ALICE E IL SINDACO di Nicolas Pariser, 2020

ALICE E IL SINDACO di Nicolas Pariser, 2020

Il sindaco progressista di Lione (Fabrice Luchinì) dopo una vita dedicata alla politica procede ormai solo per inerzia, ha bisogno di rigenerarsi con nuove idee, in vista forse di un destino presidenziale. Per porre rimedio a questa crisi personale ed esistenziale si fa affiancare da una giovane e brillante “filosofa” (Anaïs Demoustier) che deve rigenerare le sue capacità di pensare … Un confronto fra il pensare e l’agire. Quale è la scelta giusta?

 

Come sopravvivere all’ottundimento della settimana di Sanremo? Fuggire al cinema! E … meglio ancora, scegliere un film intelligente! Alice e il Sindaco ci offre questa doppia opportunità perché è un film, un racconto di rara intelligenza, reso piacevole ed accettabile dalla precisione dei dialoghi, dalla fluidità della narrazione e dalla grazia degli interpreti. Un film che crede nell’intelligenza sia dei propri personaggi che degli stessi spettatori e della storia narrata che ci porta ad una acuta riflessione sul confronto fra pensiero ed azione.

Autore di questa opportunità è Nicolas Pariser, cineasta francese che, dopo il suo esordio nel 2015, con questa sua “opera seconda” di cui è regista e sceneggiatore prosegue il suo studio sul Potere ed utilizza lo sguardo della giovane ed idealista Alice (non a caso questo nome) per scoprire la realtà del mondo della Politica fra cinismo ed abitudine all’esercizio del potere stesso. Uno sguardo sulla vanità del Potere, lo scontro fra impegno e ideali e gli equilibrismi fra etica ed ideologia.

Fin dal titolo stesso il film rimanda al “cinema erudito” di Rohmer (di cui Pariser è stato allievo ed assistente), ad un “racconto filosofico” in cui il dialogo e le parole hanno un ruolo centrale. Ed in effetti il film è girato in modo classico ove ritmo ed accumulo di dialoghi hanno una funzione essenziale, ma, in realtà, si tratta di un film “apparentemente saggio” perché il regista ha l’intelligenza e la bravura di evitare le verbosità eccessive e di non affliggere lo spettatore con considerazioni psicologiche superflue, riuscendo a mantenere il racconto fluido e ritmato. L’autore sa infatti distillare progressivamente il discorso sul Potere, che da “racconto Rohmeriano” diviene ben presto una cronaca pungente della mediocrità ed una denuncia ironica di un sistema i cui vezzi e difetti ci sa dipingere con piccoli sarcastici tocchi, risparmiandoci saggiamente un idillio fra il maturo sindaco e la giovane “filosofa”.

Ciò che sta veramente a cuore al regista è la domanda se si possa o meno coniugare pensiero ideale con la pratica della vita politica. In una parola, quali sono le vere finalità del Potere? Per far tutto ci’ il regista gioca sulle elissi, suggerisce senza approfondire esplicitamente.

Vista la mancanza di azione od intrighi poteva uscirne un film barboso, logorroico e prolisso o troppo intellettuale ed invece, al contrario, il risultato è un film riuscito, comprensibile ed insaporito da uno humour corrosivo e sottile, con dialoghi perfettamente scritti, sempre pertinenti e stimolanti.

Una favola politica sostenuta e resa viva da una coppia di attori eccezionali. Luchinì, si sa, è un mostro sacro che ha un fiuto incredibile per scegliere film che esaltino il suo carisma, quel mix di fragilità ed arroganza che è il suo marchio di fabbrica. Lo si potrà apprezzare o detestare, ma stile e bravura sono inimitabili e quando è sullo schermo è in grado di magnetizzare cinepresa e pubblico. Questa volta poi, sa dosare gli effetti e recita in modo sobrio e contenuto, quasi in sordina, guadagnandone in profondità. La Demoustier, bella e talentuosa è una giusta partner, anche i secondi ruoli sono tutti convincenti e diretti con cura.

Alice e il Sindaco è dunque un film dalle molte qualità, un film intelligente che, anche se non perfetto e con qualche inverosimiglianza, merita di essere visto ed anche rivisto perché fa molto riflettere in tempi di populismo esacerbato o … di insipienza ed incompetenza al potere.

