OUT OF LOVE di Elinor Cook, regia di Niccolò Matcovich

OUT OF LOVE di Elinor Cook, regia di Niccolò Matcovich

(Teatro Belli – Roma, 14/15 dicembre 2019)

L’amicizia tra due donne, Grace e Lorna, dura da quando erano piccole; le rispettive mamme si conoscevano già ancor prima che nascessero. Il racconto della loro storia fino a che non si interrompe per la prematura scomparsa di Grace.

 

Grace (Livia Antonelli) indossa una felpa poco femminile di colore viola, mentre Lorna (Dacia Dacunto) un maglione giallo che la copre fin sopra le ginocchia. Nella teoria dei colori giallo e viola risultano complementari, ovvero sommati insieme come luci danno il colore bianco, l’unità perfetta. Forse per caso o per scelta voluta risulta così per Lorna e Grace: due ragazze che non possono fare a meno l’una dell’altra, così diverse tra di loro, che insieme sembrano invincibili. Come nel romanzo di successo della Ferrante, L’amica geniale, Lorna e Grace sono migliori amiche fin da bambine, ma crescendo la storia le divide. Trascorrono in un piccolo paese di periferia fanciullezza e adolescenza tra giochi e primi amori: Grace deve badare al padre malato, trova presto lavoro in fabbrica e nel frattempo rimane incinta di Marta, mentre Lorna – tra le due l’unica ad aver visto Londra almeno una volta – ha la possibilità di studiare e di emanciparsi di più rispetto all’amica. Passano trent’anni durante i quali però si ritrovano sempre, anche quando le cose sono difficili, violente, ingestibili e non condivisibili. Tra loro sembra esserci un confronto continuo che spesso si trasforma in una lotta fisica, ma essere veri amici comporta anche questo. La struttura della narrazione frammenta il tempo in una miriade di situazioni in cui le amiche convivono e si raccontano mille avventure. Sullo sfondo la presenza sfumata, quasi nemica, di tanti uomini dai quali è necessario fare squadra per difendersi (tutti interpretati da Livio Remuzzi). La scelta del regista unisce invece lo spazio, l’entrata di una vecchia miniera di carbone nei pressi della cittadina dove crescono, retaggio di un tempo passato dove si stava economicamente meglio, da cui escono nel carrello su rotaie i ricordi sepolti di una vita custodita gelosamente. Out of love è questa miniera di memorie, questo scrigno che contiene la ricchezza di un’amicizia unica.

data di pubblicazione:16/12/2019


Il nostro voto:

Il PRIMO NATALE di Ficarra & Picone, 2019

Il PRIMO NATALE di Ficarra & Picone, 2019

Favoletta natalizia dove si narra di un parroco di paese e ladro di oggetti sacri catapultati per “miracolo” nella Palestina ai tempi della nascita di Gesù. Seguono blande complicazioni…e finale miracoloso!

Candido come un soufflè, leggero come un ruscello d’alta montagna, ecco apparire per la gioia-di-grandi-e-bambini, l’ultima fatica dei simpatici (questo sì!) Ficarra&Picone, già cabarettisti di talento, poi attori e financo registi con alterne fortune ( L’Ora Legale la loro migliore prova sullo schermo). Con il super-natalizio, Il Primo Natale (omen nomen) in uscita, si ripropongono nella loro versione più innocua, senza il cinismo di Ficarra (qui nelle vesti di un ladro miscredente e arruffone) e con un buonismo quasi d’altri tempi. L’idea di partenza non è nuova (il viaggio nel tempo a ritroso), con ben altri risultati l’avevamo già vista, tanto per citare, in Non Ci Resta Che Piangere, e la storia pure, ovviamente, rivisitata in più salse e angolazioni diverse (dal Re dei RE ai Monty Phyton). Nell’occasione il duo palermitano, aiutati (?) nella sceneggiatura dal bravo Nicola Guaglianone, s’ingegnano in un film che ha comunque dei pregi rispetto alle tradizionali pellicole nostrane: sarà per la concorrenza di Netflix ( sulla cui piattaforma è probabile che il film finisca, come già gli altri lavori dei due) o per quella dei normali “cine panettoni”, ma Il Primo Natale ha certamente il merito di non essere povero e sciatto nella sua veste. I costi produzione sono stati alti e si vede…! Le avventure in Palestina con i villaggi, gli animali, la gente sono assolutamente credibili, (indiscutibile l’omaggio ai “peplum” di cinecittà, con Romani e tigre nell’arena) e rari per prodotti analoghi ammanniti durante il Natale. Non è quindi la rappresentazione dell’epoca (puntuale e ricca) , né la narrazione della favoletta (i nostri eroi che cercano Giuseppe e Maria per ottenere il miracolo del ritorno ai nostri tempi) a deludere, bensì la mancanza di coraggio complessiva nel non volersi distaccare da battute tranquillizzanti e mai corrosive, il barcamenarsi fra adesione all’ideologia cattolica e critiche superficiali alle religioni, l’occasione di trattare il fenomeno migratorio in modo non barzellettistico. Quanto alle interpretazioni , oltre i due , al loro livelli standard (simpatia, battutine, gags più o meno scontate) va segnalata quella del bravo Popolizio nelle vesti di un superbo Erode. In conclusione, come si diceva una volta, Ficarra e Picone “strappano la sufficienza ma avrebbero certamente potuto fare di più…!”il che non impedirà al pubblico nazional- natalizio di apprezzare il più natalizio dei film.

data di pubblicazione:13/12/2019


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STRIPPED di Stephen Clark, regia di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

STRIPPED di Stephen Clark, regia di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

(Teatro Belli – Roma, 10/12 dicembre 2019)

Alice Torriani e Francesco La Mantia sono Emma e James, schizzo di una coppia affrescata con veloci pennellate e mai compiuto. Rette parallele che percorrono insieme un tratto di vita senza mai incontrarsi veramente.

 

 

Inizia con un prologo la storia di E e J, in cui l’oggetto della riflessione è capire se a impadronirsi di James quella volta sull’autostrada sia stata una vera crisi di panico o più semplicemente un attacco di ansia. La stessa cosa è accaduta a Emma, ma la circostanza era diversa, fu in un bar dove fanno karaoke e lei era la prossima a dover cantare una canzone. Cosa li avrà colpiti non lo sappiamo, perché la conversazione si interrompe e la loro perplessità diventa la nostra. A volte capita di cominciare un discorso e non finirlo. Viene quindi annunciato il titolo della pièce: Stripped, che in italiano significa “strisce” se lo si legge come sostantivo, ma anche “spogliato” inteso come aggettivo. Se le conversazioni tra i due protagonisti sono stralci di frasi strappate da un foglio di appunti che iniziano ma non finiscono, è vero anche che danno l’incipit perché l’uno si metta a nudo con l’altra e viceversa, senza però poter cogliere fino in fondo la reale essenza delle loro intenzioni. Nel gergo popolare infatti la parola stripped significa anche la particolarità di un individuo di essere senza ambizione o di essere inconcludente nei suoi progetti. Ecco perché James inizia ma non finisce la sua trilogia di romanzi e Emma, che è una scultrice, mostra solo i bozzetti delle sue opere al compagno, portacandele realizzati con tubi rame piegati. La loro relazione è in atto, si raccontano del passato, ma non se ne conosce sviluppo. Anche l’improvvisa gravidanza di Emma determina un momento di indecisione, teso tra la possibilità di abortire e la scelta di tenere la “persona”, come la chiamano loro. La mancanza di scopo diventa parte del rapporto e fa cancellare dal vocabolario della coppia la parola futuro. L’unica certezza rimane l’intesa sessuale, un punto fermo che interrompe bruscamente la conversazione e la manda a capo, ma che se ci si ferma a ragionare sopra anche questa fa nascere dei dubbi e delle domande. I due personaggi sguazzano nel liquido melmoso e appiccicoso dei pensieri mozzi e mai conclusi. Si scrutano e si studiano dicendo solo al pubblico negli a parte le loro congetture e le loro deduzioni. E così fino alla fine, inconclusa per rispetto di copione anche questa. Uno spettacolo ben fatto, reale se si pensa a quanto la vita possa a volte essere un abbozzo di mille progetti, con due attori in armoniosa sintonia tra di loro.

data di pubblicazione:11/12/2019


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OUT OF LOVE di Elinor Cook, regia di Niccolò Matcovich

I’M A MINGER/SONO UNA FRANA di Alex Jones, regia di Eleonora D’Urso

(Teatro Belli – Roma, 7/8 dicembre 2019)

Esilarante e travolgente, Eleonora D’Urso firma la regia di uno spettacolo divertente e attuale di cui ne è anche l’interprete. Una valanga di parole e situazioni che raccontano uno dei periodi più complicati della vita di una donna: l’adolescenza.

 

 Entriamo nella stanza di Lisa improvvisamente, di colpo. Sembra il camerino di una diva, con specchio e cuscini e una miriade di accessori di arredo tutti rigorosamente rosa e perfettamente in disordine. Chi ha a che fare con gli adolescenti sa per certo quanto sia difficile poter varcare la soglia delle loro camerette, per cui prendiamo questo momento per quello che è: un privilegio. Lisa sembra uscita da un manga, ha i capelli tinti di rosa come le cose che la circondano. Il suo biondo naturale è sinonimo di stupidità, e lei vuole sembrare tutto tranne che stupida. Torna da scuola e con un calcio sfonda la quarta parete per raccontarci il suo mondo. Esagitata e irrequieta mostra subito le sue debolezze e preoccupazioni, prima fra tutte la linea. Come la strega in Biancaneve si guarda allo specchio e si riconosce però come la più brutta tra le sue compagne, per di più ansiosa di compiacerle in ogni cosa per essere da loro accettata e considerata. Attenta a che nulla le sfugga dal controllo, vive in biblico tra la falsa amicizia delle più “fighe” della classe, che non si fanno problema a eliminarla dalla lista delle amiche special di WhatsApp, e la paura di precipitare nel gruppo delle “sfigate”, dimenticando la cosa più importante: l’originalità che sta nella bellezza di essere sé stessa. Messa da parte solo perché è come è – praticamente per la banale motivazione che a qualcuno sta antipatica – viene risucchiata nel vortice della depressione e lì inizia a pensare al suicidio. Bulli e stronze non le danno tregua, ma per fortuna c’è Carlo, un ragazzo affascinante dai capelli rossi e le lentiggini – caratteristiche non esattamente sinonimo di bellezza estetica nell’immaginario adolescenziale – che cattura la sua attenzione e le fa capire che assumere una posizione diversa dagli altri è sempre un bene, anche se ci espone al rischio di diventare facile bersaglio delle critiche della gente invidiosa. Poi ci sono i genitori con i quali recupera un rapporto, fino a ora burrascoso, di confidenza e fiducia che la fa uscire dall’isolamento della sua stanza. E infine le nuove amiche, quelle considerate da tutte le altre serie B, che manifestano per lei sincero affetto e solidarietà.

La simpatica Lisa trova finalmente la strada per riscattarsi, ottimo esempio per tante ragazze che condividono la sua condizione. La ricetta in fondo è facile e la troviamo nella citazione finale di Caparezza: devi fare ciò che ti fa stare bene … e non compiacere chi ti vuole diversa da quella che sei.

data di pubblicazione:10/12/2019


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FRONTE DEL PORTO di Budd Schulberg, traduzione e adattamento Enrico Ianniello, regia Alessandro Gassmann

FRONTE DEL PORTO di Budd Schulberg, traduzione e adattamento Enrico Ianniello, regia Alessandro Gassmann

(Teatro Argentina – Roma, 3/15 dicembre 2019)

In Fronte del porto, in scena al Teatro Argentina di Roma dal 3 al 15 dicembre, Alessandro Gassmann dirige Daniele Russo e altri 10 attori in una riscrittura tratta dall’omonima opera di Schulberg e dalla sceneggiatura del celebre film di Elias Kazan (interpretato da Marlon Brando), curata da Enrico Ianniello, traduttore e autore dell’adattamento.

Rispetto alla versione originale ambientata nell’inferno della malavita portuale degli Stati Uniti degli anni ‘50, la vicenda è trasposta nella Napoli degli anni ’80 o meglio nel porto di Napoli, centro di interessi diversi, legali e illegali tra caporalato, soprusi e gestione violenta del mercato del lavoro, dove il sistema malavitoso sfrutta gli operai, gestendo il lavoro e condannandoli ad uno schiacciante silenzio.

Nessuno osa ribellarsi, nessuno osa denunciare per non pagare di persona: meglio vivi che eroi. Sono questi i pensieri di un padre (Bruno Tràmice) di fronte al cadavere del figlio, fatto precipitare dal tetto perché avrebbe denunciato i camorristi. E’ parte in causa di questo omicidio, suo malgrado, Francesco Gargiulo (un veramente bravo Daniele Russo), combattuto tra la fedeltà al fratello, braccio destro del boss (Edoardo Sorgente) e l’amore per la sorella della vittima (Francesca De Nicolais).

Sin da subito si delinea la divisione tra i personaggi sulla scena: da un lato le vittime del sistema ovvero la famiglia e gli amici di Giuseppe, sottomessi al sistema ma non tutti rassegnati, come Don Bartolomeo (Orlando Cinque) parroco del quartiere e dall’altro lato i cattivi ovvero Giggino Compare e i suoi scagnozzi. Gargiulo è in mezzo tra le continue richieste di favori richiesti dal fratello, fatti di pestaggi e appostamenti e il crescente amore per Francesca a cui vorrebbe raccontare la verità sulla morte del fratello, in cui è stato lui stesso coinvolto. Dovrà alla scegliere il percorso più difficile e doloroso. La dignità alla fine finirà per prevalere unitamente al desiderio di giustizia, legalità e libertà. Fronte del Porto diventa così la voce del riscatto di una comunità che ricerca l’onestà e la verità ma anche di una Napoli degradata che sa risollevarsi proprio con gli umili, guidati anche dalla voce di un Vangelo che predica il coraggio e rivendica la coscienza della propria dignità per sé e per gli altri.

Lo spettacolo è decisamente interessante, recitato in uno slang napoletano misurato ed efficace che cattura l’attenzione del pubblico sin da subito grazie al profondo lavoro realizzato da Enrico Ianniello. Alessandro Gassman ha composto la regia usando in maniera intelligente luci, ombre,  musiche ed un impianto scenografico veramente di grande effetto, ma soprattutto lavorando sulla caratterizzazione dei personaggi e del quadro di insieme (molto bravi tutti gli attori) regalandoci un affresco della vita del porto malinconico e doloroso, ma al contempo pulsante di vita e di speranza. Applausi meritati.

data di pubblicazione:10/12/2019


Il nostro voto:

QUALCOSA DI MERAVIGLIOSO di Pierre-François Martin-Laval, 2019

QUALCOSA DI MERAVIGLIOSO di Pierre-François Martin-Laval, 2019

Fahim Mohammad ha appena otto anni ed un vero talento per gli scacchi. Suo padre Nura, con il pretesto di fargli frequentare un corso professionale con un grande maestro, lo convince a lasciare il Bangladesh, e con esso sua mamma, sua sorella ed un fratellino in arrivo, per andare in Francia.

Nura, preso dall’urgenza di porre le basi per mettere in salvo la propria famiglia dalle violenze che agitano il suo paese, una volta giunto a Parigi dovrà misurarsi con tutta una serie di problemi che non aveva considerato o, forse, non poteva considerare appieno. Le difficoltà nell’apprendere una lingua straniera, la condizione di emarginazione nell’essere un migrante, l’adattamento agli usi di un paese diverso dal suo, fanno sì che la sua favola comincia immediatamente ad assumere connotazioni drammatiche, esasperate dalla necessità di trovare un lavoro per non rischiare l’espulsione; ciò che sembrava l’inizio di un sogno, ben presto diviene una dura prova di sopravvivenza, a cui si aggiunge il peso della complessità del sistema burocratico francese che fa sembrare tutto maledettamente irraggiungibile. Ma suo figlio Fahim è un bambino sveglio: apprende velocemente e con estrema naturalezza qualche parola di francese e comincia, anche se in maniera fortuita, a frequentare il corso di scacchi di Sylvain Charpentier, uomo burbero ed ex giocatore fallito, che tuttavia è uno dei migliori allenatori della disciplina di tutta la Francia. Sarà in questo club apparentemente “sfigato” che Fahim imparerà a difendersi grazie all’amicizia ed al cameratismo dei compagni di classe, senza mai perdere il suo irresistibile candore.

Arriva nelle sale italiane il gioiello di Pierre-François Martin-Laval, dal titolo per nulla allettante, che sorprende per l’equilibrio con cui il regista, senza mai scivolare nel pathos, tratta temi di scottante attualità come l’immigrazione, il coraggio dei migranti ed il loro sacrificio, il difficile adattamento in una terra straniera e l’accoglienza che viene riservata loro. Il regista è riuscito a creare una pellicola asciutta e bilanciata intrisa di leggerezza, ironia e amore, in cui lo spirito di gruppo di un manipolo di adolescenti, competitivi in modo sano tra loro, vince su tutto lasciando posto alla speranza.

Una nota di merito va al grande Gèrard Deparrdieu che con il suo fisico “dilatato” riesce a dare al personaggio di Sylvain Charpentier la leggerezza di una farfalla che ci incanta e cattura.

Ispirato alla storia vera di Fahim Mohammad, di origini bengalesi, che nel 2012 a soli 12 anni divenne campione di scacchi in Francia per la sua categoria, Qualcosa di meraviglioso ha il gusto delle belle storie che ti mettono in pace con il mondo.

Se ne consiglia la visione.

data di pubblicazione:10/12/2019


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SEI  Compagnia Scimone Sframeli

SEI Compagnia Scimone Sframeli

(Teatro Vascello – Roma, 3/8dicembre 2019)

In scena al teatro Vascello di Roma del 3 al all’8 dicembre 2019 Sei, adattamento che la Compagnia siciliana Scimone Sframeli ha realizzato dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello. Scimone e Sframeli sono artisti molto amati e pluripremiati in Italia così come all’estero.

 

 

Per la prima volta si misurano con Pirandello e con i Sei personaggi in una versione che dopo una lunga tournée, arriva finalmente a Roma. Una versione più essenziale, in cui il testo è sfrondato e semplificato,  in cui si è ridotto il numero dei personaggi, con l’eliminazione o l’aggiunta di scene e dialoghi, sostituzione di  qualche termine linguistico, ma senza stravolgere la struttura drammaturgica dell’opera originale. La commedia pirandelliana si apre maggiormente verso i rapporti concreti tra le persone. E i due attori registi prendono in mano i poli opposti della vicenda con Spiro Scimone da un lato ad interpretare il capocomico della compagnia in prova mentre Francesco Sframeli, che firma la regia, è un misuratissimo ‘padre’, ovvero il motore colpevole del dramma. Con loro in scena un folto gruppo di bravi e giovani interpreti.

Siamo in un teatro e gli attori di una Compagnia stanno per iniziare la prova di uno spettacolo che, forse, non debutterà mai. Improvvisamente un corto circuito lascia tutti al buio; il tecnico che dovrebbe riaccendere la luce non si trova e la luce arriverà solo con l’apparizione, in carne ed ossa, dei Sei Personaggi rifiutati e abbandonati dall’autore che li ha creati.

I personaggi sono li dietro tra i palchi del teatro dove la compagnia di attori sta provando e dagli stessi scendono in palcoscenico per presentarsi. Il loro desiderio è quello di essere rappresentati, per quello che sono con la loro storia terribile ovvero quella del Padre che nel retrobottega di Madama Pace incontra una bella ragazza che gli si vende, riconoscendosi entrambi con terrore lui e lei – il Padre e la Figliastra non potendo loro stessi neppure riuscire a rappresentare come protagonisti di un dramma che definiscono orrore. I componenti della compagnia, sconvolti da questa improvvisa apparizione, pensano che i “Sei” siano solo degli intrusi o dei pazzi e fanno di tutto per cacciarli via dal teatro. Ma, quando il Padre, inizia il racconto del “dramma doloroso” che continua a provocare sofferenze, tensioni e conflitti familiari, l’attenzione e l’interesse da parte degli attori e del Capocomico, verso i personaggi, cresce sempre di più e l’idea di farli vivere sulla scena diventa sempre più concreta e necessaria.

È una strana partita quella che oppone i due gruppi che si confrontano: gli attori sono fin troppo presi dal loro ruolo e dal proprio ego mentre i personaggi riversano in scena il proprio dramma, vissuto interiormente ma mai esternato fino in fondo, in quanto scomposto nella struttura drammatica e frammentato nella linea temporale. Una partita tra espressione artistica e vita reale tra essere umano e attore, ambedue al centro di una crisi di identità che li attanaglia, messi in crisi da una società e da un’industria culturale sempre più legata al denaro ed ai bisogni materiali.

Una versione intelligente e piacevole che riscopre questo grande autore in una chiave “umoristica”: perché la realtà è a volta assurdamente umoristica. E la piena attualità della versione proposta sta proprio nella modalità leggera e concreta con cui il dramma dell’incomunicabilità e del conflitto tra l’aspirazione a comunicare dei personaggi e l’impossibilità degli attori di dare corpo alla storia sul palcoscenico, viene comunicato e trasmesso.

data di pubblicazione:09/12/2019


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L’INGANNO PERFETTO di Bill Condon, 2019

L’INGANNO PERFETTO di Bill Condon, 2019

Betty McLeish e Roy Courtnay si incontrano online in una chat e, nonostante entrambi ottantenni, combinano un appuntamento galante per conoscersi. Lei è una ricca vedova che vive con un nipote, mentre lui è un abile imbroglione che organizza truffe ai danni di sprovveduti investitori. Anche Betty rientra nei piani di Roy che, da astuto corteggiatore, riesce ad entrare in intimità con la donna per impossessarsi del suo cospicuo patrimonio. Ma Betty si rivelerà più furba di Roy…

  

 

Bill Condon, affermato regista e sceneggiatore statunitense già premio Oscar per Demoni e dei, ne L’inganno perfetto si avvale della sceneggiatura di Jeffrey Hatcher che ha tratto il soggetto dall’omonimo romanzo di Nicholas Searle. Il ruolo dei protagonisti è affidato a due grandi: Helen Mirren (Oscar per The Queen e prossima all’assegnazione dell’Orso d’Oro alla carriera in febbraio) e Ian McKellen, famosi interpreti del cinema anglosassone ma soprattutto veterani del teatro shakespeariano.

L’inganno perfetto è una pellicola che sfugge a ogni classificazione perché è un mix di dramma, thriller, noir psicologico con un tocco splatter, in cui tutta una serie di intrighi e abili sotterfugi coinvolgono facendo restare con il fiato sospeso sino all’ultimo fotogramma, così come ci aveva abituati il grande Alfred Hitchcock. Nel plot sono inseriti ampi flashback che rimandano ad un passato oscuro e sicuramente cupo della storia tedesca, in deciso contrasto con la trama ambientata ai giorni nostri; un rimando tuttavia che, oltre a svelare la vera identità del protagonista Roy Courtnay, a volte sembra eccessivo e poco funzionale al mantenimento della suspance, con un finale che sembrerebbe affrettato, seppur sorprendente, come se il regista avesse voluto arrivare a concludere entro tempi canonici prima di cadere in qualcosa di assolutamente prevedibile.

Il film comunque regge, sicuramente grazie all’abilità dei due protagonisti in un recitato che rasenta la perfezione, in cui anche la semplice espressione dei volti spesso ripresi in primo piano esprime lo stato d’animo e il pensiero che sta dietro ad ogni azione. Condon ha quindi puntato su due cavalli vincenti ottenendo un risultato interessante, per un film che mantiene comunque un ritmo dinamico e che tutto sommato riesce a catturare la curiosità del pubblico.

data di pubblicazione:08/12/2019


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NON FARMI PERDERE TEMPO scritto e diretto da Massimo Andrei, con Lunetta Savino

NON FARMI PERDERE TEMPO scritto e diretto da Massimo Andrei, con Lunetta Savino

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 28 novembre/8 dicembre 2019)

Una donna malata invecchiata precocemente si spegne nell’arco dei 70’ di spettacolo. Ma la sua vera malattia forse è la solitudine. Monologo arricchito condito con la grande empatia di Lunetta Savino.

 

C’è un solo personaggio che si relazione (fintamente) con tanti interlocutori immaginati, disegnati scenicamente con grande maestria dall’interprete. C’è la colf, l’amica fidata, il giovane che gioca sul pianerottolo, la nipote interessato, il fidanzato fittizio. La protagonista ha 27 anni ma ne dimostra 60 per gli esiti di una rara malattia che determina il suo invecchiamento precoce. Ma non si rassegna. Lotta e vive insieme con il pubblico, consolandosi con il canto, pubblico anche, in un bar e con l’aspirazione al primo rapporto carnale con un teorico fidanzato a cui manda innumerevoli regali ma che (guarda un po’!) non risponde mai ai suoi inviti. Esibizione di pregio di un’attrice che ha fatto passi da gigante nel curriculum e si dimostra pienamente all’altezza per una prova di rara difficoltà. Teatro pieno e applausi scroscianti. E forse fa parte dell’esibizione anche la rutilante uscita di scena del novello Scaramacai tornato essere umano e non personaggio quando si libera di una parrucca attrezzo di scena. Per una volta la scena non è nuda come spesso avviene quando l’attore monologa. La porta è il deterrente delle uscite in cerca di normalità della donna sfiorita innaturalmente presto. Esibizione piena di gesti comuni e di vita quotidiana, con ripetizioni che sfiorano il sublime nella normalità/anormale di un’esistenza presto destinata a spegnersi di fronte ai crudeli ed enigmatici annunci del medico e alla prospettiva della chemioterapia. La fine è nota e non se ne uscirà senza dolore. Tina fa i conti con un destino che le presenta il conto e contro cui non si ribella più.

data di pubblicazione:08/12/2019


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CENA CON DELITTO di Rian Johnson, 2019

CENA CON DELITTO di Rian Johnson, 2019

Un celebre autore di romanzi gialli (Christopher Plummer) la sera del suo 85° compleanno viene ritrovato morto nel suo maniero goticheggiante. Omicidio?Suicidio? Tutti i familiari, disfunzionali, ipocriti ed interessati hanno motivi per essere sospettati, la polizia ed un detective privato (Daniel Craig) cercano di risolvere i vari enigmi, fra false piste e menzogne ….

Rian Johnson è un regista e sceneggiatore statunitense non molto prolifico ma di buona qualità ed originalità di stile (Brick 2005; Looper 2012) che ha raggiunto la grande notorietà internazionale con l’ottavo film della saga di Guerre Stellari: Gli Ultimi Jedi 2017, film che ha però scatenato contro di lui le polemiche e le accuse di aver totalmente travisato l’universo e lo spirito degli eroi inventati da Georges Lucas. Tanto che il regista ha dovuto poi rinunciare alla direzione del prosieguo della “Trilogia Sequel”, il cui nuovo episodio vedremo sui nostri schermi proprio il prossimo18 Dicembre, nuovamente con la regia di J.J.Abrams, richiamato a furor di popolo.

Con il film di oggi Rian Johnson ritorna dunque nella nostra Galassia e rimette i piedi sulla Terra ed in cerca di una riabilitazione, gioca con i codici dei classici gialli deduttivi ed ad indizi e ci regala una sorta di Cluedo gigante: un’inchiesta divertente e maliziosa dai molteplici colpi di scena. Una più che discreta piccola, sofisticata commedia poliziesca, ricca di humour ed astuzie che rianima il genere dei film ad enigmi, alla Agatha Christie, ne modifica i codici e li modernizza con un tocco di suspense alla Hitchcock nella seconda parte del film.

Sulla carta non ha nulla di originale, sembra anzi nelle situazioni, location ed arredi, riproporre gli infiniti film di genere che lo hanno preceduto: Assassinio sul Nilo, Assassinio sull’Orient Expres, Delitto sotto il sole o Mistero a Croocked House … eppure il film si stacca da tutti perché ben presto il racconto prende un ritmo narrativo diverso dalle regole classiche: la Verità non viene dissimulata allo spettatore, e, quando i personaggi mentono alle domande dell’investigatore, una serie di flashback o di trovate geniali ci mostrano la Vera Verità. Così facendo il regista aggira tutti i codici classici e controbilancia gli enigmi ed intrighi con un’ottica inusuale, rinnova i meccanismi della suspense, arricchisce l’intreccio garantendo così un risultato tanto sorprendente quanto comunque soddisfacente per la logica dello spettatore. La qualità del film è tutta nel brio con cui Rian Johnson affronta i meccanismi tipici del genere e come cattura il pubblico. La sua abilità di direzione è palesemente coadiuvata e sostenuta da una buona sceneggiatura che sa giocare con gli archetipi, i dialoghi poi sono pungenti e ben calibrati, il ritmo è sostenuto con le giuste interruzioni ironiche, il montaggio è ottimo e da una iniziale teatralità si passa, cambiando registro, ad un tono da thriller del tutto inatteso ma molto gradito.

Un particolare contributo al buon risultato viene anche dal cast formato da attori ed attrici tutti di qualità e precisi nei loro ruoli e che sembrano divertirsi a caratterizzare i loro personaggi dando vita e veridicità a ciascuno di essi. Oltre al grande Christopher Plummer ed all’autoironico Daniel Craig, brilla in particolare la giovane Ana de Armas per capacità recitativa ed interpretativa.

Ovviamente ci sono anche dei difetti: qualche lentezza, qualche lungaggine di troppo, ma son piccole cose, nel complesso solo peccati veniali.

Cena con delitto è quindi un piccolo, elegante divertimento che piacerà agli appassionati del genere e farà passare un paio d’ore accettabili agli altri spettatori e … forse potrà essere un riferimento per futuri film del genere.

data di pubblicazione:07/12/2019


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