BOX CLEVER di Monsay Whitney, regia di Giorgina Pi

BOX CLEVER di Monsay Whitney, regia di Giorgina Pi

(Teatro Belli – Roma, 5/6 novembre 2019)

Una donna sola con una figlia di cui prendersi cura. Una famiglia ostile dalla quale prendere le distanze, come da quella società che la spinge ai margini.

 

Se capita di incontrare per strada una tipa come Marnie l’istinto è quello di evitarla. Dice parolacce, bestemmia, è vestita male e fuma, probabilmente fa uso di droga. Sembra matta, una di quelle pericolose, violente, che per un nulla ti attaccano improvvisamente per il gusto di sfogare la loro rabbia. È nata nella parte sbagliata di Londra, a sud del Tamigi, dove un tempo venivano stipati ospedali psichiatrici e carceri. Il fiume spesso esondava da quelle parti, trascinando con sé immondizia e topi. Nel DNA di chi è nato lì c’è tutto questo disagio, siamo in periferia. Se poi non sei ricco il tuo destino è quello di arrangiarti, di cercare di vivere al meglio la tua giornata. Sei un facile bersaglio per gente deviata e pericolosa, ma anche di istituzioni mal funzionanti e ipocrite. Marnie, che non è affatto un’eroina, da tutto questo deve difendersi, da sola.

Box clever è uno spettacolo crudo, realistico, diretto e straordinariamente teatrale. È un lungo monologo che alterna momenti di riflessione a dialoghi mentali, con personaggi proiettati su uno schermo azionato dall’attrice in scena. I diversi registri – da quello sarcastico a quello drammatico – rendono l’azione dinamica e mai monotona. La regia riflette questa dinamicità: attenta ai movimenti dell’animo del personaggio ne riflette la spiazzante verità, ma senza scivolare mai in un manierismo simbolico. L’interprete – Gaia Insegna – è straordinaria, commovente, trascinante e sopra ogni cosa vera.

data di pubblicazione:06/11/2019


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L’ETÁ GIOVANE di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2019

L’ETÁ GIOVANE di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2019

Finalmente è arrivato nelle sale italiane L’età giovane dei fratelli Dardenne, presentato come evento speciale fuori concorso alla Festa del cinema di Roma nella Sezione Alice dopo aver vinto il premio per la miglior regia a Cannes. I registi colpiscono ancora nel segno raccontando una delle loro intense storie di minori (Il ragazzo con la bicicletta, Rosetta, L’enfant-Una storia d’amore), per rivolgersi invece al mondo degli adulti.

Ambientato in Belgio, il film parla dei turbamenti adolescenziali del “giovane Ahmed” (come il titolo originale, Le Jeune Ahmed, recita), un tredicenne musulmano in lotta con se stesso, combattuto tra gli ideali religiosi forzatamente instillati dal suo imam e i turbamenti tipici della sua età, solitamente piena di interrogativi, che tuttavia non possono non apparire ai suoi occhi “offuscati” come richiami ad una vita non pura.

L’età giovane è decisamente un film contro qualsiasi forma di integralismo, soprattutto se a farne le spese sono le nuove generazioni. Ahmed pianifica l’omicidio della sua insegnate in quanto accusata di apostasia da Youssouf, il suo imam, che continuamente gli parla della necessità di castigare chi non rispetta le regole, arrivando anche ad esaltare la figura del cugino di Ahmed come un eroe per aver immolato la sua giovane vita in nome di Allah.

Da spettatori non si riesce ad essere indulgenti nei confronti di questo adolescente, seppur vistosamente debole, e si prova rabbia per quella sua granitica ostinazione nel voler commettere un omicidio che egli ritiene “giusto”; tuttavia, attraverso le sue vicende, il film ci parla di plagio e di cattivi maestri, che purtroppo sanno a volte essere molto più convincenti di quella parte buona della società che talvolta non ha argomenti altrettanto persuasivi per dissuadere un giovane fanatico dal portare a termine il suo folle piano.

L’irriducibilità del protagonista pesa come un macigno e la sapiente regia dei fratelli Dardenne ce ne fanno sentire il carico, detestabile e fastidioso, attraverso la fissità del suo sguardo, la rigidità del suo corpo anche quanto pratica sport con i compagni di scuola, il suo netto rifiuto verso qualsiasi forma di contatto fisico con il mondo femminile, perché anche un abbraccio o una semplice stretta di mano rappresentano degli atti contrari ai suoi ideali di purezza.

Eppure questa pellicola riesce a generare un conflitto interiore di sensazioni contrapposte, attraverso le quali si può giungere a riflessioni che ci portano a condannare i reali carnefici e ad assolvere le vere vittime, passando da una mancanza totale di empatia verso il protagonista al perdono.

data di pubblicazione:04/11/2019


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ROMA EUROPA FESTIVAL A quiet evening of dance – di William Forsythe

ROMA EUROPA FESTIVAL A quiet evening of dance – di William Forsythe

(Teatro Olimpico – Roma, 30/31 ottobre 2019)

Due serate all’insegna della danza contemporanea andate in scena il 30 e il 31 ottobre al Teatro Olimpico di RomaWilliam Forsythe, coreografo statunitense di fama internazionale, è tornato nella capitale per presentare il suo A quiet evening of dance, nell’ambito dell’edizione 2019 del Roma Europa Festival.

 

In scena nove danzatori impegnati a presentare una panoramica del balletto accademico e dello storico percorso creativo del coreografo: una prima parte in assoluto silenzio in cui assoli e duetti costruiti sul respiro, costruiscono forme e immagini geometriche neoclassiche, mentre la seconda parte sulle note di Rameau ne esaspera i contenuti e le dinamiche. Le costruzioni coreografiche mantengono un realismo gestuale sempre dialogante con il corpus classico anche se aperto a commistioni con altri generi.

Lo spettacolo che ha debuttato al Sadler’s Wells London il 4 ottobre dello scorso anno ed è risultato vincitore del premio per la Danza Fedora – Van Cleef & Arpels 2018, si compone di cinque composizioni, incluse due nuove creazioni.

A quiet evening of dance rappresenta uno dei pezzi forti di William Forsytheuno spettacolo creato dal coreografo per mostrare al pubblico come lui stesso intende costruire un balletto, a volte un po’ troppo didascalico e poco avvincente, attraverso i propri processi mentali di elaborazione e trascrizione in scena; l’intento di Forsythe è quello di mostrare al pubblico le posizioni e le geometrie alla base del balletto classico, facendole vivere sul palco attraverso le pulsazioni dei danzatori.

data di pubblicazione:04/11/2019

IL MIO PROFILO MIGLIORE di Safy Nebbou, 2019

IL MIO PROFILO MIGLIORE di Safy Nebbou, 2019

Claire (Juliette Binoche) professoressa universitaria, divorziata e madre di due figli, ancora attraente ma disillusa e bisognosa di amore, si inventa un falso profilo e, grazie a questo sotterfugio, fa innamorare e si innamora a sua volta del giovane Alex (Francois Civil) giovane fotografo coetaneo dell’amante che l’ha appena abbandonata. Nell’irrealtà virtuale tutto funziona al meglio fino al giorno in cui la realtà impone prese di coscienza crudeli…

 

Come non ci stancheremo mai di ribadire il cinema francese ci regala ancora una volta, l’opportunità di apprezzare quanto i bei ruoli di donna dominino la cinematografia di oltr’Alpe, e quanto la presenza e l’interpretazione carismatica di un’attrice in stato di grazia facciano poi la vera differenza.

Il nuovo film di Nebbou, versatile cineasta e sceneggiatore francese, ci regala infatti un ritratto di una complessa e fragile bella cinquantenne, affermata professionalmente che è però alle prese con la perdita progressiva di identità, con l’invecchiamento, con l’abbandono, con la passione ed il desiderio amoroso e fisico. Così facendo il regista esplora con precisione e finezza la deriva della nostra epoca schizofrenica costantemente presa fra il gusto per la trasparenza ed i mille compromessi con le verità, aprendosi così alle tematiche del “doppio”, delle messe in scena, delle ambivalenze, dell’amore impossibile, dell’età che avanza, dell’accettazione di se stessi, del fascino illusorio dei rapporti virtuali ed alle connesse e distruttive implicazioni psicologiche. Claire è infatti una donna che vuole avere ancora la sensazione di vivere, amare, desiderare ed essere amata e desiderata, in una parola: vuole ancora credere alla felicità!

Su questi temi di non poco conto, molto attuali e, per di più non insoliti per il Cinema, il nostro regista è molto abile nel non cadere nel banale e nel non percorrere sentieri già segnati, anzi, al contrario è bravo nel tessere ed articolare un racconto ove realtà, illusione e finzione si intrecciano e corteggiano fra loro, agendo e lavorando su doppi/tripli piani mentali e narrativi proprio perché infinite possono essere anche le proiezioni amorose.

Tutto passa per i sorrisi accennati o luminosi, le lacrime trattenute o le più vere della Binoche che veramente illumina costantemente lo schermo ed è capace di offrire allo spettatore con pari naturalezza sia la bellezza di un volto luminoso di speranza, sia le rughe, le ombre di un volto senza trucco segnato dall’angoscia. Un ruolo, un personaggio a doppio volto che l’attrice rifinisce ed impreziosisce con una presenza fisica generosa ed una capacità di analisi psicologica di rara profondità tanto è umana ed autentica nelle tante sfaccettature. Una Binoche dai mille volti, dalle mille espressioni, in uno dei suoi migliori ruoli ed interpretazioni. Bella e commovente, ostinata e fragile, sofferente e gioiosa, intrigante e desiderabile. Le tiene testa e la asseconda una altrettanto carismatica Nicole Garcia parimenti intensa nel ruolo della psicanalista che rappresenta lo sguardo di noi spettatori sulla storia. Con queste due grandi donne ed attrici non sfigura il giovane e promettente Civil, l’oggetto del desiderio di amore.

La Binoche dunque sostiene e da vera consistenza alla storia ed al film, ma va anche detto che il regista è altrettanto intelligente nel sapersi mettere da parte davanti alla prestazione dei suoi attori, curando invece con efficacia, come in un thriller psicologico di tutto rispetto, il dipanarsi ed intrecciarsi delle false piste e, con loro, i diversi punti di vista sul personaggio e sulle sue ferite profonde.

Il mio profilo migliore è un film più che discreto con un’ottima sceneggiatura, un montaggio perfetto, dialoghi intelligenti e ben calibrati, riprese ottime e anche virtuosismi. Fra i difetti segnalerei una lentezza narrativa soprattutto nella prima parte e poi, se difetto può definirsi, una mancanza di empatia verso la vicenda narrata. Troppa razionalità Cartesiana uccide le emozioni. Troppa mente, poco cuore! Una grande Binoche ed una storia intrigante e sconvolgente con un finale aperto, una storia di amore vista come un thriller, perché dopotutto …” ma sappiamo veramente chi amiamo, allorché amiamo … ai tempi della realtà virtuale? “

Se il gioco vita e virtuale vi intriga e volete vedere di nuovo giocare la realtà virtuale ed il cuore in modo più accattivante ed ironico, e … veder invece vincere il cuore e la passione sulla mente, andate allora a vedervi e godervi La belle époque quando uscirà!

data di pubblicazione:02/11/2019


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PROGETTO ALAN BENNETT di e con Luca Toracca

PROGETTO ALAN BENNETT di e con Luca Toracca

(Teatro Belli – Roma, 1/2 novembre 2019)

Luca Toracca a confronto con Bennett. Due monologhi pescati nell’esilarante raccolta del drammaturgo inglese Talkings Heads: Una patatina nello zucchero e Aspettando il telegramma.

 

 

Questo Festival ha diversi meriti. Quello di avvicinare realtà artistiche che si trovano attive perlopiù altrove ne è uno. Per una sera Roma diventa il centro di scambio di esperienze e palcoscenico di esperimenti. Veder recitare allora Luca Toracca – cofondatore del Teatro dell’Elfo di Milano – sul palco del teatro Belli dei pezzi di Bennett è un’occasione unica.

Si comincia con Aspettando il telegramma, una storia che vede protagonista Violet, un’anziana signora costretta su una sedia a rotelle in una stanza di una casa di riposo. Il suo mondo è fatto di ricordi sbiaditi e di personaggi che le girano intorno quotidianamente: dall’infermiere che poi si ammala di polmonite al figlio che va a trovarla ogni tanto, dalla donna delle pulizie di colore con il grembiule giallo alla vicina di letto. È il giorno del suo compleanno e le dicono che un telegramma con gli auguri della regina sta per arrivare.

Il secondo monologo, Una patatina nello zucchero, racconta di Graham, un uomo oltre la quarantina in cura in un Centro di Igiene Mentale, e di sua madre con la quale vive una morbosa convivenza. A scatenare la gelosia del figlio è Mr Turnbull, un ex spasimante della donna, che riappare improvvisamente a sconquassare per un attimo la normalità della coppia madre-figlio. Sul finale tutto torna com’era, e l’incidente si rivela nient’altro che un’inezia, una patatina finita per caso nel barattolo dello zucchero appunto.

Spicca nella grammatica del testo il discorso diretto riportato dai protagonisti. Nulla di quello che si racconta accade sulla scena: tutto è già avvenuto fuori, lontano nel tempo e nello spazio. Temi, storie, personaggi, luoghi e situazioni sono presi dall’ordinario della vita, dove per ordinario si intende quanto di più scontato e di banale possa succedere a chiunque. La comicità di Bennett si nutre di questa ordinarietà e la solitudine degli individui che ritrae ne diventa espressione inconsapevole. Violet e Graham non sono coscienti di essere buffi o ridicoli davanti al pubblico a cui costantemente si rivolgono: se lo fossero probabilmente smetterebbero di parlare imbarazzati. Luca Toracca sacrifica quanto di comico può venir fuori da questi personaggi per un’interpretazione che calca invece la mano più sul lato drammatico delle loro esistenze. Così Violet è una vecchina simpatica ma malinconica, mentre Graham è comicamente isterico ma talmente solo da generare compassione. Fanno ridere, ma anche riflettere. Come ricorda l’attore, prendersi cura delle persone anziane è importante: i vecchi sono la nostra storia e sono da amare, dirà nella commozione alla fine del primo monologo.

data di pubblicazione:02/11/2019


Il nostro voto:

PROGETTO ALAN BENNETT di e con Luca Toracca

FLY ME TO THE MOON di Marie Jones, regia di Carlo Sciaccaluga

(Teatro Belli – Roma, 29/31 ottobre 2019)

Due assistenti sociali trovano morto in casa il loro assistito, di cui non sanno nulla oltre il nome e l’indirizzo di casa. La ristrettezza economica in cui si trovano le fa escogitare un piano per arrotondare lo stipendio.

 Per volare fin sopra la luna, come recita il brano di Frank Sinatra, occorrono un paio d’ali, mettiamo anche quelle della fantasia, di certo non le gambe. Lo sa bene l’attrice Alice Arcuri costretta per una brutta bruttissima distorsione al piede a recitare da seduta, come ci avverte carinamente la sua compagna di lavoro Eva Cambiale a inizio spettacolo. La scelta di andare comunque in scena con una regia riveduta non ha tolto nulla a questo testo dell’irlandese Marie Jones, una commedia insieme divertente e amara sulla condizione della working classinglese del nuovo millennio. Una partitura per sole voci femminili.

Loretta e Francis sono due amiche e colleghe di lavoro, delle moderne Laverne e Shirley(nota e divertente sitcomamericana degli anni ’80) con le quali condividono complicità e ironia come coppia comica, che vivono in un tempo storico difficile, quello della regressione dopo la crisi economica che ha colpito il mondo occidentale nel 2008. Il misero stipendio che gli dà il governo – 7 sterline e mezzo l’ora ovvero il corrispettivo di una paga base – serve a stento a mandare avanti le loro rispettive famiglie, con figli e compagni, entrambi disoccupati, a carico. Trovato morto il vecchio – appassionato fan di Frank Sinatra – viene loro la tentazione di incassare la sua pensione e la sua vincita alle corse di cavalli, arrivata finalmente per ironia della sorte dopo il suo decesso. I pochi soldi darebbero un po’ di respiro alle due donne e la possibilità di fare insieme quel viaggio a Barcellona per l’addio al nubilato dell’amica, ovviamente con un volo low cost, quello che si può permettere la gente che guadagna poco.

Un testo fortemente attuale prima di tutto nel linguaggio, diretto e sboccato, che riflette sulla condizione sociale nella quale siamo costretti, ben ritmato per merito anche delle due bravissime attrici. Una commedia ironica che prende spunto dal vero di tante complicate e tristi situazioni.

data di pubblicazione: 31/10/2019


Il nostro voto:

FELICITA’…TA’…TA di Massimo Di Michele, con Dario Battaglia, Luisa Borini e Edoardo Coen

FELICITA’…TA’…TA di Massimo Di Michele, con Dario Battaglia, Luisa Borini e Edoardo Coen

(Teatro di Villa Torlonia – Roma,17/30 ottobre 2019)

Un garbato omaggio a Achille Campanile, più che dimenticato oggi. Un pastiche condito con opportuna colonna sonora e movimenti scenografici essenziali in un teatro che rimane un gioiello.

 

Achille Campanile è venuto a mancare alla cultura italiana più di quaranta anni fa. Ma il suo ricordo è stato perentoriamente rimosso, dimenticando il largo successo di pubblico della sua multiforme attività di umorista, scrittore, sceneggiatore, autore di teatro, giornalista, barzellettiere. In una chiave di minimalismo comico un affiatato e giovane trio ha raccolto un meritato applauso collettivo del pubblico per questo omaggio alla memoria, fatto di siparietti comici, di battute brucianti, di un situazionismo dialettico, piccante, curioso e naturalmente eccentrico. Un tappeto sonoro anni ‘50, a caratterizzare l’atmosfera rètro, è l’ingrediente di sala. Tra una e l’altra scenetta movimento di sedie sfruttando il grande spazio a disposizione, un efficace riempimento di scena. Battutacce dell’assurdo montano e prendono il sopravvento in questa operazione un po’ nostalgica ma funzionalmente efficace. Le capacità di travestitismo degli attori è l’occasione per sfoggiare indiscriminata bravura. Una vera rivelazione Luisa Borini i cui cambiamenti di voce costituiscono uno spettacolo a parte. C’è ritmo, c’è adesione a Campanile, persino nello spirito dei balletti en travesti. Sorprese visionarie con echi futurismo e surrealismo, come l’alba di un mondo nuovo tutto da scoprire. Stravaganze veloci, colpi di scena. Sprizzano allegria e ottimismo i quadri presentati, abilmente scelti in un repertorio sconfinato, espresso in oltre mezzo secolo di presenza nella società italiana. Campanile è spiazzante, anti-retorico. Oggi si direbbe politicamente scorretto. E probabilmente sarebbe contestato dalle femministe perché è un autore che non fa sconti ai sessi (se è per questo neanche agli uomini e alla loro ipocrisia). Un’occasione per riscoprirlo con la sua larvata ipocondria e le sue frecce avvelenate rivolte contro il conformismo del suo tempo.

data di pubblicazione:30/10/2019


Il nostro voto:

FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019: SERATA CONCLUSIVA

FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019: SERATA CONCLUSIVA

L’anteprima de Il peccato, il kolossal che Andrei Konchalovsky ha dedicato alla figura di Michelangelo, è stato l’evento super speciale che ieri ha segnato la chiusura della 14ma edizione della Festa del Cinema di Roma, sotto la direzione artistica di Antonio Monda. La pellicola è una co-produzione russo/italiana che vede impegnati la Fondazione dello stesso Konchalovsky per il sostegno al Cinema e alle Arti Sceniche, e Jean Vigo Italia con Rai Cinema: un lavoro dunque di collaborazione molto importante che tende a sottolineare la stretta partecipazione artistica tra i due paesi.

L’edizione appena conclusasi della kermesse cinematografica romana ha tuttavia raggiunto molti altri obiettivi che l’hanno resa degna di interesse non solo tra il numeroso pubblico presente in sala, accreditati e non, ma anche da parte della stampa nazionale e internazionale. I film, in rappresentanza di ben 25 paesi, sono stati 70 oltre ai 34 riguardanti retrospettive e tributi ad autori particolari con una media giornaliera di una settantina di recensioni tra articoli su carta stampata e online.

A partire dal film di apertura Motherless Brooklyn di e con Edward Norton, abbiamo assistito alla presentazione di veri capolavori, piccoli e grandi, come Downton Abbey di Michael Engler già nelle sale dal 24/10/2019, Judy di Rupert Goold con una magistrale Renée Zellweger, gli splendidi Antigone di Sophie Deraspe e Deux di Filippo Meneghetti, per non parlare del magnifico The Irishman di Martin Scorsese, che ha peraltro presenziato ad una affollatissima conferenza stampa durante la quale il grande regista ha illustrato i dati più significativi relativi alla messa in opera di una produzione grandiosa, che non si sarebbe potuta realizzare senza l’intervento finanziario di Netflix.

Anche quest’anno Antonio Monda ci ha fatto godere della presenza di importanti artisti internazionali come Bill Murray e Viola Davis, ai quali è stato assegnato un riconoscimento alla carriera, oltre ad Ethan Coen, Edward Norton, John Travolta e Bret aston Ellis. Come noto questa Festa del Cinema non conferisce alcun premio ufficiale, ma solo quello del pubblico in base al suo gradimento: Santa subito di Alessandro Piva è stato, secondo l’indiscutibile parere del pubblico in sala, il film vincitore. Questo docu-film ha rappresentato una rivelazione in quanto dimostra che, nonostante l’alto livello dei i film in programma, è riuscito a coinvolgere emotivamente gli spettatori su un tema di grande attualità, ed ha vinto in maniera assolutamente trasversale su le tante e variegate storie raccontate durante questi dieci giorni di Festa.

Ampio spazio infine è stato dato al cinema francese, caratterizzato da commedie semplici ma d’effetto, ed indiscutibilmente perfette, che hanno letteralmente spopolato: da La Belle Epoque di Nicolas Bedos, allo spassoso Le meilleur reste a venir di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, sino a Fete de Famille di Cédric Kahn con una sempre splendida Catherine Deneuve come protagonista.

Anche quest’anno ci auguriamo che il “fiuto” di Monda nello scegliere le pellicole sia stato particolarmente sottile da includere, nei titoli citati, qualche film che possa vincere un Oscar, come già accaduto nelle precedenti edizioni di questa tanto “vituperata” kermesse romana. Arrivederci al prossimo anno!

data di pubblicazione:28/10/2019

DOWTON ABBEY di Michael Engler, 2019

DOWTON ABBEY di Michael Engler, 2019

Inghilterra 1927, il re Giorgio V e la regina Mary saranno ospiti per una notte nella dimora aristocratica di Lord Grantham, a Dowton Abbey. L’evento destabilizza gli equilibri e gli ordini gerarchici ed i ruoli di ciascuno, soprattutto fra la servitù….

 

Dowton Abbey è stata una delle serie televisive di maggior successo degli ultimi anni. La serie è andata in onda per ben 6 stagioni consecutive a partire dal 2010 e raccontava la saga dell’aristocratica famiglia di lord Grantham, signore di Dowton Abbey nello Yorkshire e, tramite le sue vicende, le dinamiche di classe del “buon tempo andato”, gli anni gloriosi dell’Inghilterra dei primi decenni del secolo scorso. Un’acuta descrizione del mondo aristocratico al suo massimo fulgore ma, tuttavia, già costretto ad affrontare i nuovi venti di cambiamento. Una riflessione ironica e pungente sulla Società Britannica, sulle rigide distinzioni fra classi sociali e sulle interazioni ed i rapporti fra i vari ceti: fra i “piani superiori” quelli dei nobili e dei padroni ed i “piani inferiori” quelli della servitù, dei domestici, cuochi, valletti, maggiordomi e governanti. La serie è stata ideata dallo scrittore e sceneggiatore J. Fellowes (Oscar per la sceneggiatura del meraviglioso Gosford Park di Altman 2001). Fellowes stesso ha curato anche la sceneggiatura della versione cinematografica con cui l’autore ridà vita ai suoi personaggi e che è stata presentata alla Festa del Cinema di Roma. Il film dell’americano M. Engler (apprezzato regista televisivo che aveva diretto anche 4 episodi dell’ultima stagione) qui al suo secondo lungometraggio, riprende la storia là dove la serie televisiva si era interrotta.

La narrazione e con lei la cinepresa, segue i vari avvenimenti passando dai “piani alti” giù fino ai “piani bassi” abitati da uno stuolo di solerti domestici, governati tutti dagli stessi meccanismi di Potere dei loro padroni. Così facendo, lo sguardo dello spettatore si muove anch’esso da un piano all’altro della nobile magione, catturando conversazioni, vizi, progetti, gelosie intrighi e storie in un ritratto d’insieme delle classi sociali e delle varie gerarchie in un’analisi profonda delle relazioni umane e dei pregiudizi della società inglese dell’epoca, ma, se vogliamo, anche un quadro riflesso dei cambiamenti culturali, sociali e delle vicissitudini dei nostri giorni.

La sensazione, per chi ha già seguito la serie, è quella di stare ad assistere ad un nuovo lungo episodio, solo più stupefacente e più attento al dettaglio, vista la destinazione al grande schermo. In effetti le inquadrature sono spesso le stesse, le situazioni sembrano riproporsi, si rincontrano gli stessi personaggi, lo spirito è identico, ma non poteva che essere così vista la logica della stessa trasposizione cinematografica.

Il risultato è comunque un film rapido ed elegante, ironico ed avvincente, la messa in scena è efficace, la regia è dinamica e mantiene sempre un ritmo sostenutissimo. I dialoghi sono raffinati ed accurati. Il fasto della grande dimora, la bellezza dei costumi, gli oggetti di scena tutti perfetti e giusti, riempiono meravigliosamente lo schermo. Una giusta alternanza di dramma e tensione con commedia ed ironia diverte e coinvolge subito lo spettatore. Il cast ottimo, ripropone tutti i personaggi ed attori che li interpretavano, e, come ieri così anche oggi, sono tutti perfetti e bravi. Su tutti emerge la magnifica Maggie Smith, un gioiello di recitazione, di sottintesi, di pungente arguzia ad ogni sua battuta. Direi che come in un’orchestra ogni elemento ha la sua dignità propria ma tutti insieme fanno l’orchestra che suona alla perfezione, così qui nel film ogni elemento ha la sua importanza, ma tutti insieme fanno un film veramente gradevole e sontuoso.

A voler trovare dei difetti, segnalerei solo un eccesso narrativo con troppi personaggi che spesso sono soltanto delle mere presenze, alcune situazioni poi sono un po’ convenzionali o criptiche per chi non ha conoscenza della serie tv. Forse manca un vero soffio di virtuosità corale come in Gosford Park, ma che volete? quello era Altman!

data di pubblicazione:27/10/2019


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PREMI ALICE NELLA CITTÁ

PREMI ALICE NELLA CITTÁ

Ieri, 26 ottobre, sono stati consegnati i premi di Alice nella città 2019. La rassegna quest’anno ha registrato una crescita esponenziale in termini di affluenza degli spettatori con un incremento del 26 % di biglietti emessi a fronte dell’aumento della capienza delle sale che dai 199 posti del 2018 ha raggiunto i 456 posti del 2019 (380 posti per la Sala Alice TIMVISION e 126 posti per la Sala Raffaella Fioretta). Un aumento sostanziale dell’affluenza del pubblico di Alice che ha registrato il tutto esaurito a quasi tutti gli eventi in programma.

La giuria di Alice ha decretato i vincitori di questa edizione annunciando il Premio al Miglior Film, alla Miglior Regia e il Premio Speciale della giuria.

Il premio per il miglior film è andato a The Dazzled di Sarah Suco con la seguente motivazione: “per la capacità di raccontare una storia cruda e coinvolgente, attenta ai dettagli di una realtà tragica, cogliendo al tempo stesso in modo intelligente le sfumature comiche di una vita imprigionata. Un film travolgente che emoziona e fa riflettere su un contesto lasciato spesso in ombra, qui descritto dalla luce accecante di una lotta interiore verso la salvezza”.
Il premio alla miglior regia è stato attribuito a Lorenzo Mattotti per La Famosa invasione degli orsi in Sicilia con la seguente motivazione: “una favola senza tempo destinata ad adulti e bambini raccontata con efficacia, delicatezza e maturità. Una regia che eredita lo straordinario talento compositivo delle illustrazioni di Lorenzo Mattotti ed immerge lo spettatore nella magica Sicilia di Buzzati”.
Il premio speciale della Giuria è andato a Son-Mother di Mahnaz Mohammadi “per la messa in scena lucida e partecipe di emozioni profonde e coinvolgenti, calate in una dimensione di denuncia culturale, sociale e politica. Un film in cui l’assenza di parole è un urlo alla libertà d’espressione”.
Il Premio TIMVISION è andato a Cleo di Eva Cools che sarà possibile vedere in esclusiva sulla piattaforma. Questa la motivazione: “Cleo è un film drammatico e autentico che sceglie la strada più difficile per raccontare l’elaborazione del lutto e il senso di colpa incrociando sullo stesso piano la vittima e il carnefice. Le atmosfere malinconiche di Bruxelles scandite dalla musica di Segej Rachmaninov contribuiscono a rendere il tutto ancora più sospeso e introspettivo”.

data di pubblicazione:27/10/2019