Un film che i politici dovrebbero obbligatoriamente vedere e … dimostrare di averlo anche capito!

data di pubblicazione:07/02/2020


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SEGNALE D’ALLARME, LA MIA BATTAGLIA VR , diretto e interpretato da Elio Germano con la co-regia di Omar Rashid

SEGNALE D’ALLARME, LA MIA BATTAGLIA VR , diretto e interpretato da Elio Germano con la co-regia di Omar Rashid

(Teatro Argot Studio – Roma, 4/16 febbraio 2020)

Un esperimento che esce fuori dai confini del teatro e entra quelli del cinema. Spettacolo dal vivo? Solo in parte ma estremamente inquietante. Nel resto nel XXI secolo le Muse sono estremamente flessibili…

La forma fa il contenuto. Sembra di salire su un aereo. Istruzioni per l’uso: indossare i visori, al momento giusto munirsi di cuffie e guardare un puntino fino a che non scompare. Poi una scena differita, quella performata da Elio Germano, tradizionalmente più attore di cinema che di teatro, in uno spazio scenico del 2019 a Riccione. Qui riprodotto come fosse un 3 D, con pubblico finto di attori. Il visore ti mette in prima fila, con una visione a 360 gradi e completamente isolato dalla reazioni (dai trasalimenti degli altri spettatori), isolati come te. L’inizio sembra quello di one man show, un po’ cabaret, un po’ chiacchierata di amici e ti chiedi: solo queste banalità? Ma il discorso monta progressivamente. Sulle ingiustizie comminate dalla maggioranza, sul valore delle competenze, disseminando a pioggia profezie di destra sul mondo contemporaneo. E precipiti sempre più in un abisso di pregiudizi, di razzismo, di incompatibilità, in un coacervo di pensieri politicamente scorretti. Alla fine Germano non passeggia più tra il pubblico ma monta sul palcoscenico e si produce in una focosa arringa, sempre più stringente ed oltranzista. Fino a svelarti che la seconda parte dell’apologo è ripresa pari pari dal Mein Kampf di Heil Hitler. Dunque si produce in una sorta di esorcizzazione di coscienze che ritiene in gran parte atrofizzate. La tecnologia dell’evento è una sorta di psicodramma e una metafora dei tempi visto che un italiano su tre sembra positivamente orientato verso queste ideologie. Germano era presente poi alla prima nel piccolo ma efficiente teatrino capitolino per una sorta di confronto con il pubblico a cui sfuggirà nelle altre serate. Del resto la differita è diventata un obbligo perché le recensioni e il passaparola hanno svelato in anticipo il piccolo trucco ideologico dell’operazione (amplificato dagli applausi dei realmente presenti) e dunque vanificato l’effetto sorpresa con una maieutica che perdeva inevitabilmente di valore.

data di pubblicazione.05/02/2020


Il nostro voto:

70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

logo(Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

È stata presentata ufficialmente la giuria internazionale che affiancherà Jeremy Irons, già presidente, nella valutazione dei film in concorso per l’Orso d’Oro:

Bérénice Bejo, attrice argentina naturalizzata francese diventata famosa per The Artist, accanto all’attore Jean Dujardin. Il film fu presentato nel 2011 al Festival di Cannes ed ottenne ben 5 premi Oscar. In questa occasione la Bejo aveva ottenuto una nomination mentre nel 2013 a Cannes ricevette il premio come miglior attrice per la sua interpretazione nel film Il passato di Asghar Farhadi.

Bettina Brokemper, produttrice tedesca dal 2003 a capo della società di produzione Heimatfilm da lei stessa fondata. Ha prodotto diversi film di successo come La sposa siriana di Riklis nonché diversi lungometraggi dei due registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, entrambi fondatori della corrente cinematografica Dogma 95.

Annemarie Jacir, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica palestinese. Dopo essersi formata presso la Columbia University di New York ritornò in Palestina dove presentò il suo primo film Il sale di questo mare che le procurò l’espulsione dal suo paese da parte delle autorità israeliane. Con il suo secondo lavoro Quando ti ho visto, fu riabilitata ed ora risiede stabilmente nella città di Haifa.

Kenneth Lonergan, sceneggiatore, drammaturgo e regista statunitense che nel 2017 vinse l’Oscar per migliore sceneggiatura originale con il film Manchester by the Sea. Precedentemente, nel 2002, aveva ottenuto una nomination agli Oscar, sempre per la sceneggiatura, in quanto co-autore insieme a Jay Cocks e Steven Zaillian per Gangs of New York di Martin Scorsese.

Luca Marinelli, attore italiano che non ha bisogno di grandi presentazioni. Ricordiamo solo che esordì nel 2010 con La solitudine dei numeri primi, diretto da Saverio Costanzo mentre nel 2015 vinse il David di Donatello per il film Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Nell’ultima Biennale del Cinema di Venezia ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore nel film Martin Eden, regia di Pietro Marcello.

Kleber Mendonca Filho, regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico brasiliano. Firmò nel 2012 il suo primo film Il suono intorno, mentre nel 2016 presentò a Cannes Aquarius con protagonista Sonia Braga. Nel 2017 era presidente della giuria della Settimana Internazionale della Critica del Festival di Cannes.

Dopo queste ultime informazioni non rimane che attendere con noi di Accreditati il giorno 20 Febbraio per la presentazione del film di apertura, My Salinger Year del regista canadese Philippe Falardeau, di questa attesissima edizione della Berlinale.

data di pubblicazione:05/02/2020

LE BRACI all’opera di Sandor Marai, drammaturgia e regia di Laura Angiulli, con Renato Carpentieri e Stefano Jotti

LE BRACI all’opera di Sandor Marai, drammaturgia e regia di Laura Angiulli, con Renato Carpentieri e Stefano Jotti

(Teatro Eliseo – Roma, 23 gennaio/9 febbraio 2020)

La riscoperta di un autore ungherese dimenticato, trattata per il teatro in un confronto a duello dialettico, breve ma intenso, con pochi movimenti di scena.

 

Il teatro sempre più spesso saccheggia dal cinema, dalla letteratura, persino dalla televisione. A volte con scelte meditate, a volte per carenze inventive. Marai si presta all’adattamento perché il romanzo che rievoca un fosco e dimenticato periodo è uno stridente confronto tra presente e passato di due uomini che sono stati grandi amici ma anche rivali in amore e che ora sono separati dalla gelida sospensione del giudizio, ritrovandosi a confronto per una sorta di duello percettivo quaranta anni dopo la separazione, interpretata come fuga da uno dei due. Interazione perfetta dei due attori, uso sapiente delle pause in una scenografia minimale che vive il suo momento di maggiore funzionalità nel finale quando il gioco delle luci di scena e l’uscita di scena dei due è il preludio a una sorta di meccanica sibillina risata del rivale. Meno di un’ora di spettacolo con picchi di tensione efficace. Se il teatro è contraddizione qui si approda alla sublime sintesi di pareri discordi. Le domande dell’uno non trovano soddisfazione nelle risposte dell’altro. Si respira un’aria antica e decadente per una mise en scene che richiede concentrazione da parte dello spettatore. Le ferite non si rimarginano, i rapporti non si chiariscono. Ma prima della morte c’è un sentore di mutua quanto inutile pacificazione. Gli attori non eccedono. Toni pacati, mai sopra le righe senza ombre di concitazione. Una sobrietà che è la cifra stilistica di uno spettacolo che richiede pochi movimenti di regia. Teatro di parole per una rivincita che evapora man mano che l’arringa lungamente maturata non trova soddisfazione nell’interlocutore. Mitteleuropa sullo sfondo ma anche gli esotici Tropici di una fuga che ha lasciato molti interrogativi: libera scelta o vigliaccheria?

data di pubblicazione:03/02/2020


Il nostro voto:

VORTEX della compagnia Non Nova, regia, coreografia e interpretazione di Phia Ménard

VORTEX della compagnia Non Nova, regia, coreografia e interpretazione di Phia Ménard

(Teatro India – Roma,30 gennaio/2 febbraio 2020)

Il Teatro India di Roma ha ospitato dal 30 gennaio al 2 febbraio 2020 la Compagnia Non Nova con lo spettacolo Vortex, per la regia, coreografia e interpretazione di Phia Ménard, in collaborazione con Institut Français Italia. Protagonista è il vento ed i vortici che esso genera. Un lavoro sulla indomabilità del vento e sulla necessità di adattamento dell’uomo ad un elemento su cui non si può avere il controllo, un esperimento non scientifico frutto del lavoro esperienziale che genera una costruzione sorprendente e coinvolgente, devastante e struggente, efficacissima.

 

Regista, artista performativa e danzatrice francese, Phia Ménard ha fondato nel 1998 la compagnia Non Nova spinta dal desiderio di avvicinarsi al mondo del giocoliere in una prospettiva diversa e innovativa, attraverso una strutturazione scenica e drammaturgica personale. Non nova, sed nove (non cose nuove, ma con modalità nuove) il dictat e il precetto fondamentale della Compagnia che sorvola le convenzioni, attinge a tutti i generi e ridisegna i canoni, grazie ad una forma espressiva esplosiva e poetica.

In Vortex il palcoscenico diventa uno spazio circolare di ispirazione circense, un non luogo in cui si ridisegnano le leggi della fisica e ci ribella alla banale normalità, in cui si progettano nuove regole della performance artistica e nuove linee di confine dell’identità personale.

Una figura corpulenta si aggira in un cerchio tra ventilatori che scandiscono una sinfonia d’aria. La figura crea delle forme di piccoli esseri di plastica sottile, altri li ha nascosti all’interno del vestito.

I piccoli esseri pian piano prendono aria e vita e si muovono, si agitano, gesticolano, danzano.

È l’inizio dell’interlocuzione tra interno ed esterno, tra strati fisici che fuoriescono e si manifestano. È il moto della metamorfosi fisica e mentale, grazie all’elemento vento, in una realtà priva di leggi fisiche, in cui la forza di gravità si annulla a favore di un vortice liberatorio e magico. Bisogna lasciare al vento lo spazio che pretende ma allo stesso tempo non si può perdere il filo dei propri propositi. La partitura va avanti, la figura continua ad esternare dal proprio corpo ulteriori forme, si assottiglia e si scopre, regredisce, alla fine è un feto che si strappa la placenta secondo un movimento fluido e ipnotico, in un’arena senza tempo dove tutto è permesso e le regole non esistono. Quanti strati di pelle ci mettiamo addosso per affrontare il mondo? Chi c’è dentro ognuno di noi, come si esce dalla stratificazione per apparire quello che siamo?

Un Vortex di bellezza e armonia, violenza e fastidio, un racconto asfissiante e poetico che spazza via i substrati e ci ricorda che siamo vivi. Il pubblico è lì ad un passo, scosso da turbolenza e catarsi, riflette e applaude.

data di pubblicazione:03/02/2020


Il nostro voto:

LA LOCANDIERA di Carlo Goldoni, regia di Andrea Chiodi

LA LOCANDIERA di Carlo Goldoni, regia di Andrea Chiodi

(Teatro Vascello – Roma, 28 gennaio/2 febbraio 2020)

Nella locanda di Mirandolina accade spesso che si innamorino di lei gli avventori che vi sostano. È così per il Marchese di Forlipopoli che sfida il Conte di Albafiorita nel conquistare i favori della donna. Ma le mire della Locandiera sono tutte rivolte al Cavaliere di Ripafratta che, misogino e riottoso, la respinge.

 

Manifesto della commedia di carattere, che lascia le maschere e i canovacci della Commedia dell’Arte per uno studio più attento alla psicologia dei personaggi e al racconto di trame originali, La Locandiera di Carlo Goldoni, dopo 270 anni dalla prima rappresentazione, offre ancora spunti alla regia per nuovi adattamenti. Il lavoro di Andrea Chiodi e della Compagnia Proxima Res di Tindaro Granata, pur mantenendosi fedele all’originale se non per il taglio di alcune scene, non manca di innovazione e creatività. Un merito non scontato quando si tratta di rappresentare un classico come questo. Il sipario si apre su un grande tavolo attorno al quale si svolge l’azione: luogo del convivio, dell’incontro e della chiacchiera, ma anche del gioco e della macchinazione, quella che Mirandolina opera con pragmatico calcolo e sistematico successo. Si recita sopra e intorno al tavolo, ma cose accadono anche sotto di esso: occhi che guardano, orecchie che ascoltano. Gli stand disposti tutti intorno alla scena ci suggeriscono che siamo in una specie di laboratorio sartoriale, i manichini sono gli attori che pescano parrucche e staccano costumi dalle grucce per dare forma al loro personaggio. I colori sono tenui e neutri, come su un foglio di carta ruvida dove sono state accennate veloci pennellate di acquerello. È un gioco e un divertimento il teatro e così il regista fa interagire gli attori con delle bambole che ricordano nel numero e nei tratti i personaggi della commedia. Una bambina sembra appunto Mirandolina, anche se cresciuta in fretta per le responsabilità sulla locanda che il padre alla morte le ha lasciato. L’interpretazione di Mariangela Granelli restituisce un carattere capriccioso e prepotente, è la padrona assoluta dei giochi intenta ad accattivarsi l’amicizia di tutti, soprattutto del Cavaliere di Ripafratta (Fabio Marchisio). Nel gruppo è l’unico che respinge la locandiera, che pure si vanta di aver una lista lunga di conquiste, come quella più famosa di Don Giovanni di cui ne canticchia il mozartiano motivetto. A Caterina Carpio e a Caterina Filograno sono affidate le parti degli altri personaggi (il Conte di Albafiorita, i servi, Fabrizio e le due commedianti Ortensia e Dejanira), ma è Tindaro Granata a rendere protagonista un personaggio secondario, il Marchese di Forlipopoli. Ne risalta il lato divertente fino a esacerbarlo e a renderlo la caricatura di sè stesso, forse anche troppo evidente in una regia che nell’insieme da un giusto equilibrio a tutti e cinque gli attori in scena.

data di pubblicazione:01/02/2020


Il nostro voto:

MALAVITA di Giankarim De Caro- Navarra editore, ultima ristampa 2020

MALAVITA di Giankarim De Caro- Navarra editore, ultima ristampa 2020

C’è un afrore corporale molto siciliano in questo libro di uno scrittore isolano che ha rinunciato alle lusinghe censorie di un grande editore per percorrere una via solidale con un fidato compagno di viaggio. Un Verga del XXI secolo? L’ambizione è minore ma il profilo di scrittura non è necessariamente più basso in questa storia d’umiltà che viene dal basso, che profuma di vicoli, di stenti, di eterna lotta per la sopravvivenza nella svolta generazionale di madre in figlia, raccogliendo il testimone ingrato della prostituzione. Dove la professione è una via di mezzo tra il dover essere e l’impossibilità di sfuggire a un destino già scritto dove i protettori sono i potenti o semplici profittatori che cercano di trovare agio nel mestiere più antico del mondo. Quartetto di donne che si rincorrono nella stessa sorte in un’atmosfera di grave realismo dove non c’è mai erotismo se non la ripetitività meccanica del gesto per un mucchio di monete o per un semplice pasto. Il cocktail servito prevede sesso, amore, malattia e il miraggio di una possibile redenzione. La storia ha un’ampia forbice cronologica prendendo spunto dall’arrivo dei liberatori americani, pronti a dispensare dollari e cioccolata. L’universo maschile descritto appare ingrato e cinico, materialista e avido, con qualche minuta eccezione. L’alto e il basso sono gli estremi di profonde diseguaglianze sociali, peraltro non riscattate neanche oggi. Il linguaggio piano incentiva lo sviluppo di una narrazione accattivante di un autore che sta bruciando le tappe e che con questa operina ha iniziato a costruire una poetica che si è più pienamente dispiegata in altri tentativi di ancora più solide architetture letterari. Trapela la passione per la terra odiata e amata, ferace spunto per uno spaccato d’epoca convincente. La prostituzione a Palermo era una risorsa di vita filtrata come unica possibilità esistenziale di donne sole, mal consigliate e mal protette.

data di pubblicazione:31/01/2020

70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

logo(Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Oggi è stata presentata in conferenza stampa la lista completa dei film in selezione ufficiale. Quest’anno sarà quasi un giubileo per la Berlinale, per definizione degli stessi organizzatori, dal momento che si celebra la settantesima edizione; altro elemento importante, che caratterizzerà l’evento, sarà la presenza di Carlo Chatrian per la prima volta in qualità di direttore artistico del Festival al posto di Dieter Kosslick che per quasi venti anni aveva ricoperto l’incarico. Ci saranno molte novità a livello organizzativo e tante nuove iniziative che accresceranno l’importanza di questa kermesse cinematografica. Basti pensare che oltre alle varie sezioni collaterali (Panorama, Berlinale Shorts, Forum, Prospettive del Cinema Tedesco, Generation, Retrospettive, Teddy Awards, Native, ecc.) si aggiungerà “Encounters”, un nuova sezione che comprenderà una quindicina di film che nello specifico daranno nuova forma al mondo più che a rappresentarlo, in sintesi andranno ad interpretare, con un’ottica particolare, la storia del cinema sotto vari aspetti: autobiografico, intimo, filosofico, epico, surreale, politico e sociale. Altro evento di questa edizione speciale sarà il programma “On Transmission” in cui a turno verranno invitati sette registi, accompagnati ciascuno da un proprio ospite, che parleranno del cinema di oggi e presenteranno poi un proprio lavoro. Nell’introdurre i film in concorso per l’Orso d’Oro, Carlo Chatrian ha voluto aggiungere: “ che i film raccontano storie intime e sconvolgenti, individuali e collettive che hanno un effetto duraturo e ottengono il loro impatto dall’interazione con il pubblico. Se c’è una predominanza di toni scuri, può essere dovuto al fatto che i film che abbiamo selezionato tendono a guardare al presente senza illusione, non per causare paura, ma perché vogliono aprire gli occhi. La fiducia che il cinema ripone nell’umanità, questi esseri sofferenti, maltrattati e manipolatori, è ininterrotta, così ininterrotta che li vede costantemente come i suoi protagonisti ”…

Il film di apertura sarà My Salinger Year del regista canadese Philippe Falardeau che avrà come interprete principale Margaret Qualley, recentemente vista in Once Upon a Time…in Hollywood di Quentin Tarantino.

Ecco i 18 film della selezione ufficiale, di cui 16 in prima mondiale:

Berlin Alexanderplatz di Burhan Qurbani (Germania-Olanda)

DAU. Natasha di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel (Germania-Ucraina-Regno Unito-Russia)

Domangchin yeoja di Hong Sangsoo (Corea)

Effacer l’historique di Benoît Delépine (Francia-Belgio)

El pròfugo di Natalia Meta (Argentina-Messico)

Le sel des larmes di Philippe Garrel (Francia-Svizzera)

First Cow di Kelly Reichardt (USA)

Irradiés di Rithy Panh (Francia-Cambogia) documentario

Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman (USA)

Rizi di Tsai Ming-Liang (Taiwan)

The Roads Not Taken di Sally Potter (Regno Unito)

Schwesterlein di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond (Svizzera)

Sheytan vojud nadarad di Mohammad Rasoulof (Germania-Repubblica Ceca­­­­-Iran)

Todos os mortos di Caetano Gotardo e Marco Dutra (Brasile-Francia)

Siberia di Abel Ferrara (Italia-Germania-Messico)

Undine di Christian Petzold (Germania-Francia)

Molti sono i film italiani distribuiti tra le varie Sezioni, di cui due in gara per l’Orso d’Oro. Il primo è Volevo nascondermi di Giorgio Diritti (Il vento fa il suo giro del 2005, L’uomo che verrà del 2009) con Elio Germano nei panni del pittore Ligabue, artista naif la cui vita fu molto travagliata e compromessa per la sua disabilità non solo fisica ma anche mentale. Lo stesso Elio Germano sarà protagonista anche del film in concorso Favolacce, opera seconda dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo che esordirono proprio qui a Berlino nel 2018 con La terra dell’abbastanza: trattasi di una storia ambientata in una estrema periferia romana dove famiglie al limite della sopravvivenza vivono le proprie drammatiche situazioni. Avremo poi nella Berlinale Special Gala Pinocchio di Matteo Garrone mentre nella sezione Panorama Semina il vento di Danilo Caputo, una storia ambientata tra gli uliveti pugliesi aggrediti da un parassita letale. Infine nella sezione Generation Palazzo di Giustizia di Chiara Bellosi e in Forum La casa dell’amore di Luca Ferri e Zeus Machine nonchè L’Invincibile di Nadia Rocchi e David Zamagni.

La giuria internazionale quest’anno sarà presieduta dall’attore britannico Jeremy Irons, premio Oscar nel 1991 per il film Il mistero von Bulow che non necessita di alcuna presentazione perché conosciuto dal pubblico per il suo particolare ruolo come protagonista in film di grande successo internazionale. Gli altri componenti della giuria non sono stati ancora resi noti.

La Berlinale renderà omaggio all’attrice inglese premio Oscar Helen Mirren con l’Orso d’Oro alla carriera, riconoscimento ben meritato per le sue splendide interpretazioni di personaggi complessi (da Elisabetta II in The Queen a Caterina la Grande…) e dotata di una forte personalità.

Appuntamento quindi con Accreditati che saranno presenti a Berlino e vi terranno aggiornati sugli eventi principali della manifestazione.

data di pubblicazione:30/01/2020

JUDY di Rupert Goold, 2020

JUDY di Rupert Goold, 2020

Inverno 1968, inizio 1969, Judy Garland (Renée Zellweger) ormai fisicamente ed emotivamente segnata e, per di più, in gravi difficoltà economiche, è costretta ad accettare un’offerta generosa per una serie di show in un locale di Londra, sperando così di riottenere anche l’affido dei due figli piccoli. Gli ultimi sei mesi, prima di morire per eccesso di barbiturici a soli 46 anni!

 

Goold è un regista inglese attivo soprattutto in campo teatrale che ha fatto il suo debutto cinematografico nel 2015 con True Story ed oggi torna sugli schermi con la sua opera seconda, presentata all’ultima Festa del Cinema di Roma.

Judy è un tributo ad una star leggenda di Hollywood ed al tempo stesso, una vittima dello starsystem Hollywoodiano, ma, soprattutto, vuole essere un omaggio alla donna fragile che si celava dietro la facciata, schiacciata fra il suo essere nel privato ed il suo apparire nel pubblico. Il ritratto, non tanto della Diva, quanto piuttosto quello di un essere umano ferito che lotta ancora, anzi che è costretto ancora a lottare nell’incertezza di riuscire ad essere all’altezza della sua fama.

Il film è integralmente tratto da una commedia The end of the rainbow e per renderla meno teatrale e lineare il regista ricorre ad una serie di flashback facendo muovere lo spettatore avanti ed indietro fra gli ultimi mesi a Londra ed i primi passi della giovanissima attrice con la M.G.M. sul set del Mago di Oz . Una serie di ricordi personali della Garland che evidenziano le origini delle sue dipendenze, dei suoi bisogni di affetto, di sicurezza e di protezione. Certo il film e la stessa regia non sono molto originali, anzi la regia è molto classica e pacata ed il film si muove prevalentemente nell’alveo di tanti altri biopic: il personaggio segnato, le origini, i ricordi, i successi e gli insuccessi. Però, pur scivolandoci dentro in alcuni passaggi, il cineasta è bravo ad evitare di cadere del tutto nel melodramma e nel patetico. Concentrando poi la narrazione su un periodo ben definito quale quello londinese, evita abilmente l’altra trappola tipica delle biografie cinematografiche: troppe storie da raccontare in un storia, e, di conseguenza, che il film risulti poi oppresso e compresso. Si può infatti dire che i momenti migliori della regia di Goold sono proprio quelli in cui esce fuori dagli schemi narrativi delle biografie inventandosi del tutto alcune situazioni.

Quel che però fa scordare le imperfezioni e le carenze narrative del lavoro e che gli da il vero valore e che giustifica la sua visione e gli apprezzamenti e fa la vera differenza di qualità è … la straordinaria, eccezionale, superba, magnifica interpretazione della Zellweger già Oscar per Cold Mountain nel 2004 ed assente dagli schermi da un po’ di anni.

In realtà Judy è lo show della Zellweger, la sua bravura è già uno spettacolo di per se stesso; è capace di restituirci con autenticità la Garland catturandone gli aspetti della personalità sia fisici che psichici. Un processo empatico che coglie e trasmette tutta la sofferenza, la fragilità, la determinazione e la disperazione, la scarsa autostima, le dipendenze ed il tenero amore per i figli.

Pur restando sempre se stessa la Zellweger diviene la Garland non solo per mimesi fisica, ma facendola rivivere nei suoi drammi interiori, nei bisogni, nei vezzi senza mai essere eccessiva. Anzi al contrario. E poi … canta, e lo fa anche molto bene restituendoci le sonorità che poteva avere la Garland a quel punto finale della sua carriera. Una interpretazione che, come abbiamo detto, fa il film e che sicuramente porterà l’attrice ad essere una delle maggiori candidate per il prossimo Oscar. Veramente commovente e coinvolgente!

Il resto del cast è perfetto nei vari ruoli, come buona è la messa in scena, i costumi ed i set che ci riportano veramente nella Londra di 50 anni fa.

Judy è quindi un film da vedere perché ci restituisce quella grande icona che fu la Garland, un film che gli appassionati di cinema vedranno solo per l’interpretazione della Zellweger in attesa degli Oscar, e che poi potrà anche essere dimenticato. Un biopic classico sul finale di carriera, un po’ come vedemmo lo scorso anno sempre alla Festa del Cinema di Roma, con Stan e Ollie.

data di pubblicazione:30/01/2020


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JOJO RABBIT di Taika Waititi, 2020

JOJO RABBIT di Taika Waititi, 2020

1944, Jojo ha dieci anni ed è convinto di essere un perfetto giovane nazista: vive con la mamma, odia gli ebrei che non conosce ed ha un amico immaginario che è una versione bizzarra di Hitler. I problemi di identità si accentuano quando scopre che la madre nasconde in casa una giovane ebrea…

 

Periodicamente, spesso con giustificato entusiasmo di pubblico e critica, vengono alla luce pellicole che riescono a trattare in modo ora grottesco, ora delicato, ora decisamente surreale, il serio e tragico racconto dello sterminio degli ebrei, attraverso parodie del nazismo, più o meno riuscite.

Da Ernst Lubitsch (Essere o non Essere del 1942) a Mel Brooks (omonimo remake del 1983) da Benigni (La Vita è Bella, del 1997) a Radu Mihaileanu (Train de Vie del 1988) per citare i più celebri, molti registi si sono cimentati nella narrazione ironica della Shoah, spesso facendo storcere il naso agli ebrei più ortodossi… L’ultimo, in ordine di tempo è il geniale Taika Waititi, regista neozelandese del ‘75 (padre maori, madre ebrea) che offre una nuova prospettiva, in grado di far sorridere – a volte anche ridere tout court– spiegando ai ragazzini che cos’è stato il nazismo. E lo fa con uno scenario, solo apparentemente rivolto agli adolescenti: una piccola città di provincia, campi di addestramento per bambini che si conoscono fra di loro, macchiette naziste a gestire il locale campo paramilitare. Il film, presentato a Toronto e da noi a Torino, in anteprima, è candidato a ben sei Oscar (peraltro quasi un destino segnato per le pellicole che trattano la tematica dello sterminio) e certamente si può dire che colpisce nel segno. Tratto dal romanzo della scrittrice Christine Leunens, l’eclettico Taika Waititi, sceneggiatore, attore e regista, ha realizzato una commedia surreale, a volte musical, a tratti parodia, in grado di catturare spettatori di ogni età, parlando di nazismo, una tantum, senza toni cupi. Con citazioni che vanno da Il Grande Dittatore del supremo Chaplin al sopravvalutato La Vita è Bella, Jojo Rabbit è un’opera riuscita e accattivante, resa quasi perfetta dall’alchimia di una sceneggiatura semplice ma diretta, una coerenza stilistica ineccepibile di musica, fotografia, costumi, dialoghi e, soprattutto, interpretazioni di altissimo livello da parte degli attori prescelti. L’undicenne James Rolleston ha espressione e pudori propri dell’innocenza infantile. Il suo miglior amico Jorki, interpretato da Archie Yates, forse, è giovane attore ancora più versatile. Ma, giustamente candidata come migliore attrice non protagonista ritroviamo una Scarlett Johansson (risoluta, divertente e sfortunata madre di Jojo), ormai uscita dal frusto clichè di “bella senz’anima” e destinata a ruoli sempre più impegnativi (vedi Marriage Story) che ne attestano la crescente bravura. Di sicuro, però, nessuno dimenticherà l’Hitler-nazista burlone frustrato, modello angelo custode immaginario, il personaggio più esplosivo del film, interpretato proprio da Taika Waititi, cui si deve un’impresa che di certo lascerà il segno nella storia delle migliori gags del cinema grottesco. Tanto e tant’altro ci sarebbe da dire su questo film che si presenta alle apparenze come una piccola pellicola destinata alle giovani generazioni, ma che ha invece enormi pregi da scoprire in ogni sua sequenza. Al di là dei significati, della valenza storica, dei valori che trasmette, siamo di fronte a un autentico gioiello, che certamente si valorizzerà ancor più nel tempo. Onore, dunque, al geniale Waititi, autentico one-man-show!

data di pubblicazione:27/01/2020


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