ROMA EUROPA FESTIVAL The Valley (an apocalypse) – Hans Op de Beeck, Eric Sleichim, Bl!ndman Ensemble

ROMA EUROPA FESTIVAL The Valley (an apocalypse) – Hans Op de Beeck, Eric Sleichim, Bl!ndman Ensemble

(Teatro 1 Mattatoio – Roma, 26/27 settembre 2019)

È un’opera di teatro musicale il nuovo lavoro di Hans Op de Beeck, in collaborazione con Eric Sleichim e la sua Bl!ndman Ensemble, per la drammaturgia di Tobias Kokkelmans. The Valley (an apocalypse) è stato presentato il 26 e 27 settembre con grande successo al Teatro 1 del Mattatoio.

Un uomo (l’attore Dirh Roofthooft) è seduto ai piedi di una piccola arena e racconta la sua incredibile storia. È circondato da musicisti che accompagnano il tragico racconto mentre tra di loro si aggira una donna con le ali nere (il soprano Lore Binon). E’ forse il suo angelo custode o la figlia consegnata all’acqua o la sua anima.

 

The Valley (an apocalypse) è un’opera coraggiosa in un viaggio nella memoria e nell’intimità forse anche nel solo immaginato, in uno spazio simbolico fatto di sassofoni, di una fisarmonica che suona in autonomia e di un rettangolo d’acqua.

L’artista visivo Hans Op de Beeck che vive e lavora a Bruxelles ci porta in un mondo fatto di ombre che sembra abitare al di sotto della superficie terrestre per narrarci delle storie, fatte di odori e sensazioni, di ricordi. Una narrazione tragica che parla anche di bellezza, di canto ancestrale, di vibrazioni, di incontri, di desideri, capace di far entrare lo spettatore in un sogno tanto esteriore quanto interiore, grazie alla cura della parola ed alla magia del disposto scenico.

Il protagonista è seduto a occhi chiusi, drammaticamente solo e incapace di dare direzione a una vita che lo coinvolge e lo sovrasta senza che lui possa realmente decidere da che parte e soprattutto verso dove andare.

Prima guidato da un eremita in una valle dove non c’è la luce del giorno e il livello dell’acqua cresce annunciando la catastrofe a venire, poi coinvolto nella relazione erotica con Jara, l’uomo appare sempre in bilico tra ciò che trova quasi per puro caso e ciò che inevitabilmente perderà, dalla valle all’amore della sua vita. La nascita di una bambina, dunque la famiglia, diventa alla fine l’ennesimo disperato tentativo dell’essere umano di emergere dall’abisso della propria esistenza e spezzare il ciclico e spietato reiterare di vita e morte.

Un’apocalisse poetica esistenziale nel ciclo dell’acqua che toglie e regala.

data di pubblicazione:1/10/2019

IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ di Mario Martone, 2019

IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ di Mario Martone, 2019

Una personale e profonda evoluzione del testo di Eduardo de Filippo, Il sindaco del rione Sanità trasposta in chiave cinematografica da Mario Martone e presentato a Venezia dopo la forte e innovativa esperienza teatrale di due stagioni fa. Un ulteriore confronto, una necessità di espandere il meraviglioso testo di Eduardo oltre lo spazio scenico per incontrare i suoni, gli odori, i volti della Napoli dei vicoli e della povertà, della violenza, dell’ignoranza e del riscatto.

Stesso titolo, stessa identica trama con “qualche piccolo taglio” e nuova scommessa vinta. Ancora una volta Martone si affida ad un gruppo di straordinari ed intensi interpreti di quella terra che fanno capo al NEST – Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio, ubicato in uno dei quartieri più popolari e difficili di Napoli, dove un gruppo di giovani, attori, registi, scenografi e drammaturghi hanno ristrutturato una palestra e creato uno spazio per le arti.

Scritta nel 1960, Il sindaco del Rione Sanità è una commedia in tre atti anche interpretata da Eduardo De Filippo nella quale il protagonista, Antonio Barracano (Francesco Di Leva), è “il sindaco” della Sanità. Qui amministra da signorotto illuminato le problematiche del rione, secondo principi da “uomo d’onore” decisamente border line rispetto alla legge, ma certamente efficaci. Si avvale dell’aiuto di un medico che cura clandestinamente i feriti da sparatorie e regolamenti di conti che avvengono nel quartiere. Chi non ha santi e protettori si rivolge a da Don Antonio da sempre. Quando però gli si presenta disperato Rafiluccio Santaniello (Salvatore Presutto), il figlio del fornaio, deciso ad ammazzare il padre Arturo (Massimiliano Gallo), Don Antonio, cogliendo nel giovane la stessa determinazione che lo spinse all’omicidio in gioventù, si propone come mediatore finendo poi col pagare tragicamente di persona il suo intervento.

Niente spettacolarizzazioni e violenza gratuita. Nella sua visione ancora strettamente aderente al testo originale Martone rende il protagonista Antonio Barracano da anziano settantenne a ragazzo di nemmeno quarant’anni, giovane come i boss di quartiere, decisionista e autoritario, esibizionista e consumista, segnato dagli errori e dalla rabbia di una giovinezza mai vissuta che lo hanno portato a mettere da parte gli impulsi ed ad usare di più la riflessione.

Antonio Barracano è certamente un padre-padrone, ma è anche un predicatore, unico punto di riferimento per una comunità di disperati cui trasferire principi di giustizia e convivenza non sempre ortodossi ma nella sostanza egualitari. Una storia con una forte connotazione sociale che Martone traspone ai nostri giorni arricchendolo di quella complessità che oggi caratterizza le attuali generazioni, abbastanza distanti da quelle raccontate da Eduardo.

Il film sarà in sala per tre giorni come film evento dal 30 settembre al 2 ottobre. Un film che mantiene la densità e la forza del testo di Eduardo andando però a cogliere le contraddizioni di oggi, tra rapper con felpa e cappuccio in testa ad agguati violenti nel quartiere per costruirsi inutili identità, ad una casa fatta di cristalli, sovraccarica di benessere, trasferita nella campagna alle pendici del Vesuvio, circondata da aggressivi e fedeli rottwailer, plexiglas e acciaio, nella quale vanno e vengono individui palestrati, dove si curano ferite e liti, popolata da una famiglia allargata, nella quale i pranzi si alternano a processioni di questuanti del quartiere. Questo il principato del giovane e forte Don Antonio, apparentemente immortale, che amministra e salva a modo suo quella piccola umanità, amministrando con la forza e regalando speranza. Ma la casualità o forse un destino segnato scoprirà il suo tallone d’Achille portandolo ad immolarsi poi paradossalmente per una buona azione compiuta.

Una evoluzione sul grande schermo che spiazza e cattura, dove tutto ha un senso e che ha il proprio punto di forza nelle sonorità e gestualità proposte, nelle immagini che dilatano il racconto, espressione fedele del degrado metropolitano di oggi, nella musica del dolore e della speranza.


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data di pubblicazione: 2/10/2019

IL TEMPO DELL’IPOCRISIA di Petros Markaris – La Nave diTeseo, 2019

IL TEMPO DELL’IPOCRISIA di Petros Markaris – La Nave diTeseo, 2019

Ci siamo disposti con il massimo di disponibilità e di atteso piacere nel leggere l’ennesima investigazione del commissario Kostas Charitos, rimanendo alla fine delusi perché in oltre 350 pagine di abile letteratura, sul fondale di una Grecia apparentemente risanata, la sorpresa e le emozioni sono decisamente mancate. Come se l’obbligo contrattuale di fornire su commissione l’ennesima puntata della saga avesse prosciugato la fantasia di un autore ormai più che ottantenne, una sorta di Camilleri ellenico. Sono più singolari i minuetti familiari (a volte però distraenti), le discussioni gastronomiche in famiglia del plot poliziesco, davvero esile e banale, trascinato ineluttabilmente verso un finale piatto e senza scosse. Non c’è tensione nelle ricerche di Charitos, molta routine e le difficoltà a guidare nel caotico traffico di Atene. Un deja vu estenuato che determina attimi di noia e una curiosità inappagata per una storia che si trascina stancamente verso un epilogo non prevedibile ma tutt’altro che emozionante. L’assassino (gli assassini) compaiono come figure comparse durante la narrazione ma non appassionano e il tema della crisi e della povertà della vita in Grecia non è un alibi suadente per giustificare le loro azioni. Il libro scorre ma non incide, racconta ma non graffia. Come se l’autore navigasse a vista verso un finale abbastanza qualunque. Le vittime sono altrettanti ipocriti ma i carnefici non sono soggetti migliori né altamente credibili. Dietro l’Esercito degli Idioti Nazionali c’è la metafora di un mondo ingiusto, della Banca Centrale Europea e di un’unione continentale ben lontana dall’essere realizzata. Tutto molto prosaico e didascalico verso un lavoro ideologicamente a tesi, non sostenuto da una trama altrettanto ambiziosa e, diciamo pure, all’altezza del compito. Terminato il libro viene voglia di confrontare il risultato con le puntate precedenti. E il confronto è evidentemente piuttosto impari per il più letto autore della Grecia contemporanea.

data di pubblicazione:28/09/2019

ROMA EUROPA FSTIVAL Orestes in Mosul, regia di Milo Rau

ROMA EUROPA FSTIVAL Orestes in Mosul, regia di Milo Rau

(Teatro Argentina – Roma, 23/25 settembre 2019)

Il regista svizzero Milo Rau torna al Romaeuropa Festival con Orestes in Mosul, in scena dal 23 al 25 settembre al Teatro Argentina, in prima nazionale dopo avere debuttato proprio nella città di Mosul. Malvagità, bramosia di potere, sete di vendetta e sangue che chiama sangue. L’Orestea, la trilogia classica di Eschilo e lo sfondo della guerra di Troia viene rivissuta in Iraq, per raccontare la violenza dell’Isis ed il massacro di un popolo e di una terra.

 

 

Un lavoro concepito a Mosul, con la compagnia NTGent e con artisti locali e gente comune, militanti, poeti e cittadini del luogo dove si consuma la tragedia e dove nella culla dell’antichità rivive l’orrore del passato prossimo e del presente.

Orestea ambientata nel contesto della situazione siriano-irachena e del trattamento riservato ai reduci jihadisti: il ciclo della violenza ed il destino sanguinario degli Atridi rivivono in Iraq e in una terra martoriata e senza pace. Gli omicidi concatenati della saga diventano il simbolo di una storia umana attualizzata attraverso le presenze dei protagonisti e soprattutto, attraverso gli scorci devastati di Mosul e le interviste, secondo una dolorosa sovrapposizione di attori in scena e di immagini che scorrono alle spalle.

Ma quella che è una persecuzione per volere degli dei e che in Eschilo si risolve grazie al perdono di Atena, che porta la pace e la riconciliazione, ponendo le basi della democrazia come può essere oggi sconfitta? Soltanto gli uomini sono responsabili della loro azione, ma come ricostruire oggi dopo la guerra? quale giustizia mettere in atto verso i jihadisti? Che perdono concedere agli assassini?

Tra reportage e rappresentazione il teatro inchiesta di Milo Rau torna a parlare di violenza, compassione e perdono non solo per rappresentare le storie ma soprattutto per scuotere le coscienze ed essere parte attiva del cambiamento, secondo i dettami del Manifesto per un teatro contemporaneo stilato dallo stesso Milo Rau nel 2018, al suo arrivo alla guida del Teatro NTGent in Belgio.

Lo schema della tragedia viene mantenuto nella sua essenza e detta lo svolgimento dell’azione scenica tra ospedali da campo, palazzi fatiscenti, dormitori. Un reportage a puzzle tra classicità ed inviati di guerra, che vede la presenza del coro greco ma anche di macerie da bombardamenti, di una Ifigenia costretta a recitare velata, di Atena vedova di un giustiziato da Al-Quaida, di baci vietati tra Oreste e Pilade, per un viaggio emotivo a sobbalzi nel tempo che descrive l’orrore della violenza, ma anche la forza della vita e che rivendica, come celebrato da Eschilo, il ruolo della democrazia e della polis per il ripristino del valore della giustizia sopra quello della vendetta. L’Orestea come lectio per passare dalla tragedia della violenza alle regole di un ordine sociale e politico condiviso, dalla vendetta al perdono.

Un lavoro decisamente complesso che scuote, per una presentazione cosciente, una ricerca teatrale sulla violenza politica e sociale ma che richiama a una coscienza attiva di rivolta, all’arte come momento educativo ed aggregativo, al sentimento universale in contrapposizione al razzismo etnico. Solo cosi la catena atroce di violenza e vendetta può essere spezzata e dimenticata.

data di pubblicazione:27/09/2019

AD ASTRA di James Gray, 2019

AD ASTRA di James Gray, 2019

Un padre e un figlio accomunati dalla passione e dalla dedizione per la scoperta dello Spazio. Una minaccia, proveniente dal passato, che rischia di distruggere il futuro del Pianeta Terra. Un dramma intimista e psicologico proiettato nell’infinità dell’Universo.

Roy McBride (Brad Pitt) è un astronauta impeccabile: esperto, coraggioso, con il battito cardiaco che resta regolare anche quando precipita da una stazione spaziale per approdare sano e salvo sulla Terra. Quella stessa Terra che, neanche a dirlo, rischia di scomparire per una minaccia proveniente dallo Spazio più profondo. Si tratta di qualcosa che ha a che vedere con il padre di Roy (Tommy Lee Jones), autentica leggenda per le successive generazioni di astronauti e scomparso misteriosamente dopo un progetto destinato a spingersi fino ai confini del Sistema solare, oltre le colonne d’Ercole dello Spazio conosciuto e conoscibile. Suo figlio è il solo davvero in grado di chiudere quel cerchio, intraprendendo una missione che dovrebbe condurlo a salvare la Terra, ma durante la quale dovrà prima di tutto salvare se stesso.

Ad astra, presentato all’ultima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, si colloca sulla scia di quella fantascienza “spaziale” che già con Gravity e First man è stato protagonista al Lido negli scorsi anni. Il tormento individuale di un uomo, consumato nelle dimensioni incommensurabili dell’Universo, si proietta sullo sfondo di un futuro (forse immaginato come non così remoto) nel quale andare sulla Luna somiglia molto a un viaggio con un volo low cost, per poi ritrovare sul nostro satellite, deprivato della poesia che lo ha reso celebre, tutte le storture del mondo contemporaneo: dalle insegne accattivanti dei mega stores alla criminalità violenta e spregiudicata.

Ad astra, tuttavia, sembra fermarsi a metà dell’opera. Malgrado alcune scelte senza dubbio apprezzabili sul piano estetico e nonostante la recitazione intensa e introspettiva di Brad Pitt (che è anche il produttore del film), il racconto di James Gray non riesce a sviluppare fino in fondo il dramma esistenziale dell’ennesima vittima del complesso di Edipo, che dietro la maschera imperturbabile di lucido dominatore delle proprie emozioni nasconde “solamente” la paura di restare solo. La storia, impreziosita da personaggi minori affidati ad interpreti di eccezione (Donald Sutherland, Liv Tyler, Ruth Negga) si regge spesso su passaggi banali o decontestualizzati e il confronto con alcuni capisaldi del genere, a partire dal “citato” 2001: Odissea nello spazio, rischia di risultare impietoso.

Insomma: un esperimento interessante, ma non perfettamente riuscito.

data di pubblicazione: 27/9/2019


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C’ERA UNA VOLTA…  A HOLLYWOOD  di Quentin Tarantino, 2019

C’ERA UNA VOLTA… A HOLLYWOOD di Quentin Tarantino, 2019

Negli anni Sessanta a Hollywood , Rick Dalton è un attore alla ricerca del successo e vive quasi in simbiosi con Cliff Both, suo stuntman, ma anche grande amico e sodale. Cliff abita vicino alla villa di Polanski e Sharon Tate a Cielo Drive. Un giorno alla villa si affaccia un timido Charles Manson e…

 

All’interno del cinema (due giovani spettatrici sono uscite a metà della proiezione) e nei commenti ascoltati all’uscita si percepiva un certo disorientamento del pubblico rispetto al film del geniale e trasgressivo regista statunitense. C’era chi non trovava rispondente alla realtà storica il finale, chi registrava la noia durante alcune fasi di stanca della pellicola, chi ancora la trovava poco “tarantiniana”. Ora, non voglio dire che sempre i genii tendono a dividere nei giudizi , né sostenere a priori che Tarantino lo sia a pieno titolo, mi piace invece segnalare che la cifra stilistica del regista, ancora una volta, è rispettata secondo copione.  La storia è inventata? Certo! Basti pensare ai tre puntini sospensivi del titolo. Del resto, non lo era anche Bastardi Senza Gloria? E il Django di Tarantino c’entrava forse qualcosa con quello di Corbucci? Nulla, solo pretesti e omaggi alla personale rivisitazione del cinema di riferimento dell’autore di Pulp Fiction. Ecco allora che il modo più onesto per fruire e godere C’era Una Volta… a Hollywood è quello di non porsi domande e lasciarsi trasportare dalla storia, dalle mille piccole invenzioni e dalle continue citazioni, anch’esse, ora vere ora create ad arte, per divertire e/o stordire lo spettatore. Evidentemente un pubblico troppo giovane o ignaro della cinematografia da B movies, cara al regista, non rimane intrigato come quanti hanno invece cognizione di quella cultura, musica, costumi e spettacolo che segnarono i “favolosi” anni 60. In tal caso, il gioco si fa piacevole e si traduce nel  riconoscere, ad esempio, la vera Sharon Tate del film Missione Compiuta stop. Bacioni Matt Helm o le serie televisive western come Lancers, o quelle di investigation come F.B.I, nella messinscena girate dal protagonista del film Rick Dalton (un Di Caprio al suo meglio). Come pure, è un continuo alternarsi di presenze “reali”: Steve Mc Quinn o Bruce Lee (clamorosa la sequenza in cui Cliff Booth, un ironico e disincantato Brad Pitt, scaraventa il campione di Kung Fu contro la macchina del produttore). Per ragioni intuitive, non sto a raccontarvi  quello che accade nelle quasi 2 ore e 40 del film e tantomeno il finale anti-storico, piuttosto mi soffermo ancora sulle ripetute citazioni, anche dichiarati omaggi, ai western italiani (Dalton, nella finzione, girerà in Italia con Corbucci” il secondo miglior regista di spaghetti-western”) e nella parentesi “romana” si vedranno i cartelloni, ora veri ora rifatti, di tante pellicole girate dai vari Margheriti, Fulci, Corbucci, registi che non poco hanno ispirato Tarantino. Naturalmente, non tutti i riferimenti sono espliciti: la ragazzina che lavora con Dalton in Bounty Law è forse Jody Foster? E i personaggi della Manson Family erano davvero  come li ha descritti Tarantino? E quello che successe in Cielo Drive ? Niente è come sembra e il gioco del regista, perché di un gioco si tratta, è proprio quello dei continui rimandi fra realtà e fantasia, fra personaggi reali e inventati di sana pianta, in un affascinate caleidoscopio che coinvolge tanti ottimi attori: Al Pacino, Bruce Dern, Dakota Fanning, Maya Hawke, oltre ai già citati Leonardo Di Caprio e Brad Pitt e tanti altri. Ineccepibile la ricostruzione delle location del tempo,  brillante la colonna sonora, azzeccato il montaggio per un film che forse dividerà , ma che  ai veri cinefili non potrà che piacere mooolto!

data di pubblicazione:24/09/2019


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LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO di Karim Aïnouz, 2019

LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO di Karim Aïnouz, 2019

Rio de Janeiro, 1950. Eurídice e Guida sono due sorelle che vivono in una famiglia di impostazione molto rigida e decisamente patriarcale. Entrambe hanno un proprio sogno: Eurídice, già talentuosa pianista, desidera perfezionarsi presso il Conservatorio di Vienna mentre Guida cerca il vero amore in un marinaio greco conosciuto per caso. Per avverse circostanze le loro vite, un tempo così unite, verranno ad essere drasticamente separate dal padre, ma loro continueranno per anni a cercarsi senza mai perdere la speranza di ritrovarsi…

 

Karim Aïnouz, regista brasiliano che ha già ottenuto molti riconoscimenti nei più importanti Festival cinematografici internazionali, con il suo La vita invisibile di Eurídice Gusmão è stato premiato quest’anno a Cannes nella Sezione “ Un Certain Regard”. Il film si è subito guadagnato un grande successo sia di pubblico che di critica, che lo ha definito un piccolo capolavoro, e rappresenterà il Brasile ai prossimi Oscar. Aïnouz è stato indicato anche come un visual artist proprio per essere riuscito a infondere nei suoi lavori quei principi basilari dell’arte visiva un tempo relegati solo alle discipline tradizionali quali la pittura e la scultura: le immagini fissate sulle schermo riescono a rendere concrete e quasi palpabili le situazioni raccontate e i personaggi assumono una tale credibilità da coinvolgere emotivamente gli spettatori senza ricorrere ad espedienti da mélo. La storia è il frutto dell’adattamento di un noto romanzo della scrittrice e giornalista brasiliana Martha Batalha, ambientata in un Brasile ancora legato agli schemi patriarcali in cui alla donna è preclusa ogni libertà di espressione e, soprattutto, le viene negata la possibilità di scegliere l’uomo da sposare. Eurídice e Guida si amano e per tutta la vita si cercano: l’errore di una ricade ineluttabilmente su entrambe e, separate per sempre dai genitori, creeranno tra di loro una solidarietà profonda, tutta al femminile.

Con la splendida fotografia di Hélène Louvart, Aïnouz riesce a confezionare un lavoro pulito ed elegante, in cui le due protagoniste (Julia Stockler e Carol Duarte) si muovono in maniera più che naturale riuscendo ad alternare momenti di gioia a drammaticità e sconforto. Al regista non importa dare un messaggio sociale sulla condizione femminile di quel periodo (anche se di fatto riesce comunque a darlo), quanto piuttosto concentrarsi sui vari personaggi e sulla loro storia. Traspare in ogni istante la sofferenza di due donne schiacciate da uomini padroni, prima padri e poi mariti, capaci solo di annullare le loro aspirazioni più che legittime.

Un film che parla della forza dell’amore nonostante le avversità di un destino crudele.

data di pubblicazione:19/09/2019


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ROMA EUROPA FSTIVAL Furia, di Lia Rodrigues

ROMA EUROPA FSTIVAL Furia, di Lia Rodrigues

(Auditorium Parco della Musica –Roma, 17 e 18 settembre 2019)

Intensissima apertura del Roma Europa Festival 2019 con la prima italiana di Furia, a cura della coreografa Lia Rodrigues, alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica il 17 e 18 settembre 2019. Un lavoro che parla dolore e di violenza ma anche di speranza, ambientato tra i giovanissimi abitanti di una favela, nato proprio in quei luoghi dove la coreografa ha deciso di stabilirsi fondando un centro culturale e dando vita ad una compagnia di danza, alla periferia di Rio de Janeiro, dove oltre 4mila persone vivono in situazioni drammatiche.

 

Un lavoro politico che parla di lotte di classe e di colore della pelle, di attacco al governo attuale ed alla sua politica scellerata di distruzione dell’Amazzonia, di denuncia nei confronti di coloro che detengono il potere e gestiscono le vite umane.

Con Furia la coreografa brasiliana riflette sulla natura di un gruppo di individui che si confrontano con la loro solitudine e con la loro carne. Lo spettacolo è stato accompagnato da un collage di musiche della Nuova Caledonia, sonorità che sprigionano energia e forza di sopravvivenza. Un affresco devastante fatto di tribalità e rifiuti, di diseguaglianze, di povertà e sporcizia, ma anche di voglia di spogliarsi della sofferenza e di innalzarsi al di sopra delle macerie. Per Lia Rodrigues la favela è un luogo che chiede di essere riscattato. Ed è per questo che, quindici anni fa, ci si è stabilita con la sua Companhia de Danças, creando Furia, lo spettacolo che denuncia con crudezza la violenza della società delle favelas e la sottomissione dell’uomo all’uomo, che aiuta a riflettere su quanto iniqua possa essere la società, nei confronti di chi non può scegliere il proprio percorso.

Lo spettacolo è profondamente radicato in quel contesto e costruisce un dialogo con i suoi abitanti. Si percepisce come tale lavoro sia nato dalla stretta collaborazione con i 9 danzatori in scena, straordinari nelle capacità interpretative e nella loro verità, tutti giovanissimi e provenienti da quella realtà.

Furia è un affresco fatto soprattutto di occhi che raccontano e colpiscono, un tableau vivant in continuo divenire, un bassorilievo che fluisce lento ma inesorabile, che continuamente si trasforma per raccontare la propria essenza nuda ed esorcizzare violenza e povertà, un incontro di anime alla ricerca di sogni. Efficacissime le luci così come costumi e allestimento, che unitamente al ritmo tribale, disegnano un rituale contemporaneo che crea immagini magiche e intime frutto di una straordinaria pulsione creativa che ha voglia di vita.

data di pubblicazione:19/09/2019

ROMEOSINI GRECITÀ di e con Moni Ovadia

ROMEOSINI GRECITÀ di e con Moni Ovadia

(Teatro Vascello – Roma, 16 settembre 2019)

Se esiste un modo per raccontare con sublime trasporto un popolo nella sua tragicità, questo non può che essere la poesia. Al via con uno spettacolo di teatro musicale del grande Moni Ovadia la stagione del teatro Vascello.

 

Il teatro che ci piace partecipare è fatto di memoria, di consapevolezza civile e umana. Trova nell’impegno politico, quello fatto di intramontabili buone ideologie – che mettono avanti l’umanità – la sua giusta collocazione. Si nutre del presente, guardandolo con occhi di speranza e fiducia, ma non dimentica il passato. Anzi lo racconta sotto la nobile forma dell’arte. È il luogo dell’incontro tra persone e personaggi di mondi lontani eppure vicini, della riflessione, del confronto con la diversità che non vuole primeggiare ma soltanto rispecchiarsi e ritrovarsi. In queste parole le intenzioni del programma per la stagione 2019 – 2020 del teatro Vascello.

Sul palco a inaugurare la lunga serie di appuntamenti un Maestro indiscusso della scena, un artista poliedrico e unico, narratore e incantatore, etnologo e musicologo dalle infinite conoscenze, Moni Ovadia, in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, punto di riferimento per la raccolta di materiale musicale della tradizione popolare. Lo spettacolo è una lettura di brani scelti tratti da un poema dello scrittore greco Jannis Ristos, di cui Ovadia è – prima ancora che ammiratore – un instancabile divulgatore. Il componimento si intitola Romeosini e parla della Grecia. Il vento che soffia forte dalla penisola ellenica trasporta con sé l’eco di una terra ferita, troppo spesso dimenticata – sono raccontati nei nostri libri in piccoli paragrafi i conflitti che l’hanno vista vittima lo scorso secolo – con la quale abbiamo un debito immenso di riconoscenza, che ancora oggi soffre dell’umiliazione della crisi economica. Ma trasporta anche i colori e i profumi delle montagne e del mare, del sole che illumina gli esseri viventi e le pietre, della luna che di notte cerca i suoi figli tra i cadaveri dei soldati, e delle stelle che sono gli occhi testimoni del cielo. La natura si antropomorfizza in un’infinità di immagini, pescate nel pozzo del mito e della storia, il tesoro della grecità non solo classica. La poesia diventa un gesto di resistenza, arma di denuncia e di perdono insieme, atto eversivo e di riscatto. La lingua che si ascolta con il vento è quella del greco demotico, parlato dal popolo, espressione della tradizione. È una lingua arricchita da vocaboli provenienti dalla dominazione turca, da barbarismi, da influssi slavi e veneti. La musica è il supporto a cui è affidata, non ci sarebbe altro modo per comprendere per chi come me non la parla. Roberta Carrieri è la straordinaria voce che canta i brani che fanno da cornice tra una lettura e l’altra, accompagnata da lei stessa alla chitarra e da Dimitris Kotsiouros a due strumenti cari alla cultura mediterranea, il bouzouki e l’ud.

Immancabile infine l’ironia, elemento caro a Moni Ovadia, che risolve lo spettacolo nella lettura di barzellette sulla situazione attuale della Grecia.

data di pubblicazione:18/09/2019


Il nostro voto:

DOPODOMANI NON CI SARÁ di Luca Rastello – Chiarelettere editore, 2019

DOPODOMANI NON CI SARÁ di Luca Rastello – Chiarelettere editore, 2019

Un pervasivo e inquietante senso della fine per l’opera finale di un autore sottovalutato, pubblicato in questo caso post mortem con la stima recensiva di personaggi come Roberto Saviano, Nicola Lagioia, Goffredo Fofi, Giuseppe Culicchia. Nemico spietato del politicamente corretto e del buonismo, Rastello ha lottato per dieci anni con una malattia oggi curabile, scandendo il tempo alla rovescia, i suoi sinistri e ferali rintocchi, con considerazioni profonde. Il senso della fine aleggia nelle pause con considerazioni ultimativa e non banali, prive di panico e di orgasmo, offerte con lucidità da chi, per tempo, ha saputo convivere con quello che succederà, peraltro non rinunciando a combattere. Dunque pezzi di arte varia. Dall’esperienza ospedaliera, all’approfondimento della tragedia greca; da una deriva routinaria del volontariato alla critica distaccata della virtualità e di un futuro sfuggente o non decifrabile. L’eredità letteraria e/o testamentaria che ci lascia questo autore richiede spesso una seconda lettura. Le speculazioni, sapendo quello che succederò, somigliano alle profezie. Vicino all’abisso si vede la realtà con un’altra prospettiva, più distaccata e vera. Questo sembra suggerirci l’autore. Nel blog del malato riottoso l’autore ha accompagnato il decorso della malattia con ironia cercando compagni di strada affettuosi e singolari, uniti da quella deriva che accomuna più che mai. Dunque un testo che assimila la letteratura alla saggistica in una diaristica personale di peso e spessore. Che ci fa apprezzare la profondità dell’oggetto-libro di fronte alla caducità e alla banalità del male. Riflette una visione urticante e anti-economicistica. Banale parlare di valori? Qualcuno sembra disposto ancora a crederci. E qualcuno a seguirlo. Rastello è stato scrittore ma anche militante, attivista nei luoghi più sconvolti della guerra nel pianeta. Già direttore di Narcomafie ha conosciuto in trincea il male e poi ha dovuto combatterlo sotto la forma di una malattia subdola e strisciante. L’esperienza delle cose ultime lascia il segno. Indelebilmente.

data di pubblicazione:18/09/2019