da Antonio Jacolina | Lug 14, 2019
Due amici, ognuno, a modo suo, immaturo ed ai margini della società parigina: Clement(Vincent Macaigne) fragile, candido, sentimentale e depresso, si arrangia facendo la comparsa; Abel(Louis Garrel) bel tenebroso, seduttore, sicuro di sé ed egoista fa il benzinaio ma ha velleità di scrittore. Clement si è invaghito di Monà(Golshifteh Farahani)che lavora in uno snack alla Gare du Nord e che ha accettato di scambiare qualche chiacchiera con lui dopo il lavoro prima di dover assolutamente correre a prendere il treno(lo spettatore sa perché). Il povero Clement non trova di meglio che chiedere aiuto proprio ad Abel. Riuscirà l’amicizia fra i due a resistere alla presenza fascinosa, all’attrazione, alla rivalità e al tradimento?
Una volta tanto dobbiamo ringraziare la vituperata Distribuzione che, visto il discreto apprezzamento avuto da L’uomo Fedele (da noi recensito ad Aprile, in occasione della sua anteprima nell’ambito della IX edizione del Festival del Nuovo Cinema Francese), ha ritenuto di importare anche quest’altro film di Garrel. Così, complice l’Estate cinematografica, quasi come in una retrospettiva, abbiamo modo di vedere come “seconda” l’opera prima del nostro talentuosissimo direttore/attore. Il film d’esordio infatti risale al lontano 2014 ed era stato presentato alla Settimana della Critica a Cannes 2015!
Garrel che è anche coautore, si inserisce con questo suo lavoro nel filone dei drammi sentimentali tipico della tradizione artistica francese, e, giocando sulla contrapposizione di personalità e sul ribaltamento dei ruoli e delle situazioni, affronta il tema classico del triangolo amoroso, elemento questo quasi indissociabile all’arte del raccontare storie d’amore. Soprattutto nel Cinema Francese in particolare. Garrel riprende tutti gli archetipi del Genere, li amalgama con elementi eterogenei e ci regala un triangolo amoroso bizzarro, ma, ciò nondimeno con tutte le tensioni crudeli che formano e deformano le geometrie del triangolo stesso con il procedere della storia, fra le incongruenze a volte tragiche dei due amici e la serietà/drammaticità del comportamento della giovane desiderata. Come in tutte le “opere prime” non mancano ingenuità o la riproposizione di situazioni già viste mille volte altrove, ma Garrel sa, a tratti, giocare bene sulla rottura dei toni, alternando leggerezza delle situazioni alla serietà dei sentimenti, tensioni e pause contemplative.
Il vero centro del triangolo è però l’Amicizia, il più bello e complesso dei sentimenti, la crisi di un’amicizia, la rottura di una relazione di amicizia, raccontata così come si può raccontare di una rottura di una relazione amorosa: il momento in cui l’altro/a, amico o innamorata che sia, diviene “tossico” ed il distacco allora si rende necessario per poter sopravvivere.
Il film riposa tutto sull’alchimia perfetta fra Macaigne e Garrel, ma è illuminato dalla finezza recitativa e dalla bellezza della Farahani, all’epoca compagna di vita e d’arte del regista, dopo la V. B. Tedeschi e prima di L. Casta. Dei bei ruoli per un trio di attori ottimi, sullo sfondo una Parigi minore e notturna, accompagnati da una partitura musicale molto coinvolgente.
I Due Amici , a mio parere, è un film quasi bello e quasi sbagliato al tempo stesso, un film che la critica apprezzerà, non piacerà a tutti gli spettatori e rischierà di annoiarne molti. Il film difatti, è rimasto come sospeso oscillando fra commedia e mélo pesante ed a tratti teatrale. Sembra quasi aver rinunciato alle sue ambizioni. Troppi temi appesantiscono la storia e la narrazione ed annacquano lo spirito originario della commedia francese classica e della Nouvelle Vague di cui è evidentissimo l’influsso su Garrel che, del resto, gioca a rendere palese omaggio ed a citare i vari Truffaut, Godard e Sautet, in un cocktail sì seducente ma , a tratti, assai pesante.
Comunque sia in Garrel c’è del notevole talento, ed il successivo e più smaliziato L’Uomo Fedele ce ne ha già dato conferma.
data di pubblicazione:14/07/2019
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da Maria Letizia Panerai | Lug 6, 2019
Due sorelle legate da un amore profondo, fisico, due metà che si completano solo quando sono insieme perché la distanza reale è troppo dolorosa. Un “amore irrequieto, drogato, completo” è al centro del nuovo film di Pablo Trapero, presentato fuori concorso nel 2018 a Venezia e appena uscito nelle sale italiane: il film parla di “sorellanza”, in un complesso rapporto tra due donne che si amano nonostante le apparenze le vorrebbero l’una contro l’altra, con uno sguardo molto attento e profondo verso l’intimo femminile, all’interno di una famiglia. Una storia al presente, che tuttavia affonda le sue radici nelle storture del passato argentino al tempo della dittatura, in un ideale sequel de Il clan con il quale il regista vinse il Leone d’argento alla regia nel 2015.
Eugenia (Bèrénice Bejo) e Mia (Martina Gusman) si ritrovano al capezzale del padre colpito da ictus per sostenere la madre Esmeralda (Graciela Borges) presso la loro tenuta denominata la quietud, immersa nelle campagne vicino Buenos Aires. Il rapporto tra le due sorelle è mutuato dal modo con cui la madre si comporta con loro: sempre molto amorevole con Eugenia, verso la quale ha ricordi di grande tenerezza e che le ha appena annunciato di aspettare un figlio che Esmeralda vede come una benedizione, e sempre molto dura con Mia che forse, solo per difendersi, riversa tutto il suo affetto nei confronti del padre morente. Eppure, nonostante Esmeralda non faccia nulla per celare questa evidente diversità di sentimenti nei confronti delle figlie, esse al contrario si amano, si cercano ed ogni volta ritrovano un afflato quasi fisico che le unisce: questo legame speciale farà loro superare avversità di ogni genere.
Trapero, con La quietud riprende il tema della violenza de Il clan, ma lo tratta in maniera differente: il dolore è presente ma non palese, s’impadronisce di queste donne ma non si sa da dove provenga, causato sicuramente in parte dal legame malato che la madre, che non le sa amare, ha con una di loro, condannandola inevitabilmente all’infelicità.
Le due bravissime attrici (una è la moglie del regista) si somigliano talmente tanto da sembrare proprio due sorelle, e riescono con molta naturalezza ad esprimere questo profondo sentimento che le lega. Sulle esistenze di Eugenia e Mia incombono in maniera dolorosa e strisciante vecchi fantasmi che insufflano in loro una non ben identificata sofferenza: tuttavia queste due sorelle sanno amare e, quando tutto sembra perduto, raggiungono a loro modo insieme quella “quiete” evocata dal titolo.
Film originale, sensibile, profondo, tutto al femminile.
data di pubblicazione:06/07/2019
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da Antonio Jacolina | Lug 2, 2019
Marion (Camille Chamoux) e Ben (Jonathan Cohen) entrambi trentenni, prossimi ai quaranta, borghesi, in carriera e… parigini, si incontrano tramite Tinder. Non hanno nulla in comune, ma scatta una forte attrazione fisica. Dopo una scoppiettante nottata decidono di partire in vacanza insieme. Lei aveva progettato Beirut, lui Biarritz, e… vanno in Bulgaria! Una vacanza che metterà a dura prova il loro idillio nascente, fra ostelli e spiagge affollate …
Siamo ormai agli inizi di Luglio ed andare al cinema e vedere un buon film sta diventando un’impresa sempre più difficile. Il quadro dei film in sala, fatte salve due/tre eccezioni, è veramente sconcertante, e, nonostante le belle promesse, anche quest’anno le prospettive di programmazione per i prossimi mesi estivi sono veramente deprimenti. Quindi, complici la “dipendenza cinematografica” e la gran calura, unite alla speranza di combinare un po’ di fresco in sala ed un film che consentisse di distendersi senza troppo riflettere, ci hanno fatto scegliere un film che ha avuto un discreto apprezzamento di pubblico in Francia e che qui da noi ancora resiste in sala, ad oltre una settimana dalla sua prima uscita. Ma… a fine stagione anche i francesi ti rifilano un croissant confezionato frettolosamente e per palati e gusti molto, molto, molto facili.
La prima vacanza non si scorda mai è l’opera prima di P. Cassir un giovane cineasta che viene dal mondo della grafica e che ne ha anche scritto la sceneggiatura insieme alla Chamoux, sua protagonista femminile ed anche sua compagna nella vita. Il regista intendeva proporci la storia di una coppia negli istanti in cui si sta formando. Quei primi istanti in cui nasce e si forgia l’intimità, quella sequenza di attimi in cui due innamorati si scoprono l’un l’altro. La storia di un amore, la magia e la follia dell’innamoramento, unitamente alla difficoltà intima di adattarsi ed accettare l’altro o di cambiare se stessi, soprattutto quando si hanno caratteri o comportamenti già definiti.
L’autore non è riuscito però a trovare il giusto tono ed equilibrio fra commedia romantica, commedia di costume e satira delle ossessioni del turismo contemporaneo. Certo, si ride e si sorride, le situazioni e le battute sono buffe e la coppia di protagonisti ha un buon senso della commedia e fanno entrambi scintille specie nella prima parte del film, ma, purtroppo, la regia è troppo convenzionale e la sceneggiatura e la messa in scena sono troppo fragili e tenui. Il film così scivola ben presto in una serie di gags e soprattutto di clichés caricaturali, trash e grossolani. Il giochino allora si rompe, perde la sua forza e la sua credibilità e la comicità delle situazioni si disperde tutta, e l’efficacia dei primi momenti non è che un lieve ricordo. Resta solo la sensazione di un’occasione che avrebbe potuto dare anche risultati migliori.
Comunque sia il film di Cassir è un film che se cinema addicted o accaldati, permette di distrarsi senza troppo riflettere, anzi, senza affatto riflettere, ed anche di ridere e sorridere. Nulla di più! Assolutamente nulla di più!!
data di pubblicazione:02/07/2019
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da Antonio Iraci | Lug 2, 2019
Il giovanissimo ma già affermato attore Rupert Turner, durante un’intervista per una importante testata rivela i retroscena della vita di John F. Donovan, anche lui giovane attore e famosa star della televisione, morto dieci anni prima in circostanze poco chiare. Rupert, ancora bambino, aveva iniziato una fitta corrispondenza epistolare con John che considerava un mito, un super eroe, un esempio da seguire e che ancora oggi, dopo tanto tempo, continua ad avere un ruolo determinante nelle sue scelte individuali e professionali.
Xavier Dolan, l’enfant prodige canadese oramai considerato tra i grandi registi della cinematografia internazionale, ne La mia vita con John F. Donovan ci racconta in parte la sua storia vissuta perché sin da bambino nutriva il forte desiderio di dedicare al cinema tutto se stesso. Basti ricordare che appena diciannovenne esordì come regista a Cannes con il suo primo lungometraggio J’ai tué ma mère, più volte premiato, mentre qualche anno dopo, sempre a Cannes, vinse il Premio della Giuria con il film Mommy, da molti considerato il suo capolavoro. Penultimo lavoro di Dolan (seguito da Matthias & Maxime in competizione quest’anno per la Palma d’oro) La mia vita con John F. Donovan fu presentato nel 2018 in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival dove fu completamente annientato dalla critica internazionale che lo ritenne il suo peggior film, con un plot troppo articolato e confuso, oltre ad una serie di flashback che, nonostante l’eccellenza del cast, avevano reso il film lungo e noioso. Nonostante l’insuccesso, probabilmente a causa di una scarsa originalità narrativa, si lascia comunque seguire grazie alla descrizione di personaggi che non riescono ad essere se stessi e a relazionarsi con la società che li circonda, perché imbrigliati in schemi che impediscono loro di esprimere i propri sentimenti fuori da ogni reticenza. Ritroviamo, come in ogni sua pellicola, il tema ricorrente del rapporto con la madre, che in questo caso sembra invadere prepotentemente la scena: una madre a suo modo protettiva ma che sa anche essere spietata e che si pone quasi in competizione con il figlio che, seppur ancora bambino, sa già ciò che vuole e soprattutto dove vuole arrivare. Quanto a Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Susan Sarandon, Kathy Bates, Ben Schnetzer, Thandie Newton, Amara Karan, che compongono il cast del film, ognuno di loro è perfettamente calato nel suo ruolo, anche se non sembra essere sufficiente a riscattare un montaggio che inficia in maniera determinante il risultato finale.
Un’operazione dunque non perfettamente riuscita ma che comunque merita la dovuta attenzione perché evidenzia il tocco di un grande regista che sa sempre portare sul grande schermo sé stesso, mettendosi in discussione in ogni suo lavoro. Un film che pur raggiungendo appena la sufficienza, riesce a farci pensare come mondi diversi possano coesistere sottolineando l’importanza di essere sempre liberi dai condizionamenti e da false ipocrisie.
data di pubblicazione:02/07/2019
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da Daniele Poto | Lug 2, 2019
Cinque pezzi facili per il teatro. Monologhi lunghi a misura di attori amici, sensibili e prestativi come Valerio Aprea e Valerio Mastandrea. La definizione di monologo, atti brevi unici per il palcoscenico, non deve trarre in inganno. Perché qui c’è una prosa strutturata, con dialoghi, sbozzo di protagonisti che discendono da quello principale, descrizioni di ambienti. Dunque una genealogia di fiction che non si pone limiti nel riprodurre nevrosi e storture del mondo contemporaneo. Il teatro ha vita e dà vita solo se recitato. Ma in questi testi pulsanti di umanità e di empatia la capacità comunicativa dell’attore è decisamente in primo piano. Sono i testi di cui è facile innamorarsi e che ogni lettore potrà provare a riprodurre coerentemente con il suono della propria voce, pista teorica per un audiolibro autogestito. Atti comici ma drammatici che sono piaciuti a Serena Dandini. Particolarmente divertente quello che evoca la esulcerante deriva gastronomica del popolo italiano, la devozione per qualunque tipo di cibo e l’esecrazione per il veganesimo o il vegetarianesimo, autentici tradimenti di una predisposizione quasi primordiale e ferina. Sono testi che montano. Che partono con un adagio che diventa un prorompente assolo jazz nella rottura degli schemi logici verso una devianza di comportamenti che appartiene al nostro mondo di infingimenti, di divisione tra pubblico e privato, impilato in un falso buonismo. Torre ha il piglio del profilo basso ma chiarissime intenzioni distruttive nei confronti del tipo di società che viviamo, dove le colpe sono sempre degli altri (comodo scaricabarile). Attua la destrutturazione con le armi del teatro, scendendo sul campo tecnico della contraddizione che è la vera forma di vita di questa arte. Immaginiamo un possibile futuro su Rai5 per questi monologhi, tra l’altro una piacevole e non intellettualistica proposta di lettura per l’estate. Libri come cibo di cui abbiamo bisogno come medicina e antidoto per l’esistenza.
data di pubblicazione:02/07/2019
da Daniele Poto | Giu 27, 2019
Per alcuni scrittori che avviano una popolarità di ritorno c’è sempre il dubbio che il successo di un singolo libro sia il catalizzatore per la pubblicazione di altre dimenticate opere di minor valore. Herman Koch replica sul mercato italiano con questo testo che ha le dimensioni del racconto lungo più che di un romanzo. La trama è esile, il plot micro ma la storia della letteratura è comunque piena di inneschi modesti che sfociano in risultati superbi. Diremo che non è questo il caso. Una modesta vicenda di incomprensione coniugale vede l’intervento del capo-famiglia che si relaziona con la moglie del figlio in una serie di incontri sempre più fitti. L’inespresso è alla base di uno sviluppo pacato che non rasenta mai il dramma. Il libro è anche un auto-fiction perché s’immagina pianificazione dello scrittore che discetta sulla vita dispensando consigli demagogici e inapplicabile che fanno misurare al lettore la distanza tra teoria e pratica. Una vita facile solo sulla carta perché ricca di contraddizioni, svolte, malumori, litigi. S’intuisce che l’interesse del protagonista non è virato sulla semplice risoluzione di un nodo familiare. Improvvisamente tutte le tensioni di dissolvono nel colpo di scena. La famiglia si sfascia prima che avvenga l’irreparabile e ognuno va per conto suo con scelte di vita che riguardano l’estero. Un libro dunque coraggiosamente originale anche se incompleto. Nel novero degli scrittori di scuola nederlandese (attenzione, non olandese) Koch si conferma un capofila, capace di variare toni ed argomenti delle proprie opere. Anche, come in questo caso, sceglie un profilo basso, un linguaggio piano e familiare per raccontarci un meandro intricato di una storia familiare. Sullo sfondo il successo di uno scrittore, il consumismo espresso con facili icone (una Range Rover sport nera, casette di proprietà sparse per l’Europa): evidenze che non lo metteranno al riparto dal disastro. I manuali non risolvono la vita.
data di pubblicazione:27/06/2019
da Daniele Poto | Giu 25, 2019
(Teatro romano di Ferento – Viterbo, 22 giugno 2019 e in tournée)
La tragedia greca ripresa con taglio essenziale e originale all’insegna di un rigore stilistico ineccepibile e in una stupenda cornice ambientale.
Una cornice d’eccezione per il via virtuale della stagione estiva del teatro di Ferento che abbinerà momenti alti a pause di intrattenimento (Maurizio Battista). Un’ora di spettacolo come summa emozionale di un anno di lavoro con una compagnia mista di normodotati e disabili inseriti disinvoltamente in un contesto collettivo omogeneo. Evidentemente solo un teatro che non ha interessi commerciali può permettersi di esibire in scena qualcosa come 22 attori. Chiamati a esprimersi con un testo impegnativo ma scarnificato dal lavoro dei registi. Una scarnificazione che non è semplificazione ma interpretazione e scelta. Richiamandosi a una frase di Carmelo Bene, al dovere del tradimento del testo, Manganiello e Palumbo vanno alla caccia delle radici essenziali della tragedia. Significativamente lo spettacolo è stato introdotto da una lectio magistralis di Manganiello che in fondo è stato un atto di accusa nei confronti del teatro contemporaneo, specchio della borghesia, secondo una constatazione già di Pasolini, prima dello sboccio della sua fluente produzione teatrale controcorrente del poeta di Casarsa. Il testo è metabolizzato e quasi ininfluente in questo rinnovato Antigone. Non più di 40 battute totali perché il movimento scenico, l’interazione dei corpi, un corposo sottofondo musicale nella suggestione del tramonto, sono gli ingredienti primari di una combinazione insieme essenziale e affascinante. Non bisogna dimenticare che lo spettacolo a offerta libera devolveva l’incasso all’Associazione Campo delle Rose che si propone di sviluppare una cultura accogliente e inclusiva in favore delle persone con disabilità. Parallelamente si dimostrata inclusiva e accogliente la proposta che ha avuto il patrocinio del Lions Club di Viterbo e ha dovuto superare il vaglio di numerose adempienze burocratiche legate ai vincoli ambientali. Nella filosofia di questa proposta il teatro è rito più che mito. Gli attori, un ensemble affiatato, si spogliano per un’ora dei panni umani per entrare nella parte di archetipi lontani secoli ma ancora tremendamente attuali.
data di pubblicazione:25/06/2019
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Giu 20, 2019
Nic Sheff è bello, bravo e intelligente ed è circondato dall’affetto della sua famiglia benestante e liberal ma, dopo aver provato come tanti suoi coetanei, la metanfetamina, diventa totalmente dipendente da tutte le droghe possibili e immaginabili. La storia è il vero calvario cui si sottopone il giovane, ma anche la sua famiglia per tentare il problematico recupero. Come si dice in questi casi: tratto da una storia vera.
Beautiful boy è la dolcissima canzone di John Lennon dedicata al figlio Sean ed è anche un brano che si ascolta in sottofondo nel film di Felix Van Groeningen dal titolo omonimo. Anche nella pellicola si parla di un bellissimo ragazzo con dei problemi…
Già ammirato nei paesi di lingua inglese, il film di Van Groeningen, quarantaquattrenne regista e sceneggiatore belga (il suo Alabama Monroe del 2012 fu candidato agli Oscar), oltre a una buona storia tratta dalle biografie degli stessi reali protagonisti, David Sheff e Nic Sheff, ha l’indiscusso merito di proporre una recitazione “da Oscar” per gli attori: il padre (Steve Carrell) e il figlio (Timothèe Chamalet, già ammirato nel film di Guadagnino). La regia, pur solida, non mostra tracce di particolare originalità, attenendosi a uno stile sobrio e rigorosamente classico. Scelta forse meditata e voluta per una storia non originale, ma, purtroppo ancora attualissima in differenti realtà. Il regista sceglie di raccontarci quello che accade in una famiglia della middle class americana, aperta e felice prima della scoperta della “tossicità” del loro bellissimo e apparentemente bravissimo Nic. Nel film viviamo con il padre, la madre (Amy Ryan) e la seconda moglie di David (l’intensa Maura Tierney), le innumerevoli “guarigioni e ricadute” del giovane. Più volte ci illudiamo che dopo cliniche riabilitative, ripensamenti, ansie, paure, pentimenti, rischi di overdose, il ragazzo sia finalmente uscito dal tunnel della dipendenza, ma, per quasi due ore, si tratta solo di illusioni per la famiglia e per il pubblico. L’Happy end, però, giunge nel finale e sembra legato principalmente all’affetto ritrovato nel focolare domestico e alla nuova consapevolezza del giovane. Beautiful Boy, è nel complesso un buon film che, attraverso flash back, una narrazione solida e soprattutto una assai convincente prova di attori, offre uno spaccato realistico di un percorso doloroso, comune a tante famiglie. Certo la pellicola non entra nel merito di approfondimenti psicologici sulle motivazioni che portano alle dipendenze, ma si apre, e bene, ad esplorare il forte rapporto affettivo padre-figlio, cardine del film stesso, grazie – come detto – alle notevoli performances dei due attori, dove Steve Carrell è un padre decisamente credibile: lacerato ma mai melenso, sempre nelle righe nel dolore come nei suoi entusiasmi, e Chamalet è al pari perfetto, sia nei momenti più drammatici, sia in quelli gioiosi e persino poeticamente dolci (come nei giochi con i piccoli fratellini nati dal secondo matrimonio del padre).
Dunque film che, pur alle prese con un tema non facile, risulta avvincente e mai noioso, accettabilissimo proprio perché privo di quella retorica che spesso è sottesa in pellicole similari.
data di pubblicazione:20/06/2019
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da Daniele Poto | Giu 18, 2019
Il mondo distopico ironicamente riprodotto da Papi somiglia terribilmente a quello attuale. Il profilo del radical chic e il valore della cultura sono aborriti dal Ministro dell’Interno in carica che è formalmente anche primo Ministro, in cerca di una cancellazione perentoria delle due entità e di tutti i termini complicati che possano portare sconcerto in un Paese che deve obbedire a logiche terribilmente semplici. Però anche il politico vive di debolezze e contraddizioni. Così il Grande Ministro sarà costretto a rassegnare le dimissioni quando verrà pizzicato in un cineclub mentre si gusta un complicatissimo film di Alain Resnais. Ha le caratteristiche del gustoso racconto lungo questo romanzo breve il cui plot è il pretesto per descrivere un mondo alla Farenheit 451 dove i libri sono vilipesi e l’odore della carta evaporato. Trattasi di un mondo dove un intellettuale (il padre della protagonista) può essere ucciso a bastonate per la grave colpa di aver pronunciato il nome del filosofo Spinoza durante un talk show. Un universo di minus habens dove al posto dell’Accademia della Crusca che si sforza di immettere nel vocabolario vivo della nazione i nuovi termini del linguaggio quotidiano, compare, come un MinCulPop, l’Autorità Garante per la Semplificazione della Lingua Italiana. Dove persino il lessico di Dante viene alleggerito delle parole desuete per essere alla portata del volgo. Chiara l’operazione politicamente mascherata del romanzo a tesi che incide sul politicamente corretto per introdurre le sgrammaticate logiche del mercato elettorale e il profilo molto reale dell’attuale partito di maggioranza relativa secondo i nuovi rapporti di forza emersi dalla consultazione europea. Il testo è dunque anche un monito, può essere letto come un manuale di educazione civica al contrario o una sorta di antidoto per vaccinarsi dalle buffe tendenze contemporanee. Oppure come un bizzarro anatema rispetto a terribili scenari futuri. Il ventaglio è ampio al di là del pretesto narrativo.
data di pubblicazione:18/06/2019
da Daniele Poto | Giu 11, 2019
Narratore umoristico e periferico per scelta l’autore è l’epitome di Centocelle, dei suo miti e dei suoi riti avendone convissuto le sorti per più di mezzo secolo. Sardonico commentatore della porta accanto a dieci anni dall’ultima pubblicazione, invade il nostro immaginario con dodici pezzi facili corrispondenti ad altrettanti mesi dell’anno. Una sorta di Zibaldone politicamente scorretto in cui l’autore rivela il magma etologicamente confuso (ma funzionale) delle proprie passioni: la Roma, il calciotto, il Brasile, la carbonara, il quartiere. Il mondo della Roma di un tempo, di barriera, di pancia e di testa, condivisa con una narrazione che assimila il pubblico al privato. Le scorribande personali (dall’infanzia ai giorni nostri) frammiste ai grandi eventi con data della storia mondiale. Pesce fa capire le proprie predilezioni anche politiche proponendo un mondo in via di sparizione ma ben vivo nell’immaginario di un’intera generazione. I mesi si fanno materia docile svelati nella loro personalità più recondita. Perché l’autore anche quando si atteggia a duro rivela una sensibilità tenera e antenne dritte sulla realtà e sui suoi limiti. Sono pezzi che funzionano anche letti perché l’attore tiene banco con la stand up comedy, con uno sguardo disincantato sulla virtualità ormai merce di tutti giorni e dunque rivela la perfetta identità di un altro secolo. Il suo partner ideale (qui anche prefatore) è Stefano Vigilante con cui ha stretto sodalizio da una decina d’anni. In coppia battono il territorio in quella piccola città che è Centocelle per il pubblico ideale dei centri sociali, delle grandi aggregazioni solidali. Sarà anche questo un universo destinato a sparire? Intanto il Pesce tiene botta candidamente. Convince e fa ridere, si affaccia in qualche teatro importante, rinnega il periodo dark. Insomma, scherzando si prende profondamente sul serio. E ci commuove lungo le 170 pagine di un libro che tiene botta fino in fondo con bella omogeneità di stile.
data di pubblicazione:11/06/2019
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