EMA di Pablo Larraín, 2019

EMA di Pablo Larraín, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Pablo Larraín ha presentato in concorso al Festival Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la sua settima pellicola, Ema, storia di una giovane donna testarda e carismatica, forte e determinata, anche quando tutto sembra precipitare.

Ema è una giovane ballerina di talento (Mariana Di Girolamo) che lavora in una compagnia guidata dal marito, il coreografo Gaston (Gael Garcia Bernal). Il matrimonio dei due è però a pezzi a seguito della scelta pesante di allontanare il bambino di sei anni che avevano adottato, Palo. Il problema è che il piccolo ha tentato di incendiare casa, deturpato il volto della sorella di Ema ed ha congelato un gatto. Ema tenta di superare il senso di colpa per non aver saputo gestire e crescere il bambino, accusando il marito di essere il responsabile di quanto avvenuto.

La storia si sviluppa tra le strade di Valparaíso, città portuale del Cile, un piccolo grande affresco pop delle nuove generazioni: abiti maculati e fasciati, paesaggi urbani scrostati, neon e fiamme, in compagnia della musica, il reggaeton apparente inutile ma alla fine adrenalinico: è ritmico, euforico, trasmette eccitazione ed erotismo.

I protagonisti si avvicinano e si allontanano, scaricandosi addosso le proprie frustrazioni. Ema entra in un vortice frenetico di esperienze estreme di sesso e distruzione piromane, per compiere la propria espiazione, coinvolgendo in questo vortice tutti coloro che le sono intorno.

In realtà dietro c’è un piano lucido che riesce a portare a termine. Cosa ci sia davvero dietro il suo sguardo vitale e folle eppure sempre fermo e deciso, lo si scopre negli ultimi dieci minuti di film.

È motivata da un implacabile individualismo, perché sa chiaramente cosa vuole ed è capace di sedurre coloro che la circondano per realizzare il suo disegno: essere madre ed avere una famiglia.

Un semaforo in fiamme, ed una donna con un lanciafiamme in spalla. È questa la traccia iniziale su cui il regista monta e smonta il racconto che va avanti su diversi piani temporali, nascondendo e rivelando in un ordine quasi casuale che permette a ciascuno di ricreare il proprio puzzle fatto di proprie ipotesi e deduzioni.

Ema è una stella che emana calore, un calore che quando è troppo forte brucia chi le sta vicino, ma che alla fine regala energia e vita proprio così come quel reggaeton che riesce ad accenderla, visto che è proprio il ballo a dettare il tempo, in un susseguirsi ora frenetico ora silenzioso di parole ed emozioni.

Nella finissima visione di Larraín c’è la distruzione del concetto di famiglia nella sua accezione tradizionale ma anche la sua ricostituzione in chiave non proprio convenzionale ma certamente efficace per tutti i protagonisti, il tutto supportato dall’espressione artistica per esorcizzare e guarire dal dolore, perché se un dolore ti ferisce, allora bruciare la ferita aiuta a guarire e a sopravvivere.

data di pubblicazione:01/09/2019








MADRE di Rodrigo Sorogoyen, 2019

MADRE di Rodrigo Sorogoyen, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Elena, rincasando con sua madre, riceve una telefonata del figlio Ivàn, di appena 6 anni, in cui il bambino, in evidente stato di agitazione, la informa che suo padre ed ex marito di Elena, con il quale è in vacanza nel sud della Francia, lo ha lasciato da solo su una spiaggia che non sa con esattezza in quale località si trovi, per tornare nel camper parcheggiato in un bosco limitrofo a prendere i suoi giocattoli. La telefonata si interrompe mentre un uomo si sta avvicinando al bambino….

