da Antonio Jacolina | Feb 18, 2020
Parafrasando il titolo di un buon film ancora nei cinema, potremmo iniziare con Il Mistero Louise Penny. Come nel film, stiamo forse assistendo a giochi di marketing? Alla nascita indotta di un successo editoriale? … Un mistero! Un mistero di un’autrice 62enne molto conosciuta ed apprezzata in Canada e nei paesi anglofoni ma quasi sconosciuta in Italia. Una quasi sconosciuta da 6 milioni di copie di libri sulle inchieste di Armand Gamache, Ispettore Capo della Sureté del Quebec, dall’esordio nel 2005 ad oggi: 14 volumi dopo! Quasi sconosciuta perché, in realtà, della scrittrice erano già usciti per i tipi PIEMME due suoi romanzi nel 2013 e nel 2017, senza però suscitare interesse nel grande pubblico. Con la pubblicazione nella primavera scorsa da parte di EINAUDI di Case di Vetro (il 13° della serie) sembrerebbe invece essersi messo in movimento qualcosa che porta a prevedere, a breve, l’uscita di altri libri dell’autrice in una rincorsa, partendo dalla fine, a recuperare il tempo perduto.
La Penny lavora con mano lieve, il suo stile è scorrevole ed è capace, pur in un mix in cui le emozioni e le riflessioni prevalgono sull’azione, di mantenere la tensione narrativa fino alla fine. E’ sobria, misurata e meticolosa nello scrivere ed i suoi personaggi sono pieni di umanità, colorati e reali. L’Ispettore Gamache è un uomo non più giovanissimo, vecchio stampo anche se moderno, colto, attento ed attuale. E’ una forza tranquilla la cui bonomia è segnata da ben nascoste linee di tenebre che ne fanno un personaggio scettico ma sensibile al tempo stesso, che, più che l’azione, segue la logica deduttiva e, che più che le armi, preferisce usare la mente. Un mix di reminiscenze inglesi con Hercule Poirot, Sherlock Holmes e francesi con Maigret (non a caso siamo nel Quebec anglofrancese). Se ci si lascia andare alle atmosfere sospese nel tempo, del tutto desuete nei gialli attuali che sono invece ritmati dal succedersi incessante di azione e colpi di scena, se ci si lascia affascinare da come un’inchiesta possa svolgersi quasi con discrezione, senza grandi brividi e con storie un po’ fuori del comune ma sempre puntellate da buoni dialoghi e bei personaggi … si potrà anche finire con l’affezionarsi all’Ispettore Gamache.
Lo spunto di Case di Vetro è interessantissimo e stimolante: subito dopo la festa di Halloween una figura mascherata, nerovestita mette a disagio ed impaurisce gli abitanti, con la sua sola incombente e muta presenza nella piazza del piccolo idilliaco villaggio di Tre Pini, non lontano da Montreal. Lo spunto, al di là dell’incrociarsi di omicidi, di processi ed inchieste, ed alternarsi di presente e passato, serve a svelare fatti in cui la coscienza di tutti, Gamache compreso, sarà messa a nudo. Una riflessione sulla Legge, sulla Coscienza come valore supremo, sugli abusi e manipolazioni della Legge stessa, “Si può infrangere la Legge per una giusta causa?”. Tutt’attorno un microcosmo di personaggi che fanno da “coro” e da contraltare all’evolversi lento ma progressivo della suspense. Un buon polar con il gusto di una volta. Difficile però, dopo soli tre libri, e con 13 libri di ritardo, dire se la ricetta sia fresca oppure ripetitiva, ma gli ingredienti per il successo, sia pure a “ritmo di valzer lento”, ci sono tutti. Vedremo a breve.
data di pubblicazione:18/02/2020
da Antonio Jacolina | Feb 16, 2020
Michael Connelly è uno dei maggiori scrittori di crime stories, un vero narratore naturale. Nessuna necessità di presentare oltre un autore i cui romanzi polizieschi si susseguono ormai da decenni senza che mai la qualità e l’interesse vengano meno. Come è possibile tutto ciò? Cosa fa la differenza con gli altri autori di cui abbiamo parlato recentemente? Basta arrivare appena alla terza/quarta pagina del libro ed ecco davanti a noi la risposta: il lettore è già catturato, una storia ben costruita, ritmo serrato ed avvincente fin dalle prime righe, atmosfere realistiche dettagliate e dinamiche in cui si viene condotti con mano sicura passo dopo passo, le situazioni, le ansie sono vere e si succedono tenendo sempre col fiato sospeso. Si entra subito nell’universo di Connelly e si è presi dal desiderio di sapere come vanno a finire le inchieste. Inchieste che sono sempre ben descritte senza superficialità, tutte le storie funzionano, sia quella principale che le digressioni parallele. L’immersione è totale, sempre!
In quest’ultimo romanzo il personaggio feticcio, il leggendario detective Harry Bosch è ormai in pensione, incomincia ad essere ed anche a sentirsi anziano ed a dubitare di sé, incontra fortuitamente la giovane detective Renée Ballard, (appena apparsa nei due ultimi romanzi) ed intorno ad un cold case nasce pian piano una fiducia reciproca ed una possibile futura partnership. Dall’incontro non si perdono né le qualità consolidate di Bosch, né si annacquano quelle in via di definizione della nuova eroina ai cui contorni lo scrittore riesce già a dare personalità ed umanità. Sono entrambi due solitari, indipendenti, testardi e ribelli alle gerarchie. Lei è solo più giovane e più sportiva. In breve, Connelly fa invecchiare Bosch che ha ormai quasi 70 anni, e procede così ad una attualizzazione dei contesti, ma fa del “nuovo” usando e mantenendo però il “vecchio”. La nuova eroina è solo il pendant femminile e giovanile di Harry.
Definiti i nuovi contorni resta lo stesso piacere di sempre nel seguire un’inchiesta che prende sempre più ritmo e diviene mozzafiato, non ci si annoia un secondo nell’avanzare millimetrico verso la conclusione con una tensione che regge fino alle ultime pagine senza mai ricorrere ad artifici, in un perfetto dosaggio fra l’intrigo e la vita privata dei protagonisti. Un romanzo ben confezionato, credibile ed efficace. Anche questa volta la qualità è eccellente. Un ottimo poliziesco.
data di pubblicazione:16/02/2020
da Daniele Poto | Feb 15, 2020
(Teatro San Genesio – Roma, 12/16 febbraio 2020)
Una fluente riduzione di un classico poco rappresentato. Con ricche e accurate scenografie e un pregevole lavoro di asciugatura del testo, frutto del lavoro di un anno..
Il Re Muore è il leit motiv di un testo estremamente attuale che, non modificato rispetto all’originale, appare come una veridica metafora della società contemporanea e della condizione umana. Il re muore attimo per attimo, in presa diretta con il countdown dei secondi scanditi in diretta dal maestro rumeno. Opera matura del commediografo che qui stabilisce un perfetto equilibrio tra forma e contenuto, con frequenti divagazioni ironiche e rimandi al pubblico in platea. Ensemble teatrale funzionale con livelli di recitazione omogenei e non dissonanti. Il tragico è in equilibrio con il sublime, con uno spegnimento fisiologico che è anche politico, morale, vortice di dissoluzione in un contrasto di atteggiamenti di tutti quelli che gli stanno vicini: la prima moglie, la seconda moglie, la serva, il medico, la guardia. Caduta progressiva di un sovrano, specchio dell’umanità nel suo lento digradare verso la morte. Una favola gotica e polisemantica di sorprendente attualità, vista l’aria del tempo. Il linguaggio punta all’essenziale. Ionesco appare quasi preveggente nel prefigurare la penuria esistenziale oggi molto rappresentata nell’era del coronavirus e del Grande Dubbio climatico: evidenze che certo non si potevano immaginare e concepire circa sessanta anni fa. Teatro nel teatro, efficace esplorazione nei meandri della nostra psiche, insinuando il dubbio che la realtà sia sogno e/o viceversa. Il Re che tutto ha fatto e tutto poteva è diventato un piccolo fuscello che la storia si appresta a spazzare via. Crolla spesso in scena ma senza forzare la recitazione a grossolane caricatura di un declino. Rimandando a forti dubbi sul significato ultima dell’esistenza e della testimonianza che possiamo lasciare con parole ed opere della nostra vita.
