AMERICAN ANIMALS di Bart Layton, 2019

AMERICAN ANIMALS di Bart Layton, 2019

Un gruppetto di studenti benestanti, stanchi ed annoiati della loro vita piatta e banale, cercano di uscire dalla pesantezza della routine e fare qualche cosa di eccitante. Pianificano un furto che più folle non si può: rubare un raro libro antico custodito nella biblioteca della loro Università nel Kentucky. Però … nulla va come previsto.

 

Layton è un giovane cineasta britannico, conosciuto come valente documentarista ed autore di docufiction. Questa sua ultima opera, di cui ha anche scritto la sceneggiatura, è stata già presentata e premiata al Sundance Festival, ed è interamente ispirata ad una storia vera. L’autore ci racconta i fatti connessi con il furto con una capacità evocativa così fuori dal comune che riesce a tenerci legati alla nostra poltrona di spettatori dall’inizio alla fine, facendoci totalmente immedesimare con i personaggi e con il loro progetto. La vicenda è tutta narrata al passato e la narrazione unisce e fonde abilmente in un ottimo amalgama realtà e finzione, vale a dire: ricerca dei fatti e rappresentazione dei fatti stessi. Nel film infatti, pur prevalendo la fiction, i veri protagonisti del colpo sono intervistati e raccontano davanti alla cinepresa lo svolgimento degli eventi reali di ieri, e, contemporaneamente, con costanti cambi temporali, la scena si sposta sulla rappresentazione diretta dell’azione e di quegli stessi eventi con gli attori al loro posto. L’effetto filmico che ne risulta non è solo credibile ed equilibrato ma è anche rimarchevole e godibile grazie ad un montaggio accelerato perfetto, senza alcuna cesura o tempi morti, e ad un ritmo narrativo sempre sostenuto ed incalzante, accompagnato da una musica rock di fondo che scandisce il succedersi dei fatti.

Oltre alla narrazione del furto ed alla satira graffiante di una certa America, quel che veramente sembra interessare all’autore è capire “il perché” degli avvenimenti raccontati. Perché mai dei ragazzi privi di veri problemi abbiano prima potuto pensare e poi addirittura potuto decidere di mettere in moto un tale progetto criminoso, perché mai abbiano voluto provocare il Destino. Forse, perché convinti di dovere avere una vita interessante, e, in assenza, di potersene creare una.

Comunque sia, il film mantiene tutta la struttura degli Heist Movies classici e dei migliori film del genere che lo hanno preceduto, anzi l’autore si diverte a citarli esplicitamente e ad ammiccare a Tarantino, facendo riferimento, non ultimo, anche a Rashomon, il vero ed unico modello di un racconto di testimonianze contraddittorie a seconda di chi narra la “verità” della storia. Apprezzabile infine la capacità di Layton nel dirigere i suoi giovani attori che infatti, sotto la sua guida, sono tutti molto credibili nel rendere evidenti i passaggi emotivi e psicologici dei vari personaggi che passano dalla noia iniziale, all’euforia della fase di pianificazione del furto, al panico durante la fase esecutiva, al senso di colpa e disillusione finale. Da seguire in particolare i talentuosi astri nascenti Evan Peters e Barry Keoghan.

American Animals, pur non sembrandoci all’altezza delle aspettative generate dall’entusiastica accoglienza ottenuta in America, va comunque segnalato perché è pur sempre un piccolo gioiello che rinnova il genere, un buon melange fra film comico e heist movie, una pellicola da vedere e da godersi, convinti che il buon cinema lo si trova sempre più spesso fra i piccoli film.

data di pubblicazione:06/06/2019


Scopri con un click il nostro voto:

IL TRADITORE di Marco Bellocchio, 2019

IL TRADITORE di Marco Bellocchio, 2019

Gli anni della militanza di Tommaso Buscetta all’interno di Cosa Nostra, la sua cattura in Brasile, l’estradizione in Italia, l’incontro con il giudice Falcone: tappe di un percorso di vita di colui che non si definì mai un pentito ma solo un collaboratore di giustizia. Un vero uomo d’onore che, sentendosi tradito negli ideali in cui aveva sempre creduto e per i quali aveva lottato sin dall’età adolescenziale, decide di rivelare i segreti di mafia che portarono negli anni ottanta a destabilizzare la cupola dei Corleonesi, con a capo Totò Riina, che in pochi anni era riuscita a far diventare Palermo capitale mondiale del traffico di eroina.

 

Dopo Buongiorno, notte del 2003, in cui si narrava del rapimento, della detenzione e dell’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, Marco Bellocchio torna a parlarci con questo nuovo lavoro di fatti di cronaca senza però farne un mero resoconto. Il regista, sempre ben calato nel suo stile visionario e a volte surreale di raccontare una storia, ne Il Traditore va oltre i fatti per entrare nell’intimo dei personaggi e mostrarne il lato più umano, con le sue contraddizioni e depravazioni. L’immagine che ne viene fuori di Tommaso Buscetta, alias don Masino, è quella di “un uomo d’onore” come usava definirsi il mafioso di una volta che, anche nelle azioni più efferate, onorava sempre quei codici autentici di rispetto dei valori umani secondo gli aberranti codici di Cosa Nostra. Bellocchio spiega bene, con le stesse parole del protagonista superbamente interpretato da Pierfrancesco Favino, come Buscetta non si possa mai definire un traditore per aver rinnegato e accusato i suoi boss, semmai al contrario proprio loro, assetati di potere e di soldi, avevano tradito quei principi cosiddetti morali sui quali da sempre si era basata la logica di mafia.

Il film riesce molto bene a raccontare quel tragico periodo degli anni ottanta, anche ricorrendo a devastanti immagini di repertorio, e fa ben intendere quei meccanismi sofisticati che reggevano il sistema di Cosa Nostra, una struttura che si apprestava a lasciare fuori ogni sentimentalismo a sacrificio di qualsiasi ideale degno di essere rispettato.

Una regia perfetta che riesce bene ad equilibrare momenti di spietata ferocia con altri più intimi e personali del protagonista, rimasto solo nell’affrontare il nemico, quei propri “familiari” che lo vogliono morto dopo avergli ferocemente ucciso i suoi due figli maggiori e tanti altri membri della sua famiglia. Nel film di Bellocchio non c’è spazio per la retorica fine a sé stessa, ma solo per i fatti: l’uomo viene descritto nella sua essenza pura, nobile o perversa che sia, messo a nudo di fronte alla realtà che si è costruito attorno e verso la quale è costretto a scontrarsi per sopravvivere.

Presentato in concorso nell’ultima edizione del Festival di Cannes, il film ha subito ottenuto grande consenso da parte della critica nazionale e internazionale e, pur non avendo ottenuto il Palmares, Il Traditore è sicuramente destinato ad altri importanti riconoscimenti ben meritati, sia per l’ottima regia che per l’interpretazione dell’intero cast formato da attori italiani di eccezionale bravura.

data di pubblicazione:03/06/2019


Scopri con un click il nostro voto:

LA SCUOLA di Herman Koch- Editore Neri Pozza Bloom, 2019

LA SCUOLA di Herman Koch- Editore Neri Pozza Bloom, 2019

Trent’anni di ritardo per una traduzione di un libro di successo della letteratura nederlandese. L’autore quando scrisse questo romanzo breve (o racconto lungo) aveva 36 anni e non godeva del successo di ritorno che ha permesso la pubblicazione di questa sua operina giovanile. Il riferimento più immediato vira inevitabilmente verso Il giovane Holden. Lo scanzonato protagonista si ritrova in un contesto scolastico apparentemente perfetto che rivela crepe che sono proprie della società che lo circonda e che lo alimenta. Il metodo della scuola Montanelli alimenta piccoli mostri e il tono scanzonato della narrazione produrrà alla fine la piega inaspettata di un episodio mortale, uno strappo che ci riporta alla vacuità dell’insegnamento. Il metodo in questione è stato inventato cent’anni prima per venire incontro alle esigenze dei poveri ma ora la situazione è completamente rovesciata. La scuola è in realtà frequentata da ricchi che pagano una retta sedici volte superiore a quella di una scuola normale. E nello squilibrio dell’insegnamento di classe sono contenute le ribellioni del protagonista/voce narrante. Sotto le pieghe di un’edificante didattica si celano insanabili contraddizioni che riguardano anche gli atteggiamenti verso un ragazzo ritardato. Le buone intenzioni del politicamente corretto si scontrano con una realtà ben diversa e quasi ostica verso i giovani frequentatori del complesso scolastico. In definitiva un testo di facile lettura che però contiene ambizioni ben maggiori rispetto alla quieta trama. La descrittività inclina verso il dramma in un climax di crescente apprensione. Herman Koch ha mosso un lungo cammino da questo primo testo rimanendo sempre fedele al proprio editore veneto. La falsità del perbenismo e di un benessere di facciata è smascherata dalle considerazioni amene, estrose e realistiche del protagonista che va a smascherare la demagogia del proprio ipocrita ambiente. Storia di un’adolescenza che sa crescere con gli occhi sempre più aperti.

data di pubblicazione:03/06/2019

PALLOTTOLE IN LIBERTÁ di Pierre Salvadori, 2019

PALLOTTOLE IN LIBERTÁ di Pierre Salvadori, 2019

Yvonne (Adèle Haenel) giovane poliziotta in una cittadina del sud della Francia, è vedova inconsolabile ed inconsolata di un poliziotto caduto in servizio ed ora aureolato di una reputazione di eroe. Quando viene a sapere che, in realtà, il marito era un corrotto della peggiore specie e che aveva anche inviato in prigione un innocente, schiacciata dalla delusione e dai sensi di colpa cerca di rimediare ai torti commessi dal padre di suo figlio e … 

 

Pierre Salvadori giovane e brillante regista francese, giunto al suo nono lungometraggio, affronta ancora una volta con gioiosità e vivacità il tema, a lui caro, delle apparenze e delle false verità ingannevoli. Saltando dal comico alla farsa ed alla commedia e poi viceversa, fondendo romanticismo, poesia, qui pro quo, gags e dichiarazioni d’amore, l’autore restituisce valore alla Commedia, giocando abilmente con i codici classici del cinema poliziesco e del noir d’azione.

O meglio, con un occhio chiaramente rivolto a B. Wilder, a B. Edwards ed a tanti altri grandi, Salvadori si reinventa, con buoni risultati, uno stile tutto personale in buon equilibrio fra commedia e pochade, si impadronisce di un tema poliziesco e gioca volutamente, con brio comico e con le risorse della commedia stravagante, proprio sui canoni dei film d’azione, dei polizieschi e dei noir, senza però, e qui è il punto di merito, cadere o scadere nella parodia.

Il film racconta il folle tentativo di Yvonne di rimettere un po’ di ordine nel mondo, un mondo ove tutti però mentono, abbelliscono e trasformano la dura realtà della verità aiutandosi così a vivere. Un mondo quello attorno alla nostra giovane poliziotta (ed attorno a noi) ove ognuno si racconta e racconta la propria storia, un mondo ove la finzione stessa diviene realtà, come nel Cinema che trova la sua ragion d’essere proprio nel rendere reale e credibile l’immaginazione.

Il film è scritto in modo apprezzabile, con un’ottima meccanica narrativa, dialoghi frizzanti, situazioni credibili e perfettamente cesellate, con un ritmo indiavolato e con un montaggio perfetto. Salvadori poi con una regia sofisticata, governa il tutto saldamente e con maestria, giocando con colori vivaci e falsi cieli stellati proprio per infondere l’idea del meraviglioso che può rendere più bella la quotidianità, in quel gran gioco continuo di luci ed ombre che è la finzione. Bravo è il quartetto di protagonisti e coprotagonisti, tutti talentuosi e capaci di commuovere e far ridere sul filo dei loro sentimenti contraddittori e che, a tratti, ricordano con i loro virtuosismi i grandi momenti della Commedia Hollywoodiana. Pur se in un ruolo secondario brilla A. Tatou sempre seducente e brava.

Pallottole in libertà è dunque un piccolo film frizzante e fresco che innova e sorprende uscendo dai sentieri battuti e ribattuti delle commedie nostrane che non sanno far altro che usare clichès narrativi visti e stravisti. Una piccola e buffa commedia poliziesca, originale e vivace, una fantasia delicata ed anche tenera per raccontare la realtà, non solo fra sorrisi e risate ma anche con la poesia e la profondità, a tratti toccante, che accompagna la fine delle illusioni o anche l’uscita dall’infanzia. Il che ci ricorda che le migliori commedie fanno anche piangere un pochino e che, comunque sia, la forza consolatoria della finzione e … del Cinema può anche aiutare a meglio vivere e, che è anche bello lasciarsi “portar via” dalla storia o dalle storie.

Se ci riuscite andate a vederlo, vi divertirete e sarà piacevole lasciarsi “portar via” e vedere flirtare un po’ il reale con l’immaginario.

data di pubblicazione:03/06/2019


Scopri con un click il nostro voto:

L’ANGELO DI FUOCO di Sergej Prokof’ev – direzione di Alejo Pérez e regia di Emma Dante

L’ANGELO DI FUOCO di Sergej Prokof’ev – direzione di Alejo Pérez e regia di Emma Dante

(Teatro dell’Opera di Roma, 23 maggio/1 giugno 2019)

In scena al Teatro dell’Opera di Roma dal 23 maggio al 1° giugno L’angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev, opera complessa e poco nota, che esplora il mondo dell’esoterismo e della magia, temi cari all’avanguardia russa del primo Novecento, in una nuova produzione che annovera come direttore d’orchestra Alejo Pérez e come regista Emma Dante e tra gli interpreti Leigh Melrose, Ewa Vesin, Sergey Radchenko, Maxim Paster, Mairam Sokolova e Petr Sokolov, Anna Victorova e Goran Jurić.

 

Rappresentato a Roma solo un’altra volta nel 1966 diretto da Bruno Bartoletti per la regia di Virginio Puecher, L’angelo di fuoco è la storia di una tragica ossessione fra superstizione e razionalità che ruota intorno alla figura della protagonista, Renata, tratta dal celeberrimo romanzo di Brjusov, ed ambientata nella inquietante Germania del ʼ500, tra duelli, premonizioni e stregonerie. Renata, fin da bambina veniva  guidata dal suo angelo custode Madiel per essere avviata ad una vita casta e di santità, ma poi si invaghisce dello stesso che, furente, si trasforma in una colonna di fuoco.  La vicenda della protagonista avanza tra le solitudini di un convento e visioni demoniache, fino alla condanna al rogo da parte dell’Inquisizione per essersi congiunta carnalmente con il Demonio. Prokof’ev compose questa visione musicale in ritiro sulle Alpi, tra il 1922 e il 1927. Opera quasi impossibile da rappresentare, con una lunga e complessa gestazione ebbe poi una storia particolarmente tormentata. Il libretto di Brjusov fu considerato troppo inquietante e simbolista tanto che L’angelo di fuoco fu rappresentato ben 30’anni dopo la composizione, a due anni dalla morte del compositore.

Bene e male, reale e sovrannaturale si scontrano continuamente. Due sono i demoni che vede Renata, uno bianco e uno nero, in una doppia percezione dei fenomeni che avvengono sul palco, ovvero se gli spiriti sono visibili anche gli altri personaggi, se il tavolo che si solleva, i colpi battuti dallo spirito, esistono davvero o sono solo nella testa della protagonista.

Renata è combattuta tre castità e passione ma non riesce a capirlo: per lei Madiel è solo uno spirito buono, uno spirito d’amore, pur trattandosi di un amore carnale. È circondata dalla morte, è una donna osteggiata da un mondo maschilista che non le permette di esprimersi. E così, distrutta dal dolore del suo desiderio sessuale impuro, sbagliato, Renata viene punita per le proprie visioni, tanto sante, quanto demoniache. Quando sul finale si ritirerà in convento, alla ricerca di pace, troverà invece ancora dolore e sofferenza. Verrà esorcizzata senza successo dall’inquisitore che tenta di estirpare il male che c’è in lei e che sta contagiando tutto il convento. Le suore intorno a lei, però, si pongono in sua difesa, la notte cala su di lei mentre viene trasformata in una Madonna, con in testa un velo nero e sul petto un enorme Sacro Cuore di Maria perforato da pugnali.

La costruzione visiva è di altissimo impatto: la cripta albergo e la cripta monastero, la camera piena di libri e di sapere si ergono a protagonisti grazie allo splendido lavoro di Carmine Maringola ed ai costumi feticcio di Vanessa Sannino, dagli stracci inquietanti delle visioni e dei mendicanti, alle tonache rosse dei religiosi, ai cani cani/demoni dello studio del filosofo Agrippa.

Emma Dante compie un’operazione straordinaria in grado di sovrapporre il suo immaginario personale, fatto di Sicilia, di cattolicesimo, di superstizione e di morte all’immaginario grottesco, esoterico e simbolista del Prokof’ev di inizio Novecento. Ma l’Angelo di fuoco è uno spettacolo vincente per la maestria di Alejo Pérez. Una direzione musicale estrema, esagerata, che bene ha reso le atmosfere demoniache dell’opera.

data di pubblicazione:02/06/2019


Il nostro voto:

LA CENA AZIENDALE di Adriano Bennicelli, regia di Leonardo Buttaroni

LA CENA AZIENDALE di Adriano Bennicelli, regia di Leonardo Buttaroni

(Teatro Trastevere – Roma, 28 maggio/2 giugno 2019)

Durante la cena di fine anno i lavoratori di un’azienda vivono la minaccia di un possibile licenziamento. Riuscirà il personale a far fronte alla crisi e a creare nuove idee per risollevare la situazione?

  

Una commedia spassosa e brillante quella in scena fino a domenica al Teatro Trastevere, che chiude in bellezza il cartellone del teatro regalando al pubblico divertimento e risate.

Nata da un’idea di Alessia De Bortoli (sul palco interprete di Costanza, una merketing manager super perfezionista) e scritta per la scena da Adriano Bennicelli, la commedia ci mostra in due atti quello che potrebbe succedere se durante una cena di fine anno (questo il pretesto per ambientare la storia) il dirigente dell’azienda decidesse di comunicare ai suoi dipendenti la decisione di ridimensionare il personale per sopraggiunta crisi finanziaria. La crescita e le vendite della Grandiflora S.p.A. (impresa che si occupa del commercio di piante tropicali) non incrementano e quindi bisogna mandare a casa qualcuno. Immaginate il panico. Ma una soluzione è possibile e dovranno trovarla i dipendenti tutti insieme e scongiurare così il licenziamento.

Tra lazzi con oggetti e discorsi di corridoio, battute dette in dialetto romanesco e condite con inglesismi, passando per equivoci e segreti trattenuti e poi svelati, la scena si anima in un intreccio esilarante e travolgente. I personaggi sono costruiti sui modelli che si potrebbero trovare in qualsiasi ufficio, ma non per questo sono scontati. Bravissima per questo la squadra di attori impegnata sul palco, tutti giovani e ben affiatati tra di loro. Non è facile tenere il ritmo di questa commedia dove gli equivoci si moltiplicano scena dopo scena.

Il lieto fine è assicurato e anche tanto divertimento.

data di pubblicazione:01/06/2019


Il nostro voto:

MOSTRE IN MOSTRA – Roma contemporanea dagli anni Cinquanta ai Duemila/1

MOSTRE IN MOSTRA – Roma contemporanea dagli anni Cinquanta ai Duemila/1

(Palazzo delle Esposizioni – Roma, 30 maggio/28 luglio 2019)

Al Palazzo delle Esposizioni è stato appena inaugurato un itinerario espositivo composto da sei distinte mostre, che si sono tenute a Roma a partire dagli anni Cinquanta, scelte una per ogni decennio sino ai giorni nostri. Lo scopo è quello di raccontare come Roma, dagli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, iniziava a diventare un polo culturale di rilievo per i pittori delle correnti avanguardiste di quel periodo. A questa prima edizione ne faranno seguito altre, ogni volta con protagonisti diversi, sempre con il precipuo intento di presentare ai visitatori spazi espositivi romani che fecero storia perché presentarono artisti già di un certo rilievo nell’arte propria del Novecento, contribuendo nello stesso tempo a definire l’identità culturale della capitale. L’allestimento delle sei diverse mostre è stato condotto in maniera scrupolosa, anche se non sempre è stato possibile, per ovvi motivi, ricreare fedelmente il contesto in cui l’opera venne resa fruibile al pubblico alla presenza degli stessi artisti. Il progetto Mostre in mostra si propone pertanto di attualizzare questo periodo dell’arte italiana contemporanea partendo proprio dal momento storico e sociale in cui si inserisce, per divenire poi patrimonio della collettività. La passeggiata ha inizio nella prima sala del Palazzo delle Esposizioni con dipinti di Titina Maselli, esposti nel 1955 alla galleria La Tartaruga; a seguire la prima mostra personale di Giulio Paolini del 1964 presso il celebre spazio La Salita e una raccolta di opere di Luciano Fabro già esposte nel 1971 in occasione degli Incontri Internazionali d’Arte a Palazzo Taverna. Nell’altra ala del Palazzo troviamo il dipinto La costellazione del Leone di Carlo Maria Mariani esposto nel 1981 da Gian Enzo Sperone e oggi alla Galleria Nazionale di Roma; a seguire lo spazio dedicato a Jan Vercruysse con i suoi Tombeaux che furono presentati nel 1990 presso la galleria Pieroni; a chiusura la raccolta Elisir del 2004 di Myriam Laplante promossa da The Gallery Apart e ospitata dalla Fondazione Volume! sempre a Roma.

A fare da trait d’union troviamo le foto di Sergio Pucci che dagli anni Cinquanta in poi ha fotografato moltissime opere d’arte presso gli studi degli artisti o presso le sale di esposizione.

Mostra a cura di Daniela Lancioni, promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale, ideata, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo.

data di pubblicazione:01/06/2019

LA LETTRICE DI CECHOV di Giulia Corsalini – Edizioni Nottempo, 2019

LA LETTRICE DI CECHOV di Giulia Corsalini – Edizioni Nottempo, 2019

Un libro a lenta maturazione (dieci anni), parzialmente autobiografico che sta rastrellando premi prestigiosi incamminando l’autrice sullo stesso cammino di successo che è stato all’interno della stessa casa editrice, di Milena Agus. Un mood cechoviano permea l’atmosfera percettiva della badante-professoressa atipica con un piede in Ucraina e un piede in Italia. Divisa sentimentalmente tra l’amore della figlia, l’inevitabile distacco da un marito morente e l’attrazione indefinita, a tratti impalpabile, per il suo professore, sensibile alla fascinazione molto orientale della sua non fedele sottoposta. La storia più che per eventi si sviluppa con sensazioni, atmosfere, impressioni, intuizioni, piccole svolte psicologiche. Una gestione rarefatta ma non statica del plot che si alimenta con una lingua brillante, con dialoghi che funzionano, con un ritmo lento ma funzionale. La trama non riassume l’indicibile e, più prosaicamente, il non detto di una possibile relazione sospesa. Momenti topici perché rimandano a possibili svolte esistenziali che sono all’angolo, nel mirino delle possibilità, della vita di tutti noi. Con passo cechoviano l’autrice instaura un teatro cechoviano ricco di citazioni del prestigioso autore russo costruendo un ritratto di donna sfaccettato e credibile. Soggetto al femminile forte, irriducibile, in cerca di una direzione di vita, capace di adire a scelte decise e radicali, riscattando un’esistenza minima fatta però di dubbi e di un problematico rapporto con la prole. La protagonista è attesa a un bivio che risolve con istinto e non con razionalità. Nel segno dell’ambiguità del rapporto sentimentale e senza trepidazioni per la carriera che potrebbe schiuderle l’Istituto di slavistica, sotto l’egida e l’impulso del professore che l’adora. Il ritratto di donna che rifiuta i compromessi è vincente ed accattivante. Per Paolo Di Stefano la sospensione nell’inespresse rende il libro della Corsalini inedito e coraggioso. Certo un libro che si differenzia enormemente dal trend attuale della letteratura italiana mainstream. Nel contesto anche dettaglia sulla burocrazia e le storie clientelari della vita universitaria di provincia.

data di pubblicazione:30/05/2019

CYRANO, MON AMOUR di Alexis Michalick, 2019

CYRANO, MON AMOUR di Alexis Michalick, 2019

Parigi fine 1800, il giovane drammaturgo Edmond Rostand (Thomas Solivérès) ha famiglia, è oberato di debiti, poco o nessun successo ed è da tempo privo di ispirazione. Per uno strano concorso di circostanze ha un’opportunità, deve però comporre un testo teatrale che andrà in scena entro poche settimane. Non ha alcuna idea di cosa scrivere, fra incertezze, attori capricciosi e scrittori gelosi troverà però la Musa che riaccenderà la sua creatività ed assisteremo allora alla genesi ed al trionfo imprevedibile del suo capolavoro: il Cyrano de Bergerac.

Se avete perso Cyrano, mon amour, per distrazione, per mancanza di tempo, o, non sia mai, per supponenza snobistica, cercate di recuperarlo in qualche saletta cinematografica, non ve ne pentirete e mi darete ragione, in caso contrario, scriverete.

Si tratta di “buon cinema popolare”, il che non significa affatto sciatteria recitativa o creativa oppure banalità narrativa, ma, al contrario, essendo il Cinema essenzialmente Divertimento e Spettacolo, è invece un cinema che unisce grazia, talento, qualità e sano divertimento. Si tratta di una bella commedia elegante, buffa e divertente che conferma che humoured intelligenza possono coesistere con successo, servita per di più, da un castingdalla notevole capacità comunicativa. Un film che, nello scenario di una programmazione dominata solo da Blockbusterse da film insignificanti e stereotipati, avrebbe meritato una visibilità maggiore.

Il giovane autore e regista franco-britannico Alexis Michalick, dopo averla già portata con successo in teatro, trasferisce, con abilità e talento, sullo schermo la storia della genesi creativa del capolavoro di Rostand. Come già aveva fatto J. Madden nel 1999 con Shakespeare in love, anche in questo film, il regista, pur con qualche licenza e fantasia rispetto alla verità storica, ci fa entrare dietro le quinte per illustrarci e farci vivere il caotico, comico ed imprevedibile percorso del processo creativo di un capolavoro. In genere gli adattamenti cinematografici di piècesteatrali producono film imprigionati nella piatta logica del “campo/controcampo” ed in allestimenti con scenografie piatte e limitate. Il nostro autore è invece abile nell’evitare di fare solo del teatro filmato. Il film è infatti tutt’altro che statico, anzi, al contrario, ha un ritmo molto elevato, un montaggio mozzafiato, una scrittura briosa e dialoghi intelligenti e frizzanti ed infine un apprezzabile gusto nell’uso della cinepresa mobile. Per di più arredi, costumi e locationsimpeccabili ci regalano anche un affresco lussuoso e credibile della Parigi della Belle époque.Al buon risultato generale del lavoro contribuisce certamente Thomas Solivérès, eccellente nel rendere la giovanile fragilità, gli imbarazzi e le esaltazioni creative di Edmond Rostand. Con lui bravi tutti i secondi ruoli, tutti perfetti e divertenti nei loro personaggi.

Cyrano, mon amour è dunque un film intelligente e divertente, brioso e ricco di spirito e humourmalizioso che da spazio alla verità delle emozioni, un film in cui ci si può anche commuovere alla fine dell’ultimo atto. Una commedia fresca e vivace, forse poco profonda e con qualche clichè, a voler essere proprio ipercritici, ma sicuramente un puro piacere visivo apprezzabilissimo. Un buon cinema che non ha bisogno di ricorrere ad effetti speciali o di colpire lo spettatore allo stomaco.

data di pubblicazione: 25/5/2019


Scopri con un click il nostro voto:

TUTTI PAZZI A TEL AVIV di Sameh Zoabi, 2019

TUTTI PAZZI A TEL AVIV di Sameh Zoabi, 2019

Salam, uomo senza qualità, fa il pendolare tra Gerusalemme e Ramallah (la capitale amministrativa dell’Autorità palestinese), dove lavora presso lo zio produttore televisivo palestinese adattandosi a qualunque necessità sul set di una soap opera anti israeliana che si realizza con pochi mezzi e grande successo di un pubblico trasversale. Senza volerlo e senza averne le capacità, finirà con diventare l’autore di Tel Aviv in fiamme trovando anche l’insperato amore in un finale ottimistico.

 

In tempi davvero grami per le commedie intelligenti, non fatevi sfuggire un piccolo gioiello, nel quale ci eravamo imbattuti nella sezione Orizzonti della 75° Mostra del Cinema di Venezia. Parliamo di Tutti Pazzi a Tel Aviv, una pellicola che ha il pregio di far divertire con garbo su un tema drammatico come il conflitto israelo-palestinese. La trama è un mix di spie, hummus, militari machisti, amori irrealizzati, set alla Boris, che si sviluppa dietro le quinte di una fiction dai grandi ascolti traslata nella la quotidianità di un paese diviso. Con tanto di check point che diventa luogo nevralgico delle vite dei protagonisti (avverranno lì gli incontri fra l’imbranato sceneggiatore palestinese e il militare israeliano pronto a ri-scrivere un soggetto che aggiunge romanticismo a quello che è il personaggio in cui si identifica nella fiction). Siamo quindi dalle parti, non nuove peraltro, del cinema nel cinema (nella fattispecie la tv), ma, il doppio piano è solo il riuscito pretesto per consentire al regista (nato nel 75 in un piccolo villaggio palestinese, Iksal), attraverso l’arma di un umorismo surreale e persino  kitsch, di suggerire soluzioni per una narrazione realmente diversa da quella delle pieghe del reale conflitto. La pellicola si concluderà infatti con un consapevole happy end, evidentemente, aperto al dialogo, tra i due popoli oggi contendenti. Riuscire a ridere e a far ridere alle spalle di una contesa fra le più laceranti dei nostri giorni è il grande merito di Sameh Zoabi, nella doppia veste di regista e sceneggiatore, alle prese con un plot e ingranaggi sempre fluidi e mai beceri, sempre in bilico e senza schierarsi mai troppo apertamente per una delle due parti. La trama è godibilissima e ricca di spunti originali sia pure all’interno di schemi comici già collaudati. Aiutano il regista interpreti ben caratterizzati nei rispettivi ruoli: su tutti il protagonista, Kais Nashif (lo spaurito Salam, che fa pensare al nostro Troisi), premiato come miglior attore a Venezia per la sezione Orizzonti, la bella Lubna Azabal (la fascinosa spia araba, finta francese) e Nadim Sawalha, il militare cialtrone. Gli altri comprimari (dai nomi complicati) non sono da meno, come pure montaggio, fotografia e colonna sonora a completare la riuscita messa in scena di una commedia, un ricco affresco, a tratti surreale ma sempre godibilissimo.

data di pubblicazione:24/05/2019


Scopri con un click il nostro voto: