LA ROTTAMAZIONE DI UN ITALIANO PERBENE di e con Carlo Buccirosso

LA ROTTAMAZIONE DI UN ITALIANO PERBENE di e con Carlo Buccirosso

TEATRO SALA UMBERTO – Roma, 26 dicembre 2019/19 gennaio 2020)

Equitalia all’attacco di Alberto Pisapìa, ristoratore sull’orlo del fallimento, in totale crisi. Malato in preda ad esaurimento nervoso, in rotta col cognato avvocato e la spietata suocera, insicuro persino della fedeltà della moglie…!Solo un miracolo potrebbe salvarlo.

Questa volta il bravo Buccirosso ha fatto tutto da solo. Si è scritto un testo, tratto dal suo, Il Miracolo di Don Ciccillo, se lo è diretto riservandosi il ruolo di protagonista per la sua ultima fatica in scena dal 27 dicembre alla Sala Umberto di Roma, affollata per la sua prima.

Il risultato non può che essere una commedia paradossale e grottesca costruita sulle indubbie doti comiche ma, nell’occasione, anche drammatiche, dell’attore partenopeo. A metà strada tra una recitazione che cita i grandi della tradizione napoletana e il più recente Woody Allen, Alberto è un personaggio ambiguo che incuriosisce e cattura per le molte sfumature e i tanti riferimenti all’attualità. In sott’ordine sono le“maledette tasse” con le sue “inique” cartelle le vere protagoniste della piece, incarnate nelle vesti della suocera e del “postino”(nanetto) latore delle cartelle che tolgono sonno e salute al titolare del “Picchio Rosso”.Come si potranno risolvere i problemi economico-esistenziali del Pisapia non è politicamente corretto rivelare, di certo l’uomo (come forse molti italiani) non trova la forza di patteggiare con lo Stato il dovuto e quindi temporeggia in una asfissiante lotta contro cavilli e burocrazia. Nellafattispecie, l’odiata suocera, piccola funzionaria di Equitalia ne diviene il capro espiatorio e la causa principale delle sventure del ristoratore che più volte cercherà di sopprimerla dando luogo ad alcune delle scene più divertenti e grottesche dell’intera commedia.Inutile negare che buona parte del pubblico “tifa” con Alberto e giustifica le sue reazioni esasperate. Si ride? Si spesso, ma un sottofondo amaro impernia tutto il lavoro che ha l’indiscusso merito di essere una rappresentazione corale grazie al molto spazio lasciato da Buccirosso agli altri comprimari, tutti abilmente calati nei rispettivi ruoli. Così, oltre alla solita apprezzabile performance di Carlo Buccirosso si ha l’occasione di apprezzare anche il gruppo di attori messi in scena. Sono attori ben amalgamati da segnalare all’unisono: Donatella De Felice (la moglie), che si fa apprezzare anche per le doti canore, Elvira Zingone (la figlia anarchica ma fedele), Giordano Bassetti (il figlio Matteo), Gennaro Silvestro (il cognato) e ancora Tilde de Spirito, Fiorella Zullo e Beppe Miale, tutti, ripeto, bravi e affiatati con una citazione ulteriore per Davide Marotta (l’attore più piccolo di statura ma anche il più divertente). Se vogliamo un intrattenimento divertente che, nelle attese dell’autore, induce anche a qualche riflessione più seria sull’impotenza del cittadino verso le istituzioni. Attenzione: il qualunquismo è dietro l’angolo, ma per una sera, ridiamo sulle tasse con Buccirosso e non ci pensiamo!

data di pubblicazione:01/01/2020


Il nostro voto:

A CHE SERVONO GLI UOMINI di Jaja Fiastri, regia di Lina Wertmüller

A CHE SERVONO GLI UOMINI di Jaja Fiastri, regia di Lina Wertmüller

(Teatro Quirino – Roma, 23 dicembre 2019/6 gennaio 2020)

Teo è una donna a cui piace vivere stando lontana dagli uomini. Il desiderio di diventare mamma però è un’altra cosa e per fortuna viene a soccorrerla la possibilità della fecondazione artificiale.

 

 

 

Nancy Brilli è una simpatica Teodolinda, per gli amici Teo. Vive sola e senza alcun tipo di relazione, specialmente con gli uomini. È una pittrice di gran talento e il suo autoritratto appeso alla parete ci dice che non c’è altro centro nella sua vita che sé stessa. Gianni (Igi Meggiorin), il suo vicino di appartamento, timido e impacciato con le donne, lavora presso un laboratorio dove si pratica l’inseminazione artificiale. L’occasione fa la donna, in questo caso, ladra e approfittando di una visita in laboratorio Teo ruba la provetta numero 668 grazie alla quale riesce a rimanere incinta. Il desiderio però di conoscere l’identità del padre la spinge, attraverso un inganno, a estorcere dalla bocca dell’ingenuo Gianni il nome del donatore, che scopriremo essere Osvaldo Menicucci (Daniele Antonini), un tronfio, baldanzoso e donnaiolo ragazzotto romano, che vive ancora con la madre siciliana Carmela (Fioretta Mari). L’interesse di Teo per Osvaldo non è affatto finalizzato alla conquista sentimentale, bensì a un’analisi attenta per accertarsi del buono stato di salute dell’uomo e prefigurarsi come potrà essere caratterialmente il bambino, o la bambina, che nascerà. Tuttavia, le sue certezze – anche se per poco – verranno seriamente minacciate. Le scene comiche si moltiplicano e l’intreccio si complica, ma alla fine – colpo di scena – tutto prenderà una piega inaspettata: ogni attore che ha preso parte nella storia sarà chiamato, come in una grande famiglia allargata, a prendersi cura della crescita libera e sana del bambino.

Per chi ha avuto modo di conoscere la versione degli anni ‘80, dal vivo o grazie a una registrazione, con Ombretta Colli nei panni della protagonista, noterà che il nuovo adattamento ha delle differenze rispetto all’originale, soprattutto nelle musiche, nell’assenza di alcune scene, e nell’aggiunta del personaggio di Markus, con la kappa (Nicola D’Ortona), alter ego maschile di Samantha, con l’acca (Giulia Gallone), modelli entrambi per le storie a fumetto di Teo. La commedia musicale, giudicata assai moderna già trent’anni fa quando usciva la prima volta, dimostra di non aver perso spessore e interesse. Merito certamente della grande regista Lina Wertmüller, premio Oscar alla carriera, che di relazioni tra uomini e donne e di temi sociali è maestra. Se a renderla attuale sono di sicuro i dispositivi elettronici usati dai personaggi per comunicare tra loro (telefonini e account social) o per lavorare (Gianni usa un octapad per comporre la sua musica) non di meno svolgono questa funzione alcuni accenni a tematiche attuali di interesse sociale. Uno fra tutti la denuncia dell’assenza in Italia di una legge per fecondazione assistita a favore delle coppie omosessuali, che la regista risolve senza troppe parole, nel fugace attimo di una battuta. Ma a rendere attuale la pièce è senz’altro una caratteristica insita proprio nella stessa: l’assenza di moralismo. Nelle battute, così come nei personaggi, non è mai espresso un giudizio o peggio ancora un pregiudizio sulle cose o sulle scelte: tutto è trattato con estrema leggerezza e rispetto e risolto con grande e raffinata ironia. Ecco perché è una commedia da riconsiderare e senza alcun dubbio andare a vedere.

data di pubblicazione:27/12/2019


Il nostro voto:

IL MISTERO DI HENRI PICK di Rémi  Bezançon, 2019

IL MISTERO DI HENRI PICK di Rémi Bezançon, 2019

Possibile che un romanzo bello e di successo il cui manoscritto è stato casualmente scoperto in una piccola libreria di un villaggio della costa bretone, in una stanza dedicata alle opere rifiutate da qualsiasi casa editrice, sia stato veramente scritto da uno sconosciuto pizzaiolo, privo di virtù letterarie, morto solo due anni prima?Un mistero da risolvere in una serrata caccia ai vari indizi …

I libri segnano le nostre vite, aprono e trasformano il nostro sguardo, e … a ciascuno il suo: … capolavori internazionali, saggistica oppure romanzi da stazione ferroviaria.

Bezançon rende omaggio agli innamorati dei libri e della lettura e celebra il potere della parola. Il regista infatti, traendo spunto dal romanzo omonimo dell’altrettanto affermato scrittore e regista David Foenkinos, rivolge, con questa sua opera, uno sguardo pieno di humour sul mondo della letteratura, offrendoci tramite il comportamento e le ricerche del protagonista, un critico letterario che dubita dell’attribuzione del libro, l’occasione per graffiare il mondo letterario che benché pretenda di essere trasparente in realtà non sfugge affatto alle regole del marketing e della nascita indotta dei successi, ed alle molteplici sfaccettature che può anche assumere il concetto di Verità.

Giocando intelligentemente con i codici classici del genere poliziesco, pur rispettandoli tutti, il regista ci coinvolge in un intrigo senza cadaveri né poliziotti, in un’inchiesta il cui obiettivo finale non è di sapere chi ha ucciso, ma chi ha veramente scritto, divertendosi nel contempo, nello spirito dei migliori gialli, a seminare il percorso di diverse ipotesi senza mai però perdercisi dentro o annoiando. Un mistero che è nel titolo, che è nel cuore della finzione e che intriga lo spettatore con humour.

Una storia fuori del comune ed originale in una commedia poliziesca accattivante e frizzante, una messa in scena sobria ed accurata, una sceneggiatura perfetta che rende credibili tutte le false piste e situazioni, una ironia sottile puntellata da dialoghi accurati e finemente cesellati, un ritmo vivace nonché una suspense tenuta alta abilmente fino alla fine ed anche oltre il finale ed il post finale.

E poi… chi? Chi meglio di Fabrice Luchini, un misto di se stesso, di Sherlock Holmes e di Maigret poteva incarnare il critico letterario, verboso, autoreferenziale, scettico, cinico ma non cattivo e che in fondo non ha rinunciato, autoironicamente, a ritrovare anche un contatto umano. L’attore è al suo meglio, perfetto in un ruolo che gli va palesemente come un guanto. Lo affianca Camille Cottin nei panni della figlia del presunto scrittore, incerta fra il dubbio e la volontà di stabilire che suo padre sia stato effettivamente l’autore, che rende gradevole con consapevolezza e spontaneità artistica l’alchimia fra i due attori entrambi a loro agio nei toni della commedia. Ottimi poi e ben disegnati ed interpretati anche i secondi ruoli la cui importanza, come si sa, nelle commedie non è certo minore di quella dei protagonisti.

Il Mistero di Henri Pick, è veramente un bel momento di cinema, diretto con mano lieve e ben interpretato, un gioiellino di commedia poliziesca ed umana accattivante, intelligente e frizzante che riesce a tenere lo spettatore in sospeso come un buon libro che si divora durante le vacanze e che ci regala nel finale anche una piccola domanda o piccola morale: Si può permettere alla Verità di frapporsi ad una possibile bella storia?

data di pubblicazione:25/12/2019


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4.48 PSYCHOSIS di Sarah Kane, regia di Enrico Frattaroli

4.48 PSYCHOSIS di Sarah Kane, regia di Enrico Frattaroli

(Teatro Belli – Roma, 20/21 dicembre 2019)

Spettacolo di chiusura della rassegna TREND 2019 – nuove frontiere della scena britannica – La psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, con Mariateresa Pascale. Una sinfonia concertata per voce sola, sulle note dell’ultimo Mahler e P. J. Harvey.

 

Qual è l’essenza ultima del teatro? Cosa si cela dietro il gesto della creazione artistica? Fino a dove può spingersi un autore? Cos’è lo spazio scenico? Queste e tante altre domande nascono guardando questo spettacolo, reso con una regia e un’interpretazione che spingono al ragionamento e al ricordo del senso del sacro nel teatro, così come può essere stato pensato in origine dai greci. Sarah Kane consegna nelle mani della sua agente letteraria il testo, 4.48 Psychosis, poco prima di morire. A un anno di distanza dal suicidio, avvenuto il 20 febbraio del 1999, viene rappresentato la prima volta. TREND ce lo propone come spettacolo di chiusura della ricca e interessante rassegna di quest’anno. È un testamento, certo, ma anche un inno alla bellezza e alla sacralità del gesto artistico, che coinvolge tutti: autore, attore, regista fino allo spettatore seduto in sala. È un’immersione nell’universo della creazione, che prende forma soprattutto dall’intensità e dall’assurdità del dolore, in questo caso dalla depressione dell’autrice. Consegnando lo scritto alla sua agente Sarah Kane afferma infatti “scriverlo mi ha uccisa.”

La violenza incredibile, sorda che esplode sul palco comporta rispetto e ammirazione. Lo spazio scenico appare per questo inviolabile e inaccessibile. È comprensibile quindi che i dialoghi con lo psichiatra si svolgano a distanza, con Enrico Frattaroli nei panni dello stesso che recita dalla balconata del teatro. Nessuno tranne lei – la voce solitaria della poesia – può salire sulle tavole del palcoscenico, nemmeno l’attrice che a fine recita prende gli applausi dalla platea anziché dal proscenio. Si sta come in contemplazione del sublime dell’angoscia della mente, come davanti alla visione di un insetto che si dimena morente incollato a una trappola di gelatina appiccicosa. L’esecuzione di Mariateresa Pascale – che preferisce un registro da contralto – non tradisce emozioni o inutili sentimentalismi perché è così che parla una mente malata, inserendosi a perfezione nel triangolo espressivo di voce, immagini e musica che la regia orchestra.

Termina così la XVIII edizione di TREND, che ha saputo proporre quest’anno testi di grande spessore, innovazione e interesse. Felici di aver partecipato insieme a un pubblico attento e variegato – soprattutto per l’età – ci diamo appuntamento al prossimo anno.

data di pubblicazione:23/12/2019


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LA DEA FORTUNA di Ferzan Özpetek, 2019

LA DEA FORTUNA di Ferzan Özpetek, 2019

Alessandro (Edoardo Leo) e Arturo (Stefano Accorsi) sono una coppia da quindici anni, in crisi da un po’ ma senza avere il coraggio di voltare pagina. Finché un giorno, sulla loro bellissima terrazza durante il rinfresco per il matrimonio di amici comuni, arriva Annamaria (Jasmine Trinca), colei che li ha fatti conoscere, amica storica di Alessandro e madre single di due bambini. La donna deve fare degli accertamenti medici e vuole che siano i suoi due amici a prendersi cura dei suoi figli durante il ricovero in ospedale.

 

I bambini rompono quell’apparente equilibrio, e per Alessandro ed Arturo inizia inconsapevolmente un viaggio nei propri sentimenti che sino ad allora non erano stati capaci di fare, ma anche nel proprio modo di amare e su come il tempo abbia operato delle trasformazioni dentro di loro senza che se ne fossero resi conto. Il destino da quel momento in poi farà la sua parte.

Dopo una parabola discendente, sembra arrivato anche per Özpetek il momento della rinascita con un film che segna la sua maturità artistica. Il regista turco fa i conti con il tempo che passa, e lo fa attraverso una pellicola intimista, pacata, a tinte tenui, ma con quello stile noto al suo pubblico seppur privato degli eccessi del passato. La dea fortuna, al pari delle pellicole che l’hanno preceduta (fatta eccezione per i non memorabili Rosso Istanbul e Napoli velata), ha infatti quel marchio di fabbrica che la rende un’opera assolutamente riconoscibile, avvolgente e rassicurante, politicamente corretta, in cui ogni tassello apparentemente scomposto si ricompone su un finale che sa di buono e ci fa sperare.

Durante la proiezione ci assale la rassicurante sensazione di trovarci in situazioni già viste, come se il regista non fosse riuscito neanche questa volta a pigiare un po’ il piede sull’acceleratore ma abbia voluto continuare a muoversi in un’area di comfort che ha caratterizzato quasi l’intera sua filmografia: complice di tutto questo anche un battage pubblicitario iniziato almeno un mese prima che il film uscisse nelle sale, che in parte ha probabilmente rovinato l’effetto sorpresa che ogni storia dovrebbe avere. Ritroviamo quel mondo fatto di famiglie allargate, di case molto curate, di bella gente e di bambini particolarmente intelligenti, di amici saggi che dicono sempre la cosa giusta con frasi che poi rimangono nell’immaginario collettivo, in cui anche le malattie e la morte, seppur facciano parte della vita, ci sembrano in quei contesti più “sopportabili”.

Detto questo, non si può negare che La dea fortuna sia un buon prodotto nazionale confezionato alla perfezione, fatto di inquadrature da cui traspare tutta la sensibilità di Özpetek ed il suo personalissimo modo di osservare il mondo, con attori bravi, anzi bravissimi, tra cui emerge in maniera sorprendente Edoardo Leo supportato dai sempre convincenti Stefano Accorsi e Jasmine Trinca, con dialoghi che in più circostanze arrivano al cuore e che ci fanno spendere qualche calda lacrima, il tutto avvolto dalla voce di Mina che irrompe nel momento giusto e ci fa venire i brividi.

Un film senz’altro da vedere, a cui forse manca quel pizzico di originalità in più che ci saremmo aspettati di trovare e che lo avrebbe reso unico nel suo genere.

data di pubblicazione:21/12/2019


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IL MEDITERRANEO IN BARCA di Georges Simenon – Piccola Biblioteca Adelphi, 2019

IL MEDITERRANEO IN BARCA di Georges Simenon – Piccola Biblioteca Adelphi, 2019

Le scapigliate avventure in barca di uno dei più prolifici autori del mondo, banalmente definito di genere. Simenon è come un calciatore esperto che sa giocare sulla fascia, al centro e persino in difesa. Come in questa operina minore (in letteratura non si butta niente) rieditata da un editore importante e prestigioso e dunque abilitata a una sicura e importante vendita. Qui lo scrittore di gialli vira nel giornalista corrispondente che si aggira nel Mare Nostrum Mediterraneo, tra Europa e Africa, cavando succhi basilari dalla vita di mare e da alcune esperienze molto ruspanti. Il deterrente sessuale è sempre molto vivo nelle sue fantasie senza particolari connotazioni di genere. Si carpiscono molte informazioni sul suo carattere e sulle sue abitudini, sulla sua passione per il mare e per le sue idiosincrasie. Giornalista parziale e dunque non fedelissimo della realtà, restituita attraverso gli occhi sensibili dello scrittore e quindi con un’accezione particolare. Non altissima letteratura ma fogli di giornale deperibili, peregrinazioni che possano apparire senza capo ne coda. Più che notizie giornalistiche, divagazioni, piccole fughe narrative con altrettanti microscopici episodi descritti con avidità di particolari. Il libro si arricchisce delle foto, un accostamento e in fondo una passione coltivata dallo scrittore francese per diversi decenni. C’è amore e odio per il Mediterraneo descritto come una serie ininterrotta di golfi. Un mare oggi improvvisamente poco pescoso e che costringe i pescatori nostrani a pericolosi sconfinamenti. Trapela un’ironia distante, un po’ radical chic. L’aristocratico mantiene sempre le distanze dal volgo. Gli scritti sulla goletta rivelano curiosità e stupore nei vari passaggi dalla Tunisia all’Italia e a Malta, sempre con l’occhio attento alle onde ma anche ai personaggi che popolano quel mare e che gli conferiscono un’identità precisa. Pezzi di apprendistato rivalutati dopo che la scoperta e la fama di Maigret hanno compiuto un’importante traversata nella letteratura mondiale.

data di pubblicazione:20/12/2019

4.48 PSYCHOSIS di Sarah Kane, regia di Enrico Frattaroli

DIARY OF A MADMAN di Al Smith, regia di Stefano Patti

(Teatro Belli – Roma, 17/18 dicembre 2019)

Da quando una grossa multinazionale ha acquistato il Forth Bridge, Pop Sheeran è andato in crisi. La questione del referendum dell’indipendenza della Scozia dal Regno Unito coniugata sul racconto di Gogol Le memorie di un pazzo.

 

Appeso al ponte ferroviario di Forth Bridge, nel sud del Queensferry in Scozia, c’è sempre stato uno Sheeran. I maschi della famiglia si occupano della manutenzione della struttura da generazioni, quindi Pop passa tutto l’anno a ridare la vernice al ponte. Arriva però il momento in cui la tradizione deve cedere il passo all’invenzione e alla tecnologia, così Pop è costretto a far posto sul ponteggio a Matt White, uno studente che studia ingegneria a Edimburgo, originario della (nemica) Inghilterra, che gli propone di usare una vernice innovativa destinata a durare più a lungo. Per di più il ragazzo viene ospitato in casa Sheeran su proposta della moglie Mavra e, come se non bastasse, vive una relazione con la diciassettenne figlia della coppia, Sophie, conosciuta per caso al bar dell’università. Un bell’intreccio, non c’è che dire! Nel dramma del cambiamento Pop Sheeran appare come una vite che gira a vuoto e non riesce più a tenere insieme le parti: da un lato il dovere di mantenere il suo lavoro nella ditta di famiglia, dall’altro l’orgoglio identitario e nazionale di scozzese che sente di difendere. Siamo a un passo dal referendum per l’indipendenza, che vedrà come esito un debole risultato del 55 per cento a favore del no: la Scozia continuerà a far parte del Regno Unito. La vicenda rappresenta tutta la confusione e il disorientamento di questo momento dove Pop è l’eroe sconfitto: inutile lo sforzo di proporsi e vestirsi come il nuovo William Wallace di Braveheart, di cui Mel, l’amica del cuore di Sophie, ne confeziona il costume. La strada che prende lo porterà solo alla pazzia, espressa con scespiriano lirismo, di cui è sintomo l’apparizione di Grayfriars Bobby (il cane simbolo della capitale scozzese che passò parte della sua vita fino alla morte a guardia della tomba del padrone defunto) che lo incita a combattere per la buona causa della separazione. Gli elementi narrativi sono tanti e rendono complesso il racconto, ma la regia e l’ottima interpretazione di Marco Quaglia (Pop Sheeran) sbrogliano con eleganza e fluidità la difficile matassa delle situazioni. Di grande aiuto la scenografia essenziale e l’espediente di proiettare sul fondale – come i cartelli del teatro epico – il nome dei luoghi dove si svolge l’azione. Un testo un po’ fuori dalla nostra comprensione forse – le vicende politiche oltremanica ci emozionano in parte – ma tuttavia una buona prova di recitazione per i giovani attori della compagnia.

data di pubblicazione:20/12/2019


Il nostro voto:

UNA VITA AL CINQUANTA PER CENTO di Daniele Poto- Ensemble editore, 2019

UNA VITA AL CINQUANTA PER CENTO di Daniele Poto- Ensemble editore, 2019

La protagonista del libro, un romanzo memoir, ha avuto la propria condanna a morte con la diagnosi del 2000. Per deriva genetica ha contratto il morbo di Huntington. La sua vita è un lento rintocco in attesa che il male si manifesti con gli stessi segnali di malattie di quel genere come il Parkinson o l’Alzheimer. La riflessione sulla vita e sul sottile equilibrio che ci separa dal futuro è il delicato crinale in cui si sviluppano emozioni, percezioni, confessioni della protagonista che ha una famiglia devastata dall’ Huntington. Un fratello morto e un altro che lotta contro il male sono l’eredità di un flagello che lascia 50 probabilità per cento di positività e 50 di negatività. Di qui il necessario riferimento al titolo. Una sorta di scommessa di Pascal, di beffardo pari e dispari. Di più, ulteriore problema, la protagonista ha un figlio di venti anni che ignora questa condizione di famiglia. Non sa delle madre e non sa neanche di stesso. La madre è decisa alla rivelazione ma si angoscia nel pensare a come reagirà il ragazzo e alla conseguenza che potrà avere sulla sua vita, sulla decisione eventuale di sottoporsi al test per conoscere la propria sorte o meno, l’unica possibilità di scelta in questo contesto. Ma il libro ha ambizioni più vaste perché è anche una riassuntiva e giornalistica fotografia sullo stato della sanità italiana, un colosso da 115 miliardi che sembra avere i piedi d’argilla negli ultimi tempi, vista l’inamovibilità della cifra stanziata in un momento di prolungata crisi economica e il crescente sviluppo delle malattie rare che tardivamente vengono iscritte nei Lea (Livelli essenziali di assistenza). Ci si interroga su una società che invecchia, di milioni di persone che hanno bisogno di un sostegno che non può essere limitato alla propria famiglia. Un’esigenza sociale insopprimibile e insieme dolorosa quanto necessaria a cui lo Stato per primo dovrebbe far fronte. Il testo contiene comunque messaggi di speranza. La battaglia è difficile ma va combattuta. Nessun male può essere definito in partenza incurabile. Informazione vuol dire consapevolezza e maggiori possibilità di sviluppo per la ricerca.

data di pubblicazione:19/12/2019

L’ONORE PERDUTO DI KATHARINA BLUM di Henirich Boll, adattamento di Letizia Russo, con Elena Radonicich e Peppino Mazzotta

L’ONORE PERDUTO DI KATHARINA BLUM di Henirich Boll, adattamento di Letizia Russo, con Elena Radonicich e Peppino Mazzotta

(Teatro Eliseo – Roma, 3/15 dicembre 2019)

Letteratura al cinema con qualche problema di mimesi e di rappresentazione. Duetto di attori per un’innocenza che viene contaminata dal sospetto di una insinuante cultura giornalistica del fango. Attualissimo richiamo ai nostri tempi.

 

Impresa ardua quella di trapiantare un classico del premiato autore tedesco a teatro nei limiti delle pareti esistenti e di una storia letterariamente assai dilatata. Lo scrittore aveva puntato sul dissidio tra la donna protagonista e il giornalista mentre la versione teatrale si apre a ventaglio ad altri scenari, in particolare al rapporto malcelato di affetto tra il datore di lavoro e la governante, progressivamente trascinata in uno scandalo dal quale non sembra poter uscire. C’è il poliziotto cattivo e quello buono. C’è la madre, c’è l’amica, c’è la moglie dei benestante. Il fascino di Katharina viene fuori progressivamente disvelato dal folle e irrazionale sentimento verso un presunto terrorista che alla fine si rivelerà un criminale abbastanza innocuo. Tanto rumore per nulla? No, perché ci scappa il morto. Il giornalista che deforma persino le interviste incurante di ogni possibile deontologia professionale. C’è catarsi e climax in questa esecuzione, legittima difesa dopo un tentativo di approccio sessuale. Risulta leggermente ostica la narrazione in terza persona di Katharina che serve a raccordare le storie e ad accorciare lo sviluppo della vicenda, espediente forse inevitabile. Mazzotta continua a rivelarsi ben più dotato dello stereotipo di Fazio, spalla di Zingaretti in Montalbano. Del resto aveva già rivelato il proprio talento in Anime Nere, il più fedele film sulla ‘ndrangheta della cinematografia italiana minuti. Non è uno spettacolo facile con qualche caduta di ritmo, frutto del voler dire tanto e dello sforzo immane di condensazione di un’opera letteraria che gode di un ritmo cadenzato.

data di pubblicazione:18/12/2019


Il nostro voto:

L’OPERAZIONE di Rosario Lisma, con Fabrizio lombardo, Andrea Narsi, Alessio Piazza e con Gianni Quillico

L’OPERAZIONE di Rosario Lisma, con Fabrizio lombardo, Andrea Narsi, Alessio Piazza e con Gianni Quillico

 

 (Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 12/22 dicembre 2019)

Teatro nel teatro, efficacemente. Dalle Brigate Rosse ai piccoli dissidi interni di una compagnia che punta al successo attraverso il sequestro del Grande Critico. Inutilmente..

 

Piccolo spettacolo di charme senza gli effetti speciali e la mondanità del Grande Eliseo. Con un pubblico di nicchia che scoppia a ridere nelle svolte micidiali della comicità a portata di mano. Quattro attori che diventano solisti nei momenti di maggiore climax. Sfigati? Irrealizzati più che altro, in cerca di successo. Soprattutto quello che potrebbe venire dalla visione dalla recensione di un critico radical chic che riflette tutti i peggiori difetti della categoria giornalistica. Vanesio, superficiale, bugiardo e super-impegnato. Così dopo che la piccola compagnia riesce a ritrovare un filo logico di programmazione dopo liti e chiarimenti faticosi il grande giorno sembra arrivato. Ma la delusione sarà cocente perché l’illustre ospite non arriverà. Ed allora il testo entra nel testo. Il flash back sulle Brigate Rosse diventa il sequestro del critico che legato e imbavagliato viene obbligatoriamente e coattivamente costretto ad assistere allo spettacolo. Ma si addormenterà e dunque svanirà consenso e recensione. Mesta uscita di scena e finale gramo, sconsolato che riflette un po’ metaforicamente lo stato di una categoria inappagata che fa fatica a sbarcare il lunario. Dunque la prova in cento minuti del quartetto di Lisma diventa anche una fotografia sullo stato difficile dell’arte teatrale. Delle difficile combinazione tra artigianato e sopravvivenza. Contenuta anche la caricata di un superatissimo teatro sperimentale dove primeggiava il corpo, l’occhiuto e strumentale richiamo a Pasolini. Vincerà la tesi del regista. Vincerà il naturalismo che è incontro di uomini, di storie e di contraddizioni. Dunque un sottotesto che si legge in maniera defilata rispetto ai fuochi artificiali di notevoli esplosioni di comicità.

data di pubblicazione:18/12/2019


Il nostro voto: