L’HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI di Christophe Honoré, 2020

L’HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI di Christophe Honoré, 2020

La scoperta casuale di un tradimento squarcia il velo ed illumina la realtà: uno scambio di ruoli nella vita coniugale: un lui/lei che fa il bucato, indossa sciatti calzini e rimpiange una passata mancata scelta; una lei/lui sensuale e in carriera che ritiene il tradimento con giovani ragazzi l’unico mezzo per far durare ancora nel tempo un rapporto di coppia ormai stanco. Una notte di riflessione in un hotel in cui si materializzano i tanti se, ma, come e perché del passato e del presente che si rincorrono e si sovrappongono … La presa di coscienza di lei e di lui di quanta amarezza e di quanto squallore rispetto alla vita che scorre ed ai sogni di allora …

 

Christophe Honoré è un personaggio geniale ed eclettico che con abilità sconcertante e sempre con successo, è sceneggiatore, scrittore, regista teatrale, drammaturgo, critico e regista cinematografico. Un francese di soli 50 anni di cui in Italia sono purtroppo arrivate solo poche opere. Il film il cui titolo originale è Chambre212 (dovendo tradurlo, abominio per abominio, meglio sarebbe stato allora chiamarlo truffautianamente La Donna che amava gli uomini) è stato presentato all’ultimo Festival di Cannes nella sezione Un certain regard e la protagonista Chiara Mastroianni è stata meritatamente premiata per la migliore interpretazione.

L’opera è una riflessione sulla disgregazione del legame sentimentale sotto l’usura del tempo e del quotidiano, raccontata, però, con singolare originalità, con un tocco di magia surreale e di realismo magico. Una variazione dolce, malinconica e poetica sull’amore e sul disinnamoramento che si sviluppa tutta fra sogno e realtà. Un soggetto intimista ove il realismo si nutre di fantasmi e pensieri che si materializzano in un precario equilibrio fra verità ed artificio sotto il flusso dei ricordi, della fantasia e dei sentimenti. L’intelligenza del regista è stata l’aver scelto la linea della leggerezza, un tono di commedia brillante con tratti poetici per far sorridere senza nulla togliere alla serietà delle riflessioni sul tempo che passa, sulla perennità della coppia e sulle scelte di vita. Un tipo di cinema quello di Honoré che, rendendo omaggio a grandi Registi del passato recente, sa ben indagare nel profondo, un cinema esistenziale rivolto verso un pubblico maturo e che, tra leggerezza e serietà, sa raccontarci però molte Verità.

L’autore, provocatoriamente, gioca nel rovesciare gli stereotipi: ed ecco allora una splendida parigina, libera, determinata, disinibita sposa infedele che ha e vive i suoi desideri fisici, immagine di un cliché femminile che agisce come un cliché maschile, il tutto inserito in un film maliziosamente teatrale con dialoghi deliziosi ed intelligenti cesellati al dettaglio. La messa in scena della vicenda è però ricca di un’inventiva tanto surreale che lo spettatore non indovina mai dove andrà a parare il film e si lascia così trascinare con piacere nella commedia coniugale. L’idea è originale e divertente e la storia è gestita abilmente dal regista che vi instilla continue dosi di magia e poesia. Il tutto è poi sostenuto da un quartetto di attori tutti eccellenti, con una Chiara Mastroianni affascinante e luminosa, mai filmata così bene e che ha qui uno dei suoi migliori ruoli che sa incarnare con una disinvoltura maliziosa, le tiene testa con merito la brava Camille Cotin.

In conclusione abbiamo l’opportunità di vedere una commedia buffa, surreale, intelligente ed infinitamente delicata che pur nella malinconia resta piena di charme ed ironia e che merita più livelli di lettura e di meditazione e sarebbe da vedere e rivedere, uscendone ogni volta intellettualmente arricchiti e, di sicuro, mai delusi.

data di pubblicazione:23/02/2020


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LA SINISTRA DI DESTRA di Mauro Vanetti – Alegre edizioni, 2019

LA SINISTRA DI DESTRA di Mauro Vanetti – Alegre edizioni, 2019

Quanta sinistra c’è nella destra e viceversa? Mauro Vanetti si tuffa più che nell’ipocrisia del politicamente corretto in una rilettura ortodossa degli schemi di comportamento politico adottati dallo schieramento progressista che, interpretando più o meno strumentalmente, il dettato di Marx & Engels finisce spesso nello schieramento opposto adottando in nome di una sorta di sovranismo illuminato gli stereotipi in auge sull’avversa barricata. Gli stilemi del populismo e del sovranismo hanno influenzato una generazione che non sa più come costruire una propria identità e spesso finisce col tracimare attribuendo sull’argomento dell’immigrazione prerogativa esclusive più che inclusive. Basti ricordare gli apprezzamenti nei riguardi dell’ex ministro Minniti per la decisa politica di contenimento degli sbarchi, ideologicamente in linea con l’operato di Salvini che certo di sinistra non è. Derive di un fronte allo sbando che dopo lo scioglimento del Pci è diviso in mille rivoli e non sa più riunirsi sotto un’insegna coerente, ancor più disorientato su come fronteggiare il cambiamento climatico in atto nel pianeta. L’autore non fa sconti anche alla parte avversa ricordando quanta finta sinistra ci sia nella politica economica degli iniziali fautori del’uscita dall’Euro come Bagnai e Borghi, omogenei al ripiegamento ideologico della Lega ora non più così’ critica nei confronti dell’Unione Europea. Vanetti pesca le contraddizioni e lo smarrimento ma anche la cattiva fede nel virare a senso unico il pensiero dei padri del comunismo, strumentalmente utilizzato per tesi di comodo. Il testo quindi è una sorta di manuale di bordo ideologico per orientarsi nel mare magnum della confusione, del rovesciamento e nel trasformismo, in una sorta di Carnevale dove gli slogan risuonano come parole vuote, spesso ipocrite. Così vecchi scheletri escono dall’armadio e si fanno forti con di posizioni suggestive ma irrealistiche, ancorché di vasto successo perché inclini al marketing della propaganda. Particolarmente efficace si rivela la demolizione del neo-filosofo Fusaro con un’operazione di destrutturazione quasi semiotica del suo linguaggio, spolpato all’osso per decifrarne l’ideologia retriva.

data di pubblicazione:23/02/2020

FIRST COW di Kelly Reichardt – BERLINALE  2020

FIRST COW di Kelly Reichardt – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Ai margini di un placido fiume, un ragazza dei giorni nostri passeggia con il suo cane quando fa una macabra scoperta che si riferisce a qualcosa avvenuta tanti anni prima. La storia infatti inizia nel 1820 in Oregon, allora terra selvaggia lontana da qualsiasi forma di civiltà: un luogo dove convivono bianchi e indiani per cacciare e commerciare pelli. Un povero cuoco, chiamato appunto Cookie, e un immigrato cinese, King Lu, si incontrano per iniziare un sodalizio commerciale, ma il punto di partenza sarà una vacca, la prima ad apparire in questo inospitale Far West…

Del tutto inusuale che una donna si imbarchi nell’impresa di dirigere un Western, genere cinematografico normalmente “maschio”, anche se lo fa alla maniera soft di Wim Wenders, ma senza di stazioni e jukebox. Kelly Reichardt, americana di nascita, ci prova dando un suo punto di vista particolare che vuole sfidare il mito romantico del West, dal momento che nel suo film è tutto decisamente fuori da ogni canone, almeno da quello che sinora siamo stati abituati a vedere. Basato sull’omonimo romanzo di Jonathan Raymond, che ne ha curato anche la sceneggiatura, la storia tratta della singolare amicizia tra un cuoco (John Magaro) e un cinese (Orion Lee), entrambi outsiders per definizione, che decidono di avviare un’attività dolciaria utilizzando il latte che di notte vanno a rubare mungendo l’unica vacca esistente nel territorio. Non ci è dato di sapere molto del prima e del dopo che riguarda i due eccentrici protagonisti, intuiamo solo che Cookie è colui che lavora, operativo in tutto sia nel rubare il latte che nel preparare i dolci, mentre King Lu è la mente organizzatrice e che non nasconde le proprie ambizioni di diventare ricco e di aprire una redditizia attività in un luogo più civilizzato. La regista ci tiene ad informare: “in un periodo di grandi tensioni economiche e sociali mi sento fortunata di lavorare al Bard College di New York, dove insegno per un semestre e mi sento poi libera di dedicarmi al cinema che non mi ha mai portato un dollaro di guadagno. Non è da folli girare un film su una vacca e con due attori che nessuno mai riconoscerà?” La Reichardt mostra tutto il suo talento nel riuscire a raccontare di persone ai margini della società, lontano dal trambusto delle grandi città, e lo fa con grande professionale sensibilità con un Western senza sparatorie, dove si parla di miele e dolci, rimandando comunque a quel sogno americano del farsi da sé per raggiungere l’agognato benessere sociale ed economico.

