da Paolo Talone | Feb 28, 2020
(Teatro Argentina – Roma, 25 febbraio/8 marzo 2020)
Ljubov’ è di ritorno in Russia dalla Francia, dove ha vissuto cinque anni con la figlia Anja. Insieme al fratello Gaev è costretta a vendere la proprietà di famiglia, il giardino dei ciliegi. A comprarla sarà il ricco Lopachin che, con insensibile cinismo, abbatterà gli alberi e con essi i ricordi e il passato della famiglia.
Alessandro Serra torna sul palcoscenico del Teatro Argentina, dopo il successo ottenuto la scorsa stagione con Macbettu, con un adattamento originale del lavoro in quattro atti dell’ultimo Čechov, Il giardino dei ciliegi. Un vociare indistinto e caotico da inizio a quella che dal regista è stata vista come una partitura corale. Le voci si mischiano e dispiegano in un interminabile e lento valzer, in cui ognuno tiene il suo posto, danzando sulla scena seguendo precisi schemi geometrici. Il passato riemerge come da una nebbiosa palude come per brevi attimi, ma suoni, rumori, pianti, apparizioni impediscono al ricordo di palesarsi pienamente. La mente ha bisogno di distogliersi dal dolore di quello che non è più o che è in procinto di morire. Così tutto rimane come sfocato e opaco in un’apparente allegria. I contorni stessi delle immagini non sono mai definiti, resi ancora più evanescenti dai punti luce, spesso unici e deboli, che illuminano la scena. Ombre impalpabili si disegnano su uno spazio semi vuoto e sugli alti muri grigi che sovrastano la scena – le pareti della stanza dei bambini –, schiacciando inesorabilmente i personaggi sotto il peso di qualcosa di più grande di essi: le loro esistenze. Le pause nella recitazione scandiscono il ritmo dell’esecuzione. Sono momenti di vuoto dove è possibile mettersi in posa, come davanti a una macchina fotografica, per fissare inutilmente ciò che il tempo farà sparire per sempre. Come gli alberi di ciliegio, che ancora prima di essere abbattuti già non si vedono più. La posa dei personaggi è quella che si vede in un dagherrotipo d’epoca. La consapevolezza che l’unica copia di questa immagine è destinata a scomparire, fissa il pensiero in una pesante idea di morte e dimenticanza. Gli espedienti simbolici che stanno a significare questo lento e inesorabile sfaldamento si moltiplicano, confondendo talvolta la comprensione lineare del racconto, ma tutto si risolve comunque in una lettura unitaria e coerente. Il passato diventa un groviglio incomprensibile di cose accatastate, di mobili che si librano verso un altrove che non è definito, a mezz’aria tra quello che era e quello che non sarà mai. Tutto assume così la leggerezza insostanziale di un pensiero che muore con chi lo ha prodotto.
data di pubblicazione.28/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 28, 2020
(Teatro Basilica – Roma, 25 febbraio/8 marzo 2020)
Enrico IV è una pietra miliare del teatro pirandelliano e della sua intera poetica. L’opera, per la regia di Antonio Calenda e la straordinaria interpretazione di Roberto Herlizka, porta in scena i grandi temi della maschera, dell’identità, della follia e del rapporto tra finzione e realtà attraverso le vicende di un uomo, un nobile dei primi del Novecento, che da vent’anni vive chiuso in casa vestendo i panni dell’imperatore Enrico IV, prima per vera pazzia, poi per simulazione ed infine per difesa. Ciò che va in scena è la follia di un teatro che guarda al reale svelando il suo gioco e gli inganni interiori.
Durante una cavalcata in costume un nobile impersona l’imperatore Enrico IV di Germania (vissuto nell’XI secolo), ed è in compagnia di Matilde Spina, donna della quale è innamorato e del suo rivale in amore Belcredi. L’uomo nella caduta batte la testa e si convince di essere realmente il personaggio storico che stava impersonando. Dopo 12 anni Enrico guarisce e comprende che Belcredi lo aveva fatto cadere intenzionalmente per rubargli l’amore di Matilde. Decide così di fingersi ancora pazzo e di immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la dolorosa realtà. A 20 anni dalla caduta, Matilde, Belcredi, Frida, la figlia di Matilde e uno psichiatra vanno a trovare Enrico IV. Lo psichiatra, interessato al caso, per farlo guarire decide di ricostruire la stessa scena di 20 anni prima e far ripetere la caduta da cavallo. La scena viene così allestita, ma al posto di Matilde recita la figlia, che è esattamente uguale alla madre Matilde da giovane, la donna che Enrico aveva amato. L’uomo prova ad abbracciare la ragazza, Belcredi si oppone ma Enrico IV sguaina la spada e uccide Belcredi. Per sfuggire definitivamente alla realtà (e alle conseguenze del suo gesto), decide di fingersi pazzo per sempre.
Attorno alla nota vicenda il regista Antonio Calenda focalizza il dramma su quell’uomo che decide di portare avanti la messinscena prima per dolore e poi per sopravvivenza. Per anni vive una vita surreale e fiabesca con l’aiuto di quattro uomini pagati per fingersi suoi servitori, ma a un certo punto riconquista la ragione e si rende conto che tutti lo prendono per pazzo. Allora capisce che esserlo gli conviene, permettendogli successivamente di osservare, da fuori, la grande sceneggiata predisposta per lui, che coinvolge anche la donna che amava, l’amante di lei, il medico che vuole provocargli uno choc per farlo rinsavire. Dopo l’omicidio del rivale decide di azzerare la propria esistenza per scegliere la finzione e tramite il teatro continuare a vivere.
In contesto asciutto ed essenziale emergono ancora di più i principi del teatro pirandelliano: l’intreccio di normalità e follia, la perdita d’identità, il rapporto tra reale e maschere che indossiamo o che gli altri ci costringono a indossare, il fallimento della scienza, la rinuncia alla vita per non affrontare la sofferenza, la follia come fuga e rifugio. A sostenere la struttura performativa alcuni bravi attori: Daniela Giovannetti, Armando De Ceccon, Sergio Mancinelli, Giorgia Battistoni, Lorenzo Guadalupi, Alessio Esposito, Stefano Bramini, Lorenzo Garufo, Dino Lopardo.
Straordinaria la capacità di Roberto Herlizka di raccontare la follia di un mondo deragliato, un labirinto che moltiplica e inverte continuamente i propri dispositivi di visione e rappresentazione e soprattutto l’ossessione del protagonista, la convulsione di sentimenti, proiezioni e sdoppiamenti; una tragedia contemporanea, dove basta operare un piccolo gesto di dissenso per sentirsi esclusi e soli.
data di pubblicazione:28/02/2020
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 27, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Francis, fuggito dall’Africa, dopo un terribile naufragio in cui perde la sua compagna, approda miracolosamente su una spiaggia. In quel momento, da unico superstite, promette a se stesso che inizierà una nuova vita all’insegna dell’onestà. Arrivato a Berlino da profugo, senza regolari documenti, dovrà presto abbandonare i suoi buoni propositi perché, in quella società che si mostra ostile nei suoi confronti, si renderà conto che per crearsi un futuro dignitoso dovrà scendere a patti con la malavita locale.
Ispirato dall’omonimo romanzo di Alfred Döblin, un classico della letteratura tedesca moderna di cui lo stesso Fassbinder ne aveva ricavato nel 1979 una miniserie televisiva, Burhan Qurbani presenta alla Berlinale il suo lungometraggio, rivisitandone la storia che era ambientata nella Berlino degli anni venti e che aveva come protagonista Franz Biberkopf. Il regista, esiliato per motivi politici dall’Afganistan e ora cittadino tedesco, ci propone una propria versione della mitiga figura di Franz, riadattandola su Francis, emigrato dalla lontana Guinea. Nonostante la volontà iniziale di integrarsi al meglio in una società occidentale a lui estranea, il giovane rimarrà invece invischiato in situazioni di malaffare per le quali ne pagherà le conseguenze.
Se nel testo originale ci si abbandonava spesso a delle metafore per dare più spazio all’immaginazione, nel film i personaggi sono fortemente condizionati dal contesto in cui si trovano, anche se poi teoricamente liberi di effettuare le proprie scelte. Analogamente si muove Francis che come outsider affronterà molteplici circostanze in contrasto con i propri valori morali, che cambierà come il suo nome, Franz appunto: una sorta di sopravvissuto che a suo modo vuole rimanere buono, ma che la società non gli consentirà mai di esserlo. Il protagonista è Welket Bungué, nato a Bissau in Guinea ed emigrato da piccolo con la famiglia in Portogallo e poi in Brasile, dove ha studiato per diventare attore. Avendo recitato già in circa cinquanta film, non meraviglia come Welket abbia interpretato in maniera più che convincente il ruolo, riuscendo a mantenere una costante tensione emotiva in un film decisamente lungo: cinque capitoli e un epilogo per una durata di oltre tre ore.
Berlin Alexanderplatz, sia pur in questo adattamento contemporaneo, rispecchia comunque l’essenza della sua fonte letteraria perché parla di una società da un lato, con le sue spietate regole, e di individui emarginati dall’altro, con i loro tentativi di integrazione e i loro, a volte, inevitabili fallimenti.
data di pubblicazione:27/02/2020
da Paolo Talone | Feb 27, 2020
(Teatro Porta Portese – Roma, 24/25 febbraio 2020)
Patrocinato dall’Associazione Libera contro le mafie, la compagnia Archipelagos Teatro mette in scena uno spettacolo di denuncia, ricostruendo la vicenda che ha visto vittime della società finanziaria Aspide srl circa 130 imprenditori nel Nordest dell’Italia tra il 2009 e il 2011.
Terminato lo spettacolo, appena ci si alza dalla poltrona, si ha ancora addosso una strana tensione, una specie di dolore addominale e una domanda che interroga la coscienza: che parte potrei avere in tutto questo?
Partiamo dai fatti a cui si ispira il racconto drammaturgico di Tommaso Fermariello. Circa nove anni fa venivano condannati a processo alcuni esponenti di una società finanziaria, la Aspide srl che, con lo scopo di andare incontro con prestiti di denaro a imprenditori in difficoltà, in realtà estorceva denaro da questi, imponendo tassi di interesse insolvibili per le vittime. Più tardi si scoprirà che i membri della società, al cui vertice c’è un certo Mario Crisci, sono affiliati al clan dei Casalesi di Casal di Principe. Lo stile della banda è semplice: un avviso sui giornali attira il cliente con il quale successivamente si stipula l’accordo; si aspetta che questi diventi insolvente – passaggio obbligato per tutti vista la percentuale di interesse richiesta – e quindi si passa all’intimidazione. Pestaggi a sangue, minacce, pistole puntate alla testa. Per molti la soluzione per uscire da questa gabbia è il suicidio, Aspide è un cancro. Solamente tre imprenditori trovano il coraggio di rivolgersi allo Stato. Tra questi c’è Rocco Ruotolo, al quale la morsa distruttiva e omicida di Aspide sta togliendo tutto. Ma la collaborazione non è semplice e necessita di tempo: dopo tutto il codice penale la parola paura non la comprende, questo è il mantra.
Una giornalista (Gioia D’Angelo), che finora si è occupata di calcio, viene invitata a scrivere un pezzo su questo fatto di cronaca locale. Sarà lei a informarci dei fatti in modo dettagliato, anche attraverso la lettura di estratti degli atti del processo. Rosalina (Martina Testa) è la moglie del testimone di giustizia Rocco Ruotolo. Il racconto in prima persona della donna fa da contrappunto alla narrazione dei fatti della giornalista. In perfetta sinergia le due attrici ricostruiscono una storia complessa, giocando di rimpallo pur senza mai dialogare. È la sottile architettura di questa drammaturgia: raccontare con emozione e trasporto fatti crudi e difficili, senza omissioni o allusioni di artistica maniera, rimanendo teatrali ovvero rappresentando con estremo realismo quanto di assurdo e incredibile può accadere nel mondo che ci sta intorno denunciandolo a un pubblico attento e sensibile. Lo spettacolo, semplice nella scena – bastano un tavolo dove accatastare documenti, una lavagna dove appuntare i nomi degli imputati e una sedia per i testimoni – racconta con precisione e chiarezza questa triste e dolorosa storia. Un atto da premiare con attenzione e divulgare quanto possibile, merito di un fare teatro che non si ferma davanti alla paura, che fa da contrasto con la sola denuncia ai tratti malati di una società come la nostra.
data di pubblicazione:27/02/2020
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 26, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Clint vive solo – unica compagnia i suoi cinque cani da slitta husky – in una casa sperduta tra le nevi della Siberia. Esplorando i suoi sogni e i suoi ricordi, intraprende un viaggio senza tempo alla ricerca della propria identità. In questo percorso intimo incontrerà varie persone, alcune delle quali oramai morte, e dovrà affrontare i numerosi demoni che affollano il suo passato…
Siberia è il sesto film che Willem Dafoe interpreta come protagonista sotto la regia di Abel Ferrara. Il regista sembra essere arrivato ad un punto di massima maturità creativa e utilizza l’attore come suo alter ego per rappresentare se stesso in questo suo personale viaggio interiore. Accompagnato dai suoi cani, che infaticabili strascineranno la slitta tra i ghiacci della Siberia, il protagonista si troverà invischiato in strane situazioni del tutto oniriche che lo porteranno a ricordare con nostalgia il tempo della sua infanzia quando andava a pescare con il padre e il fratello. Gradualmente veniamo a ricomporre i tasselli della sua vita, fino ad arrivare al ritiro siberiano dove gestisce uno strano bar frequentato da pochi abitanti del luogo e da un misterioso esploratore: con loro riesce a comunicare nonostante parlino una lingua a lui sconosciuta.
Il film è una sequenza di immagini che si sovrappongono senza apparente logicità, un poco come quei “dream logic” che troviamo in David Lynch, dove sogno e visione si fondono per generare qualcosa di surreale, fuori da ogni dimensione spazio-temporale. Certamente un film di non facile approccio e soprattutto da evitare per coloro che sono alla ricerca comunque di un significato palese in ogni cosa. Non viene seguito un percorso lineare: si passa dai ghiacciai siberiani al deserto magrebino, passando per un lussureggiante giardino dove si incontrano persone e cose che non ci sono più perché da tempo morte. Il film, molto atteso qui a Berlino dove viene presentato in concorso, ha lasciato alquanto interdetti gli spettatori in sala: alcuni hanno disertato dopo i primi dieci minuti di proiezione quando sullo schermo si sono alternate alcune sequenze decisamente splatter. Incuriosisce molto sapere come la giuria internazionale valuterà questo film visto che la Berlinale si è sempre distinta come un festival di nicchia e certamente Siberia è un film per cinefili molto esigenti, quelli che non chiedono spiegazioni ma preferiscono trovarsele da sé.
data di pubblicazione:26/02/2020
da Antonio Jacolina | Feb 26, 2020
Per quale motivo interessarsi ancora ad un ennesimo libro sulla Seconda Guerra Mondiale? E … chi mai potrà leggere questo libro? Si farebbe un torto enorme far passare via questo lavoro, pubblicato a fine 2019, come un’opera destinata solo e soltanto ad ex militari in pensione, a storici o a pochi altri addetti ai lavori! Tutt’altro, in realtà è un libro accessibile a tutti, compresi i non specialisti, e che può essere letto anche come un romanzo su una vicenda che non è affatto remota, ma è invece ancora attuale e condiziona tuttora la nostra visione del mondo ed i conflitti, le sfide e le realtà che viviamo oggi.
Un approccio del tutto originale e finora unico, quello propostoci dagli autori che han fatto la scelta di spiegarci, attraverso schemi, piantine, grafici e brevi testi le caratteristiche di un evento apocalittico, rendendo comprensibili le grandi sfide strategiche che sottostavano il conflitto, tramite l’analisi (non pedante, non accademica e non di parte) delle tante connessioni fra le problematiche militari, politiche, economiche ed energetiche delle varie forze in gioco.
Il risultato conseguito è veramente rimarchevole perché si tratta di un’opera ben strutturata ed utile, quale che sia il livello di conoscenza di chi legge, e che offre un’opportunità di una visione d’insieme, precisa, semplice, completa ed incisiva. Una panoramica esaustiva ed al contempo una sintesi chiara degli eventi, dei loro antefatti e delle loro conseguenze, grazie soprattutto all’uso dell’infografia che è, a tutti gli effetti, il vero marchio di fabbrica distintivo di tutto questo lavoro. Un risultato che ben pochi altri libri sull’argomento possono offrire ad un pubblico potenzialmente vasto. La visione grafica consente infatti all’istante la lettura e la comprensione di situazioni complesse, un modo del tutto nuovo di leggere e decodificare gli avvenimenti mediante la lettura, la comparazione e l’interpretazione dei dati e delle cifre. Il tutto sostenuto, come accennavamo, anche da testi di accompagnamento non troppo lunghi ma sufficienti per poter contestualizzare i fatti e poter dare un senso ai dati rappresentati, ed anche da alcune pagine tematiche e commenti specifici.
L’intera opera è scorrevolmente articolata in quattro parti:- il quadro umano, produzione e risorse militari ed economiche; – armi ed eserciti; – battaglie e campagne militari; – bilanci finali e linee di frattura, e viene presentata in una forma accessibile ed esauriente, una vera miniera di informazioni, da studiare o anche solo da consultare.
Un libro quindi che può veramente interessare e soddisfare sia gli appassionati sia i neofiti. Un libro arricchente, che ha certo anche qualche difetto di leggibilità di alcune grafiche troppo piccole o troppo difficili da decifrare, ma poco danno vista la qualità generale e, giova ribadirlo, l’assoluta originalità dell’opera.
data di pubblicazione:26/02/2020
da Antonio Iraci | Feb 25, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
In un agglomerato residenziale alla periferia di Roma, diverse famiglie interagiscono di comune accordo mentre i loro figli giocano a fare i grandi. Una voce fuori campo ci legge dal suo diario ciò che accadde in una certa estate quando, davanti alle palpabili frustrazioni dei genitori, i bambini metteranno in scena una drastica protesta. Non è un atto di ribellione in sé, ma il loro rifiuto di entrare a far parte di una società che i loro stessi padri hanno reso vuota e sterile.
Per i fratelli-gemelli D’Innocenzo, ancora reduci dal successo ottenuto proprio qui a Berlino nel 2018 con il loro primo film La terra dell’abbastanza, era proprio questo il momento giusto per realizzare un vecchio sogno. Nasce così il loro secondo lungometraggio Favolacce, completamente diverso come genere dal primo, dove loro stessi raccontano, tramite dei bambini, le proprie esperienze vissute nella periferia romana. Come dichiarato nella spassosissima conferenza stampa: “Oramai ci troviamo in un’età intermedia dove non siamo più troppi giovani ma neanche troppo grandi e quindi non potevamo più aspettare a raccontare di quelle sensazioni che noi stessi abbiamo percepito da piccoli”. Il film è uno spaccato sulla nevrosi tipica delle classi medio borghesi italiane, un accumularsi di insuccessi, per la mancata realizzazione di sogni e stupide ambizioni, che si riversano inevitabilmente sui figli. Vittime di questi abusi mentali sono loro che, proprio perché ancora lontani dai condizionamenti di un ambiente diventato indecoroso, riescono a percepire istintivamente il malessere della società. In questo bisogna dare atto ai due giovani registi, appena trentenni, di aver saputo ben inquadrare l’intimo dei singoli piccoli protagonisti, lasciando agli stessi libertà di espressione lontano da qualsiasi forzatura da copione. Ancora una volta il bravo Elio Germano, giusto in tempo per togliersi i panni di Antonio Ligabue nel film di Diritti, in Favolacce è Bruno Placido che insieme alla moglie Dalila (Barbara Chichiarelli) rappresentano un certo tipo genitori dei nostri tempi moderni, molto concentrati su se stessi e poco attenti alla sensibilità dei figli. I D’Innocenzo rivelano ancora una volta un loro lato squisitamente umano, tipico di un certo popolino romano, e con questo film dimostrano di aver raggiunto una genuina maturità necessaria per raccontare una favola piena di amarezza, che si adatta perfettamente ai giorni nostri.
Il film, presentato in concorso, è distribuito da Vision Distribution e arriverà nelle sale italiane dal prossimo 16 Aprile.
data di pubblicazione:25/02/2020
da Antonio Iraci | Feb 24, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Luc, già avviato nella falegnameria del padre in un piccolo paese della provincia francese, arriva a Parigi con l’intento di specializzarsi nella famosa scuola per ebanisti Boulle. Subito incontra Djémila di cui si innamora ma, dopo pochi giorni, deve ritornare a casa dove riprende una relazione intima con Genevieve, una sua vecchia fiamma. Passati due mesi, il ragazzo riceve la conferma di essere stato ammesso a frequentare il corso per cui torna a Parigi dove incontra Betsy, con la quale inizia una nuova storia…
Il fatto che il regista e attore francese Philippe Garrel, con questo sul ultimo film Le Sel des Larmes, vada a infrangere le tradizionali regole narrative non vuol dire che il film non sia da considerarsi di impronta decisamente classica. La storia raccontata ripercorre infatti i soliti cliché di amori facili, iniziati e subito dopo interrotti, da parte del bel protagonista Luc (Logann Antuofermo) con ragazze abilmente sedotte e poi cinicamente abbandonate. Luc non sa ancora distinguere cosa sia il vero amore e il solo affetto che riesce a esprimere, in maniera del tutto sincera, è nei confronti del vecchio padre che lo ha cresciuto con i sani principi educativi di un tempo. Il film porta l’impronta riconoscibile del regista che ama entrare nei personaggi per studiarne le azioni e le reazioni ponendo le loro facce in primo piano in un gioco di luci ed ombre, un chiaroscuro messo in evidenza dalla scelta operata di servirsi del bianco e nero sottraendo alla vista qualsiasi accenno di colore. Al di là della notevole presenza scenica di Logann, qui al suo esordio come attore, colpisce la recitazione di Oulaya Amamra, nella parte di Djémila, rivelazione assoluta anche se è stata già premiata come miglior attrice per alcuni film in cui ha partecipato. Interessante inoltre come la narrazione si sviluppi anche con l’intervento di una voce fuori campo, quasi a voler sottolineare l’importanza di alcuni passaggi, senza ricorso all’immagine, che sarebbero risultati forse troppo ridondanti. Luc racchiude in sé la figura del ragazzo apparentemente sicuro, ma che in realtà nasconde la sua intima fragilità: ad ogni sua conquista sembra perdere parte di sé riuscendo a comprendere il valore degli affetti solo dopo che li ha lasciati andare. Buona la reazione del pubblico in sala per niente disturbato da una pellicola che utilizza un linguaggio cinematografico forse da alcuni considerato démodé.
data di pubblicazione:24/02/2020
da Paolo Talone | Feb 24, 2020
(OFF/OFF Theatre – Roma, 21/23 febbraio 2020)
Tre anni di convivenza, due personaggi in una relazione tossica che gira intorno a sé stessa e un regalo a sancirne la malsana dipendenza. Una storia dal finale felice, almeno per uno dei due protagonisti.
Che sia una relazione tre due donne, un uomo e una donna o due uomini, l’assunto che sta alla base dei dinamismi pericolosi che intercorrono nella coppia portata in scena dal duo artistico De Carvalho/Ciccone, non cambia. È per questo che ogni sera si danno il cambio sulla scena i quattro giovani attori – due donne e due uomini – protagonisti di questo esperimento. La pièce però prevede solo due personaggi, per cui sarà impossibile vederli recitare tutti insieme in un unico spettacolo. Se da un lato questa rimane un’idea originale, dall’altro partecipare a una sola replica ci fa perdere il senso dello spettacolo intero. La teoria che si vuole assumere, infatti, prevede che la verità espressa, solida come una formula matematica, sia dimostrabile per tutte le coppie di amanti, aldilà del loro assortimento e del genere di appartenenza. I due amanti che vediamo sul palco non a caso sono chiamati Uno e Due, proprio a sottolineare questa universalità. L’equilibrio della relazione è dato fin da subito: Due è la parte debole della coppia, totalmente asservito a Uno, che comanda e determina ogni cosa all’interno di un appartamento claustrofobico dove vivono insieme. Uno è la classica persona affetta da un narcisismo patologico e tende a fagocitare tutto ciò che le sta intorno. Due è la vittima di Uno. È lei a regalare, o meglio a relegare Uno in una teca trasparente, simbolo di totale devozione e asservimento all’amante, che va così protetto e venerato. I due roteano intorno a questa situazione per tutta il tempo della loro relazione. Il centro gravitazionale intorno al quale roteano come due pianeti si sposta ora su un divano, ora sul letto, ma nulla sembra muoversi poi così tanto. Non c’è progressione o sviluppo psicologico per i personaggi, se non alla fine quando Due decide di riscattarsi dalla situazione fagocitante nella quale Uno l’aveva stretta. Ma sembra solo un passaggio per giustificare il genere a cui questo pezzo di teatro appartiene: la commedia.
Buona invece la prova delle due attrici, Giorgia Spinelli (Uno) e Maria Vittoria Casarotti Todeschini (Due), alle prese con un testo e una scrittura per nulla facili da portare avanti per 90 minuti, tanto è la durata dello spettacolo. In particolare la Casarotti Todeschini si è distinta per un particolare realismo che ha saputo dare al suo personaggio, sapientemente modellato nel suo lento eclissarsi rispetto alla tortura inferta a lei da Uno.
Siamo un po’ lontani dal successo ottenuto dalla coppia artistica la precedente stagione con La pacchia è finita, ma il teatro è a volte anche un rischio che bisogna fronteggiare con volontà e determinazione e, perché no, con un pizzico di fortuna.
data di pubblicazione:24/02/2020
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 23, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Inés lavora come doppiatrice per il cinema e nello stesso tempo fa parte di un coro a Buenos Aires come soprano. Dopo la misteriosa morte di Leopoldo, con il quale stava provando ad avere una relazione, la donna rimane sotto shock e a nulla vale il cocktail di pillole che inizia a prendere ogni giorno per recuperare un poco di pace interiore. Improvvisamente qualcosa cambia nella sua voce e strani suoni vengono percepiti senza sapere esattamente da dove originano.
Ispirandosi al romanzo El mal menor dello scrittore argentino C.E. Feiling, Natalia Meta, regista di Buenos Aires, presenta in concorso alla Berlinale il suo secondo lungometraggio. El Pròfugo in effetti non è classificabile come genere perché, nel voler creare un’atmosfera claustrofobica intorno al personaggio principale, ottiene un risultato ibrido dal momento che il film non è uno psico-thriller né tantomeno un horror in senso stretto. La storia ruota intorno al personaggio di Inés (Erica Rivas) che stressata dal lavoro e ancora scioccata dalla morte del suo uomo, inizia a percepire dei suoni in parte dall’esterno, in parte prodotti involontariamente dal suo corpo. Vittima di frequenti incubi, sembrerebbe che delle entità soprannaturali stiano invadendo i suoi sogni passando poi alla sua vita reale per turbare, se non addirittura distruggere, la sua persona. I suoni incalzano, alcuni impercettibili altri percettibili, e sono proprio loro i veri protagonisti: Inés diventa così uno strumento in balìa di forze occulte che difficilmente riesce a dominare, rimanendone invischiata sino a rasentare la follia. Nonostante gli sforzi recitativi della protagonista, il film non riesce a decollare rimanendo imbrigliato in situazioni poco convincenti sia dal punto di vista narrativo che comunicativo. Una sceneggiatura con un plot del tutto scontato che non cattura l’interesse perché perso in un labirinto di situazioni poco risolte e psicologicamente poco rilevanti. Probabilmente manca qualcosa che possa rendere convincente l’identità stessa di Inés perché lo spettatore non riesce a provare per lei alcun sentimento né di simpatia né di compassione, forse solo fastidio. Un happy end liberatorio che arriva dopo appena 90 minuti di proiezione, ma che sono sembrati un’eternità.
data di pubblicazione:23/02/2020
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