FAMOSA di Alessandra Mortelliti, 2019

FAMOSA di Alessandra Mortelliti, 2019

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Alice nella città 17/27 ottobre 2019)

Famosa, opera prima della regista Alessandra Mortelliti, è la toccante e delicatissima storia di Rocco, un adolescente solitario ed incompreso che vive in un piccolo paese della Ciociaria e che desidera trasferirsi a Roma, per poter realizzare il suo più grande sogno: partecipare ad un talent per poter diventare un ballerino. Con tenacia e grande forza di volontà Rocco riesce ad organizzare quel viaggio che si rivelerà ancora più amaro e crudo rispetto al microcosmo nel quale è cresciuto e che lo farà precipitare, ma non spezzare, perché finirà per ritrovare alcune certezze che daranno conforto alle sue scelte.

Rocco (il giovanissimo Jacopo Piroli) schiacciato da una famiglia chiusa e limitata, vittima e facile bersaglio dei suoi compagni di classe, emarginato, cerca il luogo in cui poter essere se stesso in libertà, senza pregiudizi. Vuole andare a Roma a fare le selezioni per partecipare a quel talent show, perché crede che solo la fama gli potrà dare quell’attenzione, quella visibilità, quel riconoscimento, quell’amore di cui non riesce a nutrirsi a casa.

Rocco vuole ballare per esprimersi e dare un’identità alla propria esistenza soffocata da un padre violento e di mentalità molto arretrata (Adamo Dionisi), in crisi per la perdita del lavoro e per un sogno d’amore infranto e da una madre (Gioia Spaziani), incapace di proteggerlo e di denunciare il marito per le violenze subite quotidianamente. Rocco, ai margini del paese che lo considera strano, trova conforto e amore in un piccolo universo in cui vivono la zia Maura, la sua fata turchina, Luigi, il suo compagno di classe di cui è innamorato e Azzurra, la sua amica manga. Luigi (Matteo Paolillo) nonostante la corteccia di bello e dannato sta capendo quale è a sua volta la strada che deve percorrere, mentre Azzurra (Ginevra Francesconi) vuole coltivare il suo sogno di diventare disegnatrice; Zia Maura (la bravissima Manuela Mandracchia) vive sola in una casa piena di ricordi e soprattutto di orologi che segnano ore diverse per confondere il tempo, un tempo che probabilmente le ha portato via le speranze, ma che le ha dato la consapevolezza di accettare le sconfitte e andare avanti. È lei che lo spinge ad andare avanti, ad affrontare quel viaggio che si rivelerà devastante, a dargli la forza di andare avanti, nonostante tutto.

Rocco è incompreso ma non è sbagliato. Il riconoscimento, la lotta per il sogno, quella che Rocco prima timidamente e poi con ferocia porta avanti, rappresentano il riscatto da un mondo dove non abbiamo chiesto di nascere, ma che comunque ci ha dato la forza e gli affetti per mettere in piedi i nostri progetti.

Una fiaba semi-noir che oscilla tra il crudo realismo di un quotidiano colmo di ingiustizia ed il sogno dove la speranza è viva. Una storia di esseri sofferenti che cercano di sopravvivere. Una storia di sogni infranti, rivoluzione e liberazione di disperazione e riscatto, ma anche una storia di identità, di amicizia e di accettazione di se stessi e degli altri, un viaggio di crescita interiore e di consapevolezza, nonostante tutto quello che accade intorno.