data di pubblicazione:22/02/2020








LONTANO LONTANO di Gianni Di Gregorio, 2020

LONTANO LONTANO di Gianni Di Gregorio, 2020

Un terzetto di anziani romani di trastevere ipotizza di cambiare vita e godersela in un paese lontano dal potere d’acquisto più alto. Ma quando la decisione è imminente nella combriccola affiorano molte incertezze…

  

Di quante frecce al suo arco dispone questo nuovo film di Gianni Di Gregorio, già apprezzato al Torino Film Festival 2019? Davvero tante, pur nella garbata malinconia e nella sua apparente leggerezza. Ancora una volta il mondo, ma meglio sarebbe dire il microcosmo, in cui si muove il regista romano “tuttofare” ( self made man, stonerebbe nello specifico!) è ancora una volta quello “trasteverino”, una Roma in parte scomparsa, con Piazza San Cosimato, l’indolenza, il vino bianco, le chiacchiere da bar. Questa volta, Di Gregorio, dopo i ritratti generazionali, in prima persona (Il Pranzo di Ferragosto, Gianni e le Donne) e lo “scatto” di Buoni a Nulla, si avvale di forti comprimari per una commedia che non rinnega il suo cinema, sempre caratterizzato da umanità, ironia e leggerenza, senza essere mai banale.

Questo autore che i Francesi ci invidiano alla stregua di un Paolo Conte o Gian Maria Testa nella canzone o di un Nanni Moretti nella Settima Arte, da piccolo artigiano e quindi con pellicole dai costi risibili si riafferma con la sua cifra distintiva ai massimi livelli. La storia è apparentemente semplice: due amici, uno professore di latino e greco (lo stesso Gianni Di Gregorio), l’altro, Giorgetto, ignorantello che non ha mai lavorato veramente (Guido Colangeli) s’imbattono in Attilio (il compianto Ennio Fantastichini nella sua ultima magistrale interpretazione) e con lui, previe le consulenze di un amico (il grande Roberto Herlitzka) decidono di espatriare nelle Azorre. Nelle mani di Di Gregorio la materia si trasforma in una commedia che fa sorridere, ridere, ma anche riflettere in modo mai urlato sul nostro presente.

Così, ad esempio, anche il tema dell’immigrazione è affrontato con mitezza e in modo mai didascalico, attraverso il ruolo di Abu, giovane clandestino, lui sì vero viaggiatore, voglioso di raggiungere il fratello in Canada. Il film, dunque, può dirsi pienamente riuscito e godibile per tanti versi: la magnifica caratterizzazione della sonnolente fauna trasteverina, bonaria, non priva di tolleranza e umanità quando necessaria, un plot minimalista, ma che sa parlare di precarietà e immigrazione, di vecchi e nuovi poveri, e tre attori in stato di grazia, tutti perfetti nei rispettivi ruoli. Insomma, un piccolo grande film, ovvero cinema artigianale ma di altissimo livello: un gioiellino dove l’autorialità e l’originalità di scrittura lasciano il segno. Se proprio un appunto minimo gli si può muovere è forse un finale – che non sveliamo – diremmo, un tantino “veltroniano”, leggi buonista, che comunque nulla toglie alla sincerità e all’autenticità di uno dei migliori film italiani della stagione.

data di pubblicazione:22/02/2020


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VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio Diritti – BERLINALE 2020

VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio Diritti – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

La storia di Antonio Ligabue sin dai tempi dell’infanzia in Svizzera dove, figlio di un’emigrante italiana, era stato adottato, sino all’espulsione che lo porta in Emilia dove inizia a vivere come un vagabondo in una capanna sul fiume Po, maltrattato e deriso da tutti per la sua disabilità fisica e psichica. Un emarginato che ha fatto della propria arte un motivo di vanto personale e di riscatto sociale per arrivare ad essere quello che desiderava profondamente e che sentiva di essere: un artista.

 

 

Giorgio Diritti, bolognese doc, è un regista che produce poco ma quello che fa è sempre di grande livello come è dimostrato dai suoi precedenti film e documentari, tutti super premiati in vari festival internazionali. Volevo nascondermi, presentato alla Berlinale in anteprima mondiale ed in concorso, non è un lavoro comune ma rientra nella categoria di quei film che lasciano sicuramente un’impronta nella storia della cinematografia internazionale. Il merito del regista è sicuramente quello di presentarci un artista nella sua dimensione più arcaica, quasi primordiale, inquadrandolo in quella parte d’Italia della Bassa Padana, al sud del fiume Po, in un contesto geografico e storico particolare (siamo in pieno periodo fascista) che rimanda a Novecento di Bernardo Bertolucci. Ligabue vive emarginato in una capanna lungo il fiume nutrendosi di ciò che trova, ma proprio lì inizierà anche la sua formazione artistica, dal contatto con la natura e dall’osservazione degli animali, e non certamente dalla storia più nobile ed alta delle Accademie. Dopo essere stato espulso dalla Svizzera, questo uomo si trova in un posto dove non viene capito né inizialmente accolto, e dove ha persino difficoltà ad inserirsi in un ambiente sia pur contadino e pressoché analfabeta come era quello emiliano di quegli anni. Per Ligabue l’unica possibilità di espressione è rappresentata dai sui quadri, dai colori forti ed aggressivi, una forma di pittura che rappresenta forse l’unico modo per tirarsi fuori dal buio in cui è sempre vissuto e dove non c’è stato mai spazio per un gesto di affetto né per una semplice carezza: “volevo nascondermi…ero un uomo emarginato, un bambino solo, un matto da manicomio, ma volevo essere amato”.

Elio Germano è Ligabue, e lo è non solo nella somiglianza fisica ma soprattutto nell’animo che l’attore riesce ad esprimere sin dalla prima scena, con un bagaglio di sofferenza mista ad una struggente tenerezza, innata ma mai nutrita dall’amore di nessuno. All’attore va il merito indiscusso di essere riuscito ad entrare nel personaggio in un modo talmente stupefacente da trasmettercene l’autenticità, senza costruzioni né forzature, ma con una naturalezza da grande interprete riuscendo nell’ardua impresa di farci cogliere la personalità ed il carattere decisamente complessi di questo grande pittore. Volevo nascondermi è un film che coinvolge sin dal primo momento, sino a portare lo spettatore ad una commozione profonda.

Ci auguriamo che proprio a partire da questa Berlinale questo splendido lungometraggio di Giorgio Diritti faccia molto parlare di sé.

data di pubblicazione:22/02/2020








AH L’AMORE L’AMORE di Antonio Manzini- Sellerio Editore, 2020

AH L’AMORE L’AMORE di Antonio Manzini- Sellerio Editore, 2020

Premiato dalle classifiche per un classico sposalizio meritato tra qualità e quantità il volumetto irrompe piacevole come un’abitudine di lettura consolidata. Chi si vuol togliere la soddisfazione di leggere una nuova puntata della saga di Rocco Schiavone prima che deflagri in televisione può immergersi in questo piacevole best seller (e long seller, sono oltre trecento pagine!) di un ex attore che dopo la parola recitata (e doppiata) in quella scritta ha trovato la propria esatta dimensione, coltivando la passione per pubblicazioni che si susseguono semestralmente, incalzato dal successo ma anche dalla propria ispirazione. Qui ritroviamo Schiavone alias Giallini (ormai siamo abituati a pensarlo con quella faccia) convalescente in ospedale dove si dipana un caso che è trippa per i suoi gatti (i suoi assistenti). Grande caratterizzazione d’assieme con il tormentone della vicenda extra personal/professionale borderline che vive un’altra puntata dentro una storia esauriente. La bravura narrativa, la capacità di tenere alta la tensione nel plot come una particolare e istintiva capacità di domare i dialoghi, sono i punti di forza del giallo che non riserva particolari sorprese investigative riservando grande spazio per un’azione già forse pensata cinematograficamente. Rocco Schiavone è solo ma non isolato anche se Aosta gli sta stretta. Le apparizioni della moglie scomparsa sono un omaggio alla malinconia e al vissuto del personaggio, gli regalano spessore. Il vice-questore è sempre lui. Con le sue umane debolezze, con i suoi spinelli, con la voglia di evitare rotture di scatole, con l’ubbia per i propri dipendenti e il contrastato rapporto con i superiori. Umano molto umano ma non troppo umano, parafrasando Nietsche. Inutile dire che un ennesimo caso sarà risolto ma senza la retorica dell’happy end con un fondo di simpatia per le umane cose e la loro piccolezza. Un senso di relatività per una storia da cui ci si può anche distaccare, risucchiati dalla simpatia inevitabile per Schiavone.

data di pubblicazione:21/02/2020

IL SIGNOR CARDINAUD di Georges Simenon – Biblioteca ADELPHI  2020

IL SIGNOR CARDINAUD di Georges Simenon – Biblioteca ADELPHI 2020

Ancora un Simenon, (un “Romans-Romans”, come li definiva l’autore stesso, scritto tra il 1941 ed il 1942 anno in cui è stato dato alle stampe) appena uscito in libreria per i tipi di Adelphi che meritoriamente sta procedendo alla traduzione e pubblicazione di gran parte delle opere dello scrittore belga. Uno di quei “Romanzi Duri” in cui Simenon, quasi fosse un entomologo, passa sotto la sua lente di attento osservatore la vicenda umana che, di volta in volta, viene da lui rappresentata in tutta la durezza della realtà, quale che essa sia, per raccontare a noi lettori cosa sia avvenuto, perché sia avvenuto e, soprattutto, cosa ciò che è avvenuto abbia poi causato e determinato nell’esistenza delle persone osservate.

Il libro in esame è un piccolo-grande Simenon, la storia è così semplice da apparire banale, e lo sarebbe se fosse raccontata da chissà chi, ma, raccontata dal nostro Simenon essa diviene subito ben altro. Ciò che rende difatti fascinoso il suo narrare, pur sempre nel suo solito stile asciutto ed essenziale, non è infatti l’originalità della storia ma l’acutezza psicologica con cui sono disegnati in tutta la loro commovente umanità i personaggi. Personaggi che sono così veri da essere simili alla realtà quotidiana che i lettori possono incontrare o, temere di incontrare nella Vita.

Il Signor Cardinaud è un marito, un padre, un professionista di provincia convinto di avercela fatta ad emergere, è pago della sua realtà piccolo borghese: la casa, la moglie, i saluti in piazza la domenica dopo la Messa, i dolci prima del pranzo festivo e poi la passeggiata pomeridiana… Ma Marta, moglie e madre all’apparenza irreprensibile, quella domenica non è in casa, è fuggita con un vecchio amico d’infanzia, un poco di buono. Il velo delle illusioni si squarcia e Cardinaud, mentre tutti sanno, tutti lo deridono, resiste alle umiliazioni, alla vergogna e forte del suo amore, ricerca la moglie, scoprendo così un mondo volgare e violento da cui la sua condizione sociale l’aveva tenuto lontano. Può sembrare tutto molto patetico, ma non lo è affatto, al contrario è una consapevole discesa agli inferi di un uomo che forse è un debole ma che scientemente segue il suo destino di innamorato e le sue convinzioni fino all’insolito ma amaro happy-end.

Un eccellente romanzo di atmosfere scritto con incisività incalzante, che fu molto apprezzato all’epoca e da cui fu tratto nel 1956 un film di particolare successo Sangue alla testa con addirittura il grande Jean Gabin nei panni del signor Cardinaud.

data di pubblicazione:21/02/2020

MY SALINGER YEAR di Philippe Falardeau – BERLINALE 2020

MY SALINGER YEAR di Philippe Falardeau – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Joanna sbarca a New York con la grande aspirazione di diventare un giorno una scrittrice. Siamo a metà degli anni novanta e non è certamente facile per una giovane donna trovarsi da sola ad affrontare tutta una serie di difficoltà pur di realizzare il proprio sogno. Il lavoro come assistente di Margaret, a capo di un’importante agenzia letteraria, sarà per Joanna una buona opportunità per entrare in un mondo a lei sino ad allora sconosciuto…

 

My Salinger Year, del regista e sceneggiatore canadese Philippe Falardeau, apre questa settantesima edizione della Berlinale. Un film leggero, una tipica commedia american style divertente, niente affatto superficiale, che ci porta in una New York degli anni novanta ancora tradizionalmente legata ai propri principi sociali, ma già pronta per accogliere quella rivoluzione socio-culturale che sarebbe presto scaturita con l’avvento e la diffusione di Internet. Joanna lavora in una prestigiosa agenzia che cura gli interessi di scrittori di grosso calibro quali F. Scott Fitzgerald, Agatha Christie e Dylan Thomas, ma il suo compito è quello di raccogliere accuratamente le decine di lettere che ogni giorno arrivano per J. D. Salinger da parte dei suoi numerosi fan, leggerle per poi cestinarle, con il divieto categorico di rispondere. La ragazza trova una realtà dove non tutto procede con regolare razionalità e senza volerlo entrerà nel mondo del giovane Holden, protagonista appunto del romanzo di Salinger che agli inizi degli anni cinquanta, appena pubblicato, diventò un best seller in tutto il mondo. Il film ci vuole ricordare come i giovani di quella generazione non si sottrassero al fascino di un giovane, appena sedicenne, che con il suo spiccato senso critico, ma psicologicamente emotivo e fragile, si sarebbe comunque ribellato a un establishment deviato, tipico della società americana di quel tempo. Margaret Qualley, appena reduce dal successo per la sua partecipazione nel film C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino, nel film interpreta una intensa e spontanea Joanna, riuscendo ad esprimere al meglio le emozioni di questa giovane ambiziosa e sognatrice, che si trova catapultata in un mondo nuovo ma ancora decisamente condizionato dal passato. Sigourney Weaver interpreta invece Margaret, capo dell’agenzia, ed è perfetta nel ruolo della donna in carriera, rigida verso qualsiasi iniziativa che non nasca direttamente da se stessa. My Salinger Year ha tempi e ritmi giusti, senza lungaggini e inutili divagazioni, mirando alla vera essenza delle cose e dei sentimenti.

Un buon inizio per questa attesa edizione della Berlinale che, come già annunciato nel nostro articolo di apertura, sarà piena di interessanti novità per la presenza del nuovo direttore artistico Carlo Chatrian.

data di pubblicazione:20/02/2020








NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI di Marco Falagusta, Tiziana Foschi e Alessandro Mancini, con Marco Falagusta, regia di Tiziana Foschi

NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI di Marco Falagusta, Tiziana Foschi e Alessandro Mancini, con Marco Falagusta, regia di Tiziana Foschi

(Teatro della Cometa- Roma, 19/29 febbraio 2020)

Comicità romana su temi nazionali espressa con finezza e senza grevità. Dal personale al politico, con levità e acutezza. Battute che vanno a segno grazie a tempi comici azzeccati.

One man show per una comfort zone da cabaret. E il valore aggiunto di funzionali musiche e di uno scenario da stazione del treno. Dove i vagoni e le soste sono altrettanti argomenti. Falaguasta tiene la scena con padronanza ruotando attorno al fil rouge del rapporto con la figlia, cartina di tornasole per interpretare la cosiddetta modernità o, meglio, l’abisso generazionale che separa un cinquantenne come lui da pargoli che pretendono di essere prelevati in discoteca attorno alle 3 di notte o essere scortati in feste misteriose sulla Giustiniana. Il fondale di Roma con la sua burocrazia immobile, il suo cinismo e le sue mollezze, è lo scenario ideale dello storytelling che prende corpo, vigore e concretezza quando accenna al rapporto del cittadino con le banche. Luoghi in cui sei un numero fino al momento in cui minacci di chiudere il conto. Ed è il momento che il direttore si dirige verso di te con fare affettuoso deciso a tutti i costi a recuperarti alla causa. Risate fragorose a scena aperta alla prima per uno spettacolo già rodato, definito nella sua organicità. Che contiene alla fine una nota estremamente malinconica. Per farci capire che non è solo cabaret ma anche teatro. La figlia silente ascolta le tristi considerazioni del padre la cui vita è ruotata tutta attorno alla parola, scritta o recitata e si vede replicare la risposta con messaggi vocali, la fine degli iperconnessi. La crisi dei padri è quella di chi non ha vissuto né il ’68 né il ’77 ed è scesa in piazza al massimo per festeggiare la vittoria dell’Italia nei mondiali di calcio del 1982. Carenze che diventano penuria e mancanza di trasmissione educativa ai figli. Con un palese e amaro senso di vuoto.

data di pubblicazione:20/02/2020


Il nostro voto:

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni

(Teatro Vascello – Roma,18/23 febbraio 2020)

Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro veniva ritrovato nel portabagagli di una Renault 4 in via Caetani, a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e da quella del Partito Comunista Italiano. La fine più amara di un rapimento e di una prigionia durata 55 giorni durante i quali lo statista decise di comunicare con il mondo, avviando un dialogo con familiari, amici, colleghi di partito, rappresentanti delle istituzioni. Lettere e memoriali redatti con passione e lucidità, di denuncia e di affetto che, a distanza di quarant’anni, Fabrizio Gifuni evoca con una lettura intima e forte, riconducendoci in quello spazio denso e doloroso, in quella storia che tutti conoscono e che molti hanno provato a cancellare.

 

Con il vostro irridente silenzio è una delle espressioni che Moro usa in una sua lettera per distaccarsi, in punto di morte annunciata, da quelli che sono stati i suoi colleghi di partito, quella classe politica a cui aveva dedicato la propria esistenza.

Il 16 marzo 1978, giorno in cui le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, si votava la fiducia al quarto Governo presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta il Partito Comunista partecipava alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto l’esecutivo. Ed era stato Moro a gestire l’accordo. In quei lunghi giorni di prigionia il presidente della Democrazia Cristiana ha il tempo ma anche la necessità di redigere un memoriale che lo accompagnerà inesorabilmente, assieme agli interrogatori da parte del brigatista Mario Moretti. Documenti scritti di suo pugno e resi noti alcuni durante il sequestro, altri ritrovati in via successiva in un covo delle Brigate Rosse, mentre la stampa metteva in discussione e cercava di screditare quelle stesse parole. Pensieri e minuziose descrizioni che rappresentano un testamento politico e spirituale dello statista e dell’uomo, i suoi principi e le sue angosce, i suoi affetti e le sue condanne. Un fiume in piena che si cercò subito di arginare, ridimensionare, irridere. Ferendo ancora di più il suo credo. A distanza di quarant’anni ancora tanto oblio e superficialità intorno a quegli scritti.

La voce ed il minuzioso lavoro drammaturgico di Gifuni va nella direzione di chi ha scelto di non dimenticare.

Straordinaria la sua capacità di proiettarci in quell’atmosfera sospesa, tra quelle mura, a stretto contatto con l’uomo, con i suoi gesti, il suo incedere, la sua voce, il suo dolore. Fabrizio Gifuni riporta in maniera delicata e decisa il bisogno di quell’uomo di mettere a posto tutti i tasselli, di rispondere a chi è al di là di quella prigione, di confessare e accusare, di definire le sue volontà, sia nel versante politico che in quello familiare. Un dramma diffuso senza gradi di separazione, grazie alla forza di un teatro essenziale che scuote e racconta, insegnando a riflettere e a ricordare.

data di pubblicazione:20/02/2020


Il nostro voto: