UN NEMICO DEL POPOLO di Henrik Ibsen, diretto e interpretato da Massimo Popolizio

UN NEMICO DEL POPOLO di Henrik Ibsen, diretto e interpretato da Massimo Popolizio

(Teatro Argentina – Roma, 20 marzo/28 aprile 2019)

Perseguire la Verità o ricercare la Maggioranza? Chi dice la Verità? E’ colui che esprime ciò che pensa e agisce di conseguenza? Cosa è una Maggioranza? Una semplice somma di individui? E chi è fuori dalla Maggioranza, è un saggio o un rivoluzionario? Punti di domanda alla ricerca di risposte nell’attualissimo testo di Henrik Ibsen Un nemico del Popolo, coraggiosamente messo in scena da Massimo Popolizio per la traduzione di Luigi Squarzina.

 

Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Roma -Teatro Nazionale, si avvale di un eccezionale cast che annovera oltre allo stesso Popolizio nei panni del dottor Thomas Stockmann anche la bravissima Maria Paiato che ci regala una strepitosa interpretazione del personaggio del Sindaco Stockmann, fratello di Thomas (Popolizio) intorno al quale, nel bene e nel male, ruota tutta quanta la vicenda.

Chi è nemico del popolo? È alla fine il dottor Thomas Stockmann. Lo sono la sua correttezza, la moralità e la conoscenza che spingono lo stimato medico responsabile dell’impianto termale della cittadina a mettersi contro tutti i suoi concittadini ed in primis contro suo fratello Peter. Le acque delle terme sono inquinate e c’è il rischio di far ammalare le persone. Ma chiuderle vorrebbe dire rinunciare a facili guadagni per il sindaco e tutti i proprietari di immobili. In un baleno in un pubblico confronto Stockmann viene messo alla berlina, licenziato, linciato e disprezzato. Non avrà più nulla, se non la solidarietà della sua famiglia e la sua solitudine, sufficienti però per permettergli di continuare a vivere onestamente.

Come scopre il Dr. Stockmann non sono le terme a essere contaminate ma è la comunità a essere avvelenata dalle menzogne. La sua volontà di denuncia si scontra con il patto tra il potere costituito, rappresentato dal sindaco Peter Stockmann, dalla stampa non certo indipendente e la maggioranza, quella opinione pubblica che veicola le proprie decisioni in base al proprio interesse. Henrik Ibsen risulta di un’attualità sconcertante, scrivendo nel 1882 dell’egoismo del ceto medio piccolo borghese del popolo sempre pronto a dar ragione all’ultimo, della solitudine di chi ha ragione e va contro la maggioranza, degli interessi della politica, di ecologia e salute.

Il messaggio è quanto mai sorprendente: non potendo davvero conoscere tutto, il popolo ha bisogno di delegare la decisione a colui che sembra più idoneo a prendersi in carico i problemi e a scegliere le soluzioni più opportune.

Tutto il lavoro si sviluppa con lo scopo principale di fornire agli spettatori tutti gli elementi necessari affinché essi possano diventare parte integrante e consapevole di quella comunità cittadina che costituisce il vero centro di interesse della vicenda.

Una rappresentazione perfettamente classica che adopera la leva grottesca della recitazione e delle posture per enfatizzare ruoli e caratteri. Solo le donne della famiglia di Thomas conservano una presenza forte, perché guardano oltre e amano più degli altri.

Efficacissime la scenografia e le luci, straordinarie le voci del popolo dai palchi del teatro.

Uno spettacolo imponente che illumina con forza, proprio mettendo in discussione il sistema democratico quando costretto a piegarsi ai voleri di una maggioranza volubile, manipolabile, impreparata da parte di chi, per il benessere del popolo, finisce per divenire nemico del popolo.

data di pubblicazione:02/04/2019


Il nostro voto:

ZERO di e con Massimiliano Bruno, regia di Furio Andreotti

ZERO di e con Massimiliano Bruno, regia di Furio Andreotti

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 17/31 marzo 2019 e poi in tournée)

Un attore per sei personaggi e altrettanti voci. Saga malavitosa tra Roma e la Calabria con one man show e consacrazione della versatilità di un regista-sceneggiatore.

