da Antonio Jacolina | Dic 7, 2019
Un celebre autore di romanzi gialli (Christopher Plummer) la sera del suo 85° compleanno viene ritrovato morto nel suo maniero goticheggiante. Omicidio?Suicidio? Tutti i familiari, disfunzionali, ipocriti ed interessati hanno motivi per essere sospettati, la polizia ed un detective privato (Daniel Craig) cercano di risolvere i vari enigmi, fra false piste e menzogne ….
Rian Johnson è un regista e sceneggiatore statunitense non molto prolifico ma di buona qualità ed originalità di stile (Brick 2005; Looper 2012) che ha raggiunto la grande notorietà internazionale con l’ottavo film della saga di Guerre Stellari: Gli Ultimi Jedi 2017, film che ha però scatenato contro di lui le polemiche e le accuse di aver totalmente travisato l’universo e lo spirito degli eroi inventati da Georges Lucas. Tanto che il regista ha dovuto poi rinunciare alla direzione del prosieguo della “Trilogia Sequel”, il cui nuovo episodio vedremo sui nostri schermi proprio il prossimo18 Dicembre, nuovamente con la regia di J.J.Abrams, richiamato a furor di popolo.
Con il film di oggi Rian Johnson ritorna dunque nella nostra Galassia e rimette i piedi sulla Terra ed in cerca di una riabilitazione, gioca con i codici dei classici gialli deduttivi ed ad indizi e ci regala una sorta di Cluedo gigante: un’inchiesta divertente e maliziosa dai molteplici colpi di scena. Una più che discreta piccola, sofisticata commedia poliziesca, ricca di humour ed astuzie che rianima il genere dei film ad enigmi, alla Agatha Christie, ne modifica i codici e li modernizza con un tocco di suspense alla Hitchcock nella seconda parte del film.
Sulla carta non ha nulla di originale, sembra anzi nelle situazioni, location ed arredi, riproporre gli infiniti film di genere che lo hanno preceduto: Assassinio sul Nilo, Assassinio sull’Orient Expres, Delitto sotto il sole o Mistero a Croocked House … eppure il film si stacca da tutti perché ben presto il racconto prende un ritmo narrativo diverso dalle regole classiche: la Verità non viene dissimulata allo spettatore, e, quando i personaggi mentono alle domande dell’investigatore, una serie di flashback o di trovate geniali ci mostrano la Vera Verità. Così facendo il regista aggira tutti i codici classici e controbilancia gli enigmi ed intrighi con un’ottica inusuale, rinnova i meccanismi della suspense, arricchisce l’intreccio garantendo così un risultato tanto sorprendente quanto comunque soddisfacente per la logica dello spettatore. La qualità del film è tutta nel brio con cui Rian Johnson affronta i meccanismi tipici del genere e come cattura il pubblico. La sua abilità di direzione è palesemente coadiuvata e sostenuta da una buona sceneggiatura che sa giocare con gli archetipi, i dialoghi poi sono pungenti e ben calibrati, il ritmo è sostenuto con le giuste interruzioni ironiche, il montaggio è ottimo e da una iniziale teatralità si passa, cambiando registro, ad un tono da thriller del tutto inatteso ma molto gradito.
Un particolare contributo al buon risultato viene anche dal cast formato da attori ed attrici tutti di qualità e precisi nei loro ruoli e che sembrano divertirsi a caratterizzare i loro personaggi dando vita e veridicità a ciascuno di essi. Oltre al grande Christopher Plummer ed all’autoironico Daniel Craig, brilla in particolare la giovane Ana de Armas per capacità recitativa ed interpretativa.
Ovviamente ci sono anche dei difetti: qualche lentezza, qualche lungaggine di troppo, ma son piccole cose, nel complesso solo peccati veniali.
Cena con delitto è quindi un piccolo, elegante divertimento che piacerà agli appassionati del genere e farà passare un paio d’ore accettabili agli altri spettatori e … forse potrà essere un riferimento per futuri film del genere.
data di pubblicazione:07/12/2019
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da Daniele Poto | Dic 6, 2019
(Teatro SanGenesio – Roma, 27 novembre/8 dicembre 2019)
Uno scoppiettante classico evergreen regala lampi di comicità, a tratti demenziale. Il pastiche funziona anche grazie all’ottima sinergia interpretativa degli attori, la Compagnia Teatrale Sogni di Scena.
Non una scelta facile quella della family comedy. Sui generis una famiglia molto allargata. Ospiti indesiderati di una festa che si apre con un misterioso tentativo di suicidio. La comicità sta anche nell’attendere invano la comparizione dell’autore dell’insano atto. Tutti si affastellano attorno a lui, apparentemente per cercare di coprirlo ma, massimamente, per difendere la propria reputazione. Così tra la ruspante oca, la cuoca esagerata, si delineano manie e tic dei protagonisti che in una serata senza servitù devono cavarsela da soli fino alla fine dell’epilogo quando compare la polizia. E la versione di quello scelto per depistare più che convincente è ammaliante e scioglie anche la tensione di un investigatore mostrato come integerrimo. Si ride e si sorride in campo a due ore e due tempi di farsa disimpegnata che ha come primo obiettivo un’esplosione di comicità. Sono battute che arrivano presto alla pancia, qualcuna richiede una riflessione più attenta, certo non rivolta a quegli spettatori che nelle prime file confermano la propria dipendenza da uno smartphone acceso, nell’imperturbabilità sorridente del cast. Il testo di Simon invecchia lentamente ed è apprezzabile il tentativo di ribadirne l’originalità senza sconfinamenti forzosi nell’attualità da parte della regista. Lo spazio scenico viene sfruttato fino in fondo e l’elemento delle scale è la pietra d’inciampo di parte della comicità Non si bada a spese anche per i costumi di scena Trattasi di una serata di galla e le mise notturne delle attrici ribadiscono un’atmosfera, ben in coerenza con il plot farsesco. L’ennesima bella prova di un affiatato consesso di attori.
data di pubblicazione:06/12/2019
[sc.voto3t]
da Antonio Iraci | Dic 5, 2019
(Teatro India – Roma, 3/15 dicembre 2019
Il racconto della tragedia che si ripete ciclicamente nel mare di fronte Lampedusa, dove si affronta una lotta per la sopravvivenza tra naufraghi e soccorritori. Sull’isola, battuta da venti implacabili, ci si è “abituati” alla morte e sovente i pescatori trovano nelle reti insieme ai pesci anche cadaveri di adulti e bambini. Una testimonianza in diretta che ci riporta al problema della migrazione che oggi, come non mai, è al centro del dibattito politico mondiale.
Davide Enia, drammaturgo e scrittore palermitano doc, “ci cunta ‘u cuntu” vale a dire ci racconta quello che ha visto a Lampedusa quando, per la prima volta, si è trovato a vivere l’esperienza di un salvataggio di migranti a seguito di un naufragio. Il linguaggio usato in questo monologo non è solo quello verbale ma soprattutto quello dei gesti, come si usa del resto nel meridione dove alle parole si accompagnano i movimenti delle mani, una forma arcaica che diventa onomatopeica e funzionale a colorire la narrazione. Gli appunti di Davide, scritti frettolosamente in circostanze a dir poco sconvolgenti, ci riportano ad un percorso circolare dove tutto ritorna al punto di partenza iniziale: persone e cose intrecciano le proprie esistenze in uno scontro continuo che ci ricordano come noi, che stiamo di qua, un giorno approdammo fuggendo da un luogo imprecisato che sta al di là di questo mare. Davide si commuove e ci commuove perché la sua testimonianza ci manda colpi bassi che ci colpiscono inesorabili, come se ci trovassimo insieme a lui sull’isola a raccogliere i corpi di uomini che non ce l’hanno fatta ad arrivare. Le sue mani non hanno un attimo di sosta, sono loro che parlano e accompagnano le preghiere dei pescatori, quasi dei mantra che si ripetono all’infinito seguiti da suoni striduli e deformati come di forze che si scontrano in mare aperto. L’abisso diventa quindi un messaggio forte a coloro che vorrebbero dimenticare la tragedia epocale dei migranti africani, un messaggio drammatico dove non vi è spazio per la retorica fine a se stessa, ma dove siamo richiamati tutti all’azione per restituire ad ogni essere umano la dignità che gli spetta. L’attore inserisce anche riferimenti di vita personale, coinvolgendo figure familiari come quella del padre detto “’u mutu” perché di poche parole, ma che non esita poi ad abbracciarlo trasgredendo quella regola, tutta siciliana, di pura reticenza tra padre e figlio che non prevede slanci assimilabili a mollezze di carattere. Tratto da Appunti per un naufragio, scritto dallo stesso Davide Enia, lo spettacolo si avvale delle musiche composte ed eseguite da Guilio Barocchieri, un susseguirsi di note che enfatizzano il contrappunto tra canto popolare e le invocazioni per quei corpi raccolti e destinati a rimanere anonimi.
data di pubblicazione:05/12/2019
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da Daniele Poto | Dic 4, 2019
Il sottotitolo è accattivante ed illuminante. “Gli anni ottanta, magia di un’epoca in cui avevamo il mondo in pugno”. Metafora del momento più radioso del pugilato italiano. Con personaggi come Oliva, Rosi, Kalambay, capaci di imporsi su ring nazionali e internazionali decretando il successo del pugilato noble arte non come rissa selvaggia alla Tyson ma come elegante lezione di stile. Era un momento che si prolungava dalla saga di quel Benvenuti, umiliato da Monzon ma capace di proiettare una luce positiva sul seguito di uno sport oggi decaduto a eventi e personaggi residuali. Come infatti paragonare uno Scardina o un Vianello attuale ai Parisi e ai Nati, a campioni mondiali ed europei in un mondo popolato ormai da un’infinità di sigle spesso indistinguibili? Il tramonto della boxe è stato decretato dalla scarsa credibilità del sistema complessivo, dalla relativa buonafede dei giudici, dal proliferare delle sigle e dallo scadimento dell’attività dilettantistica che ha reso sempre più labile il confine con il mondo professionale. Oggi si costruisce un record con una serie di incontri già segnati e la fortuna dei pochi sopravvissuti è soprattutto mediatica. Torromeo ci restituisce invece l’età felice del pugilato italiano con una serie di riuscite immersioni nel mondo dei protagonisti. Vissuto da vicino, confidenzialmente. La serie di fotografia scattate su questo sport in decadenza restituisce il quadro veridico di un’epoca in cui anche gli italiani vivevano meglio forti di una classe media consolidata che, dopo l’esplosione del boom, cercano di consolidarsi come borghesia sull’esempio di Germania, Francia, Inghilterra. C’era anche il sogno imitativo americano dietro i successi sportivi. In effetti non si arrivava per caso a giocarsi su un ring un titolo mondiale. Alle spalle c’era la solidità del movimento, l’intraprendenza dei manager, la voglia di rischiare di una società che non si poneva limiti di sviluppo e non si interrogava sulla possibile decrescita più o meno felice.
data di pubblicazione:04/12/2019
da Paolo Talone | Dic 4, 2019
(Teatro Belli – Roma, 3/5 dicembre 2019)
Dramma a carattere familiare, For once – per una volta – è la storia di April, Gordon e del loro figlio Sid. Un incidente stradale scuote la routine della loro vita perfettamente equilibrata.
Immaginate di avere per le mani un bellissimo bicchiere di vetro, dove avete versato magari il vino della buona bottiglia che avete conservato per l’occasione speciale. Mentre già avete assaporato i primi sorsi, il bicchiere vi scivola dalle mani, accidentalmente, e il vetro si frantuma a terra in mille pezzi. Impossibile rimetterlo a posto, non resta che raccogliere le schegge e buttare via tutto. È quello che accade a questa famiglia di una cittadina inglese di provincia. La tranquilla e fin troppo ordinata serenità dell’esistenza dei suoi componenti viene violentemente sconquassata da un incidente in cui perdono la vita i tre migliori amici di Sid (Michele Dirodi), un ragazzo poco più che adolescente, figlio di April (Selvaggia Quattrini) e Gordon (Marco M. Casazza). Quella sera è l’unico a salvarsi miracolosamente, ma perde un occhio sul quale porta ora una benda. Come nel nostro bicchiere l’urto di quella sera genera nella famiglia una frattura. Improvvisamente si ritrovano uno distante anni luce dall’altro, come pianeti di un unico sistema solare, vetri spezzati di un unico bicchiere. Uniti per mantenere una parvenza di relazione civile, ma estremamente lontani nei desideri e nei bisogni. La menzogna diventa per loro un’arma di sopravvivenza. Ma perché mentire? E a chi? A sé stessi, per illudersi di essere comunque felici? O agli altri, per illuderli che tutto va bene lo stesso? Mantenere l’apparenza è la regola da seguire in un paese dove si conoscono tutti.
A turno ognuno confessa al pubblico la propria solitudine e la propria insoddisfazione. Il testo drammaturgico, reso leggero da continue battute ironiche (fondamentali gli interventi del giovanissimo e bravissimo Sid/Dirodi), risulta così una somma infinita di monologhi-sfogo, dove solo noi capiamo la portata del loro più intimo dolore. I tre non si parlano mai; lascia sconcerto la totale assenza di dialogo. Anche scenograficamente ognuno abita il suo spazio: Sid la sua camera, April la cucina e Gordon la sua poltrona. Eppure sono sullo stesso palcoscenico. I racconti che riportano fanno riferimento a cose passate e presenti: il tempo, insieme allo spazio, è anch’esso violentemente frantumato. Sul finale però ecco un inaspettato ricongiungimento, come a dire che in fondo basta un po’ di attenzione all’altro – e meno preoccupazione per il giudizio della società – per ritrovare comunione e serenità.
data di pubblicazione:04/12/2019
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Dic 2, 2019
Due giovani studenti, lui newyorchese, lei dell’Arizona, rampolli di ricche famiglie, decidono di trascorrere un romantico fine settimana a New York, dove si alterneranno incontri più o meno fortunati e spesso bagnati dalla pioggia…Una trama apparentemente semplice svela nel migliore stile – Allen l’idea nostalgica di una città al tempo stesso reale e idealizzata, rappresentata come solo un grande regista sa fare.
A 40 anni dal suo riuscitissimo, Manhattan (migliore commedia romantica del 1979), e dopo alterni risultati (ad esempio l’ottimo Match Point, il delizioso Midnight Paris, ma anche lo sgangherato To Rome with Love), il regista newyorchese, ormai vituperato dai suoi ipocriti connazionali, torna con un nuovo capolavoro per la gioia di noi europei (negli USA la pellicola è invece sotto embargo per via di presunti pregressi comportamenti scorretti del regista alla luce dello scandalo “Me Too”).Come dicevo, la cosa non ci riguarda, fortunatamente, infatti dopo alterne vicende contrattuali l’ultima fatica dell’84enne artista di Brooklyn, è regolarmente programmata con meritato successo di critica e pubblico nelle sale del nostro paese. E se ci aveva entusiasmato, divertito, interessato, quello che fu il suo nono film con la sua spensierata visione della città- che – più- ama- al- mondo, appunto, New York, ripresa nel più bel bianco-nero di sempre realizzato dal grande Vittorio Storaro e impreziosito dalle musiche di George Gershwin, oggi a colori con gli stessi affidabili complici di sempre (ancora Storaro alla fotografia e Santo Loquasto alle scenografie, e una colonna sonora che svaria da Chet Baker a Irving Berlin), Allen è ancora in grado di ricreare la stessa magica emozione. Certo non è più lui a interpretare il ruolo del se stesso- protagonista (l’intellettuale Isac Davis di Manhattan) e nemmeno sceglie quale suo alter ego tra fascinosi attori adulti. S ’identifica, invece (dallo stile – casual raffinato nel vestire, all’amore per il piano di Irving Berlin, ai vecchi noir con Mitchum) in un giovane emergente appena ventenne per raccontare la sua città, per certi versi la sua biografia, e l’ineluttabilità del destino. Come un Holden Caufield ( di salingeriana memoria),Gatsby Welles (omen nomen…), interpretato magistralmente da Timothèe Chamalet (Chiamami col tuo nome, Beautiful boy), sogna la sua giornata ideale a Manhattan con la sua adorabile, “quasi ingenua” Ashleigh (l’altrettanto brava e deliziosa Elle Fanning). La fanciulla, aspirante giornalista, già “miss simpatia Arizona”, deve intervistare per il giornalino del college un famoso regista e l’occasione serve ai due giovani per lasciare la noiosa università di provincia, recarsi nella grande mela, vivere avventure e incontri dai differenti sapori. Naturalmente, secondo la migliore tradizione delle commedie di Allen, la trama offrirà tutta una serie di spunti, inutili da anticipare, ma che di volta in volta saranno occasioni di sorrisi, riflessioni, nostalgie, malinconie. In un crescendo che ai più attenti cinefili, ricorderà Un Provinciale a New York di Arthur Hiller, ma anche le raffinate commedie di George Cuckor o Vincente Minnelli con un “magic touch” alla Lubitsch …
Piccoli equivoci, situazioni imbarazzanti, battute fulminanti (quella della Shannon a Gatsby La vita reale è per chi non sa fare di meglio!), baci più o meno rubati, stacchi musicali sempre al punto giusto e tanta malinconia per una città da raccontare sotto la pioggia.
Ancora una volta, rivivono nel personaggio di Gatsby, sapientemente mescolati, tutti i temi e gli ingredienti cari ad Allen (i giovani direbbero “tanta roba”), riproposti al meglio in un film che sotto le finte spoglie di una commedia adolescenziale ha invece ben altro, come la critica al perbenismo borghese, a certi vacui comportamenti maschili e femminili, all’amore per il bello tout court. E così, fra immagini poetiche, citazioni colte, battute fulminanti, Allen ci offre il meglio del suo cinema dove Groucho Marx convive con Fellini e Chet Baker con Gershwin per 94 minuti di un indimenticabile sogno malinconico da vivere al cinema.
data di pubblicazione:02/12/2019
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da Paolo Talone | Nov 30, 2019
(Teatro Belli – Roma, 28 novembre/1 dicembre 2019)
The match box – la scatola di fiammiferi. Sola su un’isola della Contea di Kerry – Irlanda – una madre racconta il dolore della scomparsa della figlia.
Bruciano uno dietro l’altro i fiammiferi della scatola che Sal tiene in tasca. Come in un rituale ripete all’infinito il gesto di accenderli che appare fin da subito ossessivo, nevrotico. In quella fiamma che divampa e scompare in pochi secondi c’è tutto il suo tormento, il suo inferno nell’odore di zolfo che sale pungente al naso. Non capiamo perché all’inizio, ma sentiamo disagio davanti a questa donna minuta, vestita in modo semplice, comune. C’è qualcosa di terribile che si nasconde dietro questa aria anonima, qualcosa di indicibile. La solitudine che la circonda è sconfortante. Più che sola capiamo che vive isolata. Unico pezzo di arredamento nel buio cottage in cui si trova una sedia. Persino la finestra è spettrale, troppo alta perché ci si possa affacciare per vedere cosa succede fuori, ottima per difendersi dagli occhi indiscreti di chi vorrebbe sbirciare all’interno. Eppure si vedono le nuvole che corrono in cielo e tracciano lo scorrere del tempo. La luce che penetra regala un’atmosfera crepuscolare e silenziosa, quella dell’Irlanda che si affaccia sull’oceano. È da queste zone che proviene la famiglia di Sal, ma al tempo dei fatti vivevano tutti in Inghilterra: lei, i suoi genitori e l’unica figlia di dodici anni, Mary. Un brutto giorno proprio Mary, tornando da scuola, rimane uccisa da un proiettile vagante. C’era stata una sparatoria tra fratelli, probabilmente interessati nel traffico di stupefacenti. In città è quello che si diceva. Da quel momento Sal smette di vivere. Il dolore è fin troppo grande e paralizzante, non riesce neanche a piangere per quanto è scossa. Non riesce a darsi pace; a nulla servono le cure delle amiche e l’appoggio della madre. Fino a che un giorno non è lei stessa a farsi giustizia da sola. In fondo cosa ci vuole? Un fiammifero nel pagliaio, un po’ di zolfo e poi però bisogna tenere la bocca chiusa. Così eccola lì, sola a ricordare, a convivere con il suo dolore. Francesca Bianco, la nostra Sal, interpreta magistralmente questa storia, restituendoci un personaggio autentico, credibile. Con la sua recitazione controllata, mai esagerata, grazie a una regia essenziale e composta, ci tiene incollati alla poltrona per tutto lo spazio del lungo monologo, senza annoiare e soprattutto regalandoci grande emozione e trasporto per questa triste storia.
data di pubblicazione: 29/11/2019
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da Paolo Talone | Nov 28, 2019
(Teatro Vascello – Roma, 26 novembre/1 dicembre 2019)
Alessandro Preziosi veste i panni dell’artista olandese Vincent Van Gogh. Una versione di alta poesia e intensa analisi del periodo di reclusione in manicomio del grande pittore.
Si apre il sipario e il colore bianco della stanza dell’ospedale psichiatrico di Saint Paul de Manson, in cui è rinchiuso Van Gogh, abbaglia e cattura. L’odore assordante del bianco è il sottotitolo dello spettacolo. Il rimando a una dimensione fisica, percettiva, sensoriale è immediato e la tinta bianca delle claustrofobiche pareti contrasta di netto con le rughe di pittura coloratissima e vivace che siamo soliti ricordare nei quadri del pittore olandese. La battaglia è annunciata e il campo di combattimento, un grigio e gelido pavimento inclinato vertiginosamente, è pronto. Il conflitto si svolgerà tra lo smodato desiderio di libertà – sia creativa che esistenziale – dell’artista e il rigido carcere dove è costretto, nel quale è proibito tutto, anche dipingere, perché “l’arte agita, turba, eccita”. L’episodio che scatena l’accusa di pazzia è legato alla relazione artistica con Gauguin, con cui viene a trovarsi in disaccordo fino ad attaccarlo, presumibilmente, con un rasoio (sarà Van Gogh invece a rivolgere la lama contro di sé e a recidersi il lobo dell’orecchio sinistro). Viene quindi ricoverato a Saint Paul per essere curato. Siamo nel 1889 ad Arles in Francia, un anno prima della sua morte, nel periodo di massima espressione del suo genio artistico, sollecitato dai caldi colori e dagli sconfinati paesaggi della Provenza e dai visi della gente del posto. Tutte queste immagini mancano però alla visione dello spettatore, e l’impossibilità del gesto creativo si trasforma in un’intensa evocazione poetica.
La resa drammaturgica di Massini e la penetrante interpretazione di Alessandro Preziosi scavano in questa direzione e trascinano fuori dal personaggio, lacerandolo in sublime maniera, le reali motivazioni del suo dipingere e del suo vivere. Il pittore è il tramite, la porta attraverso la quale la realtà, una tavolozza di violenti colori, entra e si riflette sulla tela bianca. Di bianco abbiamo detto è costruita la scena, mancano i tubetti di vernice per colorarla. Anche la pianta che sboccia dal pavimento ha fiori dai petali bianchi. Manca la possibilità di espressione, di comunicazione. Le continue allucinazioni e le fissazioni della sua mente – non capiamo se la presenza del fratello Theo, venuto a fargli visita da Parigi, sia reale oppure no – peggiorano solo la sua condizione rispetto all’ottuso Dottor Vernon-Lazàre che lo ha in cura. Ci vorrà l’intervento del direttore dell’istituto, il Dottor Peyron, per riscattarlo dalla sua condizione e riabilitarlo a una vita normale. È qui allora che la scena si colora di quel giallo cromo tipico dei suoi dipinti e della sua immaginazione creativa.
data di pubblicazione: 28/11/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 26, 2019
(Teatro Belli – Roma, 25/26 novembre 2019)
Giuditta è una donna che per salvare il suo popolo uccide il nemico Oloferne, assetato di morte e di potere. La storia biblica raccontata attraverso lo sguardo interiore e visionario di Howard Barker.
Cade il 25 novembre, forse non a caso, la prima di Judith, in perfetta coincidenza con la giornata internazionale dedicata all’eliminazione della violenza contro le donne. La storia è conosciuta: nella notte che precede la grande battaglia che vedrà Oloferne attaccare i Giudei, Giuditta e la sua serva si recheranno nella tenda del generale dell’armata assira per sedurlo e poi ucciderlo, scongiurando così l’attacco.
Una fitta aria di morte si respira sulla scena, luogo non-luogo della mente. La notte è tremendamente buia e avvolge tutto in una danza febbrile di cattivi pensieri. La realtà si deforma nell’interiorità dei personaggi. Oloferne, nell’interpretazione del bravissimo Giuseppe Sartori, è colto nel suo delirio di onnipotenza, preda di cupi ragionamenti sulla morte e sul potere che assoggettata a lui chiunque. Stretto nell’orgoglio di sé stesso, l’uomo è incastrato nel male che ha costruito, come il corpetto che gli stringe il ventre, soffocandolo nella voce e nell’esistenza. È già morto prima ancora che la donna gli stacchi la testa.
Giuditta – la splendida Federica Rosellini – è lì per compiere il gesto che darà libertà a lei e alla sua gente. È lì per difendersi dalla menzogna che esso rappresenta, quella di credersi un dio, padrone indiscusso e incontestabile del giudizio di vita o di morte sugli altri. Un po’ come il falso diritto di cui si arrogano coloro che fanno violenza alle donne appunto. Decidersi di ferire il colpo non è facile, non per lei. Ci vuole giusto disgusto per il tiranno, assumere una posizione distanziata da lui, come nella celebre immagine dell’eroina in Caravaggio. Ma nello stesso tempo però occorre che i due si conoscano e si avvicinino, affinché vittima e carnefice si scambino di posto. Giungere a compiere l’atto di giustizia è per lei come addentare la scorza amara e pungente di un limone – di cui ne è pieno il pavimento della scena – per arrivare poi a berne il succo, che purifica e disinfetta. È necessario che Oloferne muoia, come ricorda la serva (Aurora Cimino) alla sua padrona. Non merita quella pietà che egli rifiuta di provare per alcuno.
Giuditta ribalta la scena della passione e del delitto – lo fa anche fisicamente rovesciando il divano rosso al centro del palco – con la sola forza del suo coraggio femminile, sfidando lo strapotere del maschio Oloferne, nuda e vulnerabile ma comunque dignitosa, pura come la sua pelle bianca.
data di pubblicazione:26/11/2019
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Nov 26, 2019
(Auditorium Parco della Musica sala Petrassi – Roma, 20/23 novembre 2019)
Un progetto europeo di ampio respiro quello di Thomas Ostermeier, uno dei più importanti registi tedeschi della scena europea, già presentato con successo in Francia, in Inghilterra e in Germania: il medesimo testo, Ritorno a Reims, tratto dall’omonimo saggio che il sociologo francese Didier Eribon ha pubblicato nel 2009, con una differente riscrittura della drammaturgia in ogni paese europeo in cui viene rappresentato per tener conto della realtà politica e sociale nazionale, in stretta collaborazione con il teatro e gli attori chiamati in causa. Un progetto che in Italia ha visto coinvolto il Piccolo Teatro di Milano e la coproduzione del Roma Europa Festival che ha ospitato lo spettacolo all’interno del Festival dal 20 al 23 novembre, presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Siamo in uno studio di registrazione e l’attrice Sonia Bergamasco sta lavorando al commento sonoro di un documentario dedicato allo stesso Eribon. Accanto a lei, il regista, interpretato da Rosario Lisma, e l’ingegnere del suono, Tommy Kuti.
Scorrono le immagini e la voce narrante della Bergamasco accompagna il viaggio del filosofo verso la sua città natale, Reims, da cui manca da decenni, da quando ha intrapreso la carriera universitaria, viaggio compiuto per rivedere la madre, rimasta sola a seguito anche della morte del padre con il quale Eribon aveva da tempo troncato ogni relazione.
Da questo ritorno e dall’incontro con la madre prende inizio un percorso a ritroso negli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della gioventù. Eribon ricostruisce la propria storia di figlio di operai, gay, schiacciato dalla doppia discriminazione, sociale e sessuale, ripercorrendo le proprie scelte ed i conseguenti gradi di separazione adottati verso i familiari e verso la politica.
Nel confronto con il passato, Eribon si scontra con i lati oscuri della società contemporanea, il declino delle ideologie e le delusioni delle classi borghesi e proletarie che hanno portato all’avanzata della destra populista del Front National, traendo spunto dalla vita privata per raccontare la Francia contemporanea.
Ritorno a Reims è la storia di un distacco durato per 20 anni e di una riconciliazione con il passato e con la madre che di li a poco morirà, mentre il treno corre e rivivono gli scorci di fabbriche e case popolari oramai in abbandono. Ma non c’è solo una storia da raccontare in quello studio di registrazione; ad essa si sovrappone il presente e le storie dei tre personaggi che portano in scena se stessi: Sonia, Rosario, Tommy. Parallelamente alla vicenda di Eribon dunque c’è il loro vissuto personale ed inevitabilmente nascono domande alla vista di spezzoni di realtà passata e recente. Che fare per cambiare le cose? Cosa fa e cosa può fare ognuno di noi?
Ed ecco allora che anche le immagini proiettate si sovrappongono ed i confini della storia si allargano. Passano fotogrammi di dimostrazioni, pro e contro, si scorge l’immagine di Mitterrand alla prima elezione come Presidente della Repubblica francese, ma poi si individua il volto di Berlinguer, la situazione italiana, con filmati storici e gli ideali del ‘68, fino a una deriva sempre più a destra, sostenuta dalle classi cosiddette operaie e meno agiate, l’ascesa della Lega e i cortei contro Salvini.
Che fare, dunque? Se lo chiede la bravissima Sonia Bergamasco, se lo chiede il regista Rosario Lisma, se lo chiede il Tecnico del suono Tommy Kuti, che si dichiara nigeriano-italiano, e porta il suo vissuto di emigrato nero e di rapper. E il pubblico viene coinvolto in prima persona.
Tutti personaggi in cerca di identità, perché nessuno può tirarsi fuori e la responsabilità è di tutti..
Ed all’interrogativo su cosa ognuno di noi può fare per evitare tutto questo, Rosario Lisma risponde mostrando su youtube il video registrato a Mazara del Vallo, quando in aprile aveva parlato ai suoi concittadini in risposta a un comizio di Salvini.
Lo spettacolo è finito ed il messaggio è arrivato forte e chiaro: potrà essere certamente considerato di parte, ma è la voce di una coscienza che non può più far finta che sia solo una rappresentazione.
data di pubblicazione:26/11/2019
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