BERLINALE [6] – LA PARANZA DEI BAMBINI di Claudio Giovannesi, 2019

BERLINALE [6] – LA PARANZA DEI BAMBINI di Claudio Giovannesi, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Un gruppo di ragazzi, tutti minorenni, sfrecciano con i loro scooters per le vie del rione Sanità di Napoli. Il sogno della loro vita è quello di procurarsi con ogni mezzo tanti soldi, sufficienti a garantire loro l’ultimo modello di sneakers o altro capo d’abbigliamento super firmato. Usano e spacciano droga e non esitano un istante ad impugnare le armi per tenere sotto controllo il quartiere. Il loro leader è Nicola che conosce a fondo le regole del gioco e sa esattamente che per affermarsi dovrà contrastare i vecchi boss malavitosi che ora detengono il potere. Letizia, la sua ragazza, lo seguirà in questa escalation di criminalità, anche lei è conquistata da una vita facile, piena di lusso e di divertimenti.

 

La paranza dei bambini, presentato oggi in concorso alla Berlinale, è un film di Claudio Giovannesi tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano che ne ha curato la sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Maurizio Braucci. Il termine paranza non serve solo ad indicare un tipo di pesca che utilizza una rete a strascico, ma in gergo camorristico indica una piccola banda malavitosa formata da giovanissimi, ragazzi per lo più quindicenni che hanno abbandonato la scuola e che cercano di realizzare il loro unico sogno di entrare nella criminalità spicciola del quartiere in cui vivono. Per potersi imporre dovranno intanto avere una pistola per fronteggiare chi già detiene il potere, ed iniziare così a trafficare droga che consente loro di procurarsi in breve tempo una grande quantità di denaro. Divenuti i capi indiscussi che controllano gli affari, di fronte alla loro efferatezza nell’usare le armi anche i vecchi boss di una volta si arrendono e cedono il passo.

Giovannesi, regista molto sensibile verso i problemi dei giovani (ricordiamo Alì ha gli occhi azzurri del 2012 e Fiore del 2016), ha dichiarato di non volere assolutamente guadagnarsi una funziona pedagogica ma semmai illustrare una realtà, tutta napoletana, dove gli stessi giovani si trovano costretti ad una scelta criminale, per lo più inconsapevoli dei rischi e del prezzo molto alto che prima o poi dovranno pagare. Una decisione quindi determinata dalla contingenza di soddisfare per sé e per la propria famiglia dapprima dei bisogni primari, e poi per comprarsi generi di lusso veri e propri status symbol del potere. I due protagonisti Nicola (Francesco Di Napoli) e Letizia (Viviana Aprea) sono stati presi dalla strada così come tutti gli altri giovani interpreti, pure loro non professionisti, che nel quotidiano seguono per fortuna ideali ben diversi. A differenza di Gomorra di Matteo Garrone, anch’esso ispirato all’omonimo best seller di Saviano, La paranza dei bambini ci mostra un aspetto un po’ diverso, quasi tenero, intriso di un realismo estremo che ci porta ad osservare la vita pulsante dei quartieri napoletani dove nonostante tutto aleggia una profonda umanità, sentimento che in fondo anima la coscienza di questi ragazzi, cresciuti disgraziatamente in fretta.

È alta la curiosità nel vedere come la giuria valuterà questo film, in cui violenza e amore seguono le vicende degli attori verso un ineluttabile epilogo, e sui quali il regista si è astenuto volutamente dall’esprimere alcun giudizio né tantomeno dal condannare.

data di pubblicazione:12/02/2019








E PENSARE CHE ERO PARTITO COSÌ BENE di Marco Mattolini e Flavio Bucci, con Gloria Pomardi

E PENSARE CHE ERO PARTITO COSÌ BENE di Marco Mattolini e Flavio Bucci, con Gloria Pomardi

(Teatro Rivellino di Tuscania – Viterbo, 10 febbraio 2019, poi in tournée in Italia)

Malinconico one man show di un attore fuori dalle quinte da molto tempo. Purtroppo si vede e si vede. Con grande rispetto per la perduta grandezza.

 

Flavio Bucci, attore borderline, è stato un grande protagonista della scena italiana degli anni ’70 e ’80 occupando una pole position mediatica anche grazie ai grandi ascolti di fiction televisive come quella in cui impersonava Ligabue. Recitazione sopra le righe, altisonante e tonitruante, da mattatore, con il rischio del birignao dietro l’angolo. Poi ha accumulato il peso di vizi personali, dissipando un talento con passatempi costosi e distraenti. Alla metafora dell’attore che muore in scena ha preferito il saggio ventennale ritiro. Ora, per passione o necessità, è tornato a calcare i palcoscenici con l’amorevole contributo dell’amico regista Marco Mattolini che con pazienza ha cercato di scuoterne la pigrizia e la ruggine professionale. Dopo l’esordio al Belli di Roma ha in programma una vasta tournée in giro per l’Italia con uno spettacolo che non si può dire rodato. Il primo tempo scorre via tecnicamente disastroso. La piccola troupe ha ritardato l’inizio dello spettacolo arrivando all’ultimo momento dalla capitale e un sentore di improvvisazione si è respirato con continue ripetizioni e la scarsa sincronia tra il parlato di Bucci e le immagini che scorrevano sulla scena. Bucci non si abbandona al flusso degli aneddoti ma rimane nella medietà di una narrazione quieta e un po’ banale. Nel secondo tempo il regista Mattolini sembra intervenire in scena per raddrizzare la barca. S’improvvisa giornalista e stimola Bucci con domande appropriate. Il protagonista si scioglie e si anima, la tensione s’impenna, anche perché Bucci fa ricorso al bagaglio della memoria per restituire in scena, sia pure vestendo panni borghesi, le interpretazioni classiche che lo hanno reso famoso. L’attore è un atleta, se non si allena peggiora. L’augurio è che le repliche possano snellire e sciogliere un lungo strutturato monologo che ha bisogno di qualche guizzo e di una messa a punto omogenea.

data di pubblicazione:12/02/2019


Il nostro voto:

LE NOSTRE BATTAGLIE di Guillaume Senez, 2019

LE NOSTRE BATTAGLIE di Guillaume Senez, 2019

Olivier (Romain Duris), caposquadra in un’azienda che ricorda tanto Amazon, è sempre pronto a battersi generosamente per i suoi colleghi, non coglie però i segnali di malessere di sua moglie che un giorno lo abbandona solo con i suoi due bambini. Olivier dovrà decidere per quali battaglie dovrà impegnarsi.

 

Ancora un film francese. Preceduto dall’eco di un discreto successo, giunge sui nostri schermi un altro film di oltr’Alpe che ci conferma la misura di quante e quali siano le differenze di qualità e di gusti fra le due cinematografie. Come andrà in Italia? Difficile fare previsioni, probabilmente otterrà gli apprezzamenti discreti di qualche critico e di alcuni spettatori e l’indifferenza dei tanti. Peccato! D’altra parte il mercato italiano si conferma tutto sui generis vista  la tiepida accoglienza che il pubblico nostrano ha riservato ad un film come La Favorita, nonostante i premi già ottenuti, quelli previsti e gli entusiasmi con cui invece pubblico e critica lo avevano già  accolto  altrove.

Le nostre Battaglie, selezionato nella Settimana della Critica nell’ultimo Festival di Cannes, è l’opera seconda del regista franco-belga Senez che conferma il suo talento nell’affrontare temi sociali e che, riprendendo un tema a lui caro: quello della paternità, ci racconta con tenerezza una storia intimista e sociale al tempo stesso, trovando il tono giusto per parlarci di rapporti umani, di lavoro, di famiglia, di paternità, di responsabilità … in breve della vita. Una “cronaca familiare” di un uomo, di un padre impegnato, troppo impegnato sul lavoro, tutto intento a combattere le ingiustizie sociali, che, dopo la sparizione della moglie, è costretto a prendere coscienza di ben altre battaglie: delle sue responsabilità familiari, dei suoi due bambini, e dei cambiamenti che questa presa di coscienza può comportare nella vita di un uomo. Una storia quotidiana quasi banale, un tema già affrontato in tanti film, che sulla carta non aveva nulla di eccitante e che ben pochi autori sono riusciti ad affrontare senza note false o lacrimevoli. Il nostro regista sa invece evitare, con abilità, di cadere nella trappola, ed ecco allora renderci, senza alcuna commiserazione, alcun manicheismo, al contrario con brevi tocchi realistici ed efficaci, una storia in perfetto equilibrio fra il dramma intimo e la cronaca sociale. L’autore infatti, senza alcune eccesso descrittivo, ci fa condividere i dubbi, le delusioni, le rabbie, ma anche le tenerezze e l’impegno dei suoi personaggi, tutti toccanti ed umanissimi, restituendoci con precisione e discrezione tutte le incertezze della vita umana e la complessità del mondo. Al centro del film, lontano dai suoi personaggi abituali, in un ruolo magnifico, tipico di attori del calibro di V. Lindon, c’è R. Duris, che il regista è riuscito con successo a trasformare facendogli perdere la sua maschera di charmeur dal sorriso automatico. L’attore, con un’interpretazione matura, ci regala un “padre-coraggio” intenso, vero e commovente. Un padre pronto a lottare su tutti i fronti pur di non tradire né il proprio impegno familiare né tantomeno il proprio impegno sociale, cercando di definire per quali battaglie valga ancora la pena di continuare a battersi ed a quale prezzo. Lo circondano in splendidi ruoli secondari un coro di attrici di grande capacità recitativa per spontaneità, intensità e presenza scenica.

Un film dunque alla maniera dei migliori Fratelli Dardenne, ma con un tocco in più di sensibilità e grazia che consente al regista di giocare brillantemente su due registri: quello intimo e quello sociale, alternando tratti drammatici a tratti leggeri, con una direzione fluida e senza sforzi apparenti e con risultati così buoni da far sembrare tutto come naturale. Come nella migliore tradizione del cinema francese, Le nostre Battaglie è un film di attori. Un cinema semplice, di sentimenti, ma un cinema bello e sincero che esamina l’uomo quotidiano senza mai giudicarlo. Un film di rara finezza, diretto con sensibilità ma senza sentimentalismi.

data di pubblicazione:12/02/2019


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BERLINALE [5] – DAFNE di Federico Bondi, 2019

BERLINALE [5] – DAFNE di Federico Bondi, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Dopo l’improvvisa morte della madre, Dafne, nata con la sindrome di Down, dovrà occuparsi energicamente del padre che sta lottando contro una forte depressione. Ma Dafne dovrà anche pensare a riorganizzare la sua vita rielaborando il lutto dentro di sé: di contro troverà, nel supermercato dove lavora, un clima di affetto tra i colleghi e gli stessi clienti, che la circondano d’affetto disinteressatamente. Nonostante la giovane età, sarà lei che prenderà in casa le redini della situazione e, con l’ottimismo che la contraddistingue, sarà capace di superare i momenti tristi e trovare la forza di andare avanti per la sua strada.

 

 

Federico Bondi è un giovane regista e sceneggiatore italiano che si è fatto già conoscere dalla critica e dal pubblico con il suo primo lungometraggio Mar Nero, più volte premiato nel 2008 al Festival di Locarno. Questo suo secondo lavoro Dafne, presentato nella Sezione Panaroma della Berlinale, è un progetto nato quasi per caso, come ha dichiarato il regista, osservando un giorno per strada un signore che teneva per mano una ragazza “Down”. Ripensando a quella scena non esitò a scrivere un soggetto che, dopo l’incontro con la protagonista Carolina Raspanti, diventerà una vera e propria sceneggiatura. Il film sin da subito colpisce proprio per la sua interpretazione, perché si percepisce che la giovane non recita alcun copione ma sé stessa, così com’è realmente nella vita. In sostanza riesce perfettamente a trasmettere la sue verve e il suo modo coraggioso di affrontare il quotidiano. Come da lei stessa affermato, le disgrazie bisogna buttarsele dietro le spalle e andare avanti perché, comunque sia, la vita è bella per quello che è e per come noi stessi vogliamo costruircela.

Una storia semplice dunque, ma che ci diverte e commuove al tempo stesso, perché tocca quanto di più genuino si possa rappresentare. Man mano che la narrazione va avanti non ci si accorge neppure della disabilità di Dafne, perché la sua diversità è al contrario ciò che rende noi diversi, incapaci di percepire e di godere “del qui ed ora”. Il padre, che per tre giorni dalla nascita non ebbe il coraggio di guardare la figlia nella culla, se ne fece poi una ragione ed ora la osserva quasi con ammirato stupore perché è proprio lei che gli procura la forza di sopravvivere al dolore per la perdita della moglie.

Quello che il film nella sua semplicità vuole dirci è che nella vita sostanzialmente non ha importanza chi riesce a dare e chi invece riceve, ciò che conta è restare uniti per superare insieme con un sorriso quello che verrà.

Un plauso va a questo giovane regista che con la sua spontaneità è riuscito a creare un gioiello cinematografico e a dare un messaggio forte al pubblico, che in sala lo ha ringraziato con un lungo e caloroso applauso.

data di pubblicazione:11/02/2019








BERLINALE [4] – SYSTEMSPRENGER di Nora Fingscheidt, 2019

BERLINALE [4] – SYSTEMSPRENGER di Nora Fingscheidt, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Bernadette, o Benni come lei preferisce farsi chiamare, è una bambina di nove anni dall’aspetto delicato ma dotata di una terribile energia distruttiva verso tutto ciò che la circonda. La si può definire una “system crasher” termine che viene usato per descrivere quei soggetti che rifiutano qualsiasi tipo di regola e che pertanto sono destinati a essere rinchiusi in centri sociali speciali. Ma in famiglia o, peggio ancora, nei vari centri di accoglienza in cui è stata ospitata, non si riesce a calmare la sua rabbia e a infonderle quel sentimento di fiducia verso coloro che tutto sommato le vogliono bene e che si prendono con impegno cura di lei. L’unica cosa che consentirebbe a Benni di comportarsi in maniera normale sarebbe la possibilità di tornare a vivere con la madre e suoi fratellini.

 

 

A Berlino con il suo primo lungometraggio, la regista tedesca Nora Fingscheidt si occupa di una bambina a dir poco problematica, in quanto Benni (egregiamente interpretata dalla bravissima Helena Zengel) non solo è iperattiva ma è anche dotata di una incredibile dose di violenza che non esita a manifestare verso tutti coloro che la circondano, grandi e piccoli. Il film è un piccolo dramma con al centro della scena la giovane protagonista che riesce a coinvolgere il pubblico che non può che seguire con una certa apprensione tutta la sua odissea, che si svolge tra un istituto e una casa di accoglienza, in cui nessun metodo adottato riesce ad aver presa su di lei. Allo stesso tempo la storia è anche una disperata dichiarazione d’amore che la piccola tenta in ogni maniera di far giungere alla madre, donna debole ma anche l’unica che potrebbe salvarla e che, al contrario, si rifiuta di accoglierla in famiglia in quanto la ritiene pericolosa e di cattivo esempio per i suoi fratelli. Quando vediamo la bambina sottoposta ad ogni tipo di accertamento medico per scoprire quale malattia nervosa possa causare i suoi comportamenti fuori controllo, scopriamo un corpo pieno di ferite che farebbero pensare ad abusi sulla sua persona, ma che al contrario sono l’espressione concreta, tangibile, di un senso di colpa che la piccola prova e che sconta sul proprio corpo perché si ritiene incapace di conquistarsi l’affetto della madre, unica persona a cui lei tiene veramente. E così quella violenza indiscriminata verso tutti “gli altri”, è un modo per mascherare tanta infelicità e disperazione per non riuscire a tornare nella sua casa.

Systemsprenger è un film delicato, una eccellente prova registica di sensibilità verso l’infanzia calpestata, poco rispettata, alla quale non si riesce a dare attenzione e affetto necessari per una vita dignitosa.

L’interpretazione di Helena Zengel è di altissimo livello come quella dell’intero cast che ruota intorno alle vicende della piccola Benni: una storia terribilmente vera che lascia la sensazione di un vuoto inconsolabile.

data di pubblicazione:10/02/2019








THE MULE (Il Corriere) di Clint Eastwood, 2019

THE MULE (Il Corriere) di Clint Eastwood, 2019

Tratto da un articolo comparso sul New York Times, la storia è quella di Earl Stone, anziano floricoltore in disgrazia che, cooptato da un cartello di trafficanti, in virtù della sua abilità nella guida del suo pick-up (con cui ha raggiunto 41 stati su 50 senza mai prendere una contravvenzione e senza essere mai fermato dalla polizia), diviene un corriere della droga. Ovviamente ci saranno problemi…

 

  

È una storia vera e paradossale, trattata alla maniera dell’ultimo Eastwood, questo gigante della cinematografia, in grado a quasi novant’anni(è del 1930) di sfornare film e interpretazioni di costante altissimo livello. Da quando Sergio Leone lo scherniva dicendo che aveva solo due espressioni da attore “una col cappello e una senza”, l’affascinante cowboy nato nella serie tv Rawhide e assurto alla fama con i western all’italiana dello stesso Leone, ne ha fatta di strada raggiungendo vette autoriali e interpretative, assolute. Regista onnivoro, conservatore in politica, ma capace di trattare temi scomodi a livello sociale come neanche Dalton Trumbo, negli ultimi anni, Clint Eastwood, ha sfornato, da regista, autentici capolavori, cito a caso, le due pellicole su Iwo Jima, Gli Spietati, Mystic River e Gran Torino con il quale, idealmente, si collega il film in questione. The Mule, infatti, al di là della trama apparentemente “nera” (in fondo tratta di attività illegali) è una commedia o se preferite una tenera ballata e il vecchio Earl ricorda moltissimo l’anziano burbero di Gran Torino, questa volta, però, in salsa “light”. I toni prevalenti del film sono infatti leggeri, Clint/Stone, attempato floricoltore dell’Illinois, è una simpatica vecchia canaglia, innamorata più dei suoi fiori che della sua famiglia, ascolta musica country, la canticchia, fa il cascamorto con le donne a prescindere dall’età (sua e delle donne), appena può balla, scherza e gigioneggia. Non è però un personaggio positivo a tutto tondo: è egoista, un po’ vanesio, a volte cinico, e, torto più grave, nella sua lunga vita sa di essersi sistematicamente dimenticato di tutti gli eventi importanti di figli, nipoti e specialmente della devota moglie. Perchè parlare, allora, di commedia o di una ballata sentimentale e non di un noir, perché ad una lettura più attenta sono i temi drammatici a inserirsi in quelli soft della commedia e non il contrario. Anzi, se proprio vogliamo evidenziare difetti, in una pellicola che scorre fluida e leggera per buona parte della durata, questi sono legati alle virate sulle parti drammatiche o su quelle esageratamente “buoniste” (vedi l’incontro con l’agente della DEA o quello al capezzale della moglie morente), forse un logico dazio pagato alla non più giovane età del protagonista e francamente distonico rispetto all’andamento complessivo della pellicola, una sorta di tardiva redenzione …

La storia non è nuova, altri film e fiction (su tutte Breaking Bad) hanno affrontato storie vere e paradossali enfatizzandone il senso grottesco, ma la grandezza di Eastwood sta nell’apparente normalità con cui tratta un tema rischioso e in realtà drammatico come quello della droga e dei suoi cartelli. Ma lo fa, da par suo, con una leggerezza e un’ironia capaci ancora una volta di lasciare il segno. Il Corriere, forse non è un capolavoro, ma certamente un’occasione da non perdere per lo spettatore/trice anche e/o soprattutto perché la sola ingombrante figura del protagonista, alto, ancora bello, elegante, onesto nel non voler nascondere i segni del tempo, in termini di mera presenza scenica, sovrasta gli altri bravi comprimari, tra cui un asciutto Bradley Cooper (l’agente DEA) e una intensa Dianne Wiest (la trascurata moglie).

data di pubblicazione:10/02/2019


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BERLINALE [3] – OUT STEALING HORSES di Hans Petter Moland, 2019

BERLINALE [3] – OUT STEALING HORSES di Hans Petter Moland, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Dopo la morte della moglie a seguito di un incidente stradale, il 67enne Trond Sander lascia Oslo per ritirarsi in un piccolo villaggio nella foresta norvegese. Siamo alla fine del 1999 ed il millennio sta per finire così come sembra finire anche la sua vita e nella più totale solitudine. Una notte riconosce in un uomo, che sta cercando il suo cane davanti la sua piccola casa sommersa dalla neve, un amico della sua infanzia. Questo incontro casuale porterà alla sua memoria il ricordo di un’estate del 1948 quando appena quindicenne aveva trascorso giornate intere ad aiutare il padre a tagliare alberi nel bosco. Per lui quell’anno fu pieno di tanti cambiamenti dal momento che proprio il suo amato genitore si stava preparando a lasciare la famiglia per iniziare una nuova vita.

 

 

 

Il regista norvegese Hans Petter Moland, per la quarta volta qui alla Berlinale con Out Stealing Horses in concorso per l’Orso d’Oro, ha trovato ispirazione per questo suo ultimo lavoro dal romanzo di Per Petterson che da subito ha considerato un piccolo capolavoro letterario, sia per la descrizione meravigliosa che era riuscita a dare del paesaggio norvegese sia per lo studio introspettivo del singoli personaggi del racconto. Ruolo importante per questa ottima riuscita del film è stata l’interpretazione dei due attori Stellan Skarsgard e Jon Ranes, rispettivamente nel ruolo di Trond da anziano e da giovane. La loro fisicità in continuo movimento ben si adatta alla perfezione dell’ambiente incontaminato e apparentemente statico che la fotografia di Rasmus Videbaek riesce a rendere a dir poco poetico. I singoli istanti del presente si alternano ai ricordi del passato per riportare alla memoria gli stessi affetti oramai per sempre andati. Molan si dimostra infatti un maestro nel saper far riaffiorare i ricordi di una adolescenza in cui i sentimenti sembrano faticare a farsi strada e ad esprimersi con spontaneità, e che solo la forza figurativa delle immagini utilizzate riesce in qualche modo a rappresentarli. La storia è anche il pretesto per far ritornare in vita quel nefasto periodo nazista in cui anche la Norvegia oscillava tra uno spirito collaborazionista e quello proprio della resistenza, immagini queste che erano rimaste anch’esse indelebili nella memoria del protagonista.

Il film, così come è stato strutturato, di sicuro farà parlare di sé in questa edizione della Berlinale perché oltre ad usare un linguaggio cinematografico di grande effetto riesce comunque a trasmettere allo spettatore la voglia di esplorare l’intimo degli individui per scoprirne lentamente la vera, sia pur imponderabile, natura.

data di pubblicazione:09/02/2019








IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

(Teatro India – Roma, 7/10 febbraio 2019)

Favola tragicomica dell’ultimo Shakespeare, raccontata dalla voce di un bambino, Mamillio, figlio di Leonte, il re ferito dalla gelosia per la moglie Ermione. Storia di perdite e di ritrovamenti improvvisi, di amicizie e amori che il tempo, nei suoi salti, disperde e fa ritrovare.

  

 

Andrea Baracco e Maria Teresa Berardelli affrontano con semplicità e stile la regia di un classico shakespeariano e guidano un gruppo affiatato di giovani artisti, seriamente impegnati in scena nel raccontare una romanza dall’intreccio movimentato e dalle atmosfere fantastiche. Nove gli attori sul palco, molte di più le parti rappresentate per una messa in scena essenziale, ben studiata, fresca nella sua impostazione moderna dei costumi e del linguaggio scenico. La Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria dimostra di avere un buon numero di talentuosi artisti, dalle caratteristiche variegate e dalle ottime voci, pur nella loro percettibile ma non sgradevole breve esperienza. Sono Mariasofia Alleva nel ruolo di Ermione, la regina e sposa creduta infedele, che il marito e re di Sicilia Leonte, Ludovico Röhl, accusa di tradimento solo perché la immagina amante del suo migliore amico Polissene re di Boemia, interpretato da Carlo Dalla Costa, distorcendo la realtà fino a toccare il tragico. Con loro Luisa Borini, nel ruolo di Paulina, l’amica che nasconde la sua amata regina e la fa riapparire solo dopo moltissimi anni in forma di statua, artificio da lei ingegnato per proteggere e salvare l’innocente accusata, per poi mostrarla al momento giusto, quando è certa che davanti a lei si ripresenta il frutto mai goduto di un parto fino a quel momento creduto maledetto, la bellissima figlia Perdita, Daphne Morelli. La scena dello svelamento dell’inganno è una danza benedetta, a parteciparvi è anche Florizel, Edoardo Chiabolotti, figlio di Polissene e Amante di Perdita, figlia di Leonte. Con loro Jacopo Costantini nei panni di Antioco e Autolico, Giorgia Filippucci in quelli di Emilia e della Pastora e Silvio Impegnoso in quelli di Camillo, senza i quali la commedia della seconda parte del racconto non sarebbe stata né lieta né divertente. La voce di Mamillio, che in scena è un pupazzo, è di Adriano Baracco.

Uno spettacolo ridotto ad appena un’ora e mezza, distillato di un’ottima preparazione.

data di pubblicazione:09/02/2019


Il nostro voto:

BERLINALE [2] – GRÂCE À DIEU di François Ozon, 2019

BERLINALE [2] – GRÂCE À DIEU di François Ozon, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Alexandre vive con la moglie e i suoi cinque figli a Lione. Per puro caso un giorno viene a scoprire che il prete, che aveva abusato di lui quand’era un giovanissimo boy scout, ha ancora a che fare con dei bambini nella parrocchia assegnatagli. I terribili ricordi di quella disastrosa esperienza, per tanti anni rimossi, sembrano ora riaffiorare e chiedere giustizia non solo nei confronti di Padre Bernard Preynat, colpevole di aver molestato circa settanta ragazzi, ma anche verso il Cardinale Philippe Barbarin per non aver denunciato il fatto alle autorità competenti.

 

 

Il regista e sceneggiatore francese François Ozon, autore di pellicole di successo internazionale come 8 donne e un mistero, simpaticissima commedia con Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart e Virginie Ledoyen, Potiche sempre con la Deneuve, e poi Giovane e bella, Nella casa, Una nuova amica e tante altre, nel 2009 ebbe il suo debutto qui alla Berlinale con il fiabesco Ricky – una storia d’amore e libertà. Ozon, che della propria omosessualità non ne ha mai fatto un mistero, ha spesso trattato con spirito arguto e critico proprio argomenti che riguardano la sessualità umana. Il film appena presentato in concorso qui a Berlino assume la forma di un reportage su un argomento scottante che investe la società ed il mondo ecclesiastico in particolare, rilanciando con forza quanto la pedofilia sia un problema che debba essere affrontato seriamente dalla chiesa che, ancora oggi, è restia a confessare le proprie colpe nonostante le reiterate raccomandazioni papali. Alexandre (Melvil Poupaud), il protagonista della storia raccontata da Ozon, non si darà pace fino a quando non riuscirà a convincere le altre vittime di Padre Preynat (Bernard Verley) a denunciare alla polizia gli abusi subiti.

Nonostante l’eccessiva verbosità, l’inchiesta narrata nel film riesce a coinvolgere emotivamente perché riguarda un fatto di cronaca vera, che forse troverà il suo epilogo processuale nel mese di marzo di quest’anno. Anche il montaggio di Laure Gardette segue un ritmo veloce che non smorza mai l’intensità della narrazione e che riesce a catturare l’attenzione senza mai scivolare sulla polemica fine a se stessa.

È davvero singolare come il regista sia riuscito ad esaminare la reazione psicologica dei vari personaggi coinvolti ai quali, dopo tanti anni, risulta certamente difficile ammettere ciò che hanno patito, anche sovente a causa degli atteggiamenti reticenti delle proprie famiglie.

Film ben costruito che riesce ad affrontare in maniera intelligente un tema ancora oggi purtroppo di grande attualità.

data di pubblicazione:08/02/2019








BERLINALE [1] –THE KINDESS OF STRANGERS di Lone Scherfig, 2019

BERLINALE [1] –THE KINDESS OF STRANGERS di Lone Scherfig, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino,7/17 Febbraio 2019)

Clara e i suoi due bambini fuggono da casa in cerca di pace e libertà da un marito e padre violento. Lasciata la provincia in auto, li attende una New York gelida dove, non disponendo di risorse sufficienti per procurarsi un tetto ed un pasto decenti, faranno fatica a sbarcare il lunario. Nell’attuare vari stratagemmi per sopravvivere in quella giungla urbana, i tre incontreranno miracolosamente altri individui con le loro stesse difficoltà nell’affrontare il quotidiano, ognuno con il proprio bagaglio di problemi, con i quali troveranno la forza e la determinazione di aiutarsi reciprocamente, tirandosi fuori da una inevitabile solitudine esistenziale.

 

Lone Scherfig è una regista danese che ha trovato proprio qui a Berlino il suo debutto internazionale con il film Italiano per Principianti con il quale nel 2001 ottenne l’Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria. Aderisce ufficialmente al movimento Dogma 95, fondato dai registi Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, un manifesto programmatico di regole cinematografiche che prevede in pratica solo l’utilizzo della telecamera a mano e il rifiuto totale di altri effetti speciali. Il film presentato oggi in apertura della Berlinale centra in pieno una delle tematiche di quest’anno in quanto rivolto essenzialmente alla descrizione di una situazione di crisi all’interno della famiglia, dove sovente la violenza e l’intolleranza che ne scaturiscono vengono riversate sui figli. Come già in An Education del 2009, la Scherfig anche in The Kindness of Strangers sembra prediligere le problematiche intime di persone che riescono a farsi tormentare gli animi nel più profondo, ma che poi riescono ad uscire dal tunnel della disperazione per (ri)trovare una giusta pace. E così Clara (Zoe Kazan) farà fatica a proteggere sé e i suoi figli dal mondo ostile che li circonda, ma la forza di sopravvivenza le darà quella giusta dose di ottimismo che premierà i suoi sforzi. La storia si articola in maniera elementare ed i vari personaggi si muovono come tessere di un puzzle, elementi disarmonici che poi con pazienza trovano la maniera di incastrarsi vicendevolmente per costruire un tutto organico. Ed è proprio la voglia di volersi bene e di aiutarsi a far sì che ognuno possa ottenere ciò che merita. Come in una favola, i buoni dovranno affrontare mille difficoltà ma alla fine la loro bontà verrà ricompensata ed i cattivi avranno la giusta punizione.

Tuttavia, nonostante il cast di tutto rispetto (accanto alla brava Zoe Kazan, nipote del celebre regista Elia Kazan e già nota per altri lavori di successo, abbiamo Andrea Riseborough, Tahar Rahim, Caleb Landry Jones, Jay Baruchel e Bill Nighy), il film non sembra trovare quella giusta dimensione per coinvolgere emotivamente sino in fondo, forse a causa di un plot un po’ scontato e privo di quella forza sufficiente a trasmetterci le elementari regole di savoir-vivre, necessarie per farci comprendere realmente come i personaggi possano destreggiarsi con la dovuta leggerezza nel mondo torbido e buio come quello in cui sono costretti a stare.

data di pubblicazione:07/02/2019