VOX LUX di Brady Corbet, 2019

VOX LUX di Brady Corbet, 2019

A prima vista, Vox Lux di Brady Corbet, può apparire un documentario, una pellicola sgranata, una voce narrante (la splendida voce di W. Dafoe), macchina a mano, e poi la narrazione ripartita, dopo un breve drammatico prologo, in varie sezioni riferite ciascuna agli anni presi in esame per le vicende narrate.

 

Il giovanissimo autore, l’americano B. Corbet, appena trentenne e già considerato quasi un mostro sacro in quanto apprezzato talento sia come attore sia come regista fin dal suo primo esordio dietro alla macchina da presa con L’Infanzia del capo, premiato a Venezia nella sezione Orizzonti nel 2015, si concede ora, autorialmente , questi vezzi per affrontare senza inibizioni l’appuntamento con la sua opera seconda presentata in concorso alla Mostra l’anno scorso. L’avvio semidocumentaristico di cui dicevamo è infatti lo spunto originale per il regista per concentrarsi sugli ultimi venti anni, dal 1999 al 2017, illustrando gli eventi che hanno segnato definitivamente il nostro modo di vivere e pensare e che hanno inciso e modificato per sempre i comportamenti sociali e culturali del Mondo Occidentale in senso lato. Come dichiarato in conferenza stampa dallo stesso regista: “il suo è un racconto sulla sindrome post-traumatica dell’Occidente, una riflessione sull’ansia collettiva che ci caratterizza ormai tutti… e… più in particolare, sull’intreccio fra cultura pop, spettacolo e violenza…”

Lo spunto narrativo interessante è la vicenda della giovane americana Celeste (Raffey Cassidy, da adolescente, e poi Natalie Portman, da adulta) sopravvissuta alle ferite riportate durante una strage nella scuola ove studiava e divenuta poi, quasi inconsapevolmente, una pop singer conosciuta ed idolatrata in tutto il mondo, aiutata con dedizione costante “dietro le quinte” dalla sorella (Stacy Martin) che, in effetti, è la vera autrice dei testi e delle musiche.

Metaforicamente, come la nostra Società anche Celeste subisce una trasformazione, e da dolce, ingenua, pulita e sincera ragazza, la ritroviamo, passato un decennio, ormai divenuta una donna cinica, dura, indifferente ed egoista, una star violenta, irrispettosa e priva di affetto perfino per la figlia e preoccupata solo per la propria carriera. Un essere centrato solo su se stessa, sulla sua immagine pubblica, sulle ansie di dover sempre essere al centro dei riflettori, priva di riconoscenza anche verso la sorella che sempre l’ha sostenuta in tutte le sue vicende umane ed artistiche.

Celeste è l’equivalente della nostra Società che, persa ormai definitivamente la propria innocenza, in una sorta di sindrome post trauma, convive ormai cinicamente, in un alternarsi umorale, con la dura realtà che è costretta ad affrontare.

Due anni dopo Jackie e lo splendido Il cigno nero del 2008, torna sugli schermi una bravissima ed autorevole N. Portman nei panni di Celeste allorché è divenuta ormai una Star tanto brava, quanto disperata e sgradevole. Nel film l’attrice canta e balla su musiche composte da una cantante pop australiana e si conferma splendida interprete sia nella recitazione sia nelle parti coreografiche. Con lei anche un buon Jude Law nel ruolo del suo agente.

Sembra tutto perfetto, ottimo regista, ottimi interpreti, ottimi coprotagonisti, soggetto interessante… ma … ma il risultato è purtroppo un film discontinuo. Sembra che qualcosa si sia perso strada facendo. L’opera è bella, ben recitata, ben diretta, ma è come priva di anima e vita, manca una vera passione ed il risultato sembra quasi didascalico…”ecco quel che volevamo rappresentare…”. Un film di un valido autore, certamente, ma proprio per questo non basta essere “più che sufficienti”, ci si aspetta decisamente qualcosa di più. A distanza di un anno dai tiepidi consensi con cui fu accolto alla Mostra, proposto finalmente solo oggi sugli schermi, la valutazione resta ancora molto vicina alla “sufficienza”.

data di pubblicazione:13/09/2019


Scopri con un click il nostro voto:

AUGUSTO di Alessandro Sciarroni

AUGUSTO di Alessandro Sciarroni

(Teatro Argentina – Roma, 8/9 settembre 2019)

Il coreografo Alessandro Sciarroni, premiato alla recente biennale di Venezia con il Leone d’Oro alla carriera, ha portato in scena al Teatro Argentina di Roma, l’8 ed il 9 settembre scorso, lo spettacolo Augusto, una pièce che è un viaggio emotivo che parla di solitudine ed amari sorrisi.

 

Nove danzatori cominciano, uno dopo l’altro, a camminare in cerchio. I passi dettano un tempo costante che cresce, la camminata diventa più intensa e veloce ma sempre sussurrata e si trasforma corsa. I ragazzi sono come scossi da un risveglio ed iniziano a cercarsi con lo sguardo, sorridono, iniziano a ridacchiare prima quasi vergognosi, ma poi la risata diviene sempre più forte ed energica, fino a esplodere in un crescendo corale, convulso, irrefrenabile.

Talvolta alcuni danzatori si staccano dalla catena e si isolano al centro del gruppo, si abbracciano, ridendo o piangendo. Cercano un contatto, un’intesa. Il confronto però con il resto del gruppo è sempre una risata isterica, febbrile, di monito e distacco. L’intensità cresce senza tregua e senza coscienza, in uno stato di trance, mentre le risate forti e insistenti si mescolano a urla incomprensibili e impulsive.

Perché ridono? In Augusto la risata è la maschera, un meccanismo di difesa per nascondersi, per celare le proprie emozioni e la propria solitudine. Forse quelle urla, di strazio e di terrore, di puro dolore, offrono l’eventualità di una liberazione dalla contraddittoria schiavitù della risata

La velocità dei movimenti del corpo è direttamente proporzionale all’intensità delle risate, i gesti sono scomposti e sporchi, buttati fuori da una forza centrifuga, ma non sono liberatori. Movimenti sottolineati dall’uso dosato della musica elettronica ripetuta ed ossessiva e dalle luci che accompagnano il crescendo dell’azione.

Augusto è una dissertazione sul bisogno di sentirsi amati e sul dolore, attraverso la messa a nudo di un meccanismo espressivo basato sulla risata ad oltranza. Ridono di continuo, senza concedere a loro stessi e al pubblico la possibilità di capirne la ragione. Si ride fino a quando non ci si accorge che ci si è fatti male sul serio.

Spettacolo denso di spunti riflessivi che lascia però poco spazio alla passione ed al coinvolgimento emotivo.

data di pubblicazione:13/09/2019


Il nostro voto:

76. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA – LA BIENNALE DI VENEZIA 29.08—–8.09 2018: I PREMI

76. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA – LA BIENNALE DI VENEZIA 29.08—–8.09 2018: I PREMI

… Siccome anime disperate vaganti alla ricerca di qualche perla nascosta da scoprire ed attente, nel contempo, ad evitare il “film incubo”, quello che ti costringe all’orribile dilemma “…resisto fino alla fine…o mi alzo e me ne vado?”, così torme di appassionati, di cinefili e critici superstiti, si aggiravano ormai, programmi alla mano, fra le ultime proiezioni di questi giorni conclusivi della Mostra. Volti stralunati, occhi stanchi, tutti resistevano indomiti, solo nell’attesa del verdetto finale… del successo del “proprio” film. Su tutti aleggiava però il grande quesito di questa edizione numero 76: chi avrebbe vinto? Sarebbe poi stato discriminato Polansky?

Sarà pur vero che il bello, il sublime e l’arte si nascondono nei dettagli anche delle opere meno appariscenti e, che sono solo l’occhio e la mente di chi osserva che filtrano ciò che è bello e ciò che è brutto e, quindi, che è solo “il relativo” che domina, ma, i giudizi di pubblico, stampa ed addetti ai lavori, mai come questa volta, sembravano essere unanimemente concordi sui film da premiare.

Eccoci finalmente al disvelamento di tante attese e tanti pronostici!

Dopo la dura presa di posizione della Presidente della Giuria, l’argentina Lucrecia Marcel contro Polansky, si temeva infatti il peggio, ed invece la Giuria è stata, una volta tanto, più saggia della sua stessa presidente ed anche in quasi assoluta sintonia con le principali valutazioni, previsioni ed auspici sia dei critici che degli appassionati di cinema presenti a Venezia.

Il Leone d’oro è andato meritatamente a Joker di Todd Phillips con l’interpretazione eccezionale, inquietante e dolente di un superbo Joaquin Phoenix (già in opzione Oscar!) sottolineando così, giustamente, che non è eccezionale solo l’attore, ma lo è tutto il film dal cast alla regia. Altrettanto accettabile ed apprezzabile il “compromesso” del Leone d’argento al magnifico J’accuse di Polansky (… è un leone di un argento purissimo, prezioso quanto l’oro!!). Due film da correre subito a vedere quando usciranno in sala!

Meritati e corretti anche i premi per le interpretazioni:

la Coppa Volpi per il migliore attore è stata correttamente assegnata al nostro bravissimo Luca Marinelli per il suo apprezzato Martin Eden di Pietro Marcello che brillantemente e genialmente ha trasportato il romanzo di Jack London a Napoli

Un po’ più a sorpresa, quella per la migliore attrice è andata invece alla francese A. Ascaride per la sua vibrante nonna nel film diretto da suo marito Robert Guediguian: Gloria Mundi, un drammone ambientato a Marsiglia sulle battaglie quotidiane di una famiglia che lotta “dignitosamente e non” per far fronte allo sfaldamento ed alle difficoltà economiche. Forse qualche aspettativa, delusa, c’era per la Scarlett Johansson di Marriage Story, e chissà, forse anche per una delle due dive francesi de La Verité. Molto probabilmente la Giuria ha però inteso premiare indirettamente anche la produzione artistica del regista, già apprezzatissimo qui a Venezia nel 2017 con La casa sul mare.

Il Premio Speciale della Giuria è poi andato anche qui meritatamente all’italiano Franco Maresco con il suo originale La mafia non è più quella di una volta.

Unica vera sorpresa che genera più di qualche perplessità è invece il secondo Leone d’Argento che va allo strano, discusso e più che discutibile film dello svedese Roy Andersson About Endlessness, scene fisse, tipo tableaux vivants, filmate, come spunto per una serie di riflessioni sulla vita umana. Può capitare di sbagliare o … di vedere cose che noi umani non abbiamo visto!

Fermandosi sui soli premi maggiori possiamo senz’altro dire che quest’anno non è andata poi tanto male per l’Italia che vince premi significativi come non accadeva da molto, ma, soprattutto, va sottolineato che Venezia continua a premiare film di produzioni americane, film che poi come La forma dell’acqua nel 2017, e Roma o La Favorita nel 2018, procedono sull’abbrivio, spediti verso la conferma del loro valore con i premi Oscar. Questa specie di staffetta, o preliminare “benedizione” veneziana spiega la sempre maggiore presenza delle Majors, dei registi e produttori ed il ritorno in massa delle stars internazionali e dei film di gran qualità alla Mostra.

Ma, più di ogni altra cosa, quest’anno è andata benissimo proprio per il Festival, un Festival che ha riguadagnato e consolidato ormai il suo peso e ruolo storico, un Festival che ha avuto oltre 200.000 presenze, oltre 21 film in concorso e quasi tutti di buona qualità, 36 film fra fuori concorso o nella sezione Orizzonti, un pubblico internazionale, una presenza giovanile altissima, entusiasta e partecipe, e, un mercato commerciale vivacissimo. Sono tutti questi i tanti diversi pregi, segno e conferma nel loro complesso di una vitalità e qualità ormai stabile. Una Venezia 76 dunque con alcuni ottimi film, diversi buoni film, varie conferme autoriali di grandi registi, qualche piccola delusione su un paio di divi ed infine anche qualche gioiellino piccolo, piccolo che fa buon cinema e che speriamo possa uscire sui nostri schermi.

Come ha detto Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra dal 2011 … appuntamento di nuovo a Venezia il 2 Settembre 2020!!

data di pubblicazione:08/09/2019

GUEST OF HONOUR di Atom Egoyan, 2019

GUEST OF HONOUR di Atom Egoyan, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Una giovane insegnante di musica al liceo (Laysla de Oliveira) è accusata di aver abusato della sua posizione per aver rapporti con un suo allievo minorenne. Incarcerata, rifiuta i tentativi del padre (David Thewlis) di farle ottenere la libertà anticipata perché, pur se innocente, ritiene di dover comunque scontare una punizione per un qualcosa avvenuto nel loro passato. Il suo e quello del padre….

 

Manca ormai solo un pomeriggio di pioggia, vento e foglie autunnali per dare forma concreta alla sensazione di “fine stagione”… Purtroppo, a differenza di tanti altri Festival (perfino di quello di Roma), Venezia persiste nel suo recente pessimo vezzo di “sparare” i migliori film o quelli di maggior richiamo nella prima settimana di programmazione, dopo di che è tutto un disperato aggirarsi di critici ed appassionati fra proiezioni di film di non apparente grande appeal o di cinematografie marginali. Sono, ahinoi le dure leggi dettate ed imposte dalle Majors Americane e dai vincoli del “circo” dello Star System che porta le grandi stelle e produzioni da un Festival all’altro. In questa settimana è infatti partito il Festival di Toronto, ed ora, quelli che contano o su cui molto si è investito sono quasi tutti lì!

Eppure… Eppure… si trovano fortunatamente ancora delle belle sorprese o piuttosto delle gradite conferme come nel caso dell’ultimo lavoro di Egoyan.

Il non prolifico regista e sceneggiatore canadese amatissimo dai Festival e talora molto apprezzato anche dal pubblico per i suoi: Dolci Inganni 1997, Chloe 2010, ed il recente Remember 2015, ripropone con questo suo film alcune delle sue tematiche costanti: il senso di colpa, il lutto e l’espiazione. Ancor di più, questa volta tutti questi suoi temi s’incrociano anche con i grovigli di segreti, di equivoci e di incomprensioni che si celano nella famiglia e nelle relazioni fra genitori e figli. Nel nostro caso fra un padre vedovo ed una figlia unica.

Ciò che ha sempre affascinato ed affascina l’autore è, in particolare, anche l’emergere della “vera” Verità all’interno delle varie realtà che ognuno di noi si autoconvince e vive poi come la “Vera Realtà”. Talora però, sottolinea il regista, la Verità si scopre quando è ormai troppo tardi. Il dolore e la solitudine non riescono ad abbattere le barriere erette dal pudore dei sentimenti, delle emozioni e da quell’amore inespresso che padre e figlia non sono, da soli, in grado di superare. Se solo fossero riusciti a parlarsi, ad aprirsi prima! Non è facile essere padri oggi, ci dice Egoyan.

Spesso, secondo il regista, il legame di amore può essere così forte ed inesprimibile da arrivare ad essere schiacciante e deviante fino a generare equivoci tragici ed irreparabili.

Egoyan è bravo, in un’alternanza fluida fra passato e presente a disvelarci nel flusso dei ricordi la realtà del quotidiano vivere, la solitudine, l’affetto inespresso, il vuoto affettivo mai anestetizzato o cicatrizzato che ha inciso la vita dei due protagonisti. Il lento rivelarsi della Verità e dei segreti equivoci. Guest of Honour è un film autoriale profondo, inquietante ed intrigante che cattura lo spettatore tenendolo sospeso nei vortici emotivi che si dispiegano progressivamente. Dove, come e quando ci si riesce a riconciliare? è l’interrogativo che il regista lascia aperto per le nostre riflessioni di spettatori.

Un film autoriale come detto, assistito dall’ottima interpretazione della rivelazione De Oliveira, bella, giovane, brava ed intensa e soprattutto da un eccezionale tragico e straniato Thewlis. Un film non certo facile e non certo banale, dinamico e leggero; un film che invece fa riflettere e che si può anche riuscire ad apprezzare pur senza essere tra i migliori ed i più originali dell’autore.

data di pubblicazione:04/09/2019








THE KING di David Michod, 2019

THE KING di David Michod, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Inghilterra xv Secolo. In una libera revisione degli Shakespeariani Enrico IV ed Enrico V, ritroviamo il giovane futuro re (Timothée Chalamet) costretto a succedere, suo malgrado, al trono d’Inghilterra. Nonostante il suo desiderio di pacificare il Regno, sarà poi costretto dalle ragioni di Stato, dagli intrighi di corte e dalle logiche di potere a proseguire le guerre volute dal padre…

 

Fuori concorso è stato presentato l’ultimo lavoro di D. Michod, giovane regista e sceneggiatore australiano il cui primo lungometraggio Animal Kingdom era stato accolto con successo alla Festa del Cinema di Roma nel 2010. Il film di oggi è prodotto da Netflix e, come sappiamo, Venezia pur fra vivaci polemiche e proteste continua ad ammettere in concorso o ad ospitare dei prodotti destinati alla sola fruizione televisiva, a differenza di quanto, a nostro parere più correttamente, fanno invece Cannes ed altri Festival che li hanno banditi.

Il regista di nuovo in collaborazione con Joel Edgerton che nel film interpreta anche il ruolo di Falstaff, ha coscritto la sceneggiatura cercando coraggiosamente di restituirci, senza timori di confronti con i precedenti Enrico V di L. Olivier o di K. Branagh, la figura di un giovane sovrano ribelle e di cercare nel contempo di renderlo quasi un eroe dei nostri tempi, attualizzandone emozioni, reazioni e valori. L’occasione consente all’autore di cimentarsi con Shakespeare “si parva licet comparare” per sottolineare senza retorica l’attualità delle vicende di un giovane uomo costretto a cimentarsi con il Potere, la Guerra, gli Intrighi, l’Arroganza, la Paura e con essi tutto il microcosmo di dubbi e di sentimenti, tanto eterni quanto anche attuali e pressanti oggi giorno.

Dunque: un po’ di Shakespeare, un po’ di Storia, un po’ di invenzione ed un po’ di attualizzazione ed ecco che ben miscelati fra loro si ottiene come risultato un film apprezzabile, coinvolgente ed a tratti anche avvincente, ovviamente commercialmente valido perché pensato intelligentemente con un occhio ben puntato anche sul botteghino.

La regia di Michod procede senza guizzi particolari con uno stile molto classico ed il ritmo narrativo, pur se fluido, procede con un taglio forse un po’ televisivo senza particolari variazioni se non nel finale quando le vicende stesse impongono un’accelerazione di tempi e drammaticità.

Al centro della vicenda e si può pure dire che regge il confronto con gli illustri precedenti, è l’ormai lanciatissimo ed anche bravo Chalamet, idolo qui a Venezia di folle di giovani fans in delirio, e, con lui ed attorno a lui un bel gruppo di ottimi attori tutti perfetti nei loro vari secondi ruoli, nel finale appare nei panni della promessa sposa Caterina di Valois anche la giovanissima figlia di J Deep, la bella Lily Rose Deep interprete di sicura ascesa e compagna nella vita reale di Chalamet.

Per chi lo potrà vedere al cinema, The King è pur sempre uno spettacolo godibile, un’apprezzabile allegoria del Potere e di ciò che si cela dietro ad esso, girato con dovizia di mezzi ed interpretato e diretto con professionalità con l’unico scopo di divertire e fare spettacolo e non certamente arte.

data di pubblicazione:04/09/2019








MARTIN EDEN di Pietro Marcello, 2019

MARTIN EDEN di Pietro Marcello, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Martin Eden, bel giovane dedito per sopravvivenza ai lavori più disparati, tornando da un periodo di navigazione, salva nel porto di Napoli il rampollo di una buona famiglia. Per i ringraziamenti di rito viene invitato a cena e scopre un mondo nuovo subendo il fascino della dolce e altolocata Elena che lo avvicina alla lettura e all’arte. Da quel momento in poi, da autodidatta, s’infervora di letteratura e decide di diventare scrittore di professione e di conquistare il suo amore. Il bel romanzo di Jack London, dalla California a Napoli.

Dopo Martone, con la riuscita rivisitazione de Il Sindaco di Rione Sanità, un’altra operazione di trasposizione seppure rischiosa, ma azzeccata, è quella del Martin Eden operata da Pietro Marcello, di cui ricordiamo La Bocca del Lupo del 2009 e Bella e Perduta del 2015, con il romanzo di Jack London. Lo scrittore di Auckland agli inizi del ‘900 era il romanziere più letto al mondo; Lenin e Trotzskj lo adoravano e altri milioni di lettori lo avevano reso ricco e famoso. Di umili origini, figlio illegittimo, aveva viaggiato giovanissimo in lungo e in largo, era stato cercatore d’oro in Alaska, pescatore di perle nella baia di San Francisco; poi, attraverso studi e letture disordinate, ma intense, era divenuto il primo romanziere d’America. Era stato individualista (seguace di Nietzsche), poi socialista convinto (indimenticabile il suo saggio sociale Il Popolo degli Abissi), aveva vissuto molto intensamente, si era sposato due volte, bevuto anche troppo ed era morto (probabilmente suicida), appena quarantenne sul suo yacht, dopo aver accumulato e dissipato intere fortune.

Trasferendo la vicenda dello scrittore e il suo personaggio Martin Eden – figure speculari – nella realtà napoletana degli inizi del XX secolo, Marcello compie un’operazione complicata, ma pienamente riuscita. Il suo Eden (un magnifico, a volte esagerato, Luca Marinelli) in chiave proletaria con vocazione “elitaria”, precipitato nell’antropologia italiana pre-war, non disturba, ma affascina. Mescolando con sapienza e grazie a un montaggio (Aline Hervè e Fabrizio Federico) di prim’ordine, la trama e materiali d’archivio, il regista napoletano realizza un film di ampia portata. Una pellicola che coniuga l’emozionante storia (universale) del povero che s’innamora della bella aristocratica Elena (Jessica Cressy al suo felice debutto) con la lotta di classe (quella personale di Martin contro i pre-giudizi della famiglia e quella delle agitazioni socialiste e anarchiche del contesto storico). Martin, innamorato pazzo di Elena affronta e supera, con profondo travaglio personale, gli ostacoli derivanti dalla propria origine: andrà contro tutti, editori, famiglia di origine, famiglia di Elena… Unico a dargli vero supporto e amicizia sarà il vecchio e disadattato compagno, Russ Brissenden (uno strepitoso Carlo Cecchi) che al tempo stesso ne accentuerà i   travagli interiori, portandolo al contrasto definivo con il mondo elitario di cui avrebbe voluto far parte e al rifiuto della stessa Elena. Si diceva che Martin Eden è romanzo universale e va dato atto al regista Marcello e al suo co-sceneggiatore Maurizio Braucci, pur nella sua ibridizzazione in salsa partenopea, di aver mantenuto e attualizzato il rigore e l’energia primordiali. Nella magnifica follia di Martin Eden (romanzo e film, all’unisono), c’è tanto (pubblico e critica sembra lo abbiano percepito), ma oltre storia, ideologia, interpretazioni, quello che veramente ci lascia alla fine della visione è il senso di ampio respiro che lo ha connotato, proprio dei classici senza tempo.

data di pubblicazione:03/09/2019








THE LAUNDROMAT di Steven Soderbergh, 2019

THE LAUNDROMAT di Steven Soderbergh, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Ellen Martin, pensionata, felicemente coniugata, vede morire il marito e altri turisti in un’assurda tragedia durante una crociera sul lago George. Il tragico evento porta l’ignara vedova a imbattersi nell’assurdo mondo di una certa finanza nella vana speranza di vedersi riconoscere il legittimo risarcimento per la morte del marito, da parte della compagnia di navigazione. Non sarà così, e, per assurdi e illegali passaggi fra compagnie di assicurazioni “fantasma”, Ellen avrà difficoltà ad ottenere giustizia. La sua ricerca sulla frode assicurativa le aprirà gli occhi sul mondo della finanza globale, quella dei “Panama Papers”, per intenderci.

 

Ancora una volta Steven Soderbergh, (già Palma d’Oro al Festival di Cannes per lo splendido Sesso, Bugie e Videotape e di un Oscar per la regia di Traffic) ci regala un altro piccolo gioiello, un’altra storia vera, tra le più drammatiche dei nostri tempi. La pellicola, partendo da un evento legato alla sfera personale delle vittime di un mancato risarcimento, ricostruisce, racconta e spiega la vicenda dei così detti “Panama Papers”, scandalo devastante nel mondo della finanza. A dieci anni da The Informant! il talentuoso regista di Atlanta, ci regala, alla sua maniera, una storia vera basata sul libro-inchiesta Secrecy World: Inside Panama Papers…, del reporter investigativo Jake Bernstein premiato con il Pulitzer, un evento che fece tremare il mondo della finanza internazionale e che vide coinvolte oltre 200.000 società offshore e tantissimi ignari risparmiatori. Soderbergh delega, sin dall’apertura del film, alle figure di due dei grandi truffatori, Jurgen Mossack (un sornione Gary Oldman) e Ramòn Fonseca (Banderas al meglio), il compito di spiegare agli spettatori il chi e il come del formidabile raggiro. Alla fine, oltre i responsabili in concreto ai danni della povera Ellen, effettivamente smascherati, il vero colpevole di tutto finisce con l’essere naturalmente l’ossessione per il denaro e il potere e Soderbergh non nasconde che delle conseguenze drammatiche che ne conseguono i governi di molti grandi paesi, gli USA in primis, ma anche Russia e Cina non sono estranei.

Con la direzione della fotografia dello stesso regista, la sceneggiatura di Scott Z.Burns e la solita ineccepibile interpretazione di Meryl Streep, The Laundromat è un ibrido fra un commedia nera e un film politico e intelligente che, grazie a un montaggio serrato, a un buon ritmo e al colpo di scena finale, ha buone possibilità di premi a Venezia, vista l’ottima accoglienza del pubblico in sala. A parte questa evenienza, ha comunque l’innegabile merito di riportare alla luce uno scandalo senza precedenti, che la scarsa memoria dei nostri tempi rischiava di rimuovere.

data di pubblicazione:02/09/2019








WASP NETWORK di Olivier Assayas, 2019

WASP NETWORK di Olivier Assayas, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Ecco di nuovo in concorso, ancora una volta, Olivier Assayas, pluripremiato sceneggiatore e regista francese, molto amato ed apprezzato dalla Critica e dalle Giurie dei Festival, un po’ meno e non sempre dal pubblico degli spettatori, con l’eccezione, ovviamente, dei suoi connazionali. L’autore torna a Venezia appena un anno dopo il non perfetto Il Gioco delle Coppie (Doubles Vies) con un nuovo film da lui diretto ed anche sceneggiato basandosi su fatti reali avvenuti negli anni ’90, sul finire della “Guerra Fredda” e le connesse tensioni sotterranee fra la Cuba di Castro ed il governo Americano narrando la storia delle azioni messe in essere dagli esuli anticastristi in Florida e in particolare di una rete di spie cubane infiltrate fra questi ultimi per contrastarli.

 

Come sempre, il regista sposta il suo impegno artistico, cambiando con abilità e coraggio genere cinematografico, ad ogni sua nuova opera. Difatti, dai drammi personali e dalle ambiguità al centro dei suoi più recenti film, vedi anche Sils Maria e Personal Shopper, questa volta il nostro cineasta passa ad affrontare, con pari talento, tutti i temi classici e propri dei film politici e di spionaggio, mantenendo però sempre ben centrato il suo sguardo indagatore sui drammi del singolo e sulle contraddizioni dell’essere umano, preso di volta in volta, nelle ambiguità e nei cambiamenti, ora personali, ora culturali, ora politici. Cambiamenti che sempre, ci dice Assayas, mettono in crisi o addirittura travolgono i singoli e con essi le loro passioni ed i loro affetti. Eproprio di questi cambiamenti che l’autore vuole essere testimone raccontandoci il modificarsi della Società, dei singoli e del loro mondo di valori e, con essi, le illusioni e le delusioni che li accompagnano, focalizzandosi in particolare poi sul “Perché” delle azioni o degli errori umani.

Assayas filma il tutto attraverso una struttura narrativa tipica del suo stile rappresentativo: una struttura quasi concentrica che alterna le vicende private e le vicende pubbliche dei vari personaggi senza mai cedere alla tentazione della retorica nell’uno o nell’altro campo, anzi, al contrario, il taglio registico ricercato è volutamente quasi minimalista con coerentemente un ritmo filmico dal fluire costante ma quasi distaccato e senza tensione che può anche lasciare interdetti i più fra gli spettatori. Ci si sarebbe aspettato infatti un po’ di suspense, di partecipazione emotiva e di azione in più, la tentazione è forte, ma sarebbe stato un altro film, un film di una qualsiasi produzione americana. Oppure ci sarebbe voluto Oliver Stone. Assayas è invece tutto in questo rigore analitico con cui affronta la narrazione del reale, con il rischio “calcolato” di lasciare la sensazione di essere anche un po’ troppo riduttivo per il tema affrontato.

Fra i vari attori tutti ben calibrati nei loro vari ruoli, coadiuvano brillantemente il regista, nelle vesti dei quasi protagonisti, una sempre splendida, brava ed intensa Penélope Cruz e l’altrettanto bravo Edgar Ramirez.

In conclusione Wasp Network pur se imperfetto, è un film interessante che conferma tutta la complessità e la varietà del talento di Assayas, sulla cui valutazione poi, come al solito, si divideranno critici, giurie e pubblico.

data di pubblicazione:02/09/2019








JOKER di Todd Phillips, 2019

JOKER di Todd Phillips, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Stupefacente prova d’attore per Joaquin Phoenix nel Joker di Todd Phillips, in concorso a Venezia. In una Gotham City in cui imperversa un crescente malessere metropolitano, fatto di immondizia, rabbia e violenza, di diseguaglianze sociali estremizzate, cerca di sopravvivere il debole Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) vittima di un grave disturbo che lo fa scoppiare in risate isteriche quando è sottoposto a stress emotivi rilevanti e che lo porta ad essere umiliato, deriso, malmenato ed emarginato.

 

Fleck vive con una madre anch’essa malata che ha rovinato irrimediabilmente la sua vita. Fa parte della schiera degli ultimi. Il suo sogno è quello di diventare un cabarettista, e magari essere un giorno ospite del suo show televisivo preferito, quello condotto dal comico Murray Franklin (uno straordinario Robert De Niro), ma nel frattempo si arrabatta come può travestendosi di clown. Sempre più ai margini, in un susseguirsi di vicissitudini grottesche, quasi vittima sacrificale di un disegno preordinato, non può che far esplodere la sua impotenza in una rivolta improvvisa e feroce verso tutti. Una trasformazione violenta e folle in un nuovo Joker la cui patologia viene eretta a simbolo di una rivolta popolare egualmente brutale e cieca, di cui diviene l’emblema suo malgrado.

In un panorama a fosche tinte tra le atmosfere de I Guerrieri della Notte e Taxi Driver, ma vicino anche all’indefinito futuro di Blade Runner ed agli scenari apocalittici di Romero, Joaquin Phoenix plasma un nuovo Joker a sua immagine e somiglianza, esorcizzando il suo passato ed il suo grandissimo talento. C’è lo sguardo folle di Nicholson ma anche la nera eleganza di Heath Ledger scomposti ed elaborati secondo una nuova fisicità, frutto di un lavoro ossessivo e profondo.

Joaquin Phoenix polarizza letteralmente tutto il film dalla prima all’ultima sequenza, grandissimo nel costruire un personaggio che dal fumetto rimanda ad echi letterari e a personaggi di spessore mostrando una profondità non comune.

Arthur Fleck è la risata ossessiva e disperata del disagio di oggi, anche se trasposto in un’atmosfera torbida da comics apparentemente lontana, fatta di sporcizia e di rabbia, di soprusi, di segreterie telefoniche e vecchi lettori VHS, in un’atmosfera nella quale servizi sociali e medicine non sono in grado di sostenere la fragilità del giovane Arthur e dei suoi sogni, aprendo di fatto la voragine della cieca follia. E Arthur non può che affondare nel dolore e nella violenza trascinando con sé tutta quella piccola umanità selvaggia. Non c’è speranza su questa terra, forse un po’ di luce e di candore gli sono destinati in un’altra vita, nella quale dar sfogo alla sua andatura sconnessa e sognante.

Un film decisamente bello e misurato, con un importante lavoro di regia e con tanti superlativi attori (De Niro in primis), ma condizionatissimo dal suo mostruoso protagonista, cui spetteranno certamente tantissimi riconoscimenti che non può non meritare.

data di pubblicazione:01/09/2019








EMA di Pablo Larraín, 2019

EMA di Pablo Larraín, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Pablo Larraín ha presentato in concorso al Festival Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la sua settima pellicola, Ema, storia di una giovane donna testarda e carismatica, forte e determinata, anche quando tutto sembra precipitare.

Ema è una giovane ballerina di talento (Mariana Di Girolamo) che lavora in una compagnia guidata dal marito, il coreografo Gaston (Gael Garcia Bernal). Il matrimonio dei due è però a pezzi a seguito della scelta pesante di allontanare il bambino di sei anni che avevano adottato, Palo. Il problema è che il piccolo ha tentato di incendiare casa, deturpato il volto della sorella di Ema ed ha congelato un gatto. Ema tenta di superare il senso di colpa per non aver saputo gestire e crescere il bambino, accusando il marito di essere il responsabile di quanto avvenuto.

La storia si sviluppa tra le strade di Valparaíso, città portuale del Cile, un piccolo grande affresco pop delle nuove generazioni: abiti maculati e fasciati, paesaggi urbani scrostati, neon e fiamme, in compagnia della musica, il reggaeton apparente inutile ma alla fine adrenalinico: è ritmico, euforico, trasmette eccitazione ed erotismo.

I protagonisti si avvicinano e si allontanano, scaricandosi addosso le proprie frustrazioni. Ema entra in un vortice frenetico di esperienze estreme di sesso e distruzione piromane, per compiere la propria espiazione, coinvolgendo in questo vortice tutti coloro che le sono intorno.

In realtà dietro c’è un piano lucido che riesce a portare a termine. Cosa ci sia davvero dietro il suo sguardo vitale e folle eppure sempre fermo e deciso, lo si scopre negli ultimi dieci minuti di film.

È motivata da un implacabile individualismo, perché sa chiaramente cosa vuole ed è capace di sedurre coloro che la circondano per realizzare il suo disegno: essere madre ed avere una famiglia.

Un semaforo in fiamme, ed una donna con un lanciafiamme in spalla. È questa la traccia iniziale su cui il regista monta e smonta il racconto che va avanti su diversi piani temporali, nascondendo e rivelando in un ordine quasi casuale che permette a ciascuno di ricreare il proprio puzzle fatto di proprie ipotesi e deduzioni.

Ema è una stella che emana calore, un calore che quando è troppo forte brucia chi le sta vicino, ma che alla fine regala energia e vita proprio così come quel reggaeton che riesce ad accenderla, visto che è proprio il ballo a dettare il tempo, in un susseguirsi ora frenetico ora silenzioso di parole ed emozioni.

Nella finissima visione di Larraín c’è la distruzione del concetto di famiglia nella sua accezione tradizionale ma anche la sua ricostituzione in chiave non proprio convenzionale ma certamente efficace per tutti i protagonisti, il tutto supportato dall’espressione artistica per esorcizzare e guarire dal dolore, perché se un dolore ti ferisce, allora bruciare la ferita aiuta a guarire e a sopravvivere.

data di pubblicazione:01/09/2019