MINNAZZA – MITI E PAGINE DI SICILIA con Leo Gullotta – Compagnia CASTALIA, drammaturgia e regia di Fabio Grossi

MINNAZZA – MITI E PAGINE DI SICILIA con Leo Gullotta – Compagnia CASTALIA, drammaturgia e regia di Fabio Grossi

(Teatro Arcobaleno – Roma, 26 – 27 e 28 aprile 2019)

Nel dialetto siciliano la “minnazza” è il grande seno che dà nutrimento e protezione, come la Grande Madre di Sicilia, che soccorre ma che sa anche punire ed essere spietata. Leo Gullotta, catanese doc, ci parla di sé e della sua terra così ricca di cultura e di contraddizioni da secoli oggetto di conquista e di sfruttamento, ma dove ognuno si sente felice per come è, senza aspirare ad alcun miglioramento perché, usando una citazione del Principe di Salina, “i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria”.

  

In una carrellata di immagini e di suoni, un bravissimo Leo Gullotta ci intrattiene sulla sua terrazza virtuale per introdurci in quel caos che è la Sicilia dove ancora oggi, dopo secoli di dominazioni, si respira un’aria di generale intorpidimento ma anche di fervore culturale. Un piccolo itinerario tra miti e leggende dove la storia di quest’isola baciata dal sole ci fa capire come sofferenza e rassegnazione cedono sovente il passo all’ottimismo e alla voglia di riscatto sociale. Varie le citazioni letterarie che si susseguono su uno sfondo dai colori abbaglianti dove con prepotenza si inseriscono coloro che, osando, hanno sfidato la società per affermare i propri principi di libertà e di giustizia. Un’antologia di personaggi quali Tomasi di Lampedusa, Luigi Pirandello, Luigi Capuana, Andrea Camilleri, tanto per citarne alcuni, che affiancano i nomi di coloro che, vittime di mafia, hanno lasciato un segno nella storia come i giudici Falcone e Borsellino o il giornalista Pippo Fava. Leo Gullotta dà nuovamente prova di essere un grande attore e riesce a cambiare continuamente registro sulla scena facendoci assaporare momenti di puro divertimento alternati a momenti di pesante sconforto. Attimi di riflessione che riguardano una Sicilia di ieri, che a stento riesce ad inserirsi nel contesto di un’Italia finalmente unificata, e una di oggi, al centro di una rivoluzione sociale causata dalla migrazione di migliaia di profughi prevalentemente africani. Le immagini che si alternano sulla scena, attraverso alcuni video realizzati da Mimmo Verdesca con l’accompagnamento musicale del maestro Germano Mazzocchetti, ci presentano volti e situazioni inediti ai più e ci rivelano una realtà forse troppo dura da digerire. Leo Gullotta si conferma artista di grande ingegno e sensibilità, con una naturalezza che ci prende e sorprende ad ogni parola, usando espressioni che arrivano dirette al cuore senza bisogno di traduzione o interpretazione grazie anche ad una lingua di Sicilia aspra e tenera allo stesso tempo, che ci affascina e ci conquista per lasciarci in bocca il sapore del buono.

data di pubblicazione:27/04/2019


Il nostro voto:

CAFARNAO – CAOS E MIRACOLI di Nadine Labaki, 2019

CAFARNAO – CAOS E MIRACOLI di Nadine Labaki, 2019

Il dodicenne Zain vive con la numerosa famiglia in una baraccopoli di Beirut, costretto a svolgere lavori pesanti per guadagnarsi da vivere. Dopo che una sorella viene costretta dai genitori a sposarsi a soli 11 anni, il bambino fugge da casa per affrontare una lotta ancora più dura in un contesto spietato dove riesce a barcamenarsi grazie all’aiuto di una immigrante irregolare etiope. Arrestato e condannato per aver pugnalato l’uomo che ha causato, sposandola, la morte della sorella, Zain cita in giudizio i genitori per averlo messo al mondo, consapevoli di non potergli garantire né protezione né tantomeno affetto.

Al momento di ricevere il Premio della Giuria a Cannes nel 2018, la regista e sceneggiatrice libanese Nadine Labaki afferma qualcosa di inconfutabile: il cinema non è solo un mezzo per far divertire il pubblico ma spesso serve a farci riflettere su una realtà che non conosciamo o, peggio, che inconsciamente ignoriamo.

Il protagonista Zain (il giovanissimo attore siriano Zain Al Rafeea), davanti al giudice che lo interroga, giustifica la propria colpa e afferma con risolutezza che nella sua vita ha sempre cercato di diventare un uomo onesto e rispettabile, ma Dio e il contesto di degrado in cui vive non glielo hanno mai permesso. Una denuncia, la sua, verso i genitori che lui stesso porta in tribunale per averlo fatto nascere, incapaci persino di dargli una identità sociale e di occuparsi di lui e dei suoi numerosi fratelli.

Un film fragile e potente nello stesso tempo, un pugno sullo stomaco per tutti coloro che sottovalutano i problemi di molti bambini, emarginati e sfruttati da una società cieca, perché non vuole vedere il loro disagio, e sorda, perché non vuole ascoltare la loro richiesta di aiuto. La regista si è soffermata su alcuni aspetti della vita reale del suo Paese, che vengono fuori dai frequenti primi piani dei protagonisti e da dove, senza enfatizzazione e retorica, emerge una estrema sensibilità che non può che colpire e conquistare il pubblico. Un tema certamente attuale che non riguarda solo la realtà libanese ma di tutti quei paesi da dove la gente scappa per trovare un futuro migliore, un fuggire dalla violenza e dallo sfruttamento per ricadere spesso in un contesto simile dove non è assicurato il tanto agognato benessere.

Veramente toccante la recitazione dei vari personaggi coinvolti nella storia come quella di Yordanos Shiferaw nella parte dell’etiope Rahil e soprattutto quella del vero protagonista Zain, il cui volto riesce veramente ad esprimere la fierezza e la sofferenza di un bambino costretto dalle circostanze a diventare troppo presto un vero uomo, responsabile delle proprie scelte. Ambientazione molto accurata di un contesto suburbano, dove la gente è costretta a vivere in alloggi di fortuna tra sporcizia e malaffare, senza alcuna possibilità di riscatto per assicurarsi un’esistenza umana.

Dopo L’insulto del regista Ziad Doueiri del 2018, anche il libanese Cafarnao ha ottenuto quest’anno la nomination come miglior film straniero agli Oscar confermando a Nadine Labaki, al suo terzo film come regista dopo Caramel e E ora dove andiamo?, un meritato successo tanto da essere nominata Presidente della Giuria della Sezione Un Certain Reguard alla prossima edizione del Festival di Cannes 2019.

data di pubblicazione: 25/04/2019


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RIEN NE VA PLUS di Antonio Manzini – Sellerio Editore, 2019

RIEN NE VA PLUS di Antonio Manzini – Sellerio Editore, 2019

Tutt’altro che distolto dal successo, anche televisivo, Antonio Manzini dal proprio eremo in Tuscia, continua a dispensare gialli all’altezza. Ma la definizione di genere ormai è limitativa per questo scrittore la cui più fortunata creazione, quel Rocco Schiavone che, filmicamente, sembra fondersi perfettamente con Marco Giallini, sembra evadere dal clichè del personaggio eternamente vincente per approdare alla perfetta sintesi tra vita di tutti i giorni e modello alternativo da adottare in caso di investigazioni.

La storia che si dipana attorno al Casino di Saint Vincent è estremamente complicata da seguire anche per un lettore attento, visto il gran numero di protagonisti, di omicidi, di vicende che si intrecciano ma la godibilità nel seguirne i flussi è ormai squisitamente letteraria. La popolarità acquisita con le prove precedenti permette a Manzini di osare anche linguisticamente e di dedicarsi all’abile e ironico tratteggio anche di figure minori, come i sottoposti di Schiavone, incompresi del suo mondo ma pronti a saccheggiarne il cassetto per assaggiare, forse per la prima volta, uno spinello. Trattasi di un mondo abbondantemente connesso alla figura femminile. Rocco, fuori di ogni metafora, è anche uno spregiudicato sciupafemmine, e, pur vivendo nel ricordo adorante della moglie, non trascura, secondo inveterate abitudini maschili, di goderne i piaceri, sia pure per una sola notte. La scena come al solito si svolge tra Roma e Aosta.

Il fascino del giallo valdostano ha una sua unicità che lo distingue dalle altre regionalità diffuse in editoria. Tutto ruota attorno ai soldi in un crescendo di colpi di scena che attizzano curiosità verso il finale. Ma il libro ha una sua validità che prescinde dalla verosimiglianza dello sviluppo. Il fascino ferino del personaggio-Rocco è un appeal che sovrasta i cerchi concentrici della storia, un piccolo classico anti-istituzionale che trascina e convince anche quando le sue maniere sono poco edificanti e il suo stile di vice-questore borderline rispetto alla pretta legalità.

data di pubblicazione: 23/4/2019

LA TEORIA DEL ROSPO da un’idea di Monica Maffei e Emiliano De Magistris

LA TEORIA DEL ROSPO da un’idea di Monica Maffei e Emiliano De Magistris

(Teatro Trastevere – Roma, 16/20 aprile 2019)

Capita che la vita si stalli in situazioni di apparente sicurezza e un appartamento può diventare la scusa per non scegliere e diventare finalmente grandi.

 Il principio della rana bollita del filosofo statunitense Noam Chomsky, secondo il quale un individuo può rimane per spirito di adattamento e abitudine in situazioni scomode e dannose senza mai reagire se non quando ormai è troppo tardi – come una rana che perde la capacità di saltare lasciata nuotare in una pentola sotto la quale si è acceso un bel fuoco che lentamente manda in ebollizione l’acqua – è la metafora, chiara nel titolo, dalla quale prende spunto questa divertente pièce teatrale.

Tre amici intorno alla trentina condividono da dieci anni lo stesso appartamento e per certi aspetti la stessa insoddisfazione e inabilità alla vita. Mauro è un intellettuale che non è riuscito a concludere il suo romanzo, fermo a pagina 27 da anni; Andrea è confuso e indeciso, di lavori ne ha provati molti ma senza raggiungere mai un soddisfacente obiettivo; Carlo è un autista di autobus nel trasporto pubblico, deluso dall’amore in perenne ricerca di donne. Caos, polvere e disordine abitano il loro alloggio nel pieno rispetto delle regole di un’abitazione condivisa. Anche la tavola è perennemente apparecchiata da un mucchio di cose e foto sbiadite sul muro raccontano un tempo che è stato e che non tornerà più.

L’appartamento è il contenitore claustrofobico e soffocante dove i tre amici sguazzano tiepidi e  inconsapevoli, fino a quando la fiamma che porterà a bollire l’acqua non viene accesa dal padrone di casa che improvvisamente decide di vendere tutto e di mandarli via. Un mese di tempo per traslocare altrove. Inizia una ricerca ansiosa su internet delle varie possibilità abitative nella speranza di trovarne una che abbia le stesse caratteristiche di quella che si accingono a lasciare, ma nessuna di queste sembra soddisfare le aspettative. In realtà manca la voglia di cambiare e di crescere e così si finisce per rimanere dove si è senza compiere atti catartici di coraggio e di riscatto.

La scrittura drammaturgica soffre nel linguaggio e nella struttura dell’imitazione di tanti numerosi sketch, anche divertenti, che ci appaiono in video quotidianamente sui social. Tuttavia il gruppo di attori dimostra di avere un’ottima complicità e buon affiatamento sulla scena, merito forse anche di una reale amicizia tra loro. Il risultato nella sua leggerezza è divertente.

data di pubblicazione: 19/04/2019


Il nostro voto:

IL TALENTO DI MR. RIPLEY di Anthony Minghella, 1999

IL TALENTO DI MR. RIPLEY di Anthony Minghella, 1999

Tom Ripley è un giovane fascinoso americano di modesta estrazione sociale che sa suonare molto bene il piano e che riesce a conquistarsi la simpatia di tutti. Un giorno, dopo essere stato ingaggiato come pianista ad una festa di gente molto facoltosa, viene contattato da un ricco armatore che gli propone, dietro lauto compenso, di andare alla ricerca del figlio Dickie, che vive da un po’ di tempo in Italia, e convincerlo a tornare negli Stati Uniti. Tom accetta e riesce a contattare il giovane a Ischia dove sta passando un incantevole soggiorno insieme alla fidanzata Marge. Affascinato da questo mondo fatto di lusso e di divertimenti, Tom riesce a conquistarsi l’amicizia di Dickie del quale è anche segretamente attratto. Dickie, infastidito dalla presenza costante di Tom che nel frattempo si è mostrato anche un po’ troppo invadente nel rapporto tra lui e la sua ragazza, cerca di troncare questa frequentazione: purtroppo durante una gita in barca a Sanremo, in seguito ad una violenta discussione, verrà ucciso da Tom. Questi, abituatosi oramai a quella vita così agiata, decide di assumere l’identità dell’amico morto. Di lì a poco sarà proprio Marge a nutrire i primi sospetti ed anche la polizia inizia a svolgere le proprie indagini.

Il talento di Mr. Ripley ebbe un discerto successo ed ottenne diverse nomination, soprattutto grazie ai due protagonisti: Matt Damon, nella parte di Tom, che riesce a riscattare il proprio complesso di inferiorità sociale attraverso un’attrazione omoerotica verso Dickie, e Jude Law che, con la sua naturale bellezza, veste la parte del rampollo ricco, bello e viziato, superficiale anche nei rapporti affettivi a cominciare da quello verso la fidanzata Marge, interpretata da una giovanissima Gwynet Paltrow. La storia, tratta dal romanzo thriller di Patricia Highsmith, fu portata per la prima volta sul grande schermo da René Clément nel 1960 con il titolo Delitto in pieno sole e vantava tra gli interpreti Alain Delon.

Il film di Anthony Minghella, girato prevalentemente tra Napoli, Ischia e la Penisola sorrentina, ci suggerisce una ricetta tipica del luogo, di facile realizzazione: maccheroni cacio e uova.

INGREDIENTI (per quattro persone): 350 grammi di maccheroni (rigatoni, penne, mezzemaniche), 4 uova, 50 grammi di pecorino romano, 100 grammi di parmigiano, 50 grammi di capocollo di maiale, 1 cipolla, olio extravergine di oliva, sale e pepe q.b.

PROCEDIMENTO: Tagliare il capocollo a cubetti e farlo soffriggere in olio insieme alla cipolla tritata. Appena imbiondito aggiungere un mestolo d’acqua e spegnere il fuoco. Sbattere le uova e aggiungere i due formaggi grattugiati fino ad ottenere una crema. Lessare la pasta al dente e mantecarla a fuoco moderato insieme al capocollo. Versare le crema di uova e formaggio e mescolare bene fino ad ottenere una stracciatella. Servire ben caldo con pepe a piacere.

PASSAGGIO IN INDIA di David Lean, 1984

PASSAGGIO IN INDIA di David Lean, 1984

Nei primi anni del Novecento la signora Moore (Peggy Ashcroft), un’anziana donna inglese, in compagnia della giovane Adela (Judy Davis), fidanzata del figlio, intraprende un viaggio in India, a quel tempo ancora sotto il dominio della corona britannica. Appena arrivate fanno amicizia con il dottor Aziz (Victor Banerjee), un giovane medico indiano vedovo con due figli, che prova grande ammirazione per la civiltà inglese. Orgoglioso di far conoscere gli aspetti più interessanti della cultura indiana, propone alle due donne una gita per visitare le grotte di Marabar, famose per essere completamente al buio e per produrre un’eco impressionante. Durante la visita, alla quale non partecipa la signora Moore, Adela si allontana da sola e ad un certo punto sembra essersi persa, tra lo sconforto di tutti e soprattutto di Aziz che decide di andarla a cercare. La giovane donna verrà ritrovata all’esterno delle grotte in uno stato confusionale e con i vestiti in disordine, lasciando chiaramente ad intendere di essere stata molestata dal dottore che, invano, cercherà di dimostrare la sua completa innocenza. Arrestato e processato Aziz alla fine verrà rilasciato in quanto Adela ritratterà la sua accusa, con la conseguente reazione della popolazione locale oramai pronta alla rivolta contro la supremazia inglese ed anche dei residenti britannici che, sdegnati dal comportamento contradditorio della ragazza, decideranno di emarginarla.

Il film diretto da David Lean, regista, attore, sceneggiatore e produttore inglese morto nel 1991, fu tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore Edward Morgan Forster ed ebbe molto successo sia di critica che di pubblico ottenendo diversi premi internazionali tra cui due Oscar (miglior attrice non protagonista a Peggy Ashcroft e miglior colonna sonora a Maurice Jarre), tre Golden Globe e un premio BAFTA.

Questa storia, che ci introduce nella millenaria cultura indiana, ci suggerisce una ricetta molto semplice e di effetto tipica della regione orientale del paese: spezzatino di pollo alla bengalese.

INGREDIENTI: 600 grammi di petto di pollo a spezzatino, 1 arancia, 1 limone, 200 grammi di ananas, 2 mele, 50 grammi di burro, farina, sale e pepe q.b.

PROCEDIMENTO: Infarinare lo spezzatino di pollo e farlo leggermente rosolare nel burro fuso a fiamma moderata. Aggiungere il succo di una arancia e di un limone e lasciare cuocere per una ventina di minuti. Aggiungere quindi i pezzettini di ananas e di mela e lasciare ancora cuocere per pochi minuti, dopo aver aggiunto un poco di sale e pepe. Il piatto va servito tiepido accompagnato a piacere da crostini di pane.

NIDO DI VESPE di Simona Orlando, regia di Daniele Miglio

NIDO DI VESPE di Simona Orlando, regia di Daniele Miglio

(Teatro Argentina – Roma, 15 aprile 2019)

A 75 anni dal rastrellamento del Quadraro, il Teatro di Roma e il Comitato Q44 rendono omaggio alla memoria dei 947 uomini deportati e alle loro famiglie. Dopo dieci anni di repliche il testo arriva a buon diritto sul palcoscenico dell’Argentina.

 

L’incedere pesante e ritmato dei passi dei soldati tedeschi agli ordini del generale Kappler interrompe di violenza il sonno della borgata romana a pochi minuti dall’alba. È il 17 aprile 1944. Il quartiere, soprannominato dai nazisti covo di vespe per via dei cunicoli e delle gallerie presenti dove si pensava si nascondessero dissidenti, nemici del regime e partigiani, veniva preso d’assalto. L’azione militare, a cui viene dato il nome di Operazione Balena, si consuma con una brutalità improvvisa e fulminea che non lascia neanche il tempo di ragionare. Sul foglio di avviso che viene consegnato alle famiglie è scritto chiaramente di non spendere più di dieci minuti per prepararsi a partire. A nessuno è concesso di uscire in strada, pena la morte. Nel giro di pochissime ore un gruppo di 947 uomini, di età compresa tra i 16 e i 55 anni, si ritrova a lasciare i propri affetti e a essere prigioniero nel teatro 10 di Cinecittà. Da lì la deportazione nel campo di concentramento di Fossoli, vicino Modena, e poi la dispersione in Germania dove, ingannati a firmare un foglio in cui si dichiaravano lavoratori volontari, vengono venduti a un gruppo di magnati dell’industria tedesca. Circa la metà di loro non fecero più ritorno a casa. Coloro che invece riuscirono a sopravvivere e a rientrare a Roma, raccontarono la loro storia a chi li stava aspettando. Ma amici e parenti non potevano restare gli unici ad ascoltare i loro racconti e così nasce l’idea di costruire un’unica memoria. Lo spettacolo è un prodotto del tentativo di mantenere vivo il ricordo di questi avvenimenti, che hanno tutto il diritto di essere inseriti nella storia della Resistenza nazionale. La struttura drammaturgica, arricchita dalle note del pianoforte suonato dal vivo da Massimo Gervasi, alterna la recitazione di otto attori alla proiezione delle testimonianze dei sopravvissuti. Le persone in video diventano i personaggi sulla scena. È in questo modo che possiamo conoscere le storie di Sisto, Mario, Giorgio e di tutti i rastrellati. Il risultato è coinvolgente e commuove. Ci vuole forza nel ricordare perché farlo spaventa, ma la memoria è necessaria ed è un obbligo che non si può disattendere.

data di pubblicazione:17/04/2019


Il nostro voto:

IL PADRINO DELL’ANTIMAFIA di Attilio Bolzoni- Zolfo editore, 2019

IL PADRINO DELL’ANTIMAFIA di Attilio Bolzoni- Zolfo editore, 2019

Il giornalismo d’inchiesta è nelle corde del giornalista di Repubblica che, partito dalla Sicilia, ha raggiunto Roma per assistere allo scempio capitale. Dunque è quasi un ritorno a casa il focus professionale ma anche personale (è una storia anche di pedinamenti e di spionaggio) che circoscrive la parabola di Calogero Antonio Montante, mito dell’antimafia dell’isola, oscurato da una serie di reati che più che all’antimafia lo collocano in piena attività di servizio per la mafia. La finzione del politicamente corretto si riverbera in questa carriera all’ombra dei poteri forti, del riconoscimento pubblico di un padrinato illegale e/o criminale. Si documenta una storia molto siciliana, fatta di intrichi, di consorterie, di protezioni, all’ombra di uno Stato che fa della tua reputazione (falsa) un simbolo. Il reticolo era così stretto che Montante poteva vantarsi di tenere in pugno l’allora Governatore dell’isola Crocetta, detenendo un filmato sulle prodezze sessuali del politico, una bandiera anch’essa presto ammainata. La Sicilia è anche questo: contraddizioni, schizofrenia, ricatti nell’anomalia generale di usi e costumi regionali, Assemblea Regionale compresa, con i suoi privilegi e i suoi bizantinismi. Bolzoni documenta il tradimento di Montante nell’indifferenza del potere romano e di altri simboli dell’antimafia, pronti a solidarizzare con lui nel momento cruciale dell’invio dei primi avvisi di garanzia. Un potere pronto a inabissarsi pur di conservare un minimo di credibilità. La verità è che a fronte di migliaia di volontari in assoluta buonafede c’è chi ha costruito carriere, vendendo slogan e retorica, annacquando la motivazione originaria del contrasto alle mafie, scaldando poltrone, scalando incarichi e prebende, guadagnando riconoscimenti pubblici, premi compresi. Dilettanti impudicamente sovrastati dai professionisti della protesta a pagamento. Montante era la suprema copertura di un sistema marcio e corrotto. Dunque la Sicilia è la metafora del sistema-Paese e di schizofrenie non superate, nonostante un reticolo legislativo che sembrerebbe a prova di corruzione, illustrando il consueto divario tra teoria e pratica. Nella ricostruzione dell’escalation di Montante c’è un vistoso pezzo di storia d’Italia.

data di pubblicazione:16/04/2019

 

 

MUHAMMAD ALI’ di Pino Carbone e Francesco Di Leva, regia di Pino Carbone

MUHAMMAD ALI’ di Pino Carbone e Francesco Di Leva, regia di Pino Carbone

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 4/18 aprile 2019)

Un mito che ritorna. Condensazione di stereotipi funzionali alla descrizione del personaggio: lotta al razzismo, rifiuto della guerra, egocentrismo. Un’ora per ricostruire chi odia l’originario nome di Cassius Clay.

 

Cui prodest la riesumazione del mito? Non si può dire che galleggi nella più pretta attualità il medaglione su Muhammad Alì, prodotto dall’Ente Teatro Cronaca e Vesuvio Teatro. Un’ora smilza che è piaciuta alla spettatrice, anch’essa napoletana, Iaia Forte. Vorrebbe essere spettacolo di pancia, di un corpo esibito (prima in tenuta sportiva, poi in elegante nero, quindi di nuovo a nudo) perché l’attore protagonista one man show ovviamente si smarca dal personaggio, bianco anziché nero, medio anziché massimo, con trenta chili in meno almeno sulla bilancia rispetto al protagonista. Però le luci soffuse minimizzano la differenza e la bravura indiscutibile dell’attore, che spesso interpella il pubblico cavandone apprezzabili risultati, fa il resto. Per uno spettacolo così essenziale la scenografia non risparmia sugli oggetti, quelli cari al pugile in una sorta di testamento spirituale che vola verso il cielo e che ricorda soprattutto il senso di esclusione dei “black” all’altezza cronologico del boom di Cassius Clay, la vittoria olimpica ai Giochi di Roma 1960, appena diciottenne. Il mito del più grande si ricolora con una grande autostima e un’indomita volontà di affermazione. Tanto da ergersi a una sorta di riconsacrazione del pugilato tout court, al di là degli specifici meriti del suo principale protagonista. Di Leva è circondato da una serie di assistenti che servono come portaoggetti e suggeritori, un po’ come nel teatro storico che fu, stampelle di un monologo filante. I pugni di Alì come la metafora del riscatto dell’umanità rispetto a una vita immaginata perdente. Lo spettacolo parla a chi non s’intende di box con il linguaggio della vita di tutti i giorni e senza alcuna pretesa didattica, semmai riassuntiva, ma non liquidatoria. Come se il dossier Alì fosse ancora aperto.

data di pubblicazione:15/04/2019


Il nostro voto:

NOI di Jordan Peele, 2019

NOI di Jordan Peele, 2019

La famiglia Wilson (genitori e due figli) appartenente alla borghesia afro-americana torna nella casa d’infanzia nella California del Nord, auspicando di trascorrervi una lieta vacanza estiva. Adelaide Wilson, però, ha un passato difficile alle spalle e un trauma irrisolto, legato proprio a un episodio accaduto nel Luna Park di Santa Cruz. La donna “sente” che qualcosa di terribile sta per accadere e la sua ossessione trova l’incredibile e angosciante risposta al suo ritorno da una intensa giornata al mare…

           

Su Noi, la critica americana si è sbizzarrita nel leggervi significati ben oltre una semplice fruizione di un film di genere. Tale stampa “entusiasta” ha ritenuto la seconda prova di Jordan Peele (New York 1979) di non facile classificazione e migliore del già acclamato Scappa-Get Out. Come già per il suo primo film, infatti, solo apparentemente si è parlato di un horror tout court, quindi pellicola di genere, ma, in realtà, intendendo anche altro. Se Get Out, premiato con gli Oscar per la migliore sceneggiatura originale, era stato definito un “thriller a sfondo politico e anti-razziale”, Noi, a parte la maggiore adesione all’horror nella sua migliore accezione, se vogliamo, è stato letto come horror contaminato con la psicanalisi (il tema del doppio malefico). Atteso alla fatidica seconda prova, Peele non delude e conferma tutto il suo fantasioso talento regalandoci una storia inquietante, curiosa e originale (una mamma che cerca di mettere in salvo la propria famiglia in un Paese invaso da “doppelganger” assetati di sangue umano…) in cui, come si dice banalmente, c’è tanta roba! (troppa?) Tutti gli stilemi del genere horror sono rispettati appieno: la suspence, il commento musicale in crescendo (inclusa una strepitosa Good Vibrations dei Beach Boys), il brivido, lo splatter, in un perfetto montaggio che amplifica al massimo gli intenti della sceneggiatura, disseminata di continui indizi (per esempio, il modo di parlare delle due donne che cambia di continuo…) che poi conducono alla sorprendente rivelazione finale, che, ovviamente si lascia agli spettatori. Forse alcuni dei riferimenti alla realtà statunitense possono sfuggire a noi europei (per esempio, l’evento Hands Across America, citato nei titoli di testa, iniziativa benefica del 1986 dove celebrità come Michael Jackson, Michael J.Fox e Ronald Reagan si tenevano per mano), certo il tema del razzismo, più evidente in Get Out, qui appare più sfumato a vantaggio delle differenze sociali ed economiche e dell’American Dream, ma il tema del doppio, la domanda su chi realmente noi siamo, su chi abbiamo vicino, la paura del diverso, sono i dubbi e le inquietudini che il regista sollecita di continuo e volontariamente lascia senza risposte. Va riconosciuto dunque che pur non trattandosi del capolavoro di cui parla una certa critica, siamo di fronte a un film horror assai ben fatto, un horror che stando al passo con i tempi, rivaluta il genere e pone alcuni quesiti legittimi sui destini dell’umanità. Fra gli spaventati e credibili attori, spiccano la brava Lupita Nyong’o (Adelaide Wilson), già premiata con l’Oscar per 12 Anni Schiavo e la “cattiva” Elisabeth Moss, entrambe nel doppio ruolo. Suggerimenti finali: per gli amanti del genere certamente da vedere, per tutti gli altri con cautela.

data di pubblicazione:14/04/2019


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