 

Chi conosceva Massimiliano Bruno come fecondo quanto corrivo illustratore di realtà last minute nel cinema deve aggiungere al giudizio sul personaggio la performance d’attore in uno spettacolo collaudato e non più inedito ma ancora profondamente efficace. Nella bomboniera del teatro romano, piena come non mai, alla fine standing ovation e applausi in piedi di un pubblico molto amichevole ma che giustifica la reazione per la sua bravura in uno spettacolo che ricorda in fondo in fondo anche la stand up comedy per il continuo andare e venire dietro le quinte del solista, accompagnato da un’orchestra di quattro elementi che occasionalmente, gli fornisce  i piccoli arnesi di scena, compresa una borsetta. Si, perché nel mazzo dei personaggi, in maggioranza di estrazione calabrese, c’è anche Margherita, una donna. Bruno tiene in pugno la situazione con grande padronanza, anche nel raccontare quella che è storia di strage e di vendetta, faida di ‘ndrangheta, con caldi e passionali umori del sud tradotti in palcoscenico. L’Italia è piena di imitatori di voce: una storia che da Fregoli vira su Noschese, Sabani, Franco Rosi fino all’attuale Virginia Raffaele ma Bruno è qualcosa di più perché deve anche badare alla mimesi. E si può immaginare come non sia facile passare in pochi secondi a riassumere vite diverse ma nell’occasione accomunate dall’esigenza di una vendetta. La morte è solo evocata con suggestioni potenti e crudeli. Le continue diversioni e l’uso prolungato del dialetto producono effetti comici più che drammatici anche se il finale è in grigio scuro. Intrattenimento di qualità e non privo d’impegno per uno spaccato realistico sulla disastrata Italia oggi, soprattutto quella del profondo sud. Sangue evocato ma ferite reali della società cosiddetta civile.

data di pubblicazione:01/04/2019


Il nostro voto:

LA BANDITACCIA di Alessandro Morganti e Angelo Pecorelli con il collettivo “Quelli del martedì”

LA BANDITACCIA di Alessandro Morganti e Angelo Pecorelli con il collettivo “Quelli del martedì”

(Teatro delle Scuderie di Palazzo Farnese a Caprarola, 7 gennaio/31 marzo 2019)

Una commedia malavitosa in salsa agreste. Tra dialetto romanesco e caprolatto (il dialetto di Caprarola) in un’ambientazione suggestiva e raccolta.

Tre mesi di repliche e di tutto esaurito sanciscono il successo di una compagnia che dagli inizi amatoriali si è issata verso il professionismo uscendo fuori dai confini della Tuscia per un vero e proprio fenomeno regionale, se non nazionale. Una compagnia affiatata di una dozzina di elementi che producono uno spettacolo all’anno e, concluso questo ciclo, in primavera, si rimmergeranno in una nuova avventura da riproporre al fedele pubblico a inizio 2020.

Ambientata in un ristorante dove succede un po’ di tutto in tre quadri la commedia sa di agreste e strizza l’occhio all’attualità contaminando la cronaca. Perché i banditi della Tuscia non sono proprio degli sprovveduti se hanno gestito il traffico di droga nella capitale in combutta con alcuni personaggi di spicco della Banda della Magliana, compreso De Pedis. Tre attori principali guidano gli altri verso il sicuro successo: il professore (artefice del clamoroso colpo di scena finale che non sveliamo), il cuoco, il proprietario). Gli altri si inseriscono in una funzionale sinergia di gruppo con il ricorso frequente a un turpiloquio naturale e non volgare. La partecipazione allo spettacolo in una cornice inusuale conferisce il fascino esperienziale dell’assoluta novità per un pubblico non necessariamente aduso alla frequentazione dei teatri cittadini.