 

La sequenza iniziale del film Madre di Rodrigo Sorogoyen, ricca di una buona dose suspense adrenalinica, ricalca il pluripremiato cortometraggio omonimo con il quale nel 2017 il regista spagnolo ottenne il premio Goya, oltre ad una infinità di altri riconoscimenti, e la nomination all’Oscar per la sua categoria. La storia, presentata a Venezia nella sezione Orizzonti, riparte da quella stessa spiaggia deserta, dieci anni dopo l’ultimo avvistamento di Ivàn, dove Elena (Marta Nieto, la stessa attrice del corto) si è trasferita dalla Spagna e dirige un ristorante. Sembra tutto molto assopito: è passato del tempo ed Elena conduce una vita monotona ma normale, ha un compagno molto accudente ed amorevole, ed è stimata sul lavoro. La donna oggi ha 39 anni. Un giorno, mentre passeggia su quella spiaggia come fa sempre dopo pranzo da dieci anni, incontra un ragazzo francese che non può fare a meno di seguire sino a casa: il ragazzo, che ha sedici anni e studia lo spagnolo, le ricorda il figlio. Da quel momento i due cominceranno a frequentarsi nello sconcerto di tutti, soprattutto dei genitori del sedicenne.

Il film, splendidamente interpretato da Marta Nieto, famosa attrice di serie Tv spagnole ed al suo primo lungometraggio, mantiene una costante suspense nonostante le oltre due ore di durata, con un finale inaspettato ma non palesato dalla telecamera che lascia uno spiraglio aperto allo spettatore e gli concede di tirare un sospiro di sollievo. Il film di Sorogoyen, al pari di Ema di Pablo Larraín presentato quest’anno in concorso al Festival, ci descrive seppur in modo molto diverso l’elaborazione della perdita di un figlio, il lutto peggiore che possa colpire una madre, e ci fa tornare a sorridere sul finale con le protagoniste dopo aver sofferto con loro. Le figure maschili sono in ombra come lo sguardo di Elena, che solo l’adolescente Jean riesce a riaccendere. Madre è una storia intima, che coinvolge, ben calibrata, senza ombre, in cui percepiamo lo sforzo immenso di questa donna che ogni giorno tenta di spostare il macigno che le appesantisce il cuore, sforzo che la consuma da dieci lunghi anni e la lascia senza forze. Finché però l’amore riaffiora: non importa se quel giovane sia realmente il figlio perduto, perché quell’amore rende viva Elena, le fa provare il calore di un abbraccio, di una carezza, di dare protezione a quel figlio che non ha visto crescere.

Il regista ci conduce per mano, e con raffinata maestria, dagli inferi alla luce, seguendo il percorso doloroso di Elena che finalmente non ha più paura di amare e perdonare, dopo infiniti falliti tentativi di buttarsi il passato alle spalle.

Quanto alla intensa Marta Nieto, è sicuramente nata una stella.

data di pubblicazione:01/09/2019








J’ACCUSE di Roman Polanski, 2019

J’ACCUSE di Roman Polanski, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

L’affaire Dreyfus, una delle pagine più celebri della storia (non solo) francese, diviene la perfetta trasposizione cinematografica di una vicenda senza tempo, in cui le cadenze del film storico si fondono a quelle del legal thriller e in cui ogni ingrediente del racconto contribuisce in maniera determinante alla composizione di un mosaico potente ed elegante.

Parigi, 1894. Nella Francia ancora logorata dalla guerra con la Prussia, la “Sezione di statistica” (ovvero i servizi segreti francesi) si muove alla spasmodica ricerca di spie al soldo dell’Impero Tedesco. Tra i sospettati c’è anche Alfred Dreyfus (Louis Garrel), ufficiale di artiglieria che corrisponde esattamente al profilo del traditore ricercato e che, soprattutto, è un ebreo. A seguito di un processo sommario, Dreyfus viene condannato alla degradazione e alla deportazione nella famigerata Isola del Diavolo. Tra coloro che infliggono la condanna esemplare c’è anche il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardine), che di lì a poco si trova inaspettatamente a capo proprio della Sezione di statistica per sostituire l’ormai malato predecessore. Attraverso il nuovo incarico Picquard prenderà consapevolezza di quanto sbrigative siano state le indagini condotte a carico di Dreyfus e a quel punto si troverà di fronte a un conflitto interiore che vede opposti la fedeltà all’Esercito e il senso di Giustizia.

L’affaire Dreyfus rappresenta certamente una delle pagine più note della storia mondiale, che nella versione cinematografica di Roman Polanski è raccontata dall’ottica del colonnello Picquard, offrendo una prospettiva indubbiamente peculiare e, per certi aspetti, originale. Il celeberrimo articolo di Émile Zola, pubblicato nel 1897 da Le Figaro e divenuto con il tempo l’emblema evocativo della libertà di stampa, funziona sul piano narrativo come momento di svolta: il processo a Zola si traduce, di fatto, nella revisione del (non) processo celebrato nei confronti di Dreyfus, innescando una tanto progressiva quanto faticosa presa di coscienza in un caso in cui il “codice d’onore” militare e i pregiudizi razziali hanno finito per prevaricare le più elementari garanzie cui il processo penale post-illuminista è ispirato.

Illegal thrillerdi Polanski centra perfettamente l’obiettivo: la meticolosa ossessione per ogni dettaglio, unita a una scrittura che scandisce millimetricamente l’andamento della storia e impreziosita dalle musiche di Alexandre Desplat, offre un affresco potente di un caso destinato a divenire un simbolo. Si rivela convincente anche la scelta di girare il film in lingua francese, malgrado il progetto iniziale prevedesse una più internazionale versione inglese.

Inutile chiedersi quanto di Roman Polanski ci sia in Alfred Dreyfus, così come inutile sarebbe “contestualizzare” (ancora una volta) la scelta di inserire J’accuse nella selezione ufficiale di una Mostra che, almeno “a parole”, ha fatto della questione femminile una delle bandiere di questa edizione. Ciò che importa è che lo sforzo produttivo, visibile fin dalla prima scena del film e che molto deve all’impegno alla lungimiranza made in Italy di Luca Barbareschi e di Rai Cinema, abbia condotto a un prodotto dalla cifra artistica brillante e prepotente. Un racconto storico che scuote le coscienze, mai didascalico eppure capace di impartire più di una lezione allo spettatore disposto ad ascoltarla.

data di pubblicazione: 31/08/2019








IL SINDACO DEL RIONE SANITÁ di Eduardo De Filippo regia di Mario Martone, 2019

IL SINDACO DEL RIONE SANITÁ di Eduardo De Filippo regia di Mario Martone, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Una personale e profonda evoluzione del testo di Eduardo de Filippo, Il sindaco del rione Sanità trasposta in chiave cinematografica da Mario Martone e presentato a Venezia dopo la forte e innovativa esperienza teatrale di due stagioni fa. Un ulteriore confronto, una necessità di espandere il meraviglioso testo di Eduardo oltre lo spazio scenico per incontrare i suoni, gli odori, i volti della Napoli dei vicoli e della povertà, della violenza, dell’ignoranza e del riscatto.

 

Stesso titolo, stessa identica trama con “qualche piccolo taglio” e nuova scommessa vinta. Ancora una volta Martone si affida ad un gruppo di straordinari ed intensi interpreti di quella terra che fanno capo al NEST – Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio, ubicato in uno dei quartieri più popolari e difficili di Napoli, dove un gruppo di giovani, attori, registi, scenografi e drammaturghi hanno ristrutturato una palestra e creato uno spazio per le arti.

Scritta nel 1960, Il sindaco del Rione Sanità è una commedia in tre atti anche interpretata da Eduardo De Filippo nella quale il protagonista, Antonio Barracano (Francesco Di Leva), è “il sindaco” della Sanità. Qui amministra da signorotto illuminato le problematiche del rione, secondo principi da “uomo d’onore” decisamente bordenline rispetto alla legge, ma certamente efficaci. Si avvale dell’aiuto di un medico che cura clandestinamente i feriti da sparatorie e regolamenti di conti che avvengono nel quartiere. Chi non ha santi e protettori si rivolge a da Don Antonio da sempre. Quando però gli si presenta disperato Rafiluccio Santaniello (Salvatore Presutto), il figlio del fornaio, deciso ad ammazzare il padre Arturo (Massimiliano Gallo), Don Antonio, cogliendo nel giovane la stessa determinazione che lo spinse all’omicidio in gioventù, si propone come mediatore finendo poi col pagare tragicamente di persona il suo intervento.

Niente spettacolarizzazioni e violenza gratuita. Nella sua visione ancora strettamente aderente al testo originale Martone rende il protagonista Antonio Barracano da anziano settantenne a ragazzo di nemmeno quarant’anni, giovane come i boss di quartiere, decisionista e autoritario, esibizionista e consumista, segnato dagli errori e dalla rabbia di una giovinezza mai vissuta che lo hanno portato a mettere da parte gli impulsi ed ad usare di più la riflessione.

Antonio Barracano è certamente un padre-padrone, ma è anche un predicatore, unico punto di riferimento per una comunità di disperati cui trasferire principi di giustizia e convivenza non sempre ortodossi ma nella sostanza egualitari. Una storia con una forte connotazione sociale che Martone traspone ai nostri giorni arricchendolo di quella complessità che oggi caratterizza le attuali generazioni, abbastanza distanti da quelle raccontate da Eduardo.

Il film uscirà in sala per tre giorni come film evento dal 30 settembre al 2 ottobre. Un film che mantiene la densità e la forza del testo di Eduardo andando però a cogliere le contraddizioni di oggi, tra rapper con felpa e cappuccio in testa ad agguati violenti nel quartiere per costruirsi inutili identità, ad una casa fatta di cristalli, sovraccarica di benessere, trasferita nella campagna alle pendici del Vesuvio, circondata da aggressivi e fedeli rottwailer, plexiglas e acciaio, nella quale vanno e vengono individui palestrati, dove si curano ferite e liti, popolata da una famiglia allargata, nella quale i pranzi si alternano a processioni di questuanti del quartiere. Questo il principato del giovane e forte Don Antonio, apparentemente immortale, che amministra e salva a modo suo quella piccola umanità, amministrando con la forza e regalando speranza. Ma la casualità o forse un destino segnato scoprirà il suo tallone d’Achille portandolo ad immolarsi poi paradossalmente per una buona azione compiuta.

Una evoluzione sul grande schermo che spiazza e cattura, dove tutto ha un senso e che ha il proprio punto di forza nelle sonorità e gestualità proposte, nelle immagini che dilatano il racconto, espressione fedele del degrado metropolitano di oggi, nella musica del dolore e della speranza.

data di pubblicazione:31/08/2019








5 È IL NUMERO PERFETTO di Igort, 2019

5 È IL NUMERO PERFETTO di Igort, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Peppino Lo Cicero è un guappo della vecchia camorra, ormai prossimo alla pensione. Ha una donna, Rita, che lo ama, ma soprattutto vive e lavora in funzione del suo amato figlio, il quale, nel corso di una resa di conti, viene freddato. Per Lo Cicero sarà una “mazzata” tremenda e innescherà una serie di reazioni assai violente che lo porteranno a prendere decisioni definitive e cogliere nuove opportunità.

 

Che cosa ci si poteva aspettare da un fumettaro, pardon, un creatore di graphic novel, come Igort, al secolo il talentuoso Igor Tuveri al suo approdo cinematografico? Esattamente quello che abbiamo potuto ammirare nella sezione Giornate degli Autori 2019 della 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

In soldoni, la messa su grande schermo del suo romanzo 5 è il numero perfetto, che, nel lontano 2004, aveva registrato un grande successo nel mondo delle “nuvole parlanti”: una storia dura, un noir in salsa napoletana, fatta di immagini forti e laceranti. Girata tra la sua Sardegna e una Napoli che fa pensare a Sin City, la pellicola, girata con lo stesso perfezionismo caro a Igort e grazie alla notevole fotografia di Nicolaj Bruel, tutta ombre e colori sparati, narra una storia di camorra drammatica nei contenuti, ma con toni che vanno dall’ironico al fantasioso. Frequenti i passaggi dai campi medi ai piani ravvicinati, in un interessante mix di teatro, cinema e naturalmente “fumetto d’autore”. Igort ha raccontato (sono parole dell’autore nel corso della conferenza stampa): “una vita di malaffare intrisa di quella violenza che è il centro di quella esistenza, però attraverso uno sguardo non voyeuristico ma semmai più vicino alla coreografia con corpi che sembrano quasi danzare…” Naturalmente, nel rispetto di una storia “hard boiled” non possono mancare sparatorie, tradimenti, uccisioni e duelli, quasi da western alla Leone (e non dico altro per non togliere la necessaria suspance), a sottolineare il tessuto malavitoso della vicenda. Al servizio di un film che lo stesso regista ha definito “un ibrido”, attori in stato di grazia, il solito, perfetto, Toni Servillo (Peppino), Carlo Buccirosso (Totò o’ macellaio) e, come si dice in questi casi, una intensa e misurata Valeria Golino (Rita). Esordio nel complesso interessante.

data di pubblicazione:31/08/2019








TUTTA COLPA DI MARIA di Mara Fux- Prospettiva editrice, 2019

TUTTA COLPA DI MARIA di Mara Fux- Prospettiva editrice, 2019

Parenti serpenti? La famiglia è un bel pezzo della società civile italiana ma spesso è un microcosmo che riserva sorprese. Famiglie protette dal familismo e da segreti inconfessabili. Da questo viluppo si dipana la storia complicata che Mara Fux disciplina con maestria. Tra parentele insospettabili, coperture moraliste e una vita che comunque si produce come in una recita di fronte a continui disvelamenti e a cambi di prospettiva. Un punto di forza nei dialoghi che fanno avanzare la trama attraverso le contraddizioni e i conflitti dei protagonisti. La curiosità sembra l’impulso predominante che spinge la protagonista a non accontentarti della realtà superficiale ma la indice a frugare nell’albergo genealogico alla ricerca di una ricostruzione non fittizia del reale e dell’esistente. A fronte della pigra acquiescenza di chi la circonda si riafferma un perentorio desiderio di parresia, di girare le carte coperte e a addivenire alle rivelazioni possibili. La tesi non è sviluppata come un teorema perché s’intreccia e s’interseca con una vita dedita al lavoro, alle pubbliche relazioni, al marketing nel mondo dello spettacolo ed anche su questo versante vengono scritte parole non banali che mostrano la vera faccia dello show business. La capacità di padroneggiare la materia sempre più incandescente del plot è uno dei sicuri punti di forza del libro. Che non ha toni drammatici ma pacati e come in un andamento a spirale conduce il lettore a cibarsi della stessa ansia di verità della narratrice. Perché si sa di verità non si è mai sazi. La famiglia che nasconde segreti dietro un’apparente normalità potrebbe essere una qualunque delle famiglie italiane che tacciono e si nascondono di fronte all’evidenza di parentele scomode se non addirittura negate. Istituzione in crisi la famiglia, per alcuni baluardo da rilanciare. Certo, un valore che lo stato già sociale oggi poco difende. Di qui l’impressionante crisi di natalità di quello che una volta era il Belpaese.

data di pubblicazione:30/08/2019

MARRIAGE STORY di Noah Baumbach, 2019

MARRIAGE STORY di Noah Baumbach, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Ed anche quest’anno il Festival di Venezia si contrappone a Cannes nell’accogliere ben tre film che usciranno in streaming sulla piattaforma Netflix prima ancora che in sala. La prima pellicola è Marriage Story di Noah Baumbach, presentato ieri in Concorso al Lido ed interpretato da Adam Driver e Scarlett Johansson, accolti da una folla di fan in delirio.

 

Il film parla della lunga strada che una coppia di New York deve “attraversare” per arrivare alla separazione nel modo più amichevole possibile, ma non senza sofferenza, nel rispetto dell’amore che reciprocamente nutrono per il piccolo Henry, il loro unico figlio, perché questi possa continuare a crescere senza troppi traumi. Nicole, attrice di Los Angeles divenuta famosa grazie ad una commedia televisiva di successo, incontra Charlie, un talentuoso regista teatrale di New York di cui dichiara di essersi innamorata in soli due minuti; in nome di questo amore si trasferisce da Los Angeles, dove vive la sua famiglia, a New York, iniziando a lavorare come attrice teatrale senza tuttavia avere uno spiccato talento nel settore. Una coppia affiatata solo in apparenza, perché le rinunce a volte inutili di lei, e la cecità di Charlie, ambizioso e strenuo sostenitore delle proprie idee, li portano ad un progressivo allontanamento emotivo che, inizialmente, entrambi non sanno dove li trascinerà. Perlomeno sino a quando non entreranno in scena i legali divorzisti che, in poco tempo e senza mezzi termini, li porteranno ad accettare di modificare in maniera traumatica il loro quotidiano, stravolgendo così anche le loro vite professionali. Nicole, più risoluta nel voler divorziare, si trasferirà con Henry a Los Angeles dove riprenderà a lavorare in TV, mentre Charlie dovrà fare la spola da New York per vedere il figlioletto, tentando di conciliare questi incontri via via più complessi con gli impegni teatrali.

Adam Driver e Scarlett Johansson sono bravissimi e ne danno prova sempre, sia nelle scene di inevitabile tensione sia in quelle dove la tenerezza scivola tra le maglie della stanchezza, dopo che la quotidianità con il suo rassicurante bagaglio è andata distrutta: i due interpreti sanno mettere a nudo fragilità, egoismi, incomprensioni con molta maestria, e sono decisamente il fulcro del film. Non si possono altrettanto esaltare i ruoli assegnati a Laura Dern e Ray Liotta nella parte dei legali divorzisti rispettivamente di Nicole e Charlie, a tratti macchiettistici che appesantiscono invece di alleggerire il film al pari di alcune scene cantate, che sortiscono l’effetto di allungarlo inutilmente.

Inoltre, per la trama e per alcune dinamiche, è quasi inevitabile ritornare con la mente a quel Kramer contro Kramer in cui Maryl Streep e Dustin Hoffman, giovanissimi e bravissimi, si contendevano l’affidamento del loro bambino: questa cosa fa perdere un po’ di fascino alla storia di Baumbach che, seppur ben articolata sul concetto che l’amore non finisce ma si trasforma e seppur mantenga a tratti i passaggi dolorosi di un divorzio vissuto realmente dal regista che conferiscono un realismo di vita vissuta in cui, anche quando tutto va in frantumi, non si perde la naturalezza di certi gesti che ti faranno sempre asserire di essere stati una famiglia, non convince sino in fondo, lasciando l’amara sensazione di qualcosa di già visto.

data di pubblicazione:30/08/2019







AD ASTRA di James Gray, 2019

AD ASTRA di James Gray, 2019

Un padre e un figlio accomunati dalla passione e dalla dedizione per la scoperta dello Spazio. Una minaccia, proveniente dal passato, che rischia di distruggere il futuro del Pianeta Terra. Un dramma intimista e psicologico proiettato nell’infinità dell’Universo.

Roy McBride (Brad Pitt) è un astronauta impeccabile: esperto, coraggioso, con il battito cardiaco che resta regolare anche quando precipita da una stazione spaziale per approdare sano e salvo sulla Terra. Quella stessa Terra che, neanche a dirlo, rischia di scomparire per una minaccia proveniente dallo Spazio più profondo. Si tratta di qualcosa che ha a che vedere con il padre di Roy (Tommy Lee Jones), autentica leggenda per le successive generazioni di astronauti e scomparso misteriosamente dopo un progetto destinato a spingersi fino ai confini del Sistema solare, oltre le colonne d’Ercole dello Spazio conosciuto e conoscibile. Suo figlio è il solo davvero in grado di chiudere quel cerchio, intraprendendo una missione che dovrebbe condurlo a salvare la Terra, ma durante la quale dovrà prima di tutto salvare se stesso.

Dopo Gravity e First man, Venezia ritenta la via della fantascienza “spaziale”. Il tormento individuale di un uomo, consumato nelle dimensioni incommensurabili dell’Universo, si proietta sullo sfondo di un futuro (forse immaginato come non così remoto) nel quale andare sulla Luna somiglia molto a un viaggio con un volo low cost, per poi ritrovare sul nostro satellite, deprivato della poesia che lo ha reso celebre, tutte le storture del mondo contemporaneo: dalle insegne accattivanti dei mega stores alla criminalità violenta e spregiudicata.

Ad astra, tuttavia, sembra fermarsi a metà dell’opera. Malgrado alcune scelte senza dubbio apprezzabili sul piano estetico e nonostante la recitazione intensa e introspettiva di Brad Pitt (che è anche il produttore del film), il racconto di James Gray non riesce a sviluppare fino in fondo il dramma esistenziale dell’ennesima vittima del complesso di Edipo, che dietro la maschera imperturbabile di lucido dominatore delle proprie emozioni nasconde “solamente” la paura di restare solo. La storia, impreziosita da personaggi minori affidati ad interpreti di eccezione (Donald Sutherland, Liv Tyler, Ruth Negga) si regge spesso su passaggi banali o decontestualizzati e il confronto con alcuni capisaldi del genere, a partire dal “citato” 2001: Odissea nello spazio, rischia di risultare impietoso.

Il vero merito di Ad astra è stato certamente quello di riportare al Lido Brad Pitt che, confermando il suo talento di interprete e di produttore, colora la Mostra con quel tocco di divismo hollywoodiano forse poco “autoriale” ma certamente in grado di sintetizzare l’irrazionale magia del Cinema che, almeno qualche volta, riesce nel proverbiale intento di mettere d’accordo pubblico e critica.

data di pubblicazione: 29/08/2019







THE PERFECT CANDIDATE di Haifaa al-Mansour, 2019

THE PERFECT CANDIDATE di Haifaa al-Mansour, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Un giovane candidato alle elezioni comunali inneggia al cambiamento e impegna tutte le sue energie in una campagna elettorale appassionata e “visionaria”. Niente di strano, se non fosse che le elezioni si tengono in Arabia Saudita e che il “candidato perfetto” è una giovane donna impegnata come medico di prima linea in un ospedale della città.

Arabia Saudita, una città senza nome. La vita scorre scandita dal ritmo delle preghiere, dei digiuni, dei peccati, delle regole di una società ancora rigidamente patriarcale.

Maryam (Mila Alzahrani) è una giovane dottoressa: visita i suoi pazienti con il volto coperto e se qualche malato si agita troppo all’idea che sia una donna a prendersi cura della sua salute, poco male, saranno degli infermieri uomini ad eseguire la diagnosi e a prescrivere la terapia.

La strada che conduce all’ospedale è ormai ricoperta dal fango, forse anche a simboleggiare una comunità che preferisce restare nel suo stagnante torpore anziché “ripulirsi” dalle incrostazioni del pregiudizio e della cecità culturale. Proprio mentre fallisce il suo primo tentativo di “candidatura” sul piano professionale, Maryam si trova casualmente catapultata in una campagna elettorale per il Consiglio comunale della sua città. A questo punto decide di intraprendere un percorso tanto azzardato quanto sognatrice: se vincerà, potrà finalmente asfaltare quella strada che le impedisce di coltivare il suo lavoro e i suoi ideali.

La campagna elettorale di Maryam si traduce in un viaggio tanto privato (nella sua famiglia) quanto sociale (nella sua comunità). L’assenza di un padre, ancora alla ostinata ricerca della “candidatura perfetta” che coroni la sua carriera da musicista, è compensata, almeno in parte, dalle due sorelle che, come novelle piccole donne, cercano di meritarsi tutte insieme il proprio posto nel mondo.

Il film di Haifaa al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley) si colloca lungo una delle linee tematiche “dichiarate” di Venezia 76: la questione femminile e, più in generale, i temi che ruotano attorno al baricentro della “donna”. Il rischio di scivolare nel luogo comune consolatorio e utopico è sempre dietro l’angolo, anche se The perfect candidate ne resta in buona parte immune. I toni della narrazione non sono mai drammaticamente sacrali, lasciando anzi spazio all’ironia e alla quotidianità di tante giovani donne che, senza il velo che ne nasconde il volto, sono semplicemente delle ragazze affamate di vita. Lo scatto d’orgoglio e di dignità che muove, fin dall’inizio, i passi della protagonista è un inno al coraggio e alla speranza. La parte finale, forse, non risulta all’altezza delle aspettative create dal film: lo spazio (legittimo) lasciato alla speranza rasenta a tratti l’utopia buonista, più adatta al racconto televisivo che a quello cinematografico.

The perfect candidate resta comunque una preziosa occasione di riflessione su temi che, non solo in Arabia Saudita, sarebbe meglio non dare mai per scontati: le parole e le lacrime della regista in conferenza stampa ne sono una (ennesima) conferma.

data di pubblicazione: 29/08/2019








LA VÈRITÈ di Kore-Eda Hirokazu, 2019

LA VÈRITÈ di Kore-Eda Hirokazu, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Autore del recente Un affare di famiglia, ma anche di Father and Son, Little sister e Ritratto di famiglia con tempesta, Kore-Eda Hirokazu con La vérité apre, in Concorso, la 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il regista giapponese, che nel 2003 aveva scritto questa storia nella forma di una pièce teatrale che prevedeva come unica ambientazione il camerino di un’attrice, ha deciso di far debuttare la sua idea sul grande schermo girando la pellicola a Parigi con interpreti francesi d’eccezione, non rinunciando tuttavia nella prima e nell’ultima scena a due splendide inquadrature di alberi autunnali che, con il cadere lieve delle foglie, ci traghettano in quel suo mondo poetico che ben conosciamo, in cui ciò che si prova emotivamente è più importante di ciò che viene provato dalla realtà dei fatti.

 

Fabienne (Catherine Deneuve) è una star del cinema francese che ha di recente pubblicato un’autobiografia in cui sua figlia Lumir (Juliette Binoche), che vive a New York sposata ad un mediocre attore americano (Ethan Hawke) e madre a sua volta, non si riconosce. Il confronto tra madre e figlia, quest’ultima accorsa a Parigi per la presentazione del libro, sarà necessario ad entrambe per far emergere “la verità” sui loro rapporti, sul loro differente modo di sentire, sui loro rancori ancora molto vivi e sulle loro ripicche che hanno portato entrambe a vivere in modo diametralmente opposto le loro esistenze. Fabienne è una donna libera, autonoma, che non rinuncia ad essere attrice anche nella vita, perché per lei recitare è la cosa più importante della sua esistenza; mente Lumir sembra volerle ogni giorno dimostrare che al contrario è la famiglia la cosa più importante, dando costantemente di sé un’immagine di donna realizzata come moglie e come madre, pur essendo una apprezzata sceneggiatrice. In questa altalena continua tra realtà e finzione ma, soprattutto, di quanto di vero si è disposti a mettere in gioco nella interpretazione di un personaggio, si alimenta la nuova storia di Kore-Eda che già ci aveva dimostrato, nel suo gioiello del 2018 Un affare di famiglia, come si può essere una famiglia senza esserlo realmente, in una finzione più incisiva della realtà.

L’interrogativo se sia davvero più importante la verità di una bugia e quanto di vero possa esserci nel ruolo di attore allorquando si accinge ad immedesimarsi, con il corpo e con la mente, nella vita degli altri, il regista giapponese non lo scioglie lasciando allo spettatore la scelta, usando la metafora del cinema come rappresentazione della verità attraverso la finzione.

La prova delle due interpreti femminili arriva diretta al cuore, culminando quasi sul finale in un confronto che ci fa commuovere, ma anche sorprendere come quando, di fronte ad un’eccellente prova attoriale ci si vergogna un po’, a luci accese, ad asciugarsi le lacrime per averci creduto. Ottime anche le performances di Ethan Hawke e degli altri interpreti maschili, volutamente in ombra, che fanno da cornice a tanto sentire.

La pellicola non raggiunge l’intensità dei precedenti lavori di Kore-Eda Hirokazu, ma non si può che togliersi tanto di cappello di fronte alla bravura del duo Deneuve-Binoche che fanno di questo film, non perfetto, un film emozionante, in cui ognuna ha messo molto di sé come hanno dichiarato durante una affollata conferenza stampa. Distribuito da BIM, uscirà nelle sale il 3 ottobre, sperando che il doppiaggio non rovini proprio questa sinergia che è il vero punto di forza della pellicola.

data di pubblicazione:28/08/2019