VIKTOR UND VIKTORIA liberamente ispirato al film di Reinhold Schünzel, regia di Emanuele Gamba

VIKTOR UND VIKTORIA liberamente ispirato al film di Reinhold Schünzel, regia di Emanuele Gamba

(Teatro Quirino -Roma, 5/17 febbraio 2019)

Susanne Weber (Veronica Pivetti) è un’attrice in cerca di scrittura nella Berlino anni ’30. L’incontro con Vito Esposito (Yari Gugliucci), un attore italiano migrante in Germania, determinerà finalmente la fortuna di entrambi. Tra equivoci e travestimenti nasce il personaggio di Viktor o, se volete, Viktoria.

 

Copiosi fiocchi di gelida neve cadono sulla scena e rendono ancora più rigida la geometria di prismi, architettura cementizia di una città che appare in fermento solo di notte, quando tutto è permesso, che corrono prospetticamente verso un fondale asettico, piatto, che si colora camaleontico degli umori della scena. A dare vitalità a questo scenario desolante due attori squattrinati, che la strada fa incontrare per destino e per esigenza. Sono una povera attrice di provincia, dalla voce rauca grattata e mascolina, per nulla prosperosa e attraente come il varietà esigeva a quei tempi, e un migrante italiano, appellato con disprezzo come Spaghettifresser (letteralmente animale mangiatore di spaghetti), attore anche lui, che per guadagnarsi da vivere recita e canta travestito da donna per pochi marchi a sera. La fame, l’indigenza e la malattia permette ai due di unire le forze in un sodalizio, nel quale Susanne, interpretata da una divertente esilarante e quanto mai perfetta nel ruolo Veronica Pivetti, fingendosi uomo, inizia a esibirsi nei teatri della città travestita da donna con il nome di Viktor und Viktoria. Protetti da Ellinor Von Punkertin (Pia Engleberth), baronessa dai modi stravaganti che ben conosce i gusti libertini di una Berlino notturna che necessita di essere stordita, per i due cambia la musica ed è subito fama e ricchezza nella tournée in giro nei migliori teatri europei. La neve diventa così simbolo dello scintillare del successo. E arriva anche l’amore, quando a invaghirsi del lato femminile dell’attore en travesti è un nobile conte, Frederich Von Stein (Giorgio Borghetti). I due vengono scoperti e accusati di omosessualità da Gerhardt (Nicola Sorrenti), attrezzista dalle simpatie nazionalsocialiste, esponente di quella lotta contro la libertà di costume tollerata ma ancora punita dalla Repubblica di Weimar. Da qui l’intreccio si complica e si perde in un continuo cambio di ruoli, costumi, scambi di sesso, sensualità e provocazione, ubriachezze e baldoria, fino al lieto fine. Una frustata al retto, puro e onesto pensare offerta da un amore che vince sempre, perché il cuore vola più alto di ogni ideologia o genere. Un testo di sconcertante attualità, reso ancora più vicino a noi attraverso l’uso di un lessico contemporaneo negli intermezzi tra una situazione e l’altra. Una musica che ci aiuta a mantenere vigile l’attenzione su una situazione storica debole, che alza muri e sterilizza le diversità.

data di pubblicazione:07/02/2019


Il nostro voto:

CONNESSI E ISOLATI, UN’EPIDEMIA SILENZIOSA di Manfred Spitzer- Corbaccio editore, 2018

CONNESSI E ISOLATI, UN’EPIDEMIA SILENZIOSA di Manfred Spitzer- Corbaccio editore, 2018

Facebook ha festeggiato i 15 anni di vita. Ma non è stato un genetliaco felice. Il fenomeno di abbandono di gran parte dei due miliardi di utenti sugli oltre sette miliardi di popolazione mondiale è evidente e sotto gli occhi di tutti. Provate a cliccare sul profilo dei vostri amici: alcuni sono morti, altri sono digitalmente scomparsi e non si hanno notizie, altri si sono cancellati dal vostro elenco. La ricerca di Spitzer sembra prendere questa tendenza come un fenomeno positivo. C’è una corrispondenza diretta tra il numero dei link postati da un iscritto e il suo relativo grado di infelicità. La sua lontananza dal mondo reale è certificata da questa apparente vicinanza al mondo digitale. La coesione tra virtuale e reale è una sintesi e una sinergia possibile ma estremamente difficile nella pratica, se non altro per una questione di tempo a disposizione. L’iperconnessione porta a risultati di “stampo giapponese”. C’è chi addirittura muore per questo, travolto da un abisso esistenziale che non sembra lasciare spazio per altri attività. La connessione con il mondo è sintonia che si stabilisce su ben altre frequenze. La solitudine induce al dolore. Un dolore misurabile attraverso esperimenti di laboratorio. Provate a scrivere su facebook a una persona che non vi risponde? Non ne ricavate un senso di profondo e irrimediabile frustrazione? Al contrario la partecipazione alla vita sociale e di comunità allunga la vita. Come pure un matrimonio rispetto alla condizione di single. La risposta femminile al lutto e la sua maggiore aspettativa di vita è direttamente funzionale alla migliore predisposizione alla socialità del soggetto femminile e alla sua migliore risposta interattiva agli stimoli esterni. L’autore crea una corrispondenza tra la solitudine e una percentuale più elevata di disturbi cardiaci e di sviluppi tumorali. L’uso prolungato di smartphone atrofizza la capacità di istituire relazioni profonde e autentiche, invita alla passività e a un senso che potremo definire di ripiegamento pessimistico di fronte agli imprevisti della vita.

data di pubblicazione:07/02/2019

69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

(Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Siamo giunti al consueto appuntamento con la Berlinale, quest’anno alla sua 69esima edizione. Ultimi ritocchi ancora davanti al teatro di Marlene Dietrich Platz per l’attesissima kermesse cinematografica che vedrà riuniti per dieci giorni giornalisti e cinefili di ogni parte del mondo. Il programma è ricchissimo: 23 sono i film della selezione ufficiale, di cui 17 in concorso per l’ambito Orso d’Oro, oltre a quelli suddivisi nelle numerose sezioni collaterali. Dieter Kosslick, quest’anno al suo ultimo mandato in qualità di Direttore del Festival, incarico che ricopre dal 2001, ha sottolineato in conferenza stampa che i temi principali scelti quest’anno riguarderanno l’infanzia, la famiglia, i diritti di genere ed il modo in cui ci nutriamo. Sono temi che apparentemente rientrano nella sfera del nostro privato e che coinvolgono la nostra sensibilità, ma che al contrario dovrebbero riguardare la politica in generale perchè si parla dello sfruttamento e della molestia verso i minori, di prendere coscienza che il modello della famiglia tradizionale non esiste più e che avanzano nuovi schemi verso i quali bisogna mostrare rispetto oltre ad un adeguato riconoscimento da parte della società, e perché anche il semplice modo di nutrirsi che riteniamo sia una nostra libera decisione, altro non è che il prodotto manipolato delle grandi industrie agrarie e alimentarie.

Nel ringraziare tutti i suoi collaboratori per l’assistenza avuta in questi anni, Dieter Kosslick ha rivolto un caloroso augurio al nuovo team organizzativo che oramai in via ufficiale sarà diretto dall’italiano Carlo Chatrian, attualmente responsabile artistico del Locarno Film Festival.

Ecco i film della selezione ufficiale, di cui 20 in prima mondiale:

The Kindness of Strangers di Lone Scherfig (Danimarca-Canada-Svezia-Germania-Francia) film d’apertura

L’adieu à la nuit  di André Téchiné (Francia-Germania), fuori concorso

Amazing Grace di Alan Elliott (USA), documentario fuori concorso

Der Boden unter den Füßen di Marie Kreutzer (Austria)

Di jiu tian chang di Wang Xiaoshuai (Cina)

Elisa y Marcela di Isabel Coixet (Spagna)

Der Goldene Handschuh di Fatih Akin (Germania-Francia)

Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija di Teona Strugar Mitevska (Macedonia-Belgio-Slovenia-Croazia-Francia)

Grâce à Dieu di François Ozon (Francia)

Ich war zuhause, aber di Angela Schanelec (Germania-Serbia)

Kız Kardeşler di Emin Alper (Turchia-Germania-Olanda-Grecia)

Marighella di Wagner Moura (Brasile), fuori concorso

Mr. Jones di Agnieszka Holland (Polonia-Regno Unito-Ucraina)

Öndög di Wang Quan’an (Mongolia)

The Operative di Yuval Adler (Germania-Israele-Francia-USA), fuori concorso

Répertoire des villes disparues di Denis Côté (Canada)

Synonymes di Nadav Lapid (Francia-Israele-Germania)

Systemsprenger di Nora Fingscheidt (Germania)

Ut og stjæle hester di Hans Petter Moland (Norvegia-Svezia-Danimarca)

Varda par Agnès di Agnès Varda (Francia), documentario fuori concorso

Vice di Adam McKay (USA), fuori concorso

Yi miao zhong di Zhang Yimou (Cina)

Il film italiano in concorso sarà La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano co-sceneggiatore. Il regista romano è già noto al pubblico soprattutto per Alì ha gli occhi azzurri presentato nel 2012 alla Festa del Cinema di Roma e per Fiore in concorso nel 2016 al Festival di Cannes – Quinzaine des Réalisateurs. Nella Sezione Panorama avremo il film Dafne di Federico Biondi e il documentario Selfie di Agostino Ferrente. Una scelta importante in rappresentanza del nostro cinema firmato da registi molto impegnati nel sociale per portare al pubblico internazionale una realtà tutta italiana dove i giovani devono confrontarsi nel quotidiano con un ambiente duro e spietato: un nuovo realismo cinematografico che testimonia la vita spesso disumana del mondo di oggi.

La giuria internazionale quest’anno sarà presieduta da Juliette Binoche, attrice di fama internazionale che proprio qui a Berlino nel 1997 vinse l’Orso d’Argento per la sua interpretazione nel film Il Paziente Inglese di Anthony Minghella. Gli altri membri che la affiancheranno sono: Justin Chang, critico cinematografico del Los Angeles Times; Sandra Huller, attrice tedesca già vincitrice nel 2006 dell’Orso d’Argento quale protagonista nel film Requiem di Hans-Christian Schmid; Sebastiàn Lelio, regista cileno oramai molto noto dopo aver vinto l’Orso d’Argento nel 2017 per la miglior sceneggiatura con Una Mujer fantàstica che in seguito ottenne anche l’Oscar come miglior film in lingua straniera; Rajendra Roy, da anni responsabile della Sezione cinematografica presso il Museo d’Arte Moderna di New York; Trudie Styler, attrice inglese Ambasciatrice UNICEF per il Regno Unito, impegnata nella produzione di importanti film sia per la televisione che per il grande schermo.

Ruolo importantissimo lo rivestono i film delle sezioni speciali: Berlinale Shorts, con una sempre più crescente presenza nell’ambito del Festival; Panorama, che con i suoi 45 film affronterà tematiche politiche e sociali in controtendenza; poi ancora la sezione Forum, che presenta un’interessante selezione di film sotto il motto “rischio più che perfezione” per i temi affrontati al di fuori di ogni schema o compromesso; la rassegna Generation, che quest’anno si pone diverse domande esistenziali: chi siamo? dove andiamo? cosa significa relazionarsi con gli altri?; Prospettive Cinema Tedesco, che riguarda lavori di giovani talenti tedeschi; Retrospettive, con un programma quest’anno dedicato alla filmografia della Repubblica Democratica Tedesca e della Repubblica Federale di Germania prima e dopo il 1990. Come nelle edizioni passate anche quest’anno avremo una rassegna Teddy Award, con vari lungometraggi a soggetto gay presi dalle varie sezioni; Kulinarisches Kino, che propone la relazione tra cinema e cibo; Berlinale goes Kiez, per la diffusione dei film in programma nei vari cinema periferici della città e Native, che ci porterà a scoprire isole e paesi nella lontana area del Pacifico.

Quest’anno l’Orso d’Oro alla carriera verrà assegnato a Charlotte Rampling, grande attrice inglese che tra l’altro nel 2017 vinse la Coppa Volpi a Venezia come migliore interpretazione femminile in Hannah di Andrea Pallaoro. A lei verrà dedicata una retrospettiva comprendente una decina di pellicole tra le più significative tra cui, ovviamente, Il Portiere di Notte di Liliana Cavani e La Caduta degli Dei di Luchino Visconti.

Accreditati, presente qui a Berlino, vi terrà ogni giorno informati sui film in programma, con particolare attenzione per quelli della selezione ufficiale.

data di pubblicazione:06/02/2019

FUORIGIOCO di John Donnelly con Edoardo Purgatori, Miguel Gobbo Diaz, Giorgia Salari, Gianluca Macri, regia di Maurizio Mario Pepe

FUORIGIOCO di John Donnelly con Edoardo Purgatori, Miguel Gobbo Diaz, Giorgia Salari, Gianluca Macri, regia di Maurizio Mario Pepe

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 31 gennaio/17 febbraio 2019)

Il fosco interno della vita di un calciatore che somiglia molto a Cristiano Ronaldo. Difatti si chiama Cristian. Per tutti quelli che diventano Totti (ma anche non lo diventano).

 

Il calcio fuori dal rettangolo di gioco. Con tanti, forse troppo elementi. Quello che i tifosi non vedono: superomismo, omosessualità, egolatria, razzismo uomo contro uomo in senso hobbesiano ovvero il mio successo è la tua rovina. Ritratto del football in un interno con scene ripetute di nudo, di amplessi, di linguaggio scurrile. Uno spettacolo forte, ai limiti dell’hard rigorosamente vietato ai minori di diciotto anni. Con interpreti che oltre a recitare si cimentano in una prova muscolare in cui si dimostrano artisti del salto alla corda, maghi delle flessioni. E sanno anche palleggiare bene il pallone. La vita del calciatore in tre scene. Nella prima due under si misurano con il futuro in una partita in cui uno solo uno dei due prevarrà. Nella seconda il più cinico è arrivista si misura con il prezzo del successo nell’incontro ravvicinato con una ballerina escort incaricata di filmarne le debolezze a scopo pubblicitario. Ma è stata proprio lui (si scoprirà) a commissionarle la ripresa. Nella terza i due amici di un tempo si rivedono. Il primo ha incassato milioni, ha girato il mondo; è ricco, famoso e viziato; il secondo ha ripiegato su un lavoro ordinario, deluso dall’impatto con il football. Ma c’è un’attrazione ambigua che li lega e in una serata di follie e di eccessi a base di sostanze psicoattive coinvolgeranno nella pseudo-orgia un ignaro quanto poi disponibile inserviente. La conclusione è tutt’altro che rassicurante. Alla fine le luci si spengono (e il sipario cala) sul protagonista che vuole essere un vincente ma che invece rappresenta la frustrazione del fine carriera e dell’isolamento a cui lo ha condannato il successo e l’illimitata e finta possibilità di potere attribuitagli dal denaro. Titolo originale The Pass: il denaro non regala sempre felicità anche se su Instagram hai collezionato trenta milioni di like. Il testo teatrale ha avuto anche una versione cinematografica.

data di pubblicazione:06/02/2019


Il nostro voto:

DONNE – CORPO E IMMAGINE TRA SIMBOLO E RIVOLUZIONE

DONNE – CORPO E IMMAGINE TRA SIMBOLO E RIVOLUZIONE

(Galleria d’Arte Moderna – Roma, 24 gennaio/13 ottobre 2019)

Un centinaio di opere tra dipinti, sculture e fotografie, tutte provenienti dalle collezioni capitoline, sono state raccolte presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma per illustrare l’universo femminile in un percorso singolare, attraverso l’Ottocento fino agli anni settanta del Novecento, per accompagnare quel processo di emancipazione che la donna nel tempo è riuscita ad imporre alla società e ad imporsi. Nel corso della storia l’immagine femminile è stata legata ad un’idea spesso contraddittoria: da un lato ispiratrice di una forma di bellezza pura, modello di protezione domestica in quanto fonte generatrice, dall’altro esempio di erotismo legato al peccato, se non addirittura simbolo satanico, minaccia tentatrice che induce alla perdizione eterna. Questa stridente dicotomia incomincia a dissolversi agli inizi del secolo scorso quando accanto alla pittura in cui la donna appare in pose a dir poco provocanti, si fa anche strada un tipo di letteratura che la pone come simbolo di seduzione e prepara il terreno per quei primi lavori cinematografici che hanno poi creato le dive dell’epoca moderna. Un primo decisivo sovvertimento di questo immaginario si è sicuramente avuto negli anni cinquanta quando il genere femminile entra nel mondo del lavoro rivendicando i propri diritti per equipararli a quelli degli uomini e iniziando così quel graduale processo di emancipazione che poi troverà ampio consenso e diffusione negli anni settanta. Da quel momento la donna storicamente si affranca dal ruolo esclusivo di madre e prende piena coscienza di sé maturando la percezione di poter entrare in ogni ambito del sociale. La nuova identità femminile è percepibile nella ricerca in campo artistico di nuove forme ispiratrici che tentano in ogni modo di rappresentare il soggetto non solo esclusivamente per il suo corpo ma anche per lo spirito che da esso promana, un’indagine mirata a scoprire un universo fino a quel momento rimasto oscuro e indecifrabile. Scopo di questa interessante mostra presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma è quello di farci prendere coscienza che la donna, non più legata esclusivamente al mito e alla leggenda classica, nel tempo ha assunto varie configurazioni passando dall’idea maschilista che la vuole femme fatale al modello di essere indipendente, con un proprio status sociale imparando ad essere artefice del proprio destino. Partendo da Le vergini savie e le Vergini stolte di Sartorio si prosegue con L’angelo tra i fiori di Carosi fino a tutta una serie di ritratti tra cui spicca quello della moglie di Giacomo Balla mentre si volta a guardare qualcuno o qualcosa dietro di sé con un atteggiamento a dir poco misterioso. Interessanti pure le tele di Mario Mafai Donne che si spogliano e Vecchie carte di Baccio Maria Bacci dove in entrambe emerge una pesante solitudine esistenziale. A conclusione troviamo una serie di foto, manifesti e videoinstallazioni, forniti da Archivia – Archivi, Biblioteche e Centri di Documentazione e dall’Archivio dell’Istituto Luce – Cinecittà, che testimoniano gli anni delle lotte femministe, quando le donne scesero in piazza per rivendicare il diritto sul proprio corpo, travolgendo così gli ultimi avanzi di quel machismo, insano ed obsoleto. Una mostra straordinaria, sicuramente da visitare.

data di pubblicazione:05/02/2019

LA TRAGEDIA DEL VENDICATORE di Thomas Middleton, regia di Declan Donellan

LA TRAGEDIA DEL VENDICATORE di Thomas Middleton, regia di Declan Donellan

(Teatro Argentina – Roma, 23 gennaio/3 febbraio 2019)

Il grande maestro della regia, Declan Donnellan, ha diretto per la prima volta una produzione in lingua italiana La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton nella versione di Stefano Massini, in scena al Teatro Argentina di Roma dal 23 gennaio al 3 febbraio 2019. Scritta nei primi anni del regno di Giacomo I, tra il dilagare della violenza e del malcostume, La tragedia del vendicatore riflette una visione del mondo cupa e disperata di chiara matrice medioevale: di fronte alla corruzione ed alla forza inquinante del potere e della lussuria, l’isolamento ascetico e la rinuncia sembrano l’unica via per sfuggire al peccato.

 

Contemporaneo di Shakespeare, Thomas Middleton attribuisce ai personaggi nomi identificativi dell’indole di ciascuno, così da connotarne fin da subito il ruolo e il comportamento: Vindice, Spurio, Supervacuo, Lussurioso, Ambizioso, Castiza.

La trama è intricatissima. In una non meglio precisata corte italiana, Vindice e Ippolito, figli di Graziana e fratelli di Castiza, si incontrano davanti al Palazzo del Duca. Vindice – come dice il nome – desidera vendicare a qualunque prezzo la morte della promessa sposa Gloriana, stuprata e avvelenata dal Duca poco prima delle nozze. Vindice si traveste e si presenta a corte sotto le spoglie di uno strano personaggio di nome Piato. Qui si assiste ad un susseguirsi di stupri, vendette e seduzioni, processi e condanne. Vindice/Piato ed il fratello Ippolito attirano il Duca in una trappola, lo torturano e lo uccidono, vendicando Gloriana. Si scatena a questo punto la commedia degli equivoci che da il via a un satanico susseguirsi di morti in cui tutti uccidono tutti. Vindice ha ottenuto quel che cercava, ma la sua sete di vendetta lo conduce alla morte e travolge anche Ippolito.
È un teatro, quello di Donnellan, che esalta l’attualità della storia . Si parla di un governo corrotto, di un popolo che si compra con pochissimo, di una società ossessionata dal sesso, dalla celebrità, dalla posizione sociale e dal denaro, dominata dal narcisismo.

Declan Donnellan si focalizza sul bisogno di vendetta e punizione, sulla incapacità di lasciarsi alle spalle il dolore e il ricordo. Fino a che, anche per via di un contesto di corte dilaniato da inimicizie e corruzione, a pagarne le conseguenze in prima persona è proprio lo stesso protagonista.

Risalta il grande equilibrio tra i personaggi, tutti fortemente rilevanti, tra tragedia e commedia, tra dolore ed allegria, grazie alla matrice satirica che anima tutta la narrazione, tra feste di corte, fratelli contro i fratelli, madri disposte per trenta denari a prostituire le figlie, figli contro padri, in una vortice di vendette che inevitabilmente lascia tutti sconfitti. Eppure si ride.

Il feroce sentimento di vendetta di Vindice, per la prematura e violenta morte dalla promessa sposa Gloriana, è la causa scatenante di tutto il degrado ed il marcio che viene fuori. E la vendetta è la parola di riferimento in quel luogo dove dominano ingiustizia e lussuria ma dove tutto sembra disfarsi di fronte alla lotta per il potere.

data di pubblicazione:04/02/2019


Il nostro voto:

LO SPORT TRADITO di Daniele Poto – Edizioni Gruppo Abele, 2019

LO SPORT TRADITO di Daniele Poto – Edizioni Gruppo Abele, 2019

Daniele Poto nella sua opera Lo sport tradito (37 storie in cui non ha vinto il migliore), compie una sorta di amaro percorso attraverso oltre un secolo di storie di tanti sport in cui lo spirito di De Coubertin è stato talora dimenticato per la slealtà umana, ma ancor più spesso calpestato per motivi politici e di bramosia di denaro e potere.

I valori di lealtà e sana concorrenza degli atleti e delle squadre in competizione nelle più diverse discipline sono ormai del tutto soverchiati dagli interessi economici imposti dagli sponsor, dai palinsesti televisivi, da influenze politiche, anche tramite corruzione e doping.

E se è certo che tali fenomeni si verificano con crescente frequenza e gravità, è allo stesso tempo vero che anche in passato, già nella seconda metà dello scorso secolo, si ricordano tanti episodi di “sport tradito”.

L’autore quindi, con grande dovizia di particolari, ci parla dei fenomeni di “doping di stato” delle mitiche nuotatrici della DDR negli anni ’70, più robuste dei nostri attuali campioni di nuoto, così come del fenomeno contemporaneo riguardante le più diverse discipline nella Russia di Putin, passando attraverso il periodo cinese.

Allo stesso tempo apprendiamo delle grandi manovre politiche degli organismi internazionali, a partire dal CIO e dalle Federazioni sportive internazionali, con esclusione di Paesi dai grandi eventi sportivi per fornire un’idea di pulizia, e dai ripescaggi in forma alternativa degli atleti per giungere a compromessi di natura politica e per non sminuire gli eventi televisivi.

Si passa poi alla rappresentazione della slealtà a tutti livelli, dai goal di mano di Maradona durante i Mondiali di Calcio, alla monetina che fa svenire Alemao, fino ai racconti di Mazzola che narra dei falliti tentativi di combine della Nazionale di Calcio, passando per i sorteggi truccati di Platini per favorire la propria nazionale francese.

Purtroppo la memoria del pubblico sportivo è assai corta, per cui si dimenticano tanti eventi che in realtà avrebbero dovuto far perdere ogni credibilità ad un sistema in cui tanti dei protagonisti, atleti, dirigenti ed arbitri, se non sono corrotti sono sleali.

Correttamente l’autore non vuole fornire un quadro completo dei tradimenti dei veri valori dello sport, ma solo rinfrescare la memoria del lettore per ricordare quanto di falso e fasullo ci sia in tante prestazioni ed episodi dello sport, che invece dovrebbe essere esempio di lealtà.

data di pubblicazione:04/02/2019

DOPO LA PROVA di Ingmar Bergman, regia di Daniele Salvo

DOPO LA PROVA di Ingmar Bergman, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello – Roma, 31 gennaio/10 febbraio 2019)

Un anziano regista, addormentato in mezzo a un mucchio di oggetti di scena, sogna le sue paure, le sue delusioni, i suoi drammi inconclusi e i suoi desideri. È anziano, ma ancora non troppo vecchio per fare bilanci definitivi e abbandonare tutto.

 

Una leggera nube di fumo ci accoglie in teatro. Un sottile sipario lascia intravedere la scena, rimarrà giù per tutta la serata. È la barriera che divide il pubblico dal palco, luogo onirico, sospeso tra la realtà e la finzione. Gli oggetti di scena delle prove per Il sogno di Strindberg sono sparsi dappertutto, la prova si è conclusa da poco. A loro si sommano quelli di precedenti produzioni, il lavoro di una vita. Ugo Pagliai è Henrik Vogler, un regista affermato colto nel momento della riflessione, del pensiero, in un attimo creativo perenne, che rivive nella memoria i suoi tormenti e i suoi fallimenti. È a un passo dalla fine o al culmine più alto della sua espressione, come le foglie di autunno, che hanno visto una sfolgorante estate e ora si lasciano cadere a terra in una coloratissima danza finale. La regia di Daniele Salvo descrive così questa versione teatrale dell’opera di Bergman, nata inizialmente per la televisione e poi trasformata per il grande schermo nel 1984. Opera intima come solo quelle del regista svedese sanno essere, in cui il tempo è padrone e giudice spietato, scandito dai ricordi di un personaggio che sembra aver perso la partita con la vita. Un orologio sovrasta la scena sul lato sinistro del palco, è senza lancette, è lo scorrere infinito dei pensieri dell’uomo. Siamo fisicamente nella mente di Henrik. Due personaggi, due donne, simboli di paure e tormenti, desiderio e passione, presente e passato, appaiono e gli fanno visita. Sono incostistenti eppure reali, straordinariamente teatrali, ma stupendamente vere. Sono fantasmi che si muovono sulla scena, ombre di un’ossessione costante, consistenza di un pensiero incancellabile. Le due donne sono Anna, una giovane attrice interpretata da Arianna Di Stefano, alla quale è stata affidata una parte importante nel sogno e Rakel (Manuela Kustermann), sua madre, morta cinque anni prima di depressione e alcolismo, entrambe amanti in tempi diversi del regista, entrambe ferite dalle paure di quest’ultimo.

Una grande fortuna vedere recitare insieme sullo stesso palco due grandi interpreti come Pagliai e la Kustermann, premiati entrambi alla carriera la scorsa estate al Festival dei Due Mondi di Spoleto, testimoni di modi di fare teatro forse opposti, ma che si sposano benissimo in questo testo. Lei con il suo modo di fare surreale, estremo, provocatorio, non fa che esaltare di più la triste pazzia del suo personaggio; lui estremamente naturale, arreso al destino, incapace di abbracciare l’oltre che continua a spaventarlo e a tenerlo fermo.

Un testo filosoficamente complicato, che medita sul teatro e sulla vita, sul pensiero come luogo di incontro tra la finzione ostentata e la verità necessaria. Uno spettacolo da vedere.

data di pubblicazione:02/02/2019


Il nostro voto:

GREEN BOOK di Peter Farrelly, 2019

GREEN BOOK di Peter Farrelly, 2019

Un uomo bianco e un uomo nero, due classi sociali differenti, due pianeti apparentemente distanti e incomunicabili, un viaggio insieme alla (ri)scoperta di se stessi. Green Book è un film che fa bene all’anima e al cinema, con un impareggiabile Viggo Mortensen a fare da protagonista.

 

Tony Vallelonga, detto Tony Lip (Viggo Mortensen), è un italoamericano che vive nel Bronx dei primi anni Sessanta. Lavora nei locali notturni come “uomo della sicurezza” e, giorno per giorno, cerca il modo di portare a casa quanto necessario ad assicurare a sua moglie Dolores (Linda Cardellini) e ai suoi figli una vita dignitosa: non importa se si tratta di ingurgitare hot dog, di guidare il camion della spazzatura o di “giocare” a dadi o a carte.

Una nuova opportunità di lavoro, però, lo mette di fronte a una scelta per niente scontata: fare da autista a Don Shirley (Mahershala Ali), uno dei pianisti più virtuosi della sua generazione, un uomo colto ed erudito, ma soprattutto un uomo di colore. Lo aspetta una tournée negli Stati del Sud, quelli dove gli avamposti del razzismo sono più difficili da violare: otto settimane lontano da casa, con un “capo nero” da cui prendere ordini, ma con una buona paga pronta a ricompensarlo se l’artista porterà a termine il suo viaggio senza problemi. Dopo qualche esitazione, i due partono a bordo di un’automobile color carta da zucchero, muniti dell’indispensabile “libro verde”: il green book è una sorta di guida turistica, molto diffusa all’epoca, in cui gli afroamericani potevano trovare l’elenco dei ristoranti e degli alberghi a loro “riservati”.

La diffidenza iniziale tra Tony e Shirley si trasforma progressivamente in empatia. Tony protegge Doc, mentre Doc insegna a Tony a scrivere delle lettere d’amore che non si riducano alla rassegna di quel che mangia a colazione o a pranzo.

Osservando Doc dallo specchietto retrovisore, Tony si accorge fin da subito che la mente del suo compagno di viaggio è affollata da molti pensieri: è quello che succede alle persone intelligenti, e chissà se poi è davvero così divertente essere intelligenti. Il genio e il talento, del resto, sono nulla senza il coraggio: il coraggio di dire no, di scendere dal palco quando le luci dei riflettori diventano dei fari che abbagliano le coscienze, di non rinnegare le proprie origini, ma anche di non lasciarsi ingabbiare dagli stereotipi che in quelle origini affondano le loro solide radici. Il coraggio di non perdere la dignità, di insistere, di resistere, di rinascere.

Ispirato alla storia vera di Tony Lip, padre di uno degli sceneggiatori del film (Nick Vallelunga), Green Book non lascia certo indifferenti. La ricetta del road movie è quella tradizionale: l’uomo bianco e l’uomo nero, il povero e il ricco, un viaggio insieme alla (ri)scoperta di se stessi, con l’immancabile osmosi di personalità tra due personaggi apparentemente agli antipodi. Gli ingredienti, però, sono di prima qualità e riescono a fare la differenza anche in una pellicola che, sulla carta, si candidava a divenire uno degli ennesimi esercizi di un genere cinematografico ormai (fin troppo?) collaudato. La sceneggiatura è coinvolgente e mai banale, i personaggi mostrano sfumature caratteriali indubbiamente interessanti, ma è Viggo Mortensen a rendere Green Book un autentico gioiello: grandioso nella sua interpretazione dell’ “uomo straordinariamente comune”, mai sopra le righe eppure capace di “bucare lo schermo”. Senza contare le battute recitate in italiano: meriterebbe un Oscar solo per quelle.

Con Green Book, insomma, si ride, si piange e si riflette, come nelle buone “commedie d’autore” che si rispettino.

data di pubblicazione: 31/1/2019


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MARLENE D. – THE LEGEND di e con Riccardo Castagnari

MARLENE D. – THE LEGEND di e con Riccardo Castagnari

(Teatro Flaiano – Roma, 28 gennaio 2019)

La Marlene di Quince, questo il nome d’arte scelto da Castagnari per interpretare la diva, è una donna sulla cinquantina, consapevole del successo ottenuto in una vita straordinaria. Dentro i suoi vestiti, vista dalla platea, è intoccabile e irraggiungibile, ma anche drammaticamente sola.

Il teatro Flaiano, piccola sala nel centro storico di Roma carica di racconti e di personaggi che si sono esibiti sul suo palcoscenico (da Anna Magnani a Monica Vitti e Aldo Fabrizi, solo per citarne alcuni), apre le sue porte a noi di accreditati.it, invitandoci a una serata dove abbiamo assistito a un vero e proprio evento, molto più che a uno spettacolo. A tornare in scena è Riccardo Castagnari, con una performance che debuttò la sera di san Valentino di diciotto anni fa proprio qui, in questo teatro. La serata è memorabile, l’attore sta per portare in scena per l’ultima volta, sembra, questo personaggio che in tutti questi anni ha riscosso un grande successo sia nazionale che internazionale, con le sue edizioni in Messico e a Parigi, dove tra l’altro vinse il Premio Marius come miglior spettacolo musicale nel 2009. La sala è gremita di fans e amici, più della metà hanno già visto più volte Quince esibirsi nei costumi (perché panni sarebbe riduttivo) della grande Marlene Dietrich.

La sobrietà della scena non fa altro che risaltare ancora di più il personaggio. Parrucca bionda, piume, veste da camera, controluce: sulle note dell’illusione inizia il grande gioco del travestimento, ed è una sfilata continua di abiti e pungenti battute, capricci da diva e telefonate, fino al lento ma scintillante tramonto di questa straordinaria leggenda. Una drammaturgia costruita e sviluppata sulle notizie biografiche della diva, che ha appena lasciato il grande schermo per dedicarsi a una tournée musicale nei teatri più importanti del mondo. Ad accompagnarla al pianoforte il maestro Andrea Calvani, che nella pièce interpreta Burt Bacharach. Spazio anche all’improvvisazione in un divertente dialogo che coinvolge anche il pubblico.

Ci auguriamo di rivedere ancora sulla scena questa stupenda visione della Dietrich.

data di pubblicazione:30/01/2019


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