da Daniele Poto | Mar 9, 2020
Libro che nasce motivato da un feroce puntiglio, la dissacrazione di un luogo comune espresso nell’adagio del titolo. Filippi circoscrive le frasi della retorica tipica di un’ideologica restauratrice e la dissacra, svelando nella sinteticità del pamphlet la complessa contraddittoria ideologia del fascismo e del suo massimo interprete, il Duce. Attribuzioni macroscopiche e minime fuse insieme in una demolizione a 360 gradi di una rivisitazione di comodo, specie agitata come esempio positivo rispetto al deludente presente. Se è vero che gli italiani sono stati più generosi in fatto di natalità rispetto alle generazioni odierne è del tutto illusorio pensare che abbiamo goduto di un benessere migliore, anche in relazione ai sacrifici fatti per le cosiddette guerre coloniali. Per dirla in termini sportivi è un’Italia che in trasferta non vinceva mai perché alle facili e crudele conquiste di Libia, Somalia e Libia doveva accostare le deflagranti e perdenti campagne belliche in Russia e persino in Grecia Un’Italia che dava l’oro allo Stato ma non veniva ripagata da stipendi migliori. E se dei treni non era segnalato il ritardo era solo perché Il Minculpop aveva dato ordine di trascurare le pecche. Paese privato di libertà democratiche in nome di un regime dove il disfattismo era la parola da bandire. Fascismo che disvalorizzava la donna mettendola solo al centro del sistema familiare dove non poteva che essere solo una fattrice di figli da destinare alla patria. Non a caso il suffragio universale le verrà riconosciuto solo nel 1946, a guerra finita. Bandito il diritto di sciopero ed esaltato il razzismo, per par condicio con il nazismo, temperato solo dall’esigua rappresentanza di ebrei in Italia.Pura leggenda la creazione dell’INPS dato che esisteva già un’istituzione proto-previdenziale che sarebbe stata messa a punto progressivamente, senza un’influenza decisiva e caratterizzante di Mussolini. Un libro che fa storia e rilegge pericolose derive odierne, in nome dei fatti e di una notevole e documentata vis polemica. Anche la bonifica delle paludi tramite il trasferimento coatto di comunità viene sottoposta a una rilettura critica che lascia poca sostanza ai meriti del regime.
data di pubblicazione:09/03/2020
da Giovanni M. Ripoli | Mar 9, 2020
Avevamo lasciato Lenny Belardo, Pio XIII, papa dal tormentato rapporto con la fede, in coma a Venezia. The New Pope riprende la narrazione e ne rappresenta la continuazione diretta fino alla conclusione dopo nove episodi in cui si succedono eventi tra il reale e l’inverosimile…
In tempi di Corona Virus può essere una buona idea starsene a casa e godersi una delle più stimolanti serie TV mai prodotte. Creata e diretta, alla sua maniera da Paolo Sorrentino (per alcuni autore di capolavori, per altri di meri esercizi di stile …) per Sky Atlantic, HBO e Canal plus è il sequel di, The Young Pope e racconta la storia di un nuovo Papa, individuato dal “più longevo Segretario di Stato del Vaticano”, il cardinale Voiello (ancora una volta magistralmente interpretato da uno strepitoso Silvio Orlando). In realtà, le prime immagini ripartono dal letto di ospedale con Pio XIII in coma e continuano con il breve pontificato di un Papa, modesto, inizialmente “manovrato” dalle potenti gerarchie vaticane che misteriosamente scompare quando comincia a mostrare segni di troppa autonomia di pensiero… A quel punto, l’astuto Voiello riesce a far eleggere Sir John Brannox, aristocratico inglese, considerato un moderato, che prende il nome di Giovanni Paolo III. Inutile negare che l’affascinante personaggio calza a pennello per uno straordinario interprete come John Malkovich. Trattandosi di nove puntate e di tanti eventi che si susseguono fra colpi di genio, tradimenti, vendette, virtù e miserie non è sulla storia che mi soffermo ulteriormente.
Come in ogni lavoro di Sorrentino, chiaramente un regista che divide la critica e il pubblico , il segno distintivo oltre il plot narrativo è la puntigliosa tessitura delle immagini : ogni dettaglio, in apparenza superfluo, che assume un suo rilievo e una sua pregnanza artistica di grande pregio. Certo, le storie e i personaggi , dai protagonisti ai comprimari, sono tutte intriganti, ma ,ripeto, sono le immagini a lasciare il segno: una Venezia fotografata come solo Visconti aveva osato anni prima, mai turistica, struggente, evanescente, monumentale! La cappella Sistina, San Pietro, il Vaticano con i suoi giardini, la Pietà del Michelangelo, le abitazioni lussuose dei cardinali, le scene oniriche del Lido o delle sagrestie con suore che ballano a ritmo rock, tutto è perfettamente miscelato a fornire un affresco unico, a rendere una visione indimenticabile, a prescindere dalle implicazioni mistiche o dissacranti di cui gli scaltri sceneggiatori hanno disseminato il complesso canovaccio. Degli attori, i principali (cui va aggiunto ovviamente un Jude Law, ironico e sornione quanto lacerato e misterioso), ho accennato , ma anche i personaggi di secondo piano sono bravi tutti a pari merito; segnalo, a caso ma non per caso , la deliziosa Cecile de France , la tormentata e sexy Ludivine Sagnier, come pure, Massimo Ghini e Javier Camarà che non sono da meno nei rispettivi torbidi ruoli. Naturalmente trattandosi di un’opera di “relativa” fantasia, direi “relativamente” distopica, non sta a me entrare in polemiche su quanto ci sia di anticlericale, quanto di spirituale, quanto di critica e/o riferimenti all’attualità, quello che è corretto rilevare è ciò che rimane negli occhi, dopo nove magistrali lezioni di cinema: una storia complessa e variegata, attori verosimili, musiche e coreografie coerenti, scene mozzafiato per uno spettacolo bello, visionario e poetico al tempo stesso.
data di pubblicazione:09/03/2020
da Daniele Poto | Mar 5, 2020
(Teatro Quirino- Roma, 3/15 marzo 2020)
Un robusto drammone d’epoca lasciato nella sua cornice naturalistica anni ’50. Un soggetto epocale risolto a misura di un Pizzi uno e trino che brilla soprattutto nella scenografia e nei costumi avvalendosi della traduzione di Masolino D’Amico.
Due ore e mezzo senz’intervallo. Prendere o lasciare. Aderendo ai sovratoni da prima donna di Mariangela D’Abbraccio su cui si reggono sorti e tenuta di un classico oscillante tra cinema e teatro. Se Vivien Leigh era stata la matura interprete del film alla allora non più tenera età di 38 anni (rispetto a una protagonista che fintamente ne dichiara 25 ma che comunque non dovrebbe averne molti di più) qui il salto generazionale è ancora più esteso perché la prim’attrice di anni ne ha 58 e dunque, seppur debitamente truccata e ben vestita, più che una donna perduta sarebbe oggi volgarmente definita una milf. Lo spettacolo rivela a poco a poco, come nel gioco a incastro di tante scatole concentriche, il suo torbido passato di conquistatrice di adolescenti, di moglie infelice di un consorte tanto giovane quanto omosessuale, di frequentatrice di bordelli, di praticante alcoolista. Né le può far la morale in violento cognato di origine polacca che alla fine, nel massimo del climax la violenta. Finale mesto ed allusivo. Quello che bussa alla porta non è l’ultimo spasimante che possa redimerla ma un incaricato del manicomio (allora, prima di Basaglia si chiamavano così) che è venuto ad offrirle se non altro quell’auspicato vitto e alloggio a cui da sempre brama. I deliri della D’Abbraccio riflettono il caleidoscopio di un universo femminile variegato in cui si confondono o comunque giocano un ruolo importante debolezza, vanità, fascino. Crudo realismo nel testo originale e scelte di campo nell’adattamento. In originale erano già spariti i riferimenti all’omosessualità del violento protagonista, alias Marlon Brando. Bravo Daniele Pecci, attorialmente vocato in questo caso alla greve rozzezza ed animalità di un personaggio negativo.
data di pubblicazione.05/03/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 4, 2020
(Teatro Eliseo – Roma, 3/22 marzo 2020)
Un’opera minore di Ibsen il cui repertorio è completamente gettonato con una secolaristica riattualizzazione dei temi. Scena in chiaroscuro come le voci a volte poco audibili dei protagonisti per cento minuti di spettacolo.
Interno norvegese, intreccio torbido e pieno di non detti e di inespressi. La reputazione del costruttore Solness, sostenuta dal mestiere attoriale di Umberto Orsini (85 anni), è vistosamente insidiata dai chiacchiericci sui suoi trascorsi. Il contrasto tra vecchi e giovani e conseguente ricambio generazionale è la cartina di tornasole per analizzare il vissuto (e i peccati) del protagonista, tra sogno e realtà. La scena fa quasi lo spettacolo: un parallelepipedo smontabile che a seconda dei movimenti di apertura e chiusura descrive il momento psicologico dei personaggi. Solness sembra sempre di più stretto della morsa dei sospetti e delle insinuazioni femminili (verità o finzioni?) e della mancata promozione professionale del suo giovane assistente. Sfiderà i pregiudizi e gli echi del passato salendo pericolosamente su un’impalcatura delle sua ultima creazione. La fine è nota: cadrà. Soluzione e scioglimento affidata all’ovvia conclusione dello spettatore. Incombe sul suo destino anche la mancanza di prole: ha progettato tre camere per i bambini che risultano vuote. La compagnia assemblata sotto l’egida della Teatro Stabile dell’Umbria è un mix di vecchi e giovani. E la figlia d’arte, Lucia Lavia, scala un altro difficile momento di una carriera che si annuncia fulgida quanto propiziata dalla fortuna di un padre come Gabriele. Vocalità sofferta e intuibile all’inizio con vistosa differenza qualitativa rispetto al sonoro delle voci registrate: particolari migliorabili dopo una prima a platea da tutto esaurito per i generosi inviti di Luca Barbareschi che ha ribadito in apertura l’ultimatum alle attualità silenti. Dopo le ultime repliche di stagione il Teatro Eliseo (ed il Piccolo) chiuderà i battenti. Per dirla con Pirandello Così è se vi pare. Ma chi ci crede?
data di pubblicazione:04/03/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Mar 2, 2020
(Club 55 – Roma, 28 febbraio 2020)
Travolgente monologo, in bilico tra un sogno e una realtà che fa da contrasto al desiderio. Prova d’attore per Davide Paciolla nella cornice di un luogo non convenzionale per il teatro, a due passi dai locali e ristoranti affollati di via del Pigneto a Roma.
Non ci si perde in troppe formalità appena entrati dopo il tesseramento nello spazio del Club 55, nel quartiere Pigneto di Roma in via Perugia. Lo spazio è giovane, pulsante, libero e culturalmente frizzante, fuori da qualsiasi circuito già collaudato dei più o meno importanti palcoscenici della capitale. In corso dal 10 gennaio l’edizione zero di Unconventional date, stagione di spettacoli teatrali che vanno in scena solo di venerdì, in orario preserale, fino al 29 maggio. La direzione artistica è affidata a Francesca Brunetti, Carlo Maria Fabrizi, Vincenzo Nappi e Ludovica Santuccio. Sul palco artisti pluripremiati come Alessandro Blasioli, Giulia Nervi, Davide Paciolla, Tony Allotta, Alessandro Sesti, Giusy Emanuela Iannone e Andrea Cosentino.
Lo scorso venerdì 28 febbraio è stata la volta di Davide Paciolla, con il suo monologo Io sugno (Premio migliore interpretazione e giuria popolare con Corto 2019). L’attore sale sul palco, già ingombro di attrezzi di scena e diversi strumenti musicali, prende un lungo respiro e si lascia andare nel lungo e divertente racconto. È il caso di dirlo: Davide Paciolla se la canta, se la suona e come se non basasse è regista, fonico, attrezzista e controfigura di sé stesso. La storia è quella di un ragazzo che sogna di fare l’attore, che deve rendere conto della sua scelta alla sua bizzarra famiglia, costantemente presente nelle telefonate della nonna preoccupata e nei consigli/rimproveri dei genitori. In ascolto di mille voci che gli risuonano nella testa, prende quelle decisioni che ne tracceranno la carriera o quello che desidererebbe che fosse. Pervaso di sana insicurezza, la battaglia con i mostri interiori e i sogni che coltiva si dispiega davanti a noi senza sosta. Il monologo è un fiume travolgente di parole e situazioni, rimandi e citazioni colte, suoni dialettali e canti. Un testo che è un papiro variopinto o una cesta colma di giocattoli che il nostro migliore amico riversa a terra per farci giocare. Paciolla parte in quarta – è difficile stargli dietro all’inizio – e mantiene l’acceleratore a tavoletta fino alla fine, senza arrestarsi in pause o riflessioni. Un pensiero ne genera un altro, il collegamento è una semplice parola, il flusso di idee è continuo. E alla fine, in perfetto e piacevole accordo con il titolo, che lascia il dubbio se si debba tradurre con “io sono” o “io sogno”, ci si chiede se quello che racconta sia tutto vero o se sia il frutto di un’immaginazione straordinariamente creativa.
data di pubblicazione:02/03/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 1, 2020
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 13 febbraio/1 marzo 2020)
Capita accidentalmente che nell’era del coronavirus si parli dell’Aids. Malattia contagiose che accendono nevrosi e psicosi. Qui il dramma si riflette in interno familiare. Che poi tanto famiglia accogliente non è …
Vicenda dolorosamente autobiografica portata in teatro da un autore che si è spento a soli 38 anni. E che non è riuscito a comunicare alla propria famiglia quanto gli stava accadendo. Familiari solo al corrente della sua omosessualità (evocata con garbo in un passaggio in cui si sottolinea la volontà e l’impossibilità di avere una discendenza). Una gabbia che alza e si abbassa scenograficamente descrive l’interno e l’esterno. Dentro non si riesce a comunicare. Spezzoni di monologhi senza risposta con l’inespresso a farla da padrone. L’ospite atteso, il malato, dovrebbe rivelare la propria condizione e quella condanna a morte che gli piove sul capo ma è continuamente scoraggiato dalle interruzioni di senso nei vari dialoghi con i parenti. Recitazione fredda e distaccata che vira verso l’incomunicabilità e tende a farci capire quanto la malattia regali isolamento, incomprensione e scarsa solidarietà anche all’interno di un nucleo familiare afflitto da varie problematiche. La personalità della Bonaiuto in un dramma rodato non schiaccia il carattere ben rappresentato degli altri protagonisti, ognuno dei quali ha un piccolo assolo su cui appoggiare il pezzo forte della parte. Dato che non esiste una vera e propria coralità di recitativa ma solo tanti spezzoni che si avvalgono della storica traduzione di Franco Quadri. Il lutto a venire è un doloroso sottotesto. La voce fuori scena del protagonista ne allude in avvio e lo ribadisce alla fine. Un’uscita di scena metonimica. Sobrietà e lucido rigore nello stile e del profilo del dramma che si avvale delle musiche originali di Roberto Angelini. Sinceri applausi in uno spettacolo in cui la parola più che i movimenti scenici ha un ruolo fondamentale attingendo a un testo di profonda emotività.
data di pubblicazione:01/03/2020
[sc.voto3t]
da Antonio Iraci | Feb 29, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Jeremy Irons, presidente della giuria internazionale di questa settantesima edizione della Berlinale, al momento di consegnare l’Orso d’Oro ha voluto precisare che, tra i singoli membri, non è stato facile trovare subito un accordo riguardo l’assegnazione dei premi. In effetti i film in selezione ufficiale quest’anno erano, tranne qualche rara eccezione, tutti di grande interesse. Il premio per il miglior film è andato a There Is No Evil del regista iraniano Mohammad Rasoulof, presentato come ultimo in questa interessante kermesse cinematografica, ma che subito ha colpito per l’argomento e per la delicatezza con la quale è stato affrontano: un tema così realistico e crudo proprio di una società, quella iraniana, in cui il diritto alla democrazia sembra essere poco riconosciuto. Cast eccezionale per un film che sicuramente avrà grande successo e che ci auguriamo troverà una valida distribuzione anche nel nostro Paese. L’Italia comunque riesce a conseguire due importanti premi su entrambi i film in concorso: Orso d’Argento come miglior attore a Elio Germano per l’incredibile interpretazione di Ligabue in Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti con la seguente motivazione: “Per il suo straordinario lavoro nel catturare sia la follia esteriore che la vita interiore dell’artista Toni Ligabue”; e Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura ai due giovanissimi fratelli D’Innocenzo per il loro Favolacce. Elio Germano è oggi tra gli attori più rappresentativi del cinema italiano, mentre i due simpaticissimi gemelli D’Innocenzo hanno ancora molto da fare, ma per loro, da ora, la strada sarà tutta in discesa. Ecco l’elenco completo dei premi assegnati:
- Orso d’Oro per miglior film a There Is No Evil di Mohammad Rasoulof
- Orso d’Argento Premio Speciale della Giuria a Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman
- Orso d’Argento per la miglior regia a Hong Sangsoo per il film The Woman Who Ran
- Orso d’Argento per la miglior attrice a Paula Beer per il film Undine
- Orso d’Argento per il miglior attore a Elio Germano per il film Volevo nascondermi
- Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura ai fratelli D’Innocenzo per il film Favolacce
- Orso d’Argento per la miglior fotografia a Jurgen Jurges per il film DAU. Natasha
- Orso d’Argento speciale per Berlinale 70 al film Delete History.
Si è così conclusa questa edizione della Berlinale. Torniamo a casa contenti soprattutto per i premi assegnati ai due film italiani e si spera che il nostro cinema riesca ad avere sempre più risonanza sul panorama cinematografico internazionale. È stato un buon festival, pieno di tante emozioni, e ci auguriamo di essere stati utili nel segnalare ciò che abbiamo visto e che, in qualche modo, ci ha colpito.
Non rimane che darci appuntamento al prossimo anno!
data di pubblicazione:29/02/2020
da Rossano Giuppa | Feb 29, 2020
(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 19 febbraio/1 marzo 2020)
L’esordio teatrale di Ferzan Özpetek è in linea con le attese. Mine Vaganti, film pluripremiato (2 David Di Donatello, 5 Nastri D’Argento), la grande commedia corale che parla di sentimenti, di famiglia, di pregiudizi, ma anche di crescita e di maturità è a teatro in versione nazional popolare queer inclused, secondo una drammaturgia semplificata rispetto al film, efficace e divertente, senza scossoni e senza grandi sorprese.
In scena c’è il giovane Tommaso che torna nella grande casa familiare al Sud. La famiglia Cantone è proprietaria di un grosso pastificio, con le sue radicate tradizioni culturali alto borghesi e un padre che vuole lasciare in eradità la direzione dell’azienda ai due figli. Il ragazzo è deciso a rivelare al colorato gruppo di famiglia che è un omosessuale con aspirazioni letterarie e non uno studente di economia fuori sede, come ha sempre fatto credere a tutti. Ma la sua rivelazione anticipata sul tempo da quella ancora più inattesa dell’altro fratello, Antonio: anche lui è gay. E da lì, tutto cambia. Tommaso si ritrova così costretto a restare nella grande casa paterna, alle prese con i problemi del pastificio di famiglia da mandare avanti dopo che Antonio è stato cacciato dal padre. Ma soprattutto a rivedere i suoi piani per affermare il suo credo nei confronti di un contesto non ancora pronto ad accettare la libertà degli individui e un nucleo familiare pieno di contraddizioni e segreti.
Özpetek sceglie di dare avvio alla narrazione con un lungo e intenso flash back del protagonista Tommaso che intreccia ricordi, dialoghi con gli altri personaggi, presente e passato.
Il richiamo ai personaggi del film è immediato e rischioso, ma l’approccio del regista è vincente in quanto elimina e rivisita particolari e personaggi, mantenendo nel contempo situazioni e battute conosciute e attese. Molto è evocato, qualcosa è cambiato, ma sostanzialmente affidandosi a un ottimo cast corale, Özpetek riesce a mantenere inalterata la briosità della commedia italiana all’interno di problematiche importanti, quali il ruolo della famiglia, il desiderio di libertà e l’affermazione della propria identità, il giudizio della società, i pregiudizi.
Anche il cast si rivela funzionale alla versione teatrale sostenuta da un bravissimo Francesco Pannofino, capofamiglia Cantone e dalla bravissima Paola Minaccioni capace di ridisegnare a propria immagine il ruolo della madre Stefania, mentre manca la forza della vera mina vagante ovvero della grandissima Ilaria Occhini.
Nel cast anche Giorgio Marchesi che qui si confronta con il ruolo del fratello maggiore, ma anche tanti altri giovani tra i quali Antonio Musella nel ruolo di Tommaso.
Mine vaganti si conferma uno spettacolo piacevole e ben confezionato, una favola agrodolce, differente ma non troppo distante dal linguaggio cinematografico di Özpetek.
data di pubblicazione:29/02/2020
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Feb 29, 2020
Il “Mistero Louise Penny” prosegue! Come era prevedibile è appena uscito per i tipi Einaudi un nuovo libro dell’autrice canadese, scritto nel 2018 è il 14° dei 15 finora realizzati sulle inchieste dell’Ispettore Armand Gamache. E’ una “rincorsa” molto insolita ed un po’ schizofrenica che costringe il lettore italiano (che abbia letto i tre finora pubblicati) in dinamiche e situazioni in cui spesso si fatica a ricostruire le personalità, le psicologie e le evoluzioni maturate nel tempo sia dei personaggi sia dei fatti narrati, privi come si è degli antefatti sulla vita e sulle vicende dell’Ispettore, del suo mondo e dei suoi amici o stretti collaboratori che l’autrice ha invece narrato di romanzo in romanzo con continuità progressiva. Meraviglie del “determinismo editoriale”! Riusciranno a far scattare l’innamoramento fra lettori e personaggi?? Bella scommessa! Vedremo.
In questo romanzo la Penny ci riporta, come al solito, nell’idilliaco villaggio di Tre Pini, il microcosmo in cui Gamache si rifugia ritrovandovi la sua cerchia di amici, un contrasto fra la pace del piccolo centro ed il duro e violento mondo esterno del Québec. L’autrice gioca con il lettore portando avanti varie storie parallele: da una parte un intrigo legato ad una precedente inchiesta a causa della quale l’Ispettore è momentaneamente sospeso dall’incarico in attesa dell’esito delle indagini interne; dall’altra una storia originale e complessa legata ad un testamento molto insolito di cui Gamache è chiamato ad essere “co-esecutore”. L’atmosfera del libro è molto malinconica (l’autrice spiegherà perché), cupa, quasi una sorta di bilancio esistenziale dei personaggi. Ciò non di meno, pur in un “regno delle ombre”, pur in un quadro debordante di tristezza, aggressività ed amarezza c’è sempre una luce di speranza legata al prevalere della lealtà sul tradimento. Lo stile narrativo della Penny ricorda sempre di più quello di Agatha Christie anche se il suo Gamache non ha però molto a che vedere con Hercule Poirot. Al contrario il nostro è un uomo pieno di dubbi, di umanità e di umiltà. Una forza tranquilla, un uomo forse freddo e flemmatico ma un uomo che sa far squadra con i suoi collaboratori.
La psicologia dei vari personaggi è messa in primo piano, le emozioni e le riflessioni prevalgono sempre sull’azione. Il ritmo narrativo è sobrio e costante, scorrevole senza picchi, con sprazzi di humour per dare respiro al lettore. Un lavoro quello della Penny tutto di scavo in profondità ove dramma ed ironia possono coesistere così come la vita con la morte. Il finale riserva alcune rivelazioni sull’evoluzione della serie. Ma erano prevedibili. Il Regno delle Ombre è una lettura piacevole che mantiene quel gusto “di una volta”, una lettura in cui la tensione resta fino alla fine. La scrittrice infatti, malgrado il numero di libri già dedicati all’Ispettore Capo, non sembra affatto perdere né verve né ispirazione e … continua a procedere al suo dolce “ritmo di … valzer lento”.
data di pubblicazione:29/02/2020
da Antonio Iraci | Feb 28, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Undine è impiegata come guida presso un importante museo di Berlino e il suo lavoro consiste nello spiegare ai turisti lo sviluppo urbano della città, a partire dalla sua fondazione. Quando il suo fidanzato Johannes gli comunica che sta per lasciarla, perche si è innamorato di un’altra, la ragazza lo minaccia dicendogli che se abbandonata si vendicherà uccidendolo.
Christian Petzold è un regista e sceneggiatore tedesco che ha alle spalle un discreto curriculum come cineasta, tra l’altro abbastanza conosciuto anche nel nostro Paese dove nel 2008 si distinse alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con Jerichow. Nel 2012 vinse a Berlino l’Orso d’Argento per la miglior regia con il lungometraggio Barbara, mentre in questa edizione della Berlinale si presenta in concorso per la quinta volta con Undine di cui ha curato anche la sceneggiatura.
Il film trova ispirazione nel mito prettamente classico della ninfa Undina, creatura leggendaria acquatica di natura normalmente benevola ma che può cambiare d’umore, diventando implacabile, se tradita o umiliata. Questo è anche il caso della nostra protagonista (Paula Beer) che una volta abbandonata dal suo ragazzo (Jacob Matschenz) provoca la sua reazione dicendogli apertamente che lo punirà con la morte. A distoglierla dal suo sciagurato intento appare inaspettatamente Christoph (Franz Rogowski) e tra i due inizia una relazione, semplice ma intensa, dove la ragazza sembra essere veramente conquistata dal carattere mite e remissivo del giovane. Il film oscilla tra la fiaba e il thriller con elementi che via via ci portano al soprannaturale, tratto questo che non disturba ma anzi sembra essenziale per catturare l’attenzione del pubblico. Il regista mostra un vero talento nel bilanciare i vari aspetti della storia affrontando il rischio di inserire, nel contesto berlinese di oggi, una favola che addirittura trova fondamento nella mitologia greca.
Il risultato ottenuto è sicuramente positivo e il film si lascia seguire con interesse, anche per la buona recitazione degli interpreti, tuttavia non è esente da piccole lungaggini che potevano evitarsi per non appesantire la narrazione. Ci troviamo di fronte a un lavoro sicuramente ben confezionato e facilmente commerciabile, anche perché segue una trama tutto sommato fruibile da un pubblico di poche pretese e dove un tocco di fiabesco sentimentalismo non guasta.
data di pubblicazione:28/02/2020
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