Puro e automatico divertimento senza pretese di complessità per un genere definito criminale. Si spara anche in scena con il limite di partecipazione di una sola attrice in un coro di maschi. Risate di pancia che però arrivano anche al cervello. Il finale imprevisto regala una bella scarica di adrenalina e chiarisce le capacità trasformiste di uno degli attori più bravi, non a caso definito il professore. Una ricca collezione di Dvd con gli spettacoli già in archivio è il biglietto da visita mediatico di una compagnia che si è fatta tanta strada, conquistando un pubblico non casuale.

data di pubblicazione: 31/3/2019


Il nostro voto:

PICCOLI SUICIDI TRA AMICI di Arto Paasilinna. Edizioni Iperborea, 2018

PICCOLI SUICIDI TRA AMICI di Arto Paasilinna. Edizioni Iperborea, 2018

Si sa che Finlandia è il Paese con la più tragica scia statistica di suicidi al mondo. Non è un argomento su cui scherzare se non si ha la levità di uno scrittore di quella nazione che inventa un plot funzionale e ricco di sviluppi immaginando una sorta di sindacato degli aspiranti suicidi che si coalizzano per un imponente significativo atto di massa. In realtà in questo viaggio-avventura, pieno di scorribande e di divagazioni turistiche, rivela che il desiderio non era così fortemente radicato nella maggioranza. Molti si ritraggono sul metaforico burrone e semmai qualche scomparsa in corso d’opera convince i più ad adire a più miti propositi. Come giustamente sottolinea Marani nella postfazione nella loro serissima e compassata filosofia i finlandesi sarebbero anche capaci di organizzare un convegno sul tema. Proprio la tradizionale mancanza di umorismo nel mettere in atto l’insano proposito è fonte di ironia dell’autore che commenta le tragicomiche avventura della compagnia di sbandati con levità e con distacco, come se si abbandonasse alla piega casuale della vicenda. Il Gran Tour del suicidio parte dalla Finlandia e passando per la falesia del Capo Nord, attraversando anche la Svizzera, spinge al capolinea dell’Algarve. La compagnia si sgretola e si sfarina. Il proposito del suicidio collettivo diventa sempre più flebile rispetto a impulsi sentimental/sessuali, al risvegliarsi della vita attraverso il cibo e le peripezie che rimandano all’assurdità dell’atto progettato. Si tratta di un disincantato e naturale ritorno alle primarie esigenze della vita, filtrato da un romanzo che è anche la fotografia antropologica di una nazione. Il libro è uscito è in edizione originale nel 1990 e ha goduto di gran successo in Italia, giungendo alla fortunata dodicesima edizione. Ci sembra degna base per un film di successo, con fedele sceneggiatura, che ancora non è stato concepito.

data di pubblicazione:29/03/2019

PETERLOO di Mike Leigh, 2019

PETERLOO di Mike Leigh, 2019

Peterloo è la crasi tra St. Peter’s e Waterloo. Essa indica “la strage di innocenti” che avvenne durante un comizio nell’agosto del 1819, presso St. Peter’s Field a Manchester ad opera della cavalleria inglese, immediatamente dopo la vittoria su Napoleone a Waterloo, allo scopo di soffocare nel sangue la pacifica manifestazione di famiglie di contadini che, pur pagando i tributi al Re, si erano radunati per chiedere al Governo inglese la riforma elettorale, non potendolo fare esprimendo regolarmente il proprio voto.

 

Mike Leigh (Segreti e bugie, Il segreto di Vera Drake e Turner) ci regala un altro dei suoi “affreschi” sui diritti negati ai più deboli, raccontando un episodio sovente riportato nei trafiletti dei libri di storia inglese, in cui persero la vita diciotto persone ed almeno un centinaio rimasero gravemente ferite: un forte atto di repressione sulla libertà di riunione ad opera del governo su donne, bambini e braccianti di Manchester, che rappresentò una delle scintille per la definizione della futura democrazia.

