SPETTRI di Henrik Ibsen, traduzione, adattamento e regia di Giuseppe Venetucci

SPETTRI di Henrik Ibsen, traduzione, adattamento e regia di Giuseppe Venetucci

(Teatro di Documenti- Roma, 15/24 novembre 2019)

Un classico della drammaturgia ibseniana, carico di ambiguità e di dissimulazioni. Due ore di spettacolo teso e sobrio, proposto con apprezzabile filologia teatrale e rispetto del testo originale.

Nella suggestiva location di un piccolo teatro storico sfilano i cinque protagonisti di un autore molto rappresentato, tutt’altro che passato nel dimenticatoio teatrale. Sala lunga e stretta, a contatto di pubblico dove i protagonisti recitanti si producono nell’affabulazione e poi si siedono, pazienti, in attesa della loro successiva entrata in scena. Ma attenti anche in situazione di pausa, ad abbozzare nuove caratteristiche che appartengono alla loro profondità. L’apparente verità si colora con l’apparire delle menzogne e di tante situazioni irrisolte, legate a paternità incerte. Realtà fatta di spettri e di ribaltamenti perniciosi. Una virtuale macchina del fango messa in moto dalla ricerca della verità. Un moto quasi inconsapevole provocato dallo sviluppo degli eventi. Rivelazione chiama rivelazione in un vortice che non sembra mai fine, in un processo dialettico in cui il personaggio inizialmente sbozzato si riconvertirà in uno completamente diverso nella catarsi teatrale. Spettacolo ricco di pathos. L’attualità di Ibsen sta nel delineare un mondo completamente privo di certezze, sin dal piccolo nucleo familiare. Tragedia in cui si intravedono baluginii proto-femministi ben in linea con l’autor di Casa di Bambola o Hedda Gabler. Siamo all’interno di uno spaccato borghese con molti derivati ottocenteschi di cui, volontariamente, non ci si sbarazza fino in fondo, per scrupolo di fedeltà e di corretta adesione alle tematiche dell’autore. Spettri come fantasmi e minacce. Opinioni, credenze, pregiudizi e decisioni in atto. Se il teatro è conflitto qui lo scioglimento emotivo è propedeutico alla messa in moto di un rigoroso groviglio di scoperte variamente metabolizzate dai protagonisti. Non tutto è come sembra, non tutto sarà eguale a prima.

data di pubblicazione:24/11/2019


Il nostro voto:

FURORE di John Steinbeck, adattamento di Emanuele Trevi, con Massimo Popolizio, musiche eseguita dal vivo di Giovanni Lo Cascio

FURORE di John Steinbeck, adattamento di Emanuele Trevi, con Massimo Popolizio, musiche eseguita dal vivo di Giovanni Lo Cascio

(Teatro India – Roma, 19 novembre /1 dicembre 2019)

Non un semplice reading, una struttura composta di 80’ con foto, creazioni video, le stesse impennate acustiche conditi da virtuosismi dell’attore in scena..

Inaspettato recupero di Steinbeck, cantore prima giornalistico poi letterario, di una crude temperie della società americana. Migranti ante litteram in cerca di una difficile terra promessa, la California. Pane amaro con una metafora di estrema attualità rispetto alla realtà di oggi. Popolizio definisce “un’operina” il lavoro composito realizzato in appena 15 giorni per volere del Teatro di Roma con una risposta di pubblico esuberante legata al carisma dell’interprete. Le onde della sua voce raccontano in una dozzina di capitoli la sala dei poveri, esemplificata in 685 pagine e recente ri-traduzione dall’autore americano, oggi recuperato sulle scene anche con la fluviale edizione de La valle dell’eden (otto ore di durata) per la regia di Antonio Latella. Non ci si annoia nella scansione dei capitoli anche per la suggestione delle foto (poi ammirabili in una mostra fotografica nel foyer) e per le percussioni del musicista di scena che asseconda il testo con una partitura predefinita ma non priva di qualche guizzo di improvvisazione originale. Il finale è lirico e l’uscita del one man show contrassegnata dalla riproduzione di un famoso brano di Bruce Springsteen pienamente dentro la vicenda. Così Steinbeck esce dal cono d’ombra in cui l’aveva relegato la sua presunta ingenuità e il ben diverso impatto di un Faulkner. Il suo presente storico (sembra raccontare i fatti in presa diretta) riacquista mordente tattile. Intravediamo la polvere e le spighe di mais, i trattori che sostituiscono il lavoro umano. I robot del nostro futuro sono solo il perfezionamento di un mondo del lavoro con regole sempre più spietate e tayloriste. Malavoglia in salsa statunitense con focus sulla crisi agricola che stritolò negli anni ’30 del passato secolo un bel pezzo di società.

data di pubblicazione:22/11/2019


Il nostro voto:

MOLTO PRIMA DI DOMANI, scritto e diretto da Umberto Marino

MOLTO PRIMA DI DOMANI, scritto e diretto da Umberto Marino

(Teatro Argot – Roma, 20 novembre/1 dicembre 2019)

Tre giovanissimi ragazzi intrappolati in una baita di montagna in pieno inverno. Fuori un mondo in preda al caos e alla distruzione. Una lotta per la sopravvivenza tra paure e speranze per un futuro a rischio.

  

Il diciannovenne Teo (Andrea Pannofino) è costretto a barricarsi all’interno della baita di famiglia insieme alla sorellina di nove anni, Alice (Flaminia Delfina De Sanctis) e alla compagna di scuola Emma (Annalisa Arena). Il mondo fuori è impazzito e le radici di questo male distruttivo rimangono sconosciute. Sappiamo solo che chi non è morto per lo sparo di un’arma da fuoco lo è per una strana malattia che non lascia segni sui cadaveri. Come in Bird Box – film diretto da Susanne Bier nel 2018 – l’umanità sembra improvvisamente colta da un male mortale, catastrofico e irreversibile. In Molto prima di domani, però, non ci sono adulti e i tre giovani ragazzi, che aspettano invano il soccorso dei genitori, devono vedersela da soli e far fronte con il poco che hanno a tutta una serie di difficoltà. Prima tra tutte la scarsità di cibo, a cui segue la mancanza di contatto con il resto del mondo – i cellulari sono praticamente inutili – e il pericolo che qualcuno ancora in vita da qualche parte possa trovarli e ucciderli. Fra i tre si crea una piccola società in cui ognuno ha un ruolo importante e sempre rivolto al bene dell’altro. La loro missione diventa sopravvivere con i pochi mezzi che hanno a disposizione e proteggersi a vicenda. L’intuito per risolvere le cose pratiche diventa la loro arma principale: dal saper accendere un generatore di corrente al saper far funzionare un vecchio baracchino per le comunicazioni radio, fino alla creazione di un sistema di allarme che li avvisi di notte se qualcuno si avvicina alla casa. Trovano il modo anche di accudire una capretta che si è persa intorno alla baita, in pieno accordo con la sensibilità dei giovani di oggi per la cura del creato.

Questa storia parla dell’urgenza di iniziare a preoccuparsi seriamente di intervenire a favore della ricostruzione di un mondo che si sta autodistruggendo. Lo fa affidando il compito non al consueto eroe ma alle nuove generazioni, a tre ragazzi qualunque. Tutto molto realistico, come anche la scenografia di Enrico Serafini, precisa in ogni dettaglio nella ricostruzione della baita. Uno spettacolo non semplice per durata e con pochi personaggi per cui bravissimi i tre attori, specialmente la piccola Flaminia, attenti e concentrati per tutti e due gli atti, a cui auguriamo di continuare per questa strada con tanto successo.

data di pubblicazione:21/11/2019


Il nostro voto:

L’UFFICIALE E LA SPIA di Roman Polanski, 2019

L’UFFICIALE E LA SPIA di Roman Polanski, 2019

L’affaire Dreyfus, una delle pagine più celebri della storia (non solo) francese, diviene la perfetta trasposizione cinematografica di una vicenda senza tempo, in cui le cadenze del film storico si fondono a quelle del legal thriller e in cui ogni ingrediente del racconto contribuisce in maniera determinante alla composizione di un mosaico potente ed elegante.

 

Parigi, 1894. Nella Francia ancora logorata dalla guerra con la Prussia, la “Sezione di statistica” (ovvero i servizi segreti francesi) si muove alla spasmodica ricerca di spie al soldo dell’Impero Tedesco. Tra i sospettati c’è anche Alfred Dreyfus (Louis Garrel), ufficiale di artiglieria che corrisponde esattamente al profilo del traditore ricercato e che, soprattutto, è un ebreo. A seguito di un processo sommario, Dreyfus viene condannato alla degradazione e alla deportazione nella famigerata Isola del Diavolo. Tra coloro che infliggono la condanna esemplare c’è anche il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardine), che di lì a poco si trova inaspettatamente a capo proprio della Sezione di statistica per sostituire l’ormai malato predecessore. Attraverso il nuovo incarico Picquard prenderà consapevolezza di quanto sbrigative siano state le indagini condotte a carico di Dreyfus e a quel punto si troverà di fronte a un conflitto interiore che vede opposti la fedeltà all’Esercito e il senso di Giustizia.

L’affaire Dreyfus rappresenta certamente una delle pagine più note della storia mondiale, che nella versione cinematografica di Roman Polanski è raccontata dall’ottica del colonnello Picquard, offrendo una prospettiva indubbiamente peculiare e, per certi aspetti, originale. Il celeberrimo articolo di Émile Zola, pubblicato nel 1897 da Le Figaro e divenuto con il tempo l’emblema evocativo della libertà di stampa, funziona sul piano narrativo come momento di svolta: il processo a Zola si traduce, di fatto, nella revisione del (non) processo celebrato nei confronti di Dreyfus, innescando una tanto progressiva quanto faticosa presa di coscienza in un caso in cui il “codice d’onore” militare e i pregiudizi razziali hanno finito per prevaricare le più elementari garanzie cui il processo penale post-illuminista è ispirato.

Il legal thriller di Polanski centra perfettamente l’obiettivo: la meticolosa ossessione per ogni dettaglio, unita a una scrittura che scandisce millimetricamente l’andamento della storia e impreziosita dalle musiche di Alexandre Desplat, offre un affresco potente di un caso destinato a divenire un simbolo. Si rivela convincente anche la scelta di girare il film in lingua francese, malgrado il progetto iniziale prevedesse una più internazionale versione inglese.

Inutile chiedersi quanto di Roman Polanski ci sia in Alfred Dreyfus, così come inutile sarebbe “contestualizzare” (ancora una volta) la scelta di inserire J’accuse (titolo originale del film) nella selezione ufficiale di una Mostra cinematografica come quella di Venezia che, almeno “a parole”, ha fatto della questione femminile una delle bandiere di questa edizione. Ciò che importa è che lo sforzo produttivo, visibile fin dalla prima scena del film e che molto deve all’impegno alla lungimiranza made in Italy di Luca Barbareschi e di Rai Cinema, abbia condotto a un prodotto dalla cifra artistica brillante e prepotente. Un racconto storico che scuote le coscienze, mai didascalico eppure capace di impartire più di una lezione allo spettatore disposto ad ascoltarla.

data di pubblicazione:21/11/2019


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AMADEUS di Peter Shaffer, regia Andrei Konchalovsky

AMADEUS di Peter Shaffer, regia Andrei Konchalovsky

(Teatro Quirino Vittorio Gassman – Roma,19 novembre/1 dicembre 2019 )

Antonio Salieri, compositore e maestro di cappella presso la casa imperiale asburgica di Vienna, gode di grande fama quale autore di musica sacra e operistica. Un bel giorno incontrerà il giovane Wolfgang Amadeus Mozart e rimarrà disorientato dalle perfezione stilistica delle sue partiture. La rivalità nei confronti dell’intruso a corte, sia pur ben celata, rovinerà per sempre le sue convinzioni religiose e da quel momento inizierà per lui un lento declino interiore che lo porterà alla totale autodistruzione.

 

 

Amadeus ritorna a teatro, per il quale originariamente era stato ideato da Peter Shaffer, drammaturgo e sceneggiatore inglese che nel 1979 aveva scritto questa pièce teatrale ispirandosi al testo Mozart e Salieri di Puškin. L’opera riscosse subito un grande consenso da parte del pubblico ma il suo successo a livello mondiale avvenne nel 1984 con l’omonimo film di Miloš Forman che vinse allora numerosi importanti premi tra i quali ben 8 Oscar.

La regia di questa nuova edizione, presentata in prima assoluta al Teatro Quirino, porta la firma del grande Andrei Konchalovsky, regista e produttore cinematografico russo che abbiamo avuto modo recentemente di apprezzare con il film Il Peccato, presentato a chiusura dell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma e prossimamente distribuito nelle sale. La scena, continuamente in movimento con rapidi cambi da parte degli stessi interpreti, si presenta subito molto sobria sia pur rispettando i canoni classici del tempo, che prevedevano costumi raffinati e parrucche incipriate. I due ruoli principali, Salieri e Mozart, sono interpretati rispettivamente da Geppy e Lorenzo Gleijeses, padre e figlio nella vita reale, ma che sulla scena riescono a fronteggiarsi perfettamente rivelando l’essenza delle due contrapposte personalità. Alla figura pacata e riflessiva di Salieri, attraverso una recitazione dove ogni parola sembra essere scandita quasi a volerla fissare a futura memoria, fa da contrappunto il tratto sgangherato, a volte burlesco se non addirittura irriverente, del giovane e talentuoso Wolfgang.

Salieri riscuoteva grande successo a corte e le sue opere erano rappresentate nei più importanti teatri di Vienna; purtuttavia il suo nome rimarrà legato alla presunta rivalità nei confronti del grande compositore salisburghese, rivalità che aveva alimentato alcune voci, prive di qualsiasi fondamento storico, di averne persino causato la morte.

Merito, in parte della regia e in parte dell’interpretazione degli attori, è quello di farci quasi affezionare alla figura del vecchio maestro italiano. verso di lui ci si rivolge con tenerezza, quasi a volerne comprendere lo stato d’animo di un uomo tradito da un Dio ingiusto che non aveva mantenuto la promessa di fornirgli il giusto talento musicale a fronte della sua totale abnegazione. Mentre Mozart morirà in povertà, abbandonato persino dalla moglie, Salieri continuerà a riscuotere celebrità durante la sua lunga carriera ma ciò non gli restituirà la serenità di un tempo per essersi lui stesso reso conto della propria mediocrità.

Molto curati sono sia la scenografia di Roberto Crea che i costumi d’epoca di Luigi Perego, a cui vanno aggiunti un sottofondo di arie e concerti mozartiani, appena percepibili, che creano una magica atmosfera.

Amadeus è una produzione Gitiesse Artisti Riuniti in coproduzione con Teatro Nazionale della Toscana e con il contributo della Regione Lazio.

data di pubblicazione:20/11/2019


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ACCABADORA dal romanzo di Michela Murgia, regia di Veronica Cruciani

ACCABADORA dal romanzo di Michela Murgia, regia di Veronica Cruciani

(Teatro Piccolo Eliseo- Roma, 14/24 novembre 2019)

Tesissima riconversione teatrale di un libro di successo. Prova d’attrice encomiabile in interno sardo per un grande successo di pubblico (e forse anche di critica).

 

Coraggiosa versione teatrale del romanzo che ha reso celebre sul suolo nazionale Michela Murgia, sdoganando la parola del titolo. Nella tradizione sarda, dallo spagnolo acabar, significa uccidere, aiutare le persone a morire. Sull’attualità montante del tema la stupefazione della protagonista Maria che scopre la realtà dell’ambiente e in particolare delle pratiche di Bonaria Urrai, sarta che si dedica a questa attività crudele e insieme umanitaria. L’ammirazione di Maria per questo personaggio fa i conti con questa macabra scoperta che rivoluzione il suo modo di pensare e introduce un elemento anomalo nel rapporto. La musica elettronica e i cambi di luce sono solo gli elementi di spaziatura di un monologo lungamente efficace che solo un attrice di livello poteva gestire con disinvoltura. Ormai, risparmio a parte, sono vastamente diffuse le scenografie minimal chic: sedie, un piccolo salotto, il resto è lasciato alla libera immaginazione. Nel paesino immaginario della Sardegna dove avvengono queste strane manipolazioni tutto sembra ridotto all’essenziale. La regola è il primitivismo nei rapporti. La fuga nel continente non rompe questo strappo feroce con una realtà serena. Il ritorno nell’isola è dovuto a un’emergenza e in un certo modo chiude il cerchio, fa i conti con l’esistente. Non si può cancellare il passato consistente in lutti accumulati. Pietà e ferocia dell’atto hanno bisogno di una decantazione. Lo spettacolo ha avuto il chiaro gradimento della componente femminile, la parte più sensibile e partecipativa della generica utenza teatrale. Una componente video a tratti sorprendente si configura come elemento di rottura dell’affabulante monologo. La drammaturgia di Carlotta Corradi è parte fondante del successo in sala.

data di pubblicazione:20/11/2019  


Il nostro voto:

FURNITURE di Sonya Kelly, regia di Maurizio Mario Pepe

FURNITURE di Sonya Kelly, regia di Maurizio Mario Pepe

(Teatro Belli – Roma, 19/23 novembre 2019)

Tre atti unici, sei personaggi, un filo conduttore: il valore delle cose. Una divertente riflessione sul possesso materiale degli oggetti che ci circondano.

 

 

Ed trascina sua moglie Alex a una mostra di modernariato. È il giorno del loro anniversario ma lui l’ha dimenticato, tanto è frustrato dal suo lavoro di pittore che non arriva ad esporre da nessuna parte. Se la prende con la fin troppo pragmatica moglie, colpevole di percepire i pezzi esposti come semplici oggetti di quotidiano utilizzo anziché opere senza tempo di artisti di design contemporaneo. Steff e Dee si sono conosciute in chat appena un mese prima e subito vanno a vivere insieme nell’appartamento arredato alla perfezione e con gusto di Steff. Il problema nasce quando Dee, a cui non interessa nulla o poco dei mobili della compagna, porta con sé le sue cose, tra cui una poltrona davvero orrenda che non si sposa con il resto. George, infine, è un anziano signore omosessuale malato che deve organizzare il suo testamento aiutato dal nipote Michael. Lo zio vorrebbe lasciare in eredità al ragazzo una chaise longue di grande valore – dove addirittura Judy Garland ci è svenuta sopra –, ma Michael stenta a coglierne il senso.

Sono tre situazioni diverse, guidate tutte da un unico tema: il potere iconico di un oggetto capace di evocare miti e glorie del passato, che rende schiavo chi lo possiede per ciò che rappresenta e che è dotato di una eternità che all’uomo non è dato di avere. Il combattimento tra gli oggetti e loro legittimi padroni, e tra questi e il senso di morte e finitezza dell’esistenza, sta alla base della riflessione di Sonya Kelly. Gli oggetti in scena sono i veri protagonisti della pièce e sono le corde che delimitano un immaginario ring dove i personaggi si scontrano in accesi e divertenti dialoghi. Ottima la traduzione – non solo meramente linguistica – di Natalia di Giammarco, che sa restituire sfumature di significato, giochi di parole e battute a doppio senso contestualizzate nella nostra cultura e adattate al nostro gusto.

Ogni atto riporta sempre lo scontro tra un protagonista – intestardito a difendere quello che ha o quello che ha fatto – e il suo antagonista. Il secondo dovrebbe ricordare all’altro che più importante di quello che si ha è quello che si è, ma la lezione morale è solo apparente. In realtà anche questi sono incastrati nell’idolatria di qualcosa, per cui il loro ruolo si riduce a un semplice innesco della sfida con il rivale. Il dato comico sta qui: è la società dei consumi a essere oggetto di sarcasmo e di beffa, e tutti ci siamo immischiati. Tuttavia i personaggi diventano consapevoli di questa testarda schiavitù alle cose, e per questo ci fanno sorridere e riflettere, perché in fondo sono vicini a noi e alle nostre – più o meno taciute – fissazioni.

data di pubblicazione:20/11/2019


Il nostro voto:

LA MECCANICA DEI MOSTRI – Da Carlo Rambaldi a Makinarium

LA MECCANICA DEI MOSTRI – Da Carlo Rambaldi a Makinarium

(Palazzo delle Esposizioni – Roma, 22 ottobre 2019/6 gennaio 2020)

Accanto a Sublimi Anatomie, il Palazzo delle Esposizioni offre la possibilità di visitare in contemporanea altri due eventi molto interessanti. Uno riguarda le cosiddette Tecniche d’Evasione attraverso testimonianze fotografiche che documentano i tentativi di alcuni artisti ungheresi che, in clandestinità, attuarono delle vere e proprie strategie sovversive nei confronti del potere imperante nel loro paese tra gli anni sessanta e settanta. L’altro evento riguarda la Meccanica dei Mostri in ambito cinematografico e precisamente la figura mitica di Carlo Rambaldi (1925-2012): maggior esponente tra coloro che hanno creato gli effetti speciali nel cinema e soprattutto precursore della meccatronica, Rambaldi ha saputo rendere realistico qualsiasi personaggio da lui inventato che, anche quando era un elemento secondario, è sempre diventato il vero protagonista del film. La mostra, curata da Claudio Libero Pisano, racconta la storia di questo artista italiano e di come sia riuscito ad arrivare alla realizzazione delle sue creature, partendo dai bozzetti fino alla definizione materiale del soggetto, di cui si possono studiare gli elementi meccanici della loro movimentazione. Rambaldi, laureatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, si specializzò successivamente nella tecnica propria dei macchinari, tecnica che iniziò ad imparare facendo pratica quando era ragazzo nella bottega del padre che vendeva biciclette. Questa sua particolare formazione gli ha consentito non solo di lavorare con i maggiori registi italiani del suo tempo ma anche di essere richiesto e apprezzato a Hollywood che gli ha conferito ben tre premi Oscar: due come migliori effetti speciali per Alien di Ridley Scott del 1979, e uno per E.T. l’extra-terrestre del 1982 di Steven Spielberg, oltre a quello speciale per gli effetti visivi di King Kong, film del 1976 diretto da John Guillermin. La mostra ci permette non solo di osservare da vicino le creature nate dalla fantasia di Rambaldi, ma spiega anche come gli effetti speciali di oggi siano riusciti ad associare le tecniche della meccatronica con quelle più sofisticate del digitale. A tal riguardo, il gruppo italiano Makinarium è tra i più importanti al mondo in questo settore, e la sua factory di Roma viene presentata assieme alle loro realizzazioni che hanno incredibili somiglianze con quelle di Rambaldi, creature tutte entrate nella storia della cinematografia mondiale.

data di pubblicazione:19/11/2019

STORIA DI UN MATRIMONIO di Noah Baumbach, 2019

STORIA DI UN MATRIMONIO di Noah Baumbach, 2019

Presentato in Concorso alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è uscito nelle sale l’ultimo film di Noah Baumbach con Adam Driver e Scarlett Johansson, visibile dal 2 dicembre sulla piattaforma Netflix. Storia di un matrimonio parla della lunga strada che una coppia di New York deve “attraversare” per arrivare alla separazione nel modo più amichevole possibile, ma non senza sofferenza, nel rispetto dell’amore che reciprocamente nutrono per il piccolo Henry, il loro unico figlio, affinché questi possa continuare a crescere senza troppi traumi.

 

Nicole, attrice di Los Angeles divenuta famosa grazie ad una commedia televisiva di successo, incontra Charlie, un talentuoso regista teatrale di New York e se ne innamora all’istante; in nome di questo amore si trasferisce da Los Angeles a New York, iniziando a lavorare come attrice teatrale senza tuttavia avere uno spiccato talento nel settore. La coppia è affiatata solo in apparenza: le rinunce a volte inutili di lei e la cecità di Charlie, ambizioso e strenuo sostenitore delle proprie idee, li portano ad un progressivo allontanamento emotivo di cui inizialmente, entrambi, non riescono a definirne i confini. Sino a quando non entreranno in scena i legali divorzisti che, in poco tempo e senza mezzi termini, li porteranno ad accettare di modificare in maniera traumatica il loro quotidiano, stravolgendo così anche le loro vite professionali. Nicole, più risoluta nel voler divorziare, tonerà con Henry a Los Angeles dove riprenderà a lavorare in TV, mentre Charlie dovrà fare la spola da New York per vedere il figlioletto, tentando di conciliare questi incontri con gli impegni teatrali.

Adam Driver e Scarlett Johansson sono bravissimi, e ne danno prova sempre, sia nelle scene di inevitabile tensione sia in quelle dove la tenerezza scivola tra le maglie della stanchezza, dopo che la quotidianità con il suo rassicurante bagaglio è andata distrutta: i due interpreti sono decisamente il fulcro del film perché riescono a mettere a nudo con molta maestria fragilità, egoismi e incomprensioni. Non altrettanto esaltanti sono Laura Dern e Ray Liotta nella parte dei legali divorzisti rispettivamente di Nicole e Charlie, un po’ troppo macchiettistici che, al pari di alcune scene cantate, sortiscono l’effetto contrario di appesantire il film invece di alleggerirlo.

È purtroppo quasi inevitabile ritornare con la mente a quel Kramer contro Kramer in cui i giovanissimi e bravissimi Maryl Streep e Dustin Hoffman, si contendevano l’affidamento del loro bambino: questa similitudine fa perdere un po’ di fascino alla storia di Baumbach che, seppur ben articolata sul concetto che l’amore non finisce ma si trasforma anche quando tutto sembra andare in frantumi, evidenziando nei passaggi dolorosi di un divorzio un realismo di vita vissuta in cui non si perde la naturalezza di certi gesti che ti faranno ricordare di essere stati un tempo una famiglia, non convince sino in fondo, lasciando l’amara sensazione di qualcosa di già visto.

data di pubblicazione:19/11/2019


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GRAZIE A DIO di François Ozon, 2019

GRAZIE A DIO di François Ozon, 2019

Alexandre vive con la moglie e i suoi cinque figli a Lione. Per puro caso un giorno viene a scoprire che il prete, che aveva abusato di lui quand’era un giovanissimo boy scout, continua a dire messa vicino Lione e si occupa ancora di minori. I ricordi di quella terribile esperienza, per tanti anni rimossi, sembrano ora riaffiorare per chiedere giustizia non solo nei confronti di Padre Bernard Preynat, colpevole di aver molestato circa settanta ragazzi, ma anche verso il Cardinale Philippe Barbarin per non aver denunciato il fatto alle autorità competenti.

 

 

François Ozon è un regista e sceneggiatore francese che ha raggiunto il successo internazionale con 8 donne e un mistero, simpaticissima commedia interpretata da Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart e Virginie Ledoyen., con Grazie a Dio, attualmente in distribuzione nelle sale italiane, presentato in anteprima mondiale nell’ultima edizione della Berlinale, ha vinto l’Orso d’Argento – Gran Premio della Giuria.

Ozon non è la prima volta che tratta con spirito arguto e critico argomenti che riguardano la sessualità umana, non facendo mistero della propria omosessualità. Il film lascia poco spazio alla fiction per assumere la forma di un reportage su vicende realmente accadute in Francia tra gli anni ottanta e novanta, che investirono la società e il mondo ecclesiastico in particolare. Alexandre (Melvil Poupaud) non si darà pace fino a quando non riuscirà a convincere altre vittime di Padre Preynat (Bernard Verley) a denunciare alla polizia gli abusi subiti.

La pedofilia è problema che deve essere preso seriamente in considerazione dalla chiesa, ancora oggi restia a confessare le proprie colpe malgrado le raccomandazioni papali. Nonostante l’eccessiva verbosità, la pellicola riesce a coinvolgere emotivamente forse perché l’inchiesta che viene sviluppata riguarda un fatto di cronaca reale e che ha pesantemente toccato la sensibilità della gente comune. Anche il montaggio di Laure Gardette segue un ritmo veloce, intenso ed intrigante, mantenendo sempre una certa tensione. Risulta alquanto singolare il modo con cui il regista sia riuscito ad esaminare la reazione psicologica dei vari personaggi coinvolti ai quali, dopo tanti anni, è ancora tanto difficile ammettere ciò che hanno realmente patito.

Una pellicola ben costruita e soprattutto che riesce ad affrontare in maniera intelligente un tema purtroppo ancora tanto attuale.

data di pubblicazione.19/11/2019


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