, pubblico, qualità, incassi ed apprezzamenti internazionali. Anche l’anno passato gli indici del cinema francese non hanno conosciuto flessioni, e, tutto conferma il suo stato di ottima salute nonchè la validità delle politiche governative di sostegno alla produzione ed alla distribuzione ormai in funzione già da vari anni. Se ce ne fosse bisogno ne sono una conferma anche i tanti film francesi di qualità che sono passati, in taluni casi hainoi troppo velocemente, sui nostri schermi, al punto che si avvicinano quasi a competere con gli USA la graduatoria per numero di film stranieri distribuiti in Italia.
Filo conduttore dell’intera rassegna, pur nella diversità artistica è la capacità autoriale dei giovani cineasti di saper conciliare le esigenze del Vero con il Racconto nei vari generi narrativi. Ricca ovviamente la presenza dei giovani autori e soprattutto delle autrici. La significativa presenza di quest’ultime intende sottolineare quanto l’autorialità e la rilevanza dei ruoli femminili nella cinematografia francese siano ormai una costante di rilievo a differenza purtroppo di quanto avviene in Italia.
In questo contesto, fra i vari incontri con autori, registi ed interpreti, saranno presentati, nelle molteplici proiezioni giornaliere, una ventina di film di cui, oltre a quelli di Audiard, vi segnaliamo quelli di cui è prevista un’uscita sui nostri schermi: Les Invisibles, una commedia corale tutta al femminile, campione di incassi in patria; Tout ce qu’il me reste de la révolution, brillanti ed argute riflessioni di una ragazza nata “troppo tardi”, sull’eredità del Sessantotto nelle nostra quotidianità; l’attesissima opera seconda del giovane e talentuoso regista ed attore Louis Garrel che unitamente a Laetitia Casta, sulle lontane orme di Truffaut, ci racconta dell’amore e delle donne L’Homme fidèle ; ed infine, per chi ama il genere, il discreto thriller Le chant du loup.
data di pubblicazione:04/04/2019
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