Il regista ci riporta ancora nel passato per parlarci del presente, mettendo di nuovo al centro dei suoi racconti l’uomo nella sua eterna lotta contro l’avidità del potere, la corruzione e la violenza: questa umanità che perde tutto per tentare di vivere una vita migliore, per far valere i propri diritti e che combatte in nome di un ideale che possa condurla verso una vita più giusta. Leigh ci fa capire come le ripercussioni economiche, su un paese appena uscito da un conflitto seppur vittorioso come il caso dell’Inghilterra su Napoleone, siano ugualmente devastanti e come i governi hanno da sempre tentato di risolvere ogni genere di crisi vessando il popolo, come fecero i conservatori del governo britannico nell’ 800.

Peterloo è un film storico che si articola, come spesso avviene nelle pellicole di Leigh, partendo da una lunga fase di preparazione in cui entriamo nell’atmosfera di queste famiglie contadine, inventate ad arte dal regista, ma che verosimilmente ricalcano la vita di quelle reali di allora: persone normali che non sanno come sopravvivere nel quotidiano. Ed è in questo contesto che, con il supporto di attivisti e giornalisti, cominciano a farsi largo le idee di cambiamento.

Le scene del massacro sono esaltate dal montaggio di Jon Gregory (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), con una sequenza di immagini di grande impatto visivo; il lavoro di Jon Gregory è stato paragonato da Leigh come quello di uno chef che assembla gli ingredienti per arrivare ad esaltare il gusto finale del piatto che si sta realizzando. Dick Pope ha invece curato la fotografia, attingendo alla sua lunga esperienza da documentarista in zone di guerra: il risultato è dato da inquadrature di ampio respiro, con masse di persone brulicanti e comizi politici, che ci introducono sino alle fasi finali dello scontro.

Peterloo si sceglie di andarlo a vedere per riflettere su come la storia si ripeta, incessantemente, sotto i nostri occhi e su come da certi errori del passato si possa partire per affrontare meglio il presente.

data di pubblicazione:29/03/2019


Scopri con un click il nostro voto:

PUGILI di Dario Torromeo- Absolutely Free, 2018

PUGILI di Dario Torromeo- Absolutely Free, 2018

Antropologia di uno sport vissuto profondamente dall’autore, giornalista di lungo corso, oggi, dopo il virtuale ritiro di Rino Tommasi (87 anni!) il decano della categoria. La declinazione di uno sport violento è fatta anche di storie umane, divertenti, tragiche e bizzarre, una metafora dell’esistenza. Torromeo ha dedicato 16 libri al pugilato e si orienta come un pioniere in uno sport che appartiene più allo scorso secolo vista la rarefazione dell’attività, legata alla conseguente e progressiva indifferenza del pubblico. Ma chi non ricorda Benvenuti e Mazzinghi, Duilio Loi se non Primo Carnera? L’autore pesca nel mazzo di migliaia di possibile storie, scegliendo invariabilmente quelle che più lo hanno intrigato, all’Italia ed all’estero. Molte nascono dalla tradizione orale, dalla leggenda, da vite vissute, da terribili sfide sul ring. Alternativamente vicende di pugili che hanno toccato la fama e il successo ed altri a cui la vita (e il ring) ha volto le spalle. Ne esce un affresco umanissimo, anche alla portata dei profani perché i medaglioni incastonati nel volume spesso sono carne viva, brandelli sanguinolenti, metaforicamente e non. Pugili finiti anche su un set porno. Sfilano Arcari, Duran, Rosi, Benitez, Camacho e Tyson in una commedia umana che appartiene anche a Sinatra (grande appassionato di boxe) o Bob Dylan che dedicò una canzone a Rubin Hurricane Carter, pugile galeotto. Si dipinge un’umanità variopinta e pittoresca, irriducibile e borderline. Si respira vita e morte perché il pugilato arruola campioni miracolati dalla conquista del titolo mondiale e altri che invece su un pugno letale hanno visto spenta la propria vita. Il libro è un pugno nello stomaco che non vi manda knock out ma non ci lascia indifferenti. C’è chi è salito sul ring poche ore dopo un profondo lutto personale, innamorato di uno sport che è anche considerato “noble art”. La boxe oggi è in crisi e rischia di essere addirittura esclusa dai Giochi Olimpici. Quindi questo testo è anche un tentativo di farla rimanere in vita, perlomeno nella memoria collettiva.

data di pubblicazione:25/03/2019

NEXT FALL (IL PROSSIMO AUTUNNO) di Geoeffry Nauffts, regia di Davide Nebbia

NEXT FALL (IL PROSSIMO AUTUNNO) di Geoeffry Nauffts, regia di Davide Nebbia

(Teatro Trastevere – Roma, 19/24 marzo 2019)

Un incidente costringe Luke in fin di vita su un letto di ospedale e i suoi affetti più cari a riflettere sul senso delle cose. Anche Adam, suo compagno da cinque anni, corre ad assisterlo.

 Quando un testo si coniuga con la compagnia di attori che lo rappresenta, per motivi che non è certo dato di conoscere, allora l’emozione è forte e il messaggio arriva chiaro e senza fastidi. È il caso di Next Fall, una drammaturgia contemporanea nei temi e nell’invenzione dei personaggi, che affronta questioni morali cocenti e attualissime, valide da noi come oltre oceano a New York, dove la pièce è ambientata.

La struttura del dramma alterna scene riprese nella sala d’aspetto di un ospedale ebraico, dove a causa di un incidente è ricoverato Luke, e flash back sulla sua vita recente con il suo compagno Adam. I due si sono conosciuti cinque anni prima dell’incidente, una sera davanti al locale dove lavora Luke. In realtà lui vorrebbe fare l’attore, ma nell’attesa che i provini vadano bene per pagare l’affitto lavora come cameriere. Adam vende candele nel negozio della sua amica Holly, ma vorrebbe fare altro. Luke è molto religioso e questo diventa motivo di litigio e discussione. Si può andare in paradiso anche se si è gay? Quando decidono di andare ad abitare insieme la vita è bella, ma la visita improvvisa del padre di Luke nell’abitazione che i due condividono crea ulteriore scompiglio. Bisogna de-gayzzare l’appartamento perché Butch non sa dell’omosessualità del figlio. La madre invece è più comprensiva del padre. Sarà perché lei, l’eccentrica Arlene, ha sempre preso la vita con più spensieratezza e immaturità. Sarà perché vuole bene al figlio e basta, anche se non sa affrontare la realtà. E poi c’è Brandon, l’amico di una vita al quale Luke è rimasto sempre legato, cattolicissimo anche lui, che va con gli uomini solo per soddisfare un desiderio, ma senza innamorarsi. Non è possibile per un religioso come lui vivere nel peccato come fanno Adam e Luke.

La commedia solleva parecchie questioni, soprattutto legate alla realtà LGBT. È un testo dolce e amaro, divertente e commovente allo stesso tempo. Ricco di ingredienti ma per nulla stucchevole. Sicuramente da non perdere.

data di pubblicazione: 22/03/2019


Il nostro voto:

IL GABBIANO (À MA MÈRE) da Anton Čechov, regia di Giancarlo Sepe

IL GABBIANO (À MA MÈRE) da Anton Čechov, regia di Giancarlo Sepe

(Teatro Quirino – Roma, 19/31 marzo 2019)

Uno dei drammi più famosi dello scrittore russo va in scena in una versione del tutto nuova e rivisitata, arricchita da stupendi brani musicali presi dall’antologia del grande Charles Aznavour. Lo scrittore incompreso Konstantin Treplev, improvvisamente invecchiato, guarda con occhio critico e coinvolto la vicenda che lo aveva portato al suicidio.

 

Si arricchisce di nuovi spunti e nuova interpretazione il celebre dramma di Čechov nella lettura originale di Giancarlo Sepe e Massimo Ranieri. Al personaggio di Kosta è dato di sopravvivere al proprio dramma e di essere testimone di ciò che negli anni della giovinezza lo aveva deluso e spinto a togliersi la vita. Sprofondato nella grande poltrona rossa, unica macchia di colore in una scenografia interamente tinta di nero, vede sfilare davanti a sé gli attori dell’opera. È l’occasione per interrogarli, per rimproverarli, per dialogare con loro, cacciare da loro la verità. Il pianoforte al centro della scena, che porta un numero di ottave di gran lunga maggiore rispetto al consueto, serve proprio a suonarle tutte le note della coscienza. Si crea così l’interferenza tra vita e teatro, rappresentazione e realtà, che porta ad acuire la condizione di infelicità dell’anima tormentata del protagonista. Il canto è malinconico e parla di un tempo passato, di occasioni perdute, di amori delusi, di carezze negate. Parla dell’affetto non corrisposto per Nina e per una madre troppo ingombrante e troppo egoista da accorgersi del dolore del figlio. Massimo Ranieri restituisce tutto con un carico di passione e emozione che solo la sua voce può conoscere. A fargli da controcanto la gestualità ampia e la recitazione caricata all’eccesso di un gruppo di eccellenti professionisti, prima fra tutti Caterina Vertova nel ruolo della madre, Irina Arcàdina. La grande attrice ha poco tempo e poca voglia per stare dietro a suo figlio, aspirante drammaturgo. La messa in scena del suo primo dramma, approntato intorno alle rive silenziose del lago su cui sorge la tenuta estiva della famiglia, si rivela noiosa da venire bruscamente interrotta. Il teatro unisce e divide nello stesso momento madre e figlio. La scintilla che trascina tutti nel vortice mortale della presa di coscienza della propria infelicità e insoddisfazione si accende e brucia tutto, fino a non lasciare più nulla nelle mani di chi aveva già poco.

data di pubblicazione:22/03/2019


Il nostro voto:

DAFNE di Federico Bondi, 2019

DAFNE di Federico Bondi, 2019

Dopo l’improvvisa morte della madre, Dafne, nata con la sindrome di Down, dovrà occuparsi non solo energicamente del padre che lotta contro una forte depressione, ma anche pensare a riorganizzare la sua vita rielaborando il lutto dentro di sé. Di contro troverà fortunatamente un clima di affetto tra i colleghi del supermercato in cui lavora e tra gli stessi clienti, che la circondano d’affetto in maniera assolutamente disinteressata. Nonostante la giovane età, Dafne con il tempo riuscirà a prendere le redini della situazione, gestendo tutto con l’ottimismo che la contraddistingue, mostrandosi capace di superare i momenti tristi e trovare la forza di andare avanti per la sua strada.

 

Federico Bondi è un giovane regista e sceneggiatore italiano che si è fatto già conoscere dalla critica e dal pubblico con il suo primo lungometraggio Mar Nero, più volte premiato nel 2008 al Festival di Locarno. Questo suo secondo lavoro Dafne, che arriva nelle sale nella Giornata Mondiale delle Persone con Sindrome di Down, dopo essere stato vincitore della Sezione Panaroma durante la 69ma Berlinale, è un progetto nato quasi per caso come ha dichiarato lo stesso regista, osservando un giorno per strada un padre anziano e sua figlia con la sindrome di Down che si tenevano per mano. Ripensando a quella scena non esitò a scrivere un soggetto che, dopo l’incontro con la protagonista Carolina Raspanti, diventò una vera e propria sceneggiatura. Il film sin da subito colpisce proprio per l’interpretazione della sua protagonista perché si percepisce come la giovane porti in scena sé stessa, così com’è realmente nella vita: “non è stata Carolina ad entrare nel film, è stato il film a piegarsi a lei”. La Raspanti grazie ad un modo nell’affrontare il quotidiano ricco di verve, coraggio e determinazione, riesce perfettamente a trasmettere quanto sia importante guardare avanti perché, comunque sia, la vita è bella per quello che è e che, qualsiasi sia la nostra condizione genetica, non è una malattia che possa impedirci di viverla pienamente.

Dunque una storia semplice, a metà strada tra commedia e dramma, che ci diverte e commuove al tempo stesso; una narrazione che ci fa percepire quanto “diversi” siano tutte le persone incapaci di percepire e di godere “del qui ed ora”.

Il padre di Dafne, che per tre giorni dalla nascita non ebbe il coraggio di guardare la figlia nella culla, osserva la sua intraprendenza quasi con ammirato stupore perché è proprio lei a dargli la forza necessaria per sopravvivere al dolore per la perdita della moglie: ciò che conta è restare uniti e affrontare insieme con un sorriso quello che verrà.

Un plauso va a questo giovane regista che con la sua spontaneità è riuscito a creare un piccolo gioiello cinematografico e a dare un messaggio forte al pubblico che, dopo la proiezione ufficiale durante l’ultima Berlinale, lo ha ringraziato con un lungo e caloroso applauso, lo stesso che certamente tributerà il pubblico in sala.

data di pubblicazione:21/03/2019


Scopri con un click il nostro voto:

REGINA MADRE di Manlio Santanelli, regia di Carlo Cerciello

REGINA MADRE di Manlio Santanelli, regia di Carlo Cerciello

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 7/17 marzo, poi in tournèe in Italia)

Una commedia inizialmente amabile poi infinitamente nera. Con ruoli che si ribaltano in un enigmatico gioco crudele gioco di famiglia.

 

Ha 35 anni di vita questa energica commedia drammatica, un ossimoro che riassume le sue varie tinte e corde. Grande ammirazione per la perfetta empatia degli interpreti. Nella prima parte prevale la madre ipocondriaca sul figlio stizzito ma in fondo remissivo. Ma poi i ruoli si ribaltano e cambiano rapporti di forza, di equilibrio e persino le voci. Quella stridula della madre riacquista vitalità e si svecchia del simulacro iniziale. Al divertente succede lo sgomento e la decifrazione di un perfetto gioco di ruolo intessuto grazie all’arma della parola. Scenografia spoglia con una serie infinita di bicchieri al piano di sotto, un bisogno di acqua, una simbolica soddisfazione della sete e congrua spazialità a disposizione. I due familiari duellano e più che il fioretto usano la spada mostrando la crudeltà degli intrecci. Erta piaciuta a Ionesco questa rappresentazione per i caratteri un po’ misteriosi e ambigui dell’assunto. In effetti la trama è irraccontabile e la sua interpretazione è totalmente affidata alla fantasia e allo spirito speculativo e indagatore dello spettatore. Violenza e schizofrenia, di un piccolo gruppo di famiglia in un interno. Si scoprirà quanto sia solo un pretesto la comparsa del figlio che va a coabitare con la madre per aiutarla a convivere con una malattia incurabile. C’è molto di più e di non detto dietro questo meritevole ausilio. Nel finale, quando si sciolgono in un abbraccio, i personaggi ma anche gli attori hanno praticamente la stessa età. Miracoli della mimesi, della tecnica e della parola che è la grande manovratrice di uno spettacolo che ha riscosso calorosi consensi. Imma Villa, già protagonista di Scannasurice, è indimenticabile in un ruolo in cui mostra grande talento.

data di pubblicazione:18/03/2019


Il nostro voto: