TUTTI PAZZI A TEL AVIV di Sameh Zoabi, 2019

TUTTI PAZZI A TEL AVIV di Sameh Zoabi, 2019

Salam, uomo senza qualità, fa il pendolare tra Gerusalemme e Ramallah (la capitale amministrativa dell’Autorità palestinese), dove lavora presso lo zio produttore televisivo palestinese adattandosi a qualunque necessità sul set di una soap opera anti israeliana che si realizza con pochi mezzi e grande successo di un pubblico trasversale. Senza volerlo e senza averne le capacità, finirà con diventare l’autore di Tel Aviv in fiamme trovando anche l’insperato amore in un finale ottimistico.

 

In tempi davvero grami per le commedie intelligenti, non fatevi sfuggire un piccolo gioiello, nel quale ci eravamo imbattuti nella sezione Orizzonti della 75° Mostra del Cinema di Venezia. Parliamo di Tutti Pazzi a Tel Aviv, una pellicola che ha il pregio di far divertire con garbo su un tema drammatico come il conflitto israelo-palestinese. La trama è un mix di spie, hummus, militari machisti, amori irrealizzati, set alla Boris, che si sviluppa dietro le quinte di una fiction dai grandi ascolti traslata nella la quotidianità di un paese diviso. Con tanto di check point che diventa luogo nevralgico delle vite dei protagonisti (avverranno lì gli incontri fra l’imbranato sceneggiatore palestinese e il militare israeliano pronto a ri-scrivere un soggetto che aggiunge romanticismo a quello che è il personaggio in cui si identifica nella fiction). Siamo quindi dalle parti, non nuove peraltro, del cinema nel cinema (nella fattispecie la tv), ma, il doppio piano è solo il riuscito pretesto per consentire al regista (nato nel 75 in un piccolo villaggio palestinese, Iksal), attraverso l’arma di un umorismo surreale e persino  kitsch, di suggerire soluzioni per una narrazione realmente diversa da quella delle pieghe del reale conflitto. La pellicola si concluderà infatti con un consapevole happy end, evidentemente, aperto al dialogo, tra i due popoli oggi contendenti. Riuscire a ridere e a far ridere alle spalle di una contesa fra le più laceranti dei nostri giorni è il grande merito di Sameh Zoabi, nella doppia veste di regista e sceneggiatore, alle prese con un plot e ingranaggi sempre fluidi e mai beceri, sempre in bilico e senza schierarsi mai troppo apertamente per una delle due parti. La trama è godibilissima e ricca di spunti originali sia pure all’interno di schemi comici già collaudati. Aiutano il regista interpreti ben caratterizzati nei rispettivi ruoli: su tutti il protagonista, Kais Nashif (lo spaurito Salam, che fa pensare al nostro Troisi), premiato come miglior attore a Venezia per la sezione Orizzonti, la bella Lubna Azabal (la fascinosa spia araba, finta francese) e Nadim Sawalha, il militare cialtrone. Gli altri comprimari (dai nomi complicati) non sono da meno, come pure montaggio, fotografia e colonna sonora a completare la riuscita messa in scena di una commedia, un ricco affresco, a tratti surreale ma sempre godibilissimo.

data di pubblicazione:24/05/2019


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NON MI RICORDO PIÙ TANTO BENE di Gérard Watkins

NON MI RICORDO PIÙ TANTO BENE di Gérard Watkins

(Teatro India – Roma, 20/30 maggio 2019)

Trovato per strada in pigiama, un uomo viene portato in un luogo imprecisato e sottoposto a domande per scavare nel suo vissuto e venire così a scoprire la sua vera identità. Il soggetto in esame, che ha ricordi molto confusi, dice di chiamarsi Antoine D, 96 anni, di avere due figli ancora adolescenti, una moglie e di essere uno storico. In effetti risponde con esattezza solo su eventi della storia universale mentre non riesce a ricostruire i fatti di un passato prossimo che riguardano la propria sfera personale ed il suo posto in società.

 

Gérard Watkins nasce a Londra e dopo esperienze varie all’estero si stabilisce dal 1974 in Francia dove inizia la sua formazione teatrale sia come attore sia come regista drammaturgo. Il suo è decisamente un teatro sperimentale che cerca la vera essenza dell’uomo nell’attore che porta in scena. In effetti è la sua esperienza personale che viene rappresentata e la storia narrata diventa così un puro pretesto per raccontare al pubblico di questioni che riguardano il quotidiano in tutte le sue forme fisiche e metafisiche. In questo lavoro, presentato al Teatro India, si parla di memoria che oramai non c’è più e senza memoria non si può risalire ai ricordi del passato, almeno di quello reale. Il protagonista, recluso da qualche parte, viene sollecitato energicamente a ricostruire la propria identità in un gioco di scambio di ruolo con gli altri due protagonisti che alla fine paradossalmente perderanno anch’essi la loro individualità per entrare in un anonimato fatto di semplici lettere al posto dei loro nomi. Antoine D, oggetto di studio, viene invitato a confidarsi davanti ad un muro immaginario che possa ascoltare le sue parole e non solo limitarsi a sentirle. Al di là di questa quarta parete vengono raccolte confidenze che diventano pertanto eventi reali e non solo il frutto della finzione, in un coinvolgimento emotivo in cui vengono abbattute le barriere tra attore e spettatore.

Un lavoro certo di non facile fruizione, impegnativo per il pubblico in sala travolto da un turbinio di parole e di riflessioni sulla necessità o meno di riscoprire la propria identità all’interno della storia, perché gli uomini sanno recitare tanto bene nel quotidiano da arrivare a perdere l’essenza di ciò che realmente li riguarda. Molto coinvolgente la performance dei tre attori sulla scena (Carlo Valli, Gianluigi Fogacci, Federica Rosellini) anche se a volte volutamente stridente e provocante in 90 minuti di spettacolo da seguire con la dovuta attenzione.

Ideato da Gérard Watkins il progetto è stato prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale, PAV in collaborazione con Le Perdita Ensemble e lacasadargilla con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders?

data di pubblicazione:24/05/2019


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BELLUNO. ANDANTINO E GRANDE FUGA di Patrizia Valduga – Einaudi, 2019

BELLUNO. ANDANTINO E GRANDE FUGA di Patrizia Valduga – Einaudi, 2019

 

Ad essere pignoli 392 versi che contengono meno parole della nota e della glossa finale. Ma un dono prezioso e minimalista di una poetessa sensitiva che distilla ricordi di un legame indimenticabile. Il sodalizio con Giovanni Raboni, stimato rappresentante della poetica lombarda, che discende da Carlo Porta. La coppia vive ancora nell’umorismo disperante, dell’ultimo sghignazzo di chi sta per essere impiccato. La vita si trascina senza illusioni e, apparentemente senza guizzi. Ma la Valduga la rianima con una percezione, un’intuizione, il risveglio del corpo, un adagio in dialetto veneto. Risorse esistenziali che si sublimano nell’arte per un’interprete del suo tempo che ha fatto epoca e che vuole uscire dalla retorica e dalla storia per abbracciare empiti di verità. Una poesia materica e molto concreta nel commento beffardo delle avances dei pretendenti, pallide copie del compagno che fu per quindici anni, sodalizio di vita e di poesia. Così la Valduga dopo sette anni di silenzio, si meraviglia per la mancata celebrazione del cineasta Dreyer e da applaudito funambolo si sdoppia in Don Giovanni Da Ponte. Così versi strazianti risultano anche umoristici per una piena presa di possesso di una vita che sembra non riservare più gioie e sorprese. Un verso che fa…il verso, che rompe la metrica, che si dibatte, annaspando in brandelli di realtà. La vita di tutti i giorni, quella che non esce dalla routine ma che, interpretata da un poeta, si ribella, regala palpiti se non illusioni. Il poeta parla ancora. E la città che offre il titolo nelle statistiche è quella in cui si vive meglio in Italia. In effetti c’è un grande profumo di provincia nella bizzarra silloge che segna un gradito ritorno. Poesie che possono essere filastrocche o litanie ma che contengono sempre un estremo guizzo di vivacità.

data di pubblicazione:23/05/2019

 

UN UOMO SOLO di Christopher Isherwood – Adelphi editore, 2018

UN UOMO SOLO di Christopher Isherwood – Adelphi editore, 2018

Coltiva l’ambizione del racconto lungo perfetto questa pubblicazione che l’autore definisce un romanzo, ed alla quale era sinceramente attratto riconoscendola come in suo piccolo capolavoro. Trattasi di componimento solidamente omogeneo alla linea editoriale di Adelphi. In bilico tra commozione e distacco, rievocando un’epopea dove si affacciano molti personaggi e altrettante comparse che, progressivamente fanno largo alla solitudine un po’ snob del protagonista. I vezzi dell’epoca vengono debitamente stigmatizzati con una scrittura in cui più che narrazione c’è (e risalta) l’elemento descrittivo. Non c’è una reale evoluzione della storia ma la fissazione di un momento, assecondando un’ambizione letteraria molto alta. Poteva essere un velleitario tonfo ma la qualità indubitabile della scrittura riabilita qualche momento di noia. L’evoluzione concentrica ci ha ricordato il teatro di Alan Bennett, quasi creando un palcoscenico, un fondale, una storia sospesa. Secondo il recensore Mario Fortunato in questa operina non c’è una virgola di troppo, né una di meno. Il libro è stato scritto e concepito nel 1964 e ha avuto una rilevante fortuna editoriale con continue ristampe dalla prima pubblicazione italiana del 2009. Da questo testo è stato tratto l’omologo film di successo per la regia calligrafica di Tom Ford con protagonisti Colin Firth e Julianne Moore. Per ricondurlo a parametri italiani si può pensare a La Capria o a Berto. La sospensione del tempo immersa in un’atmosfera ovattata dove contano percezioni e sfumature. Un libro per molti ma non per tutti per l’esclusività tenue dello sviluppo. Da leggere con adeguata concentrazione. Probabilmente in una stanza dove si è da soli, garantiti da una luce altrettanto tenue. La copertina, firmata da Ben McLaughlin, riproduce questo scenario, un anonimo tavolo dove probabilmente si siederà il protagonista. Racconto ispirato dalla maturità dell’autore, una sorta di memoir senza infingimenti. Ribadendo che la vita è anche una questione di proporzioni tra soggetti e cose.

data di pubblicazione:21/05/2019

CANI SCIOLTI di Mimmo Calopresti

CANI SCIOLTI di Mimmo Calopresti

Il rinnovato cinema Aquila (Pigneto, Roma) nella sua palingenesi ha organizzato quattro incontri- evento con proiezioni al centro della scena e degna conclusione, dopo il rituale (e mai passato di moda) dibattito con brindisi biologico a base di vino friulano. Il 17 maggio la tappa ha avuto come epicentro la proiezione di Cani sciolti, mediometraggio firmato proprio dal padrone di casa, il direttore artistico della sala, il calabrese Mimmo Calopresti, cineasta felicemente insediato operativamente a Roma. Il “cane sciolto” in questone è Eduard Limonov, irreggimentabile pensatore russo, un po’ bolscevico, un po’ nazionalista, irreversibilmente immortalato e consegnato alla storia (anche della letteratura) dal mirabile saggio di Emanuele Carrère intitolato L’avversario. Limonov è raccontato attraverso il suo viaggio in Italia (principalmente a Roma) che condensa il momento più emotivo sulla tomba di Pasolini con la recita di alcuni versi liberi, testimoniati dalla macchina da presa. Limonov riconosce in Pasolini un formidabile contradditore e quasi un alter ego. Ne aveva sfiorato la conoscenza in un precedente viaggio a Roma, nel 1974, quando cercava un appartamento in affitto dal prezzo congruo a Ostia, quasi negli stessi luoghi dove il poeta sarebbe andato incontro alla morte un anno dopo. Limonov ha attraversato nella propria irripetibile epopea tante stagioni, contestando Putin e poi diventandone sostenitore. Dissidente persino in America rispetto ai tanti secessionisti russi. Fautore di una “grande madre russa” di cui ne interpreta lo spirito arringante. Suo mentore in Italia l’editore Sandro Teti che gli ha chiesto tre contributi editoriali per documentarne estri e grandezza. Nel poco contestabile “minestrone ideologico” di Limonov ci sono Evola, Guevara, Marx in una poco definita distinzione tra destra e sinistra che forse ha anticipato il sovranismo di sinistra oggi invalso e reso nella politica italiana dalle posizioni di Fassina. Un personaggio singolare, un polemista che farebbe la fortuna dei talk show italiani da cui, anche per motivi logistici, per fortuna si guarda bene dall’andare. Calopresti lo porta a Corviale dove, secondo leggenda, si arresta il ponentino per fargli assaggiare un originale piano urbanistico per il popolo. Oggi, riveduto e corretto con le opportune varianti.

data di pubblicazione:20/05/2019

DOLOR Y GLORIA di Pedro Almodòvar, 2019

DOLOR Y GLORIA di Pedro Almodòvar, 2019

Un film maturo. Bello. Incredibilmente pacato. Una descrizione perfetta di come le nostre origini ed il nostro antico sentire giuochino un ruolo fondamentale su ciò che diveniamo. Banderas nella sua migliore interpretazione, supportato da un cast di attori di primissimo livello.

 

Salvador Mallo è un famoso regista, ancora molto amato dalla gente, conosciuto in tutto il mondo, ma oramai senza più ispirazione. Vive solo, “ascoltando” il malessere fisico ed interiore che nasce dalle innumerevoli patologie che hanno colpito il suo corpo, segnato anche da un delicato intervento alla colonna vertebrale. Il senso di vuoto che prova nel non riuscire più a scrivere e a dirigere un film, è a tratti colmato da tutta una serie di ricordi a partire da quelli della sua infanzia segnata da molte presenze femminili e da sua madre, donna energica ed infaticabile scomparsa da appena due anni, ma anche da Federico, il suo primo ed indimenticato amore al cui ricordo si affianca quello infantile del suo primo vero desiderio (El primer deseo, titolo nel titolo del film) che solo oggi gli appare chiaro, nitido ed ancora palpitante. La creazione artistica sotto forma di scrittura e di regia cinematografica sono la sua unica terapia, ma Salvador non riesce più a creare; alla disperazione ed alla rabbia per questa deriva che ha colpito la sua mente, Salvador preferisce la solitudine affollata solo dai ricordi, che pian piano riaffiorano regalandogli momenti di inaspettata felicità. L’infanzia trascorsa in un piccolo paesino di provincia ricco di sole, con due genitori poveri che decidono di mandarlo in seminario per garantirgli un’istruzione, l’arricchimento negli anni adulti a Madrid in cui esplode prepotente la passione per il cinema e per Federico che, assieme, rappresentano la sua “dipendenza”, come recita il titolo di una sceneggiatura parcheggiata da anni sul desktop del suo computer.

Amore è ciò che traspare dal nuovo film di Almodòvar, solo amore e null’altro: amore per la vita, per il cinema, per la scrittura, per la luce, per i colori, per le canzoni (magnifica la scelta sul brano del 1961 Come sinfonia interpretato da Mina). Commuove questo Pedro maturo e privo di eccessi, che si mette a nudo come non mai, fragile ma anche consapevole di aver avuto molto o quanto meno tutto ciò che maggiormente desiderava dalla vita. Inevitabile non provare ad immedesimarsi profondamente in quei ricordi che rappresentano l’ossatura di ciò che Almodòvar è diventato. Un film diverso da tutti gli altri, sull’importanza delle proprie radici, scacciando tuttavia la nostalgia dei ricordi.

Banderas non è Almodòvar nelle fattezze fisiche, quanto la materializzazione dei suoi sentimenti e del suo animo: è Pedro senza assomigliargli fisicamente ed è bravissimo, un vero e proprio alter ego segnato da malattie che l’eroina può tentare di placare, ma che solo l’arte del cinema e dello scrivere possono guarire, in un film dal linguaggio semplice, maturo e consapevole, semplicemente da non perdere.

data di pubblicazione:18/05/2019


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RED JOAN di Trevor Nunn, 2019

RED JOAN di Trevor Nunn, 2019

L’anziana Joan Stanley, fisica nucleare che aveva collaborato negli anni quaranta alla sperimentazione della bomba atomica negli uffici britannici della Tube Alloys, viene arrestata e accusata di spionaggio per aver a suo tempo fornito ai russi informazioni riservatissime sul progetto. Durante l’interrogatorio la donna racconta della sua vita a partire dal periodo in cui studiava a Cambridge, della sua attrazione per il comunista Leo Galich e di ciò che l’aveva indotta a collaborare con i servizi segreti sovietici. Tutto a fin di bene…

 

Una sempre più agguerrita Judi Dench, nei panni della protagonista del film di Trevor Nunn, interpreta una storia vera, ma soprattutto umana, dove si combinano tutti gli ingredienti di una spy story insieme a qualcosa che tocca il sentimento comune del “far del male a fin di bene”. Joan Stanley non è altro che Melita Norwood, definita la ragazza del KGB in quanto considerata una pedina importantissima dello spionaggio sovietico che permise ai russi di poter realizzare la bomba atomica, bilanciando così con gli Stati Uniti la corsa agli armamenti nucleari. In effetti Joan la rossa, non tanto per il colore dei capelli quanto per le sue pseudo simpatie comuniste, se all’inizio mostra fedeltà alla Corona di sua Maestà Britannica nel non rivelare le notizie segrete richieste dal giovane Leo Galich (Tom Hughes) del quale era innamorata, poi cede per una questione morale quando apprende dei disastri di Hiroshima e Nagasaki. Alla fine degli interrogatori, intramezzati da lunghi flashback in cui si rivela la bravura di Sophie Cookson nei panni di Joan da giovane, viene fuori che il passaggio delle informazioni era un atto dovuto a fin di bene perché non era corretto che solo gli americani potessero disporre a proprio piacimento di quell’arma letale.

Nonostante gli sforzi del regista, che ha cercato per quanto possibile di attenersi ai fatti attingendo dal romanzo La ragazza del KGB di Jennie Rooney, e nonostante l’ottima interpretazione delle due Joan, la storia tuttavia non prende spessore e rimane quasi sospesa, incompiuta, forse anche poco credibile. Il film, ambientato negli anni quaranta in pieno conflitto mondiale, ci vuole parlare di etica politica, di distensione dopo una guerra fredda tra le superpotenze durata anni, di un buon senso per aggiustare gli squilibri internazionali, il tutto imbastito in un plot che, pur non funzionando alla perfezione, ha almeno il merito di non annoiare troppo.

Grande esperto del teatro di Shakespeare, Trevor Nunn ha diretto nel tempo vari film che non si possono certo annoverare tra i capolavori della cinematografia internazionale e Red Joan ha tutti i presupposti per seguire la medesima sorte.

data di pubblicazione:18/05/2019


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SPOGLIA – TOY di Luciano Melchionna

SPOGLIA – TOY di Luciano Melchionna

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 16/ 26 maggio 2019)

Spogliatoi: undici calciatori sono pronti ad affrontare l’altra squadra. Il loro allenatore li richiama all’ordine e li ammonisce severamente: l’avversario che si nasconde nella mente è molto più temibile di quello che si incontra sul campo. Ogni giocatore sa che deve concentrarsi al massimo delle proprie forze per controllare lo stato emozionale e rendere sempre vivo il livello motivazionale. Ma in privato, lontano dai compagni, ognuno ha qualcosa da confessare…

  

Lo spettacolo di Luciano Melchionna porta il pubblico a curiosare dentro l’intimità di un luogo dove un team di calciatori si sta preparando ad affrontare la squadra avversaria. E così ci sentiamo tutti stipati in uno spazio claustrofobico quasi a contatto fisico con i corpi dei giocatori, che ci attraggono per la loro plasticità insieme all’incontestabile sensualità. Ma questi giocattoli nelle mani della gente che va ad ammirarli che cosa rappresentano nella realtà? Sicuramente sono i simboli di una società malata, che fa fatica ad arrancare nel quotidiano e nella quale si identificano quali divinità in un paradiso di perfezione e di potenza. Il calciatore di oggi racchiude in sé l’ideale di mascolinità che si manifesta sul campo attraverso quell’energia che viene emanata dai loro corpi in azione, una bellezza che stuzzica i sogni di tutti, uomini e donne, per dare spazio alla fantasia più sfrenata e intima nello stesso tempo. Nel privato poi ognuno ha la propria storia da raccontare, facendo trasparire immagini a volte fragili, impaurite, molto lontane dal personaggio, da quell’icona da venerare.

Lo spettacolo ci induce ad una riflessione che riguarda il modo in cui siamo stati forzati a realizzarci in maniera diversa da quello che veramente avremmo voluto essere. Un’imposizione patriarcale che ci vuole a tutti i costi con il pallone tra le gambe per fare di noi dei veri uomini mentre avremmo preferito dedicarci alla danza se non addirittura giocare con le bambole. Ed allora ci si chiede: a chi giova tutto questo se poi non possiamo essere noi stessi, con le nostre vere emozioni? Una amara considerazione che ci riporta sempre a quella domanda senza tempo se siamo veramente ciò che avremmo voluto essere.

Bravissimi i giovani attori/calciatori che ci ricordano quegli happening teatrali di una volta in cui arte e improvvisazione coinvolgevano il pubblico per lasciarlo attonito ma tutto sommato soddisfatto.

Spoglia – Toy è una produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, in collaborazione con Sportopera nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia.

data di pubblicazione:17/05/2019


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TITO E GIULIO CESARE riscritture tratte da William Shakespeare a cura di Michele Santeramo e Fabrizio Sinisi per la regia di Gabriele Russo e Andrea De Rosa

TITO E GIULIO CESARE riscritture tratte da William Shakespeare a cura di Michele Santeramo e Fabrizio Sinisi per la regia di Gabriele Russo e Andrea De Rosa

(Teatro Argentina – Roma, 7/12 maggio 2019)

Dal 7 al 12 maggio in scena al Teatro Argentina di Roma due originali rivisitazioni dei capolavori shakespeariani, a firma di Michele Santeramo e Fabrizio Sinisi per la regia di Gabriele Russo e Andrea De Rosa, Tito e Giulio Cesare, presentati uno dopo l’altro, in uno spettacolo unico, nati nell’ambito del progetto Glob(e)al Shakespeare, per il Napoli Teatro Festival, premiato dall’Associazione Nazionale dei Critici come “migliore progetto speciale” 2017.

 

In Tito Michele Santeramo riscrive Tito Andronico smontando la struttura epica e tragica a favore di un timbro certamente drammatico, ma sorprendentemente ironico e crudo splatter. Tito Andronico è semplicemente un eroe stanco, provato dagli anni trascorsi a fare la guerra. È un padre di famiglia che si ritrova dei figli cresciuti ma immaturi, oberato dal peso della responsabilità e con un gran desiderio di normalità, di casa e famiglia. Ma la guerra semina rancori, ingiustizie e vendette. La spirale che si accende è la causa della tragedia, la sete di vendetta è ineluttabile ed inevitabile e coinvolge tutti: il sangue deve scorrere, le parti sono scritte, non possono ribellarsi neppure gli attori stessi. La struttura di Gabriele Russo punta sui giochi di ruolo degli attori, ora interni, ora esterni alla tragedia, per riportare anche un’altra verità, l’assurdità e l’inutilità di tutto Tito è un uomo che dopo tanti anni di guerra vorrebbe godersi le sue piccole cose; suo malgrado è costretto a vendicarsi e rispondere al ruolo cui è destinato.

Andrea De Rosa, insieme al drammaturgo Fabrizio Sinisi, riscrive il testo shakespeariano Giulio Cesare (Uccidere il tiranno), cercando una risposta al grande dubbio: si vuole, si può, si deve uccidere il Tiranno? Il tipo di narrazione scelta privilegia l’aspetto politico e filosofico dell’opera originale: il regista realizza un allestimento asciutto in cui Bruto, Cassio e Casca a metà tra terra e aria, cercano le ragioni profonde del loro omicidio, si interrogano ed alla fine soccombono. Nel frattempo Antonio cerca di ricomporre l’ordine delle cose dando sepoltura a Cesare e cercando di guidare il cambiamento: chi, o cosa può venire dopo Cesare? Se tornare alle antiche forme o assecondare il nuovo corso degli eventi. Tutto in una notte: le arringhe e le giustificazioni dei tre congiurati e la terra che ricopre il corpo del tiranno.  È vero che Cesare ha aggredito la struttura democratica di Roma per farsene unico interprete e dopo Tarquinio il superbo, un uomo solo ha accentrato nella propria persona un immenso potere. Convinti di agire per il bene della res publica Bruto, Cassio e Casca decidono di uccidere l’uomo che si è trasformato, davanti ai loro occhi, in Tiranno. Ma si accorgono presto che l’identificazione tra Cesare e Roma è ormai profonda e irreversibile. Il rapporto fra popolo e Cesare è un rapporto ambiguo, di amore, violenza e sottomissione: Cesare oramai impersona lo Stato, lo ha plasmato e modificato nel Dna. Non si può sconfiggere un potere che risiede proprio nella comunità che lo subisce e niente potrà tornare come prima.

Un allestimento unico per le due tragedie che condividono identità, spazio scenico e attori per un linguaggio potente e fortemente contemporaneo fatto di voci e di cose, di pause e di azioni, che insieme, diventano due parti di una riflessione unitaria sul concetto di potere, o ancor di più un’intensa e beffarda riflessione sulle “conseguenze del potere”.

data di pubblicazione: 13/5/2019


Il nostro voto:

EVA VS EVA. La duplice valenza del femminile nell’immaginario occidentale, a cura di Andrea Bruciati – Massimo Osanna – Daniela Porro

EVA VS EVA. La duplice valenza del femminile nell’immaginario occidentale, a cura di Andrea Bruciati – Massimo Osanna – Daniela Porro

(Villa d’Este – Santuario di Ercole Vincitore – Tivoli, 10 maggio/1 novembre 2019)

Con un titolo che automaticamente ci rimanda al celebre film del 1950 che aveva come protagonista una splendida Bette Davis, è stata appena inaugurata una interessante mostra, grazie alla peculiare organizzazione del team composto dall’Istituto autonomo Villa Adriana e Villa d’Este – Villae, il Museo Nazionale Romano e il Parco Archeologico di Pompei, sulle molteplici sfaccettature dell’immagine femminile attraverso i secoli fino ai giorni nostri.

L’idea di base è quella di presentare la donna attraverso i due poli contrapposti del positivo e del negativo, del buono e del cattivo, per esaltare attraverso una serie di opere d’arte e reperti archeologici ciò che di ambiguo la caratterizza. IL percorso espositivo segue due diversi tracciati in due sedi diverse, Ville d’Este e l’Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, la cui complementarietà è segnata dagli splendidi giardini con fontane che collegano i due siti museali. Partendo dagli aspetti più deleteri dell’immaginario femminile, dove vengono evocate donne diaboliche e dissolute pronte a praticare il male attraverso le proprie arti magiche e seduttive, si passa poi alla rappresentazione più spirituale che la pone al centro dell’universo come unica fonte generatrice capace, donando la vita, di rinnovare l’umanità. Questa rappresentazione trova riscontro non solo attraverso importanti reperti provenienti da Pompei e da altri musei archeologici, ma anche attraverso espressioni proprie d’arte contemporanea fino ad arrivare alla cinematografia di oggi, strumento che è riuscito in qualche modo a plasmare e a rivoluzionare la perenne dicotomia della natura femminile sino a arrivare ai movimenti di liberazione per la difesa dei diritti. Un itinerario che ci fa scoprire la complessità del mondo femminile che ha ispirato e stimolato la fantasia di ogni uomo sino a suscitarne turbamenti e passioni, a volte d’amore a volte d’odio, ma pur sempre frutto di una forte emozione.

Attraverso una serie di figure mitologiche e storiche il visitatore non può fare a meno di pensare alle donne di oggi, per ritrovare attraverso la poliedricità dell’arte un messaggio universale.

Si consiglia la visita possibilmente in una giornata di sole, per gustare appieno la magnificenza dei giardini di Villa d’Este, capolavoro del Rinascimento italiano e patrimonio dell’UNESCO.

data di pubblicazione:12/05/2019