Alessandra Mortelliti disegna una favola moderna con singolare e sconvolgente personalità, un viaggio avventuroso e mistico, fatto di silenzi, purezza, ingenuità, mescolando sacro e profano, attori professionisti e non, proiettandoci in un’aura magica e poetica.

data di pubblicazione:27/10/2019








THE DAZZLED di Sarah Suco, 2019

THE DAZZLED di Sarah Suco, 2019

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Alice nella città 17/27 ottobre 2019)

Il premio per il miglior film di Alice nella città 2019 è andato meritatamente a The Dazzled di Sarah Suco, una storia drammaticamente autobiografica, che porta con sé la forza del dramma ma non la devastazione dello stesso. La vita di Camille, adolescente con la passione per il circo, maggiore di quattro fratelli, viene sconvolta radicalmente quando i suoi genitori decidono di entrare a far parte di una comunità cattolica oltranzista trasferendo l’intera famiglia nel contesto fisico e sociale della stessa. La sottomissione di Camille a regole e soprusi man mano vacilla e poi quando anche i fratelli più piccoli danno segnali di estremo disagio, Camille capisce che, non potendo fare affidamento sui genitori, abbagliati dalla setta, deve andare oltre.

data di pubblicazione: 27/10/2019

The Dazzled racconta il rapporto genitori-figli ed il profondo contrasto tra la visione degli adulti, per cui l’adesione alla comunità religiosa significa sottomissione e annientamento e la visione di Camille, decisa a mettere a fuoco le cose in maniera diversa arrivando a mettere in discussione l’autorità dei genitori e caricandosi le responsabilità dell’intera famiglia.

The Dazzled non è un film di denuncia, ma piuttosto una opera che parla di debolezza degli adulti e di forza di una ragazzina che deve imparare in fretta a non essere più una figlia che si affida alla madre, ma il punto di riferimento per i due fratelli e la sorella più piccoli.   

Camille, in fondo, vorrebbe tanto essere solo una ragazzina come tante con i sogni, i turbamenti e la spensieratezza della sua età ma improvvisamente si trova a dover capire prima degli altri, vedere oltre l’abbaglio, fingere inizialmente e poi decidere di scappare lontano per trovare la forza della denuncia. La salvaguardia dei suoi fratelli, di fatto rimasti orfani, diventerà la sua prima preoccupazione e il motore principale che la porterà a cercare una via di uscita dall’abisso che rischia di inghiottirli tutti.

The Dazzled tratta il problema della pericolosità dell’indottrinamento mostrando gli incredibili e disturbanti risultati che può avere sulle persone, anche fino a quel momento lontane dal mondo religioso. Quello che accomuna le vittime di questo processo sono la debolezza e l’insicurezza, sfruttate abilmente da chi usa qualsiasi mezzo per prevalere e assoggettare.

Un film lucido che parla per immagini attraverso i volti dei giovanissimi protagonisti, tutti straordinari con una menzione speciale per la debuttante Celeste Brunnquell in grado di rendere sempre convincente il percorso di crescita di Camille, i suoi sentimenti contrastanti, il sua repentino ingresso nel mondo degli adulti e la dolorosa decisione di denuncia.

data di pubblicazione: 27/10/2019








WESTERN STARS di Thom Zinny&Bruce Springsteen, 2019

WESTERN STARS di Thom Zinny&Bruce Springsteen, 2019

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)

Bruce Springsteen in concerto nel suo teatro-fienile della Stone Hill Farm a Colts Neck (New Jersey) con la moglie e compagna di una vita, Patty Scialfa e un’orchestra sinfonica interpreta e racconta il suo ultimo album, Western Stars in una cavalcata musicale, impreziosita da immagini e ricordi della sua America e della sua vita..

 

Se un raffronto, seppure ardito, può farsi fra il tennis e la musica popolare, possiamo dire che Bruce Springsteen sta al rock, meglio, alla musica popolare tout court, come Federer sta al tennis. L’ennesima conferma del carisma e della grandezza dell’artista del New Jersey, da poco settantenne, ci arriva da questo “documento”, film, concerto, memoir e altro ancora, al tempo stesso . Aiutato dal regista Thom Zinny, (già suo prezioso collaboratore per, Springsteen on Broadway), il Boss, attraverso immagini attuali e del suo passato e filmati d’archivio, sottolinea e spiega le 13 canzoni dell’album omonimo (cui ha aggiunto la cover di Rhinestone di Glen Campbell), divenuto concerto, ma anche la sua visione dei tempi, la sua vita, persino le sue zone d’ombra. E lo fa con coraggio e ingenuità disarmanti. Springsteen che è forse la più famosa rock star del pianeta si mette a nudo come un uomo qualsiasi: la sua onestà intellettuale, evidentemente percepita dai suoi fan , lo rende unico nel panorama della musica popolare e se Dylan   perse la “verginità” con il clamoroso salto dal folk al rock elettrico, il Boss può permettersi di spaziare dalle energizzanti tournee con la E street Band a tutto rock, a momenti di folk acustico , ad altri di country e persino a canzoni alla Bacharach, senza perdere l’entusiamo e la passione di chi lo segue , perchè quello è il suo autentico “sentire”. Allora, anche un album come Western Stars, vagamente ispirato ai dischi pop ascoltati tra gli anni 60’ e 70’ viene tranquillamente accettato e, nelle forti braccia del Boss, diventa un affascinante connubio di suoni e generi: il lavoro della maturità di un artista che ha ascoltato prima e realizzato poi la “colonna sonora della sua vita”. Va da sè, che una tale ibridazione di stili e armonie non poteva soddisfare tutti al primo ascolto, ma ,in seguito – e questo film contribuisce in tal senso – la maggioranza degli appassionati ha capito il lavoro e vi ha ravvisato i segni della Grande Musica a tutto tondo.Temi come l’amore, la solitudine, il senso della comunità, l’inesorabile scorrere del tempo, la famiglia e persino la spiritualità, non mancano nel racconto in prima persona a corredo dei pezzi suonati -live nel suggestivo teatro improvvisato, Se qualche critica va mossa al lungometraggio “springsteeniano”, nella versione italiana, presentata alla Festa del Cinema di Roma, è nella mancanza dei testi delle canzoni nei sottotitoli. Mentre al Boss, scontata la sua buona fede, gli si può comunque imputare una certa deriva predicatoria che a volte pervade la sua narrazione. Ovviamente, imperdibile per appassionati dell’artista e del genere.

data di pubblicazione:26/10/2019








STRIKE, scritto e interpretato da Gabriele Berti, Giovanni Nasta, Diego Tricarico, regia di Gianni Corsi

STRIKE, scritto e interpretato da Gabriele Berti, Giovanni Nasta, Diego Tricarico, regia di Gianni Corsi

(Teatro de’ Servi – Roma, 18 ottobre/3 novembre 2019)

Un trittico di amici che si fa indissolubile. Il giovanilismo solidale tra problemi di droga, di auto-realizzazione e di impegno in una società sempre più conflittuale.

Il cartello del Sert, per il recupero dei tossicodipendenti, lancia un primo scenografico segnale sull’ambiente respirato dai tre protagonisti di una bella e nascente storia di amicizia. Un trittico di solitudini a confronto. Famiglie lontane, con compagni di viaggio gli spinelli e un linguaggio crudo giovanile ma non volgare. Frutto di un lavoro di gruppo la commedia offre molti spunti nel primo tempo e gira leggermente a vuoto nel secondo dove il potere di una maggiore sintesi avrebbe giovato, evitando qualche calo di ritmo. La recitazione funziona e crea emozioni descrivendo la full immersion nella confidenza e nella intimità condivisa di vicende sentimental/sessuali difficili e conflittuali come la società che li circonda. La commedia viene gestita con proprietà collettiva e misura con le vicende individuali che diventano il paradigma di una condizione esistenziale stentata e insoddisfacente. Il disagio alligna sovrano e senza troppe possibilità di riscatto e redenzione. Spettacolo di giovani ma non solo per giovani, constatando anche l’età del pubblico presente. Riti e miti di una generazione disincantata che percepisce che il proprio futuro sarà peggiore di quello dei propri padri. Ascensore sociale fermo, dipendenze in agguato. Il riscatto con i sentimenti di amicizia e la ritrovata condivisione finale attraverso uno strike. Non quello del bowling ma una sostanziosa vincita a una scommessa ippica. L’occasione per manifestare concretamente una conclamata amicizia che si dispiega con fatti e non con parole. La sinergia attoriale testimonia su un lavoro già rodato e maturo. Interpreti d’avvenire attesi a nuove prove dopo una scrittura collettiva che funziona e qualche consiglio di regia del più esperto e multifunzionale Massimiliano Bruno, utilissimo prezzemolo teatrale.