data di pubblicazione:15/02/2020
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Feb 14, 2020
Mussò da quando ha esordito in Francia nel 2004/05 è uno scrittore, con oltre 35 milioni di copie vendute nel mondo, che ha inanellato da allora ad oggi mediamente un libro l’anno, quasi tutti best seller più volte adattati per TV e Cinema. Il suo è uno stile letterario accattivante e moderno capace di dare ritmo a storie ove in genere si mescolano, con molta scaltrezza, suspense ed emozioni, fantastico e realtà con atmosfere poliziesche da noir. L’autore è entrato nelle classifiche delle vendite italiane solo da alcuni anni e la casa editrice, cavalcando l’opportunità, ha tradotto e dato alle stampe per Natale anche quest’ultimo libro, che, in realtà, era già uscito in Francia nel 2015.
L’Istante Presente non è né un thriller né tantomeno un noir, semmai è un insolito fantasy. Ambientato a New York narra le suggestive vicende di un giovane medico che colpito da “una sorta di maledizione” è costretto per 24 volte, dal 1991 al 2015, a salti temporali senza poter, di conseguenza, vivere in continuità una vita di affetti normali, e così via fino al suo ultimo viaggio nel tempo oltre il quale non si sa cosa accadrà.
Lo spunto, pur se non originalissimo, non è banale ed il lettore viene inizialmente catturato dall’intrigo e da un clima di sospensione onirica, ma, la mancanza di solidità e spessore dei personaggi appena abbozzati e la ripetitività delle situazioni fanno cadere il mordente già a metà percorso, generando una sensazione di vuoto. Manca l’azione, manca l’empatia con la storia, fino ad arrivare poi ad una conclusione sconcertante che più finta non può essere. Quel che può apparire un colpo di scena geniale è, al contrario, un finale banale che apre ad un risvolto psicoanalitico e metaforico sull’egoismo dello scrittore troppo impegnato per riuscire a vivere la sua vita, i suoi dolori e le sue gioie. Uno scrittore che scrive di uno scrittore come già in La ragazza di carta e in Central Park. Far terminare così i propri libri non è un elemento distintivo autoriale, ma piuttosto una caduta di qualità narrativa, una delusione, in totale incoerenza con la storia raccontata cui viene quasi appiccicata quale messaggio moralistico. Alla fine sembra sempre lo stesso libro: … una storia fantastica, un amore difficile, un colpo di scena con poco mordente. Mussò ha sì un certo qual talento, ma un romanzo l’anno è troppo per tutti, anche lui dovrebbe avere il coraggio di scrivere di meno e scrivere meglio e di osare di uscire da sentieri ormai battuti e ribattuti.
data di pubblicazione:14/02/2020
da Paolo Talone | Feb 14, 2020
(Sala Umberto – Roma, 11/16 febbraio 2020)
Meg Page e Alice Ford, le comari-amiche protagoniste della divertente commedia, ricevono dal Cavaliere Falstaff una lettera di corteggiamento che riporta con sfrontatezza lo stesso testo. È quindi obbligo fargliela pagare e burlarsi di lui pubblicamente. La pianificazione della vendetta diventa il diversivo per rallegrare un noioso pomeriggio a Windsor.
Geniale invenzione quella operata da Edoardo Erba per riportare in scena, cucita insieme alla versione operistica del Falstaff verdiano, la commedia scespiriana de Le allegre comari di Windsor. Più che un lavoro sartoriale di cucitura delle due opere, in realtà il lavoro appare come passato per le mani di forzute lavandaie. Come un cencio sporco, le due scritture sembrano essere state sciacquate in acqua, strofinate per bene sul piano di un lavatoio, strizzate sbattute e infine stese per essere ammirate. Il risultato è esilarante, nuovo e divertente. Il rimescolo si depura degli orpelli linguistici cinque e ottocenteschi – che tanto rallentano l’azione – e si arricchisce di originali sfumature e divertenti soluzioni. Una riscrittura tutta al femminile, per una compagnia indipendente (ci teniamo a sottolinearlo) di attrici fantasiose e complete: Mila Boeri, Annagaia Marchioro, Chiara Stoppa e Virginia Zini.
La scena sembra svolgersi su un tavolinetto addobbato per il tè delle cinque. Pizzi centrini e merletti disposti a gorgiera incorniciano lo spazio di recitazione. Tra chiacchiere e pettegolezzi, screzi e invenzioni, le donne si divertono a fantasticare, un po’ per noia meno per vendetta, sul modo di veder deriso il lussurioso, laido e mellifluo Sir John Falstaff, pretendente delle due amiche, che pur si beccano e punzecchiano, Madama Page e Madama Ford. L’immaginazione le porta a creare scenari, a progettare gli scherzi a danno del Cavaliere, servendosi delle capacità imitative e fisiche della serva Quickly qui chiamata a fare il verso di lui. Ma tutto resta un gioco, un passatempo: lo scherzo non va a segno perché Falstaff in realtà – per motivi che non vogliamo anticipare – non sarà in condizione di infastidire più le due donne. In fumo finiranno allora le lettere che furono la causa delle loro divertenti invenzioni. L’unica nota di verità che si potrà suonare sarà quella dell’amore dei due amanti Anne, figlia di Madama Page, e Fenton, suo silenzioso spasimante. In particolare Fenton, personaggio interpretato anche questo da una donna (Giulia Bertasi), darà all’azione quei momenti di godibile felicità con il suono della sua fisarmonica, l’unico strumento capace di ripetere, attraverso il soffio del mantice, il respiro di un’intera orchestra e le note delle arie di Verdi.
data di pubblicazione:14/02/2020
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Feb 11, 2020
Michel Bussì è autore di Polar (mix di polizieschi e noir) dal successo ormai planetario e dai molteplici adattamenti televisivi che è esploso anche in Italia a partire dal 2011 con l’uscita di Ninfee Nere. Con questo suo ultimo romanzo, il 12°, lo scrittore ci porta in un intrigo un po’ diverso dal solito, in un contesto meno poliziesco ed un po’ più romantico.
Una sequenza incredibile di coincidenze riportano la ancor bella cinquantenne Nathalie, hostess dell’Air France, sui luoghi ove vent’anni prima, già felicemente sposata e madre di una figlia, aveva incontrato la passione della sua vita. Chi sta creando tutte queste nuove coincidenze? Il Destino o qualche sconosciuto? E poi … per quale motivo far riaffiorare questi dolci ricordi e rimpianti? Presente e Passato si incrociano e si alternano in un gioco continuo in cui l’Amore diviene centrale rispetto al plot poliziesco.
Una scelta voluta da parte di Bussì, uno sconfinamento in altri territori letterari per dimostrare probabilmente di saper andare anche oltre i propri registri. Lo scrittore, lo sappiamo, sa raccontare le storie ed è bravo a creare le situazioni, pur non sapendo però gestire bene i finali, ma questa volta l’accumulo ed il mix dei fatti narrati è eccessivo. Dopo un buon inizio il racconto stenta a decollare fino a perdersi poi del tutto, il gioco infatti si allunga troppo, diviene ripetitivo e la storia ed i personaggi mancano di solidità e di spessore psicologico. L’ispirazione sembra essere un po’ affaticata e la suspense ed i colpi di scena latitano o non sono ben calibrati. Il risultato è che dal romantico si scivola subito nel melenso e dal thriller si scade subito nell’assurdo. Un insieme di clichè si susseguono senza che scatti mai la vera scintilla. Se l’intenzione di Bussì era di scrivere un romanzo sentimentale, purtroppo per lui e, soprattutto per il malcapitato lettore, è scaduto nel sentimentalismo da “romanzetti rosa”. E’ evidente che le storie d’amore non sono nelle sue corde ed abbiamo molta nostalgia del primo Bussì poliziesco. Una lunga pausa di riflessione gli gioverebbe senz’altro.
data di pubblicazione:11/02/2020
da Daniele Poto | Feb 11, 2020
Michele Bovi, estrazione Rai, è un meraviglioso cultore dei segreti della musica. E quando presenta un libro si appoggia a interviste mirate, a una documentazione ineccepibile. Dunque non stupisca di trovare sulla copertina di un libro di musica la foto di Joe Adonis, pluri-assassino di chiaro marchio Doc mafioso italico, che, estradato in Italia, trovò il modo di tessere fitte trame manageriali con gran parte del jet set canoro nostrano. I legami tra Italia e Stati Uniti cuciono un filo rosso che va da Frank Sinatra a Tony Renis. Ma Bovi va più in profondità ricordando il ruolo fondamentale esercitato da Lucky Luciano come mallevadore della pacifica penetrazione degli invasori americani in Sicilia, esercitando i buoni uffici di collegamento con Cosa Nostra all’altezza della seconda guerra mondiale. Inoltre i servizi segreti, spesso patteggiando con personaggi criminali o borderline hanno provato a esercitare un controllo sui complessi beat, preoccupati del cattivo esempio nel consumo di spinelli o nell’esercizio di libero sesso. Naturalmente nel corso degli anni questa pretesa si è moto attenuata, sia per la virtuale liberalizzazione delle droghe leggere, sia pur spinte più alte di libertà che hanno attenuato la portata di scandali ormai solo presunti, pure se il recente festival di Sanremo qualche colpo alla morale corrente l’ha pure portato. Adonis era coccolato da alcuni dei maggiori cantanti italiani, era un ospite assiduo di Sanremo. In questo andirivieni Italia-America (con i mafiosi a gestire contratti ed appalti) si è consumato anche un possibile suicidio: Rossano, cantante di precario successo, venne trovato impiccato nella propria camera di albergo negli States. Era diventato una sorta di corriere della droga per conto mafioso dagli Stati Uniti al Canada e chissà se gli sia costata la vita uno sgarbo ai propri datori di lavoro: il mistero rimane. Anche Mina e Celentano vennero contattati per trasferta gestite da questi pericolosi interlocutori. La prima fiutò l’aria e dopo un primo ingaggio rinunciò ad un impegno giudicato compromettente mentre il secondo fu frenato dalla cronica desuetudine ai viaggi aerei.
data di pubblicazione:11/02/2020
da Giovanni M. Ripoli | Feb 11, 2020
La storia vera di Bryan Stevenson, giovane avvocato, laureato ad Harvard, che divenne famoso per aver difeso i detenuti di colore del braccio della morte di un carcere dell’Alabama privi dei più elementari diritti in un sistema giudiziario ostile e razzista.
Se questa fosse una pellicola degli anni ’50, ma che dico, ’60 potremmo anche non sorprenderci più di tanto delle ingiustizie, dei pregiudizi, del razzismo tout court di cui sono vittime gli afro americani. Il dato sconfortante è invece che i fatti narrati dal regista Destin Daniel Cretton nel suo sodalizio artistico con Brie Larson (qui anche come attrice nel ruolo di un’avvocatessa locale che si batte per la gente di colore), si sono svolti di recente e sono stati raccontati prima che nel film, nel libro di Stevenson Just Mercy, Storia di Giustizia e Redenzione del 2014, dunque in piena epoca Obama. Del resto, la cronaca e di conseguenza la filmografia statunitense non hanno mai mancato di raccontare le continue umiliazioni patite dai neri d’America. Dai tempi di Il Buio Oltre la Siepe ai film di Spike Lee, alle innumerevoli e spesso notevoli pellicole sui comuni abusi da parte di poliziotti spesso in odore di razzismo (ne cito solo alcune del 2018: Skin, Il Coraggio della Verità, Che Fare Quando il Mondo è in Fiamme, Se La Strada Potesse Parlare ……), tutte pellicole che spesso iniziano con l’arresto di un ignaro afro americano fermato in auto dalla polizia in cerca di colpevoli a prescindere… Anche nella storia narrata da Cretton l’incipit è il medesimo: Walter MacMillan, che nel film ha il volto di Jamie Foxx, lavoratore nero, viene fermato e in seguito accusato del delitto di una giovane bianca. La più becera provincia dell’Alabama all’unisono (polizia, magistratura, governatore) si accontenta di prove e testimonianze superficiali e “condanna” Mac Millan (“..basta guardarlo in faccia!”). Ed è a questo punto della storia che entra in campo il brillante avvocato Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan (Black Panter, Creed),il quale non crede alla colpevolezza di Mac Millan e decide di difenderlo nonostante il suo stesso assistito, oramai già nel braccio della morte e in attesa dell’esecuzione della sentenza, e con lui la locale comunità nera abbia perso ogni speranza. Ovviamente il regista è totalmente in sintonia con il giovane “eroe” e lo segue nella sua drammatica lotta contro pregiudizi e ingiustizie riuscendo infine a rendere giustizia all’innocente. Come dicevo in premessa non è il primo e temo non sarà l’ultimo film sul razzismo e più in generale, sulla paura del diverso, ma la pellicola ha efficaci frecce al suo arco: è asciutta, mantiene un buon ritmo, è ottimamente recitato e, purtroppo, riesce a fotografare ancora una volta in modo impietoso il volto di un’America che tollera a tutt’oggi inique disparità sociali e razziali.
data di pubblicazione:11/02/2020
Scopri con un click il nostro voto:
da Accreditati | Feb 10, 2020
Gli Oscar 2020 sono stati segnati da previsioni della vigilia fin troppo agevoli da confermare e da sorprese che, in qualche modo, sono destinate a restare nella storia.
La previsione tanto scontata ma troppo difficile da smentire era quella del premio a Joaquin Phoenix come miglior attore protagonista per la sua magnetica interpretazione in Joker: fin dalla prima proiezione del film alla Mostra di Venezia, era chiaro che sarebbe stato difficile, se non impossibile, superare una simile prova da attore.
La sorpresa “storica” è stata quella di Parasite del sudcoreano Bong Joon-ho, che si aggiudica le statuette più ambite di miglior film e miglior regia, cui si aggiungono i premi per miglior film straniero e miglior sceneggiatura originale. È la prima volta che un film in lingua inglese conquista la vetta del miglior film agli Oscar, dopo aver vinto già la Palma d’oro a Cannes.
La miglior attrice protagonista è Renèe Zellweger che, per il ruolo di Judy, torna a stringere l’Oscar tra le mani dopo Ritorno a Cold Mountain.
Quanto agli attori non protagonisti, gli Oscar sono andati al (prevedibile) Brad Pitt per C’era una volta…a Hollywood e a (una forse meno scontata) Laura Dern per Storia di un matrimonio.
La miglior canzone è miglior canzone è (I’m Gonna) Love Me Again in Rocketman, con Sir Elton John che riceve il suo secondo Oscar dopo quello conquistato nel 1995 con Il Re Leone.
Come tutte le notti degli Oscar, è inevitabile fare anche il conto dei “non premiati”. L’assenza più assordante è probabilmente quella di The Irishman di Martin Scorsese che, malgrado dieci candidature e tante citazioni durante le premiazioni, torna a casa senza statuette. Anche 1917 di Sam Mendes, indubbiamente tra i favoriti, deve “accontentarsi” di fotografia, effetti speciali e montaggio sonoro. C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino porta a casa, oltre al premio a Brad Pitt, la statuetta per la miglior scenografia.
Qui di seguito tutti i premi vinti per ciascuna categoria in concorso!
Miglior film
Parasite
Miglior regia
Bon Joon Ho Parasite
Attrice protagonista
Renée Zellweger Judy
Attore protagonista
Joaquin Phoenix Joker
Attrice non protagonista
Laura Dern Storia di un matrimonio
Attore non protagonista
Brad Pitt C’era una volta… a Hollywood
Film d’animazione
Toy Story 4
Film internazionale (ex straniero)
Parasite (Corea del Sud)
Sceneggiatura originale
Parasite
Sceneggiatura non originale
Jojo Rabbit
Cortometraggio animato
Hair Love
Documentario
American Factory
Cortometraggio documentario
Learning to skateboard in a warzone
Cortometraggio
The Neighbor’s Widow
Colonna sonora
Joker
Canzone originale
(I’m Gonna) Love Me Again – Rocketman
Fotografia
1917
Effetti speciali
1917
Trucco e acconciature
Bombshell
Scenografia
C’era una volta… a Hollywood
Costumi
Piccole donne
Montaggio
Le Mans ’66 – La grande sfida
Sonoro
Le Mans ’66 – La grande sfida
Montaggio sonoro
1917
da Antonio Jacolina | Feb 8, 2020
Georges Simenon scrittore dalla compulsiva prolificità scrisse oltre 200 romanzi ed innumerevoli racconti. Circa 75 sono quelli dedicati all’ispettore Maigret, mentre ca.120 sono i Romanzi Duri, come li definì lo scrittore stesso.
Per gli appassionati questi e solo questi sono i soli e veri Simenon! In estrema sintesi potremmo ripartire i Romanzi Duri in tre gruppi: quelli scritti in Francia fino al 1944; quelli dell’”esilio” americano, ed infine quelli del rientro in Europa fino alla decisione di smettere di scrivere nel 1972. I migliori, salvo alcune eccezioni, sono indubbiamente quelli del primo periodo. Quelli in cui Simenon definisce il suo universo. un universo in cui ogni lettore poteva e può identificarsi. Una galleria di uomini e donne, autentici ed universali. Poco importa che siano parigini, cittadini o paesani, notabili o professionisti, su tutti l’ineluttabile Destino è in attesa di far scattare la sua trappola.
La Cattiva Stella uscito a fine 2019, appartiene al primo gruppo, anche se più che un romanzo è una raccolta di racconti pubblicati su Paris Soir quali reportages del lungo giro del mondo e dei tropici che Simenon fece fra il ‘35 ed il ’37. Articoli poi rivisti e raccolti dall’autore in un volume con questo titolo dato alle stampe nel 1938.
Pur nella loro contenuta dimensione il lettore ritrova nel libro tutti i temi tipici della visione e delle atmosfere letterarie di Simenon: il passato, il presente e l’avvenire che si legano in una dimensione su cui pesa ed opera il Destino che fa agire i personaggi nati sotto una cattiva stella e non concede loro nessuna opportunità. Il libro va letto come fosse un unico romanzo dai tanti capitoli con diversi protagonisti in diverse situazioni. Avventurieri, turisti da banane e quelli che credono che “il meglio” sia sempre in un altrove, un altrove esotico o nelle colonie, ove si possa vivere solo di aria e Natura. Una Natura che invece, con pochi e brevi tocchi Simenon ci descrive come soffocante e così inclemente da rendere ancora più pesante il fallimento delle illusioni
La Cattiva Stella non è certo uno dei migliori lavori dello scrittore, né questa era la pretesa, lo stile è un po’ più asciutto del solito, il taglio è in effetti ancora giornalistico, ma resta pur sempre esaustivo, nitido ed efficace con descrizioni e ritratti incisivi di un mondo coloniale ed esotico sconcertante, e di vicende umane drammatiche anche quando ironiche o buffe.
data di pubblicazione:08/02/2020
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