data di pubblicazione:26/10/2019


Il nostro voto:

PASOLINI/CASELLI ‘66 da ORGIA di Pier Paolo Pasolini, regia di Enrico Maria Carraro Moda

PASOLINI/CASELLI ‘66 da ORGIA di Pier Paolo Pasolini, regia di Enrico Maria Carraro Moda

(Teatro Trastevere – Roma, 24/27 ottobre 2019)

L’ultima notte di una coppia di sposi con la passione per il sadomasochismo. Una sala giochi per il loro divertimento. La visionaria interpretazione di Carraro Moda della tragedia pasoliniana.

 

Fresco vincitore del #Festivalindivenire2019 con lo spettacolo Il Vampa – miglior testo, migliore regia e miglior progetto sezione Lazio per il teatro – Enrico Maria Carraro Moda si confronta di nuovo con Pier Paolo Pasolini. Suo è l’adattamento di Accattone andato in scena la scorsa stagione sempre al teatro Trastevere.

Questa volta il confronto – per nulla semplice – è con una delle tragedie scritte in versi dal poeta di Casarsa, Orgia. L’architettura del testo si compone di un prologo seguito da sei quadri in cui i protagonisti, un uomo e una donna e più tardi – dopo la morte della donna – di una prostituta, si intrattengono in un gioco sadico, in cui il potere e il dominio dei corpi e della volontà ne sono scopo e motore dell’azione.

L’adattamento di Carraro Moda sfida ogni convenzione morale, è provocatorio senza motivo, onirico e allucinato per il puro gusto di esserlo. Nell’assenza di giudizio dell’immoralità trova posto appunto “Nessuno mi può giudicare” della Caselli, a cui fa riferimento il titolo. È un semplice gioco, quello di cui si maschera anche la messa in scena: dalla casa di plastica per bambini alla palla di gomma gigante, dal flipper fino alla recitazione degli attori. La cameretta dei giochi dei bambini/adulti, illuminati dal basso per far sembrare più grande la loro perversione. Tragedia dei ruoli: il padrone e la serva, il dominatore e la dominata, il castigatore e l’innocente. Il potere esercitato per il potere stesso, perché il possedere determina l’esistenza sia del carnefice che della vittima nell’essere posseduta.

Benché è senza dubbio abile e capace come regista e attore Enrico Maria Carraro Moda a riplasmare in maniera originale l’opera pasoliniana, questa volta dobbiamo esprimere una certa perplessità. Il testo si stalla in inutili pause e non gode di una contestualizzazione che ne giustifichi la scelta. Il gioco bambinesco è reiterato all’eccesso. Rimane comunque un’impresa degna di nota quella di aver lavorato su un testo teatrale ostico e difficile come Orgia.

data di pubblicazione:25/10/2019


Il nostro voto:

LE MEILLEUR RESTE A VENIR di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, 2019

LE MEILLEUR RESTE A VENIR di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, 2019

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)

Arthur e César sono amici sin dai temi dell’infanzia quando frequentavano un collegio molto rigido lontano da Parigi. Diversi caratterialmente e con un vissuto oramai alle spalle, i due si rincontrano dopo anni ed iniziano a frequentarsi assiduamente dividendo persino la casa. Motivo di questo inatteso avvicinamento: un malinteso per cui ognuno dei due è convinto che l’altro abbia un cancro incurabile e con pochi mesi ancora da vivere…

 

De La Patellière e Delaporte costituiscono una coppia di registi ben affermata e da vent’anni firmano insieme commedie di grande successo, basti pensare a Cena tra amici del 2012 basata su una famosa pièce teatrale, ripreso nel 2015 dalla nostra Francesca Archibugi che ne ha curato un adattamento ne Il nome del figlio. Presentato in questa edizione della Festa del Cinema, Le meilleur reste à venir ben si inserisce in un filone di film francesi che ha caratterizzato la kermesse romana con interessanti lavori che hanno ancora una volta confermato la validità del cinema d’oltralpe. I due protagonisti Arthur e César (interpretati rispettivamente da Fabrice Luchini e Patrick Bruel) pur completamente diversi nella vita rappresentano il classico esempio di una collaudata coppia di amici disposti a tutto pur di non mettere in discussione il sentimento d’amicizia che li unisce. Nel film troviamo una serie di equivoci, a volte persino banali se non addirittura farseschi, trattati in maniera geniale e frutto di una sceneggiatura ben curata in ogni minimo dialogo/dettaglio. Il risultato ottenuto è stato quello di aver creato, da una storia scontata, una commedia brillante e divertente sia pur con una punta di amaro dovuta alla tematica di come affrontare la morte così imminente. Un film dunque basato su una sequenza continua di situazioni tragicomiche, rese particolarmente divertenti grazie alla bravura indiscussa di Fabrice Luchini alla quale si aggiunge quella altrettanto valida di Patrick Bruel, attori oramai ben collaudati soprattutto nel genere della cosiddetta “commedia alla francese”.

Una regia molto attenta nel raccontare la storia di un’amicizia che sfocia in un rapporto di amore sincero tra due persone, caratterialmente opposte, ma così indissolubilmente unite: due mondi eterogenei ma proprio per questo complementari che riescono a dialogare seppur in situazioni drammatiche, in cui ognuno pensa alla morte dell’altro.

Inutile sottolineare come il cinema francese riesca oggi a confezionare dei piccoli gioielli cinematografici partendo da plot a volte quasi inconsistenti. Il film, quando uscirà nelle sale italiane, sarà da non perdere.

data di pubblicazione:25/10/2019








FÊTE DE FAMILLE di Cédric Kahn, 2019

FÊTE DE FAMILLE di Cédric Kahn, 2019

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)

Tutto inizia come in uno di quei film di cui solo il cinema francese sembra avere la formula magica ,,, una grande casa di famiglia in campagna, dal fascino vecchio stile, un giardino ove giocano bambini gioiosi, una tavola imbandita sotto alberi centenari, una grande famiglia che si riunisce; fratelli, sorelle, fidanzate e figli, in occasione del compleanno della matriarca Andrea (Catherine Deneuve). L’incontro tenero e leggero, lascia ben presto emergere tensioni, drammi e nevrosi mai sopite. Chi manipola? Chi è manipolato?Tutto è ambiguo!

 

Kahn regista, sceneggiatore ed anche attore di una discreta notorietà in Francia, dirige, sceneggia ed interpreta oggi il racconto di una crisi familiare. A prima vista può sembrare una vera famiglia come tante altre … un progressivo, lento declassamento sociale, disparità di aspirazioni, di sogni e di risultati fra i figli ormai adulti, rancori più o meno dissimulati … cose tutte, in qualche modo, quasi normali. Ma non c’è solo questo! In realtà, appena, appena sotto la superficie controllata a fatica dalla matriarca, ci sono macigni e nodi irrisolti ben più crudeli e difficili. Kahn va ben oltre dal dipingerci l’ennesima variante sui valori della famiglia borghese in genere, sia essa francese o meno, perché affronta ed analizza un problema ed una questione ben più insidiosa e subdola. Quale è il livello di sacrificio che una famiglia può decidere ed accettare di scegliere per riuscire a preservare i propri confort ed il proprio status quo morale e materiale?

Su questo interrogativo che si insinua ambiguamente e progressivamente nella famiglia e nella mente dello spettatore, la regia e la sceneggiatura portano a nudo, piano piano, la Verità, con una meccanica narrativa implacabile che ricorda i drammi di Tennessee Williams, o, il ben più recente e crudo Festen.

Fête de famille è un film dall’impostazione scientemente teatrale, quasi una rappresentazione articolata secondo i codici classici teatrali di unità di tempo e di luogo, per le porte che si aprono, si chiudono, sbattono per far entrare ed uscire di scena i personaggi, per la modalità con cui, quasi atto dopo atto, vengono delineati i caratteri. Un dramma familiare, a tratti lacerante, a tratti divertente, che però il regista evita abilmente che sia del teatro filmato, per la sapienza con cui muove la cinepresa osservando i personaggi, i loro movimenti e lo spazio che li circonda, inserendo intelligentemente anche scene esterne, aiutato in ciò dall’alta qualità del montaggio, dal ritmo narrativo sempre sostenuto e dai dialoghi cesellati al dettaglio. L’autore è veramente abile nell’accentuare, in un giusto mix di tenerezza e crudeltà, di tragedia e commedia, la progressione delle dispute e contrasti familiari fino ad arrivare a lacerare la pseudo armonia familiare in una scena finale drammatica e catartica in cui si scioglie l’interrogativo di cui sopra. Kahn costruisce il dramma mettendo in scena i vari rapporti umani con leggerezza e sensibilità vere e veritiere, quasi fosse un concentrato di follia dolce e furiosa al tempo stesso.

Il suo film è certamente un film corale, straziante e divertente recitato da ottimi attori, tutti virtuosi e ben diretti. Al centro, su tutto e tutti emergono però la Deneuve: eccezionale e credibilissima con i suoi non detti, nel ruolo della madre e nonna intenta a tenere legata, in una sembianza di intesa, la famiglia, costi quel che costi, e poi Emmanuelle Bercot, nel ruolo della figlia, la cui coraggiosa performance è di una intensità che colpisce tanto è brava e geniale.

Fête de famille è di certo uno dei migliori film di Kahn anche se ad essere proprio severi c’è qualche piccolo calo di tensione. Forse quindi un po’ ineguale ma pur sempre del buon cinema, con buoni attori, buon soggetto, buona regia. Un vero piacere di cinema.

data di pubblicazione:25/10/2019








JUDY di Rupert Goold, 2019

JUDY di Rupert Goold, 2019

(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)

Inverno 1968, inizio 1969, Judy Garland (Renée Zellweger) ormai fisicamente ed emotivamente segnata e, per di più, in gravi difficoltà economiche, è costretta ad accettare un’offerta generosa per una serie di show in un locale di Londra, sperando così di riottenere anche l’affido dei due piccoli figli. Gli ultimi sei mesi, prima di morire per eccesso di barbiturici a soli 46 anni!

 

Goold è un regista inglese attivo soprattutto in campo teatrale che ha fatto il suo debutto cinematografico nel 2015 con True Story ed oggi torna sugli schermi con la sua opera seconda.

Judy è un tributo ad una star leggenda di Hollywood ed al tempo stesso, una vittima dello starsystem Hollywoodiano, ma, soprattutto, vuole essere un omaggio alla donna fragile che si celava dietro la facciata, schiacciata fra il suo essere nel privato ed il suo apparire nel pubblico. Il ritratto, non tanto della Diva, quanto piuttosto quello di un essere umano ferito che lotta ancora, anzi che è costretto ancora a lottare nell’incertezza di riuscire ad essere all’altezza della sua fama.

Il film è integralmente tratto da una commedia “The end of the rainbow” e per renderla meno teatrale e lineare il regista ricorre ad una serie di flashback facendo muovere lo spettatore avanti ed indietro fra gli ultimi mesi a Londra ed i primi passi della giovanissima attrice con la M.G.M. sul set del Mago di Oz . Una serie di ricordi personali della Garland che evidenziano le origini delle sue dipendenze, dei suoi bisogni di affetto, di sicurezza e di protezione. Certo il film e la stessa regia non sono molto originali, anzi la regia è molto classica e pacata ed il film si muove prevalentemente nell’alveo di tanti altri biopic: il personaggio segnato, le origini, i ricordi, i successi e gli insuccessi. Però, pur scivolandoci dentro in alcuni passaggi, il cineasta è bravo ad evitare di cadere del tutto nel melodramma e nel patetico. Concentrando poi la narrazione su un periodo ben definito quale quello londinese, evita abilmente l’altra trappola tipica delle biografie cinematografiche: troppe storie da raccontare in un storia, e, di conseguenza, che il film risulti poi oppresso e compresso. Si può infatti dire che i momenti migliori della regia di Goold sono proprio quelli in cui esce fuori dagli schemi narrativi delle biografie inventandosi del tutto alcune situazioni.

Quel che però fa scordare le imperfezioni e le carenze narrative del lavoro e che gli da il vero valore e che giustifica la sua visione e gli apprezzamenti e fa la vera differenza di qualità è … la straordinaria, eccezionale, superba, magnifica interpretazione della Zellweger già Oscar per Cold Mountain nel 2004 ed assente dagli schermi da un po’ di anni.

In realtà Judy è lo show della Zellweger, la sua bravura è già uno spettacolo di per se stesso; è capace di restituirci con autenticità la Garland catturandone gli aspetti della personalità sia fisici che psichici. Un processo empatico che coglie e trasmette tutta la sofferenza, la fragilità, la determinazione e la disperazione, la scarsa autostima, le dipendenze ed il tenero amore per i figli.

Pur restando sempre se stessa la Zellweger diviene la Garland non solo per mimesi fisica, ma facendola rivivere nei suoi drammi interiori, nei bisogni, nei vezzi senza mai essere eccessiva. Anzi al contrario. E poi … canta, e lo fa anche molto bene restituendoci le sonorità che poteva avere la Garland a quel punto finale della sua carriera. Una interpretazione che, come abbiamo detto, fa il film e che sicuramente porterà l’attrice ad essere una delle maggiori candidate per il prossimo Oscar. Veramente commovente e coinvolgente!

Il resto del cast è perfetto nei vari ruoli, come buona è la messa in scena, i costumi ed i set che ci riportano veramente nella Londra di 50 anni fa.

Judy è quindi un film da vedere perché ci restituisce quella grande icona che fu la Garland, un film che gli appassionati di cinema vedranno solo per l’interpretazione della Zellweger in attesa degli Oscar, e che poi potrà anche essere dimenticato. Un biopic classico sul finale di carriera, un po’ come abbiamo visto appena l’anno scorso alla Festa del Cinema con Stan e Ollie.

data di pubblicazione:24/10/2019








TUTTA CASA, LETTO E CHIESA di Dario Fo e Franca Rame, regia di Sandro Mabellini

TUTTA CASA, LETTO E CHIESA di Dario Fo e Franca Rame, regia di Sandro Mabellini

(Sala Umberto – Roma, 22 ottobre 2019)

Uno spettacolo che celebra la drammaticità della condizione della donna. Una visione ironica e intelligente come solo Dario Fo e Franca Rame potevano restituirci. Un’attrice eccezionale sul palco a raccontarcelo.

  

 

Si chiude in bellezza la rassegna romana di eventi dedicati a Dario Fo e al suo teatro alla Sala Umberto di via della Mercede. Bella in particolare Valentina Lodovini e così brava da trasmettere al pubblico grande emozione e partecipazione. Un’attrice matura, ricca di esperienza e carisma, che possiede pienamente un caleidoscopio completo di registri comici. Si ride tantissimo e si riflette: la condizione di sottomissione sessuale della donna all’uomo, con ciò che ne deriva, è il tema portante e – ahimè! – ancora tremendamente attuale, in Italia e in tante parti del mondo.

Il testo si suddivide in tre parti, come le tipologie di donna presentate o, per meglio dire, le condizioni in cui una donna può venire a trovarsi: la casalinga, l’amante e l’operaia.

Se è facile intuire come si possa svolgere la vita di una casalinga, segregata in casa dal marito geloso, alle prese con i figli, la casa, il cognato invalido che allunga l’unica mano funzionante e le chiacchiere con la dirimpettaia, non si può dire altrettanto del finale. Accade infatti qualcosa di assurdo e inaspettato, che ribalta lo stato di vittimismo della donna. Ci piacerebbe vedere questo riscatto anche nella vita vera di tante donne, ma la soluzione è appunto questa: assurda, come assurda appare una possibile rivalsa femminile in genere.

Le altre due storie terminano con altrettanti finali impossibili ed è amaro constatare quanto lo scenario di violenza contro le donne sia ancora tremendamente attuale, rispetto anche a quando il testo venne rappresentato per la prima volta nel 1977. Proprio di questi giorni è la notizia dell’uccisione di Hevrin Khalaf, ultima di innumerevoli morti, femminista e attivista politica curda, vittima del regime turco e degli jihadisti.

A chiudere lo spettacolo, come epilogo – staccato dal resto della narrazione ma tematicamente coerente – Alice nel Paese senza Meraviglie, una drammatica e distorta immagine della vicenda favolesca, che con rabbia racconta ancora la prepotenza maschile sulla debolezza femminile.

data di pubblicazione:24/10/2019


Il nostro voto:

TREDICI GOL DALLA BANDIERINA di Ettore Castagna – Rubbettino editore, 2019

TREDICI GOL DALLA BANDIERINA di Ettore Castagna – Rubbettino editore, 2019

La Calabria, l’adolescenza, il fatidico ’68, la scoperta della politica, i gol dalla bandierina di Palanca. Pieno di ingredienti l’orizzonte adolescenziale del protagonista di un romanzo che è un memoir, un intenso viaggio nel passato. Ricco di icone, di simboli, di contraddizioni, di smarrimenti, di scoperte sull’altro sesso. Timori e tremori da un mondo inabissato su cui va a frugare l’esercizio di memoria. L’alta qualità letteraria del libro si esplica con una lingua che più del calabrese tout court ammicca a uno slang catanzarese che deforma le parole ma di cui il lettore non tarda a impossessarsi. L’autore ci fa entrare in un mondo in cui si poteva cambiare il mondo prima che il mondo cambiasse noi o ci convincesse al minimo comune denominatore del quieto vivere, senza palpiti e sussulti. Al contrario era la passione che animava l’uscita dall’infanzia e l’ingresso in quella semi-maturità ricca di ambizione e di spirito di rivolta. Si percepisce l’angustia esistenziale del vivere in un sud retrogrado e che scopre con ritardo le conquiste civili della società. Tutto il progresso appare spostato al nord. Con una gita a Roma, come in un viaggio in Germania o nel profondo nord. Dunque è il ritratto collettivo di una generazione che spicca nel quadro d’assieme. Senza dimenticare il magico piccolo piedino di Palanca, centravanti del Catanzaro, capace di segnare dal calcio d’angolo. E per ben tredici volte come ricorda il titolo del libro. Palanca assurge al ruolo di protagonista inconsapevole, a eroe di una rivoluzione incompiuta, neanche fosse un Mao Tse Tung. Il raccolto in agrodolce mantiene la giusta tensione fino alla fine e dalla narrazione solista si eleva a ritratto di una classe, di un popolo accomunato dalla stessa anagrafe e dallo stesso deluso anelito al cambiamento. Oggi che di utopie sembriamo non farcene il ricordo di quegli anni è ancora più vivo e struggente.

data di pubblicazione:22/10/2019