JOJO RABBIT di Taika Waititi, 2020

JOJO RABBIT di Taika Waititi, 2020

1944, Jojo ha dieci anni ed è convinto di essere un perfetto giovane nazista: vive con la mamma, odia gli ebrei che non conosce ed ha un amico immaginario che è una versione bizzarra di Hitler. I problemi di identità si accentuano quando scopre che la madre nasconde in casa una giovane ebrea…

 

Periodicamente, spesso con giustificato entusiasmo di pubblico e critica, vengono alla luce pellicole che riescono a trattare in modo ora grottesco, ora delicato, ora decisamente surreale, il serio e tragico racconto dello sterminio degli ebrei, attraverso parodie del nazismo, più o meno riuscite.

Da Ernst Lubitsch (Essere o non Essere del 1942) a Mel Brooks (omonimo remake del 1983) da Benigni (La Vita è Bella, del 1997) a Radu Mihaileanu (Train de Vie del 1988) per citare i più celebri, molti registi si sono cimentati nella narrazione ironica della Shoah, spesso facendo storcere il naso agli ebrei più ortodossi… L’ultimo, in ordine di tempo è il geniale Taika Waititi, regista neozelandese del ‘75 (padre maori, madre ebrea) che offre una nuova prospettiva, in grado di far sorridere – a volte anche ridere tout court– spiegando ai ragazzini che cos’è stato il nazismo. E lo fa con uno scenario, solo apparentemente rivolto agli adolescenti: una piccola città di provincia, campi di addestramento per bambini che si conoscono fra di loro, macchiette naziste a gestire il locale campo paramilitare. Il film, presentato a Toronto e da noi a Torino, in anteprima, è candidato a ben sei Oscar (peraltro quasi un destino segnato per le pellicole che trattano la tematica dello sterminio) e certamente si può dire che colpisce nel segno. Tratto dal romanzo della scrittrice Christine Leunens, l’eclettico Taika Waititi, sceneggiatore, attore e regista, ha realizzato una commedia surreale, a volte musical, a tratti parodia, in grado di catturare spettatori di ogni età, parlando di nazismo, una tantum, senza toni cupi. Con citazioni che vanno da Il Grande Dittatore del supremo Chaplin al sopravvalutato La Vita è Bella, Jojo Rabbit è un’opera riuscita e accattivante, resa quasi perfetta dall’alchimia di una sceneggiatura semplice ma diretta, una coerenza stilistica ineccepibile di musica, fotografia, costumi, dialoghi e, soprattutto, interpretazioni di altissimo livello da parte degli attori prescelti. L’undicenne James Rolleston ha espressione e pudori propri dell’innocenza infantile. Il suo miglior amico Jorki, interpretato da Archie Yates, forse, è giovane attore ancora più versatile. Ma, giustamente candidata come migliore attrice non protagonista ritroviamo una Scarlett Johansson (risoluta, divertente e sfortunata madre di Jojo), ormai uscita dal frusto clichè di “bella senz’anima” e destinata a ruoli sempre più impegnativi (vedi Marriage Story) che ne attestano la crescente bravura. Di sicuro, però, nessuno dimenticherà l’Hitler-nazista burlone frustrato, modello angelo custode immaginario, il personaggio più esplosivo del film, interpretato proprio da Taika Waititi, cui si deve un’impresa che di certo lascerà il segno nella storia delle migliori gags del cinema grottesco. Tanto e tant’altro ci sarebbe da dire su questo film che si presenta alle apparenze come una piccola pellicola destinata alle giovani generazioni, ma che ha invece enormi pregi da scoprire in ogni sua sequenza. Al di là dei significati, della valenza storica, dei valori che trasmette, siamo di fronte a un autentico gioiello, che certamente si valorizzerà ancor più nel tempo. Onore, dunque, al geniale Waititi, autentico one-man-show!

data di pubblicazione:27/01/2020


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1917 di Sam Mendes, 2020

1917 di Sam Mendes, 2020

Prima Guerra Mondiale Aprile 1917, Francia,due giovani caporali del contingente britannico vengono incaricati di attraversare le linee nemiche e la terra di nessuno per trasmettere l’ordine di annullare un’offensiva prevista all’alba ed evitare così l’inutile sacrificio di ben 1600 commilitoni.

Sam Mendes, regista e sceneggiatore inglese, con soli 7 film e con l’Oscar vinto fin dal suo esordio nel 1999 con American Beauty, si è imposto come uno dei maggiori autori dell’ultimo ventennio. Da allora in poi la sua carriera si è contraddistinta per la grande ricerca formale, lo stile personale e per l’eclettismo dei generi affrontati sempre con successo fino agli ultimi due James Bond. Lo si aspettava ora ad una nuova prova, ed eccolo, già preceduto dai due Golden Globe per la Migliore Regia e per il Miglior Film e ben dieci candidature per i prossimi Oscar, confermarsi con questo suo nuovo film come un autore ed un narratore di gran classe con un eccezionale senso dello spettacolo.

Ispirandosi ai ricordi di guerra del nonno, Mendes ci racconta con il suo 1917 l’odissea di due giovani soldati ed una parabola sull’assurdità della guerra nei grandi come nei piccoli avvenimenti, e l’assurdità delle scelte cui i singoli sono costretti loro malgrado, lo spirito di sacrificio ed il senso del dovere delle tante migliaia di soldati sconosciuti. La piccola grande storia dell’eroismo quotidiano dei tanti uomini qualunque. Un film di guerra e sulla guerra, ma non l’ennesimo film di guerra perché l’opera di Mendes si distacca radicalmente da tutti per lo stile narrativo adottato.

Il regista realizza infatti e con successo, una sfida tecnica ambiziosa: girare il film in un “quasi unico” continuo Piano Sequenza, proponendo, anzi obbligando così intenzionalmente lo spettatore ad un’esperienza immersiva intensa e totalizzante nella realtà narrata. Così facendo lo spettatore è infatti trascinato insieme ad i due protagonisti nel mezzo delle trincee, fra il fango, i crateri delle bombe, i reticolati, i cadaveri ed i topi fra i vari campi di battaglia. Messo così lo spettatore al livello dei suoi personaggi, tanto anonimi quanto universali, non c’è bisogno di grandi discorsi sull’inutilità del tutto, basta la sola empatia che si genera fin dalle prime coinvolgenti immagini che sono un unico continuo movimento di attori e della cinepresa che ci restituisce solo tutto ciò che i personaggi fanno,vedono, vivono e soffrono. Una scelta tecnica eccezionale che ha una sua piena coerenza narrativa e rende più vere e concrete le vicende umane affrontate. Un film totale che trasforma un tour de force tecnico in un mezzo per consentire allo spettatore di comprendere con la propria percezione gli orrori cui è costretto, fino a renderglieli quasi fisicamente palpabili.

Coadiuva il regista per la fotografia il bravissimo Roger Deakins che, al di là degli spunti narrativi, esalta la bellezza visiva e rende tangibile con autenticità crescente il miracolo tecnico con tutta la forza di immagini suggestive ognuna delle quali vale un film.

Va detto che l’immersione dello spettatore nei fatti narrati è divenuto esso stesso quasi un sottogenere dei film d’azione. Una necessità ovviamente per rinnovare il modo di raccontare le storie di azione al cinema ed avvicinarsi così ai più giovani abituati alla realtà virtuale dei videogiochi. Spielberg, come sempre, aveva già aperta la via, Sam Mendes però prosegue da par suo la scelta costruendo una sua tutta personale visione. Al regista non interessa più di tanto entrare nei personaggi, ciò che gli sta veramente a cuore è coinvolgere ed immergere lo spettatore nella vicenda in modo intenso e far vivere in tempo reale le situazioni vissute dai protagonisti. Questo virtuosismo tecnico ed esperienziale rendono il lavoro di Mendes un “unicum” di gran qualità.

1917 è un film più spettacolare che realista, per cui non occorre attardarsi sulla veridicità o plausibilità delle vicende (tante le incongruenze, tanti gli anacronismi) non è ciò che interessa veramente. Se il film sembrerà privo di anima e concentrato solo sulla tecnica e sugli estetismi, rammentiamo sempre che il regista immergendo lo spettatore nel dramma vuole che sia lo spettatore stesso ad elaborare ciò che ha visto ed a provarne le emozioni di modo che queste possano così perdurare ben al di là dell’esperienza vissuta in sala.

data di pubblicazione:27/01/2020


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BELLE RIPIENE DI Giulia Ricciardi e Massimo Romeo Piparo, regia di Massimo Romeo Piparo, con  Rossella Brescia, Tosca D’Aquino, Roberta Lanfranchi, Samuela Sardo

BELLE RIPIENE DI Giulia Ricciardi e Massimo Romeo Piparo, regia di Massimo Romeo Piparo, con Rossella Brescia, Tosca D’Aquino, Roberta Lanfranchi, Samuela Sardo

(Teatro Sistina – Roma, 21/26 gennaio 2020)

Una divertente commedia gastronomica che asseconda una tendenza di moda. Psicodramma comico per quattro attrici che funzionano nella ripresa di uno spettacolo collaudato e di successo.

Una vera cucina in scena con odori e afrori speziati e cibo per il pubblico, rompendo la consueta sacralità del Sistina e le classiche pareti di scena. Uno spettacolo già rodato che mostra meccanismi comici di pronta presa con un quartetto di attrici che offrono performance sorprendenti anche rispetto alla propria quotazione. Spicca in particolare Tosca D’Aquino che salendo di tono regala qualche momento esilarante negli assolo. Funziona la caratterizzazione regionale che ben si attaglia alle origini delle protagoniste, quartetto di cucina tutto al femminile, capace di combinare guai ma anche di risolverli mentre si affollano ospiti mutevoli e diversi in sala, compreso un fantomatico ispettore della Michelin che potrebbe regalare al locale l’auspicata stella. C’è il dialetto pugliese, il campano, il romano e il lombardo in una particolarissima koinè linguistica. La Brescia ha l’occasione per mettere in risalto le proprie doti coreutiche con un siparietto che richiama il burlesque e le sue doti di danzatrice. La cucina e il regno delle donne, delle confidenze, delle intromissioni ma anche di un ragionevole sbarcare il lunario. Con il patrocinio della Federazione Italiana Cuochi le attrici scendono tra il pubblico e fanno assaggiare preziosità culinarie. Il filo conduttore /tormentone è la risoluzione di un gravoso problema economico causato da una delle quattro. Ma non c’è dramma ma semmai risoluzione. Cibo e uomini sembrano analoghe pietanze da cucinare in modo appropriato. La soluzione di un mondo salvato dalle donne (anche in cucina) sembra perfettamente logica e calzante. Spettacolo bello ripieno e decisamente appagante nei limiti del genere.

data di pubblicazione:24/01/2020


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SI NOTA ALL’IMBRUNIRE di Lucia Calamaro, con Silvio Orlando

SI NOTA ALL’IMBRUNIRE di Lucia Calamaro, con Silvio Orlando

(Teatro Quirino – Roma, 21 gennaio/2 febbraio 2020)

Silvio abita solo nella casa di campagna. In occasione del suo compleanno e della ricorrenza dei dieci anni dalla morte della moglie vanno a trovarlo i tre figli Marialaura, Alice e Vincenzo che non lo vedono da tempo. Si unisce a loro anche Roberto, fratello di Silvio. La solitudine alla quale si è da tempo abituato viene interrotta e sconquassata da questa visita.

 

Per descrivere quella che a tutti gli effetti è una commedia, dai risvolti divertenti nei tempi nelle battute e nei personaggi, bisognerebbe usare parole che ne rispecchino la delicatezza dei colori tenui e delle trasparenze di cui la scena si colora. Dove abita Silvio c’è ben poco di una casa di campagna dove l’azione è ambientata. Le pareti di garza lasciano intravedere chi si aggira per le stanze o nel giardino: tutti ascoltano, tutti intervengono nelle discussioni. Come recita il sottotitolo – Solitudine da paese spopolato – la cittadina dove Silvio ha deciso di trascorrere la sua vecchiaia è abitata da poche persone, isolata: un chiaro indizio che ci troviamo in uno stato mentale, più che in posto reale. Ma l’azione è dinamica e coinvolgente e i toni tenui passano in secondo piano, sono un sottofondo quasi musicale. Il forte realismo della vicenda inizia dai nomi dei personaggi, che sono quelli degli attori che li interpretano. È una scelta già applicata nella drammaturgia di Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo, che cuce addosso agli attori la parte, raggiungendo un risultato di forte verità e descrizione. Il gesto creativo si lega così all’attore e all’interprete, si nutre della sua presenza. La vita ribolle come un vulcano sulla scena, la si percepisce viva nella parola drammaturgica. Eppure, ciò che è in scena appartiene di diritto alla sfera del pensiero: le scene si collegano tra loro a volte per una semplice parola, per digressione su un ragionamento, senza un ordine apparente. Sembra di cogliere nelle battute quel momento in cui ciò che si muove nella testa sta per essere detto, quell’indecisione del se è lecito o utile dire o trattenere dentro. La squadra di attori è ben coesa e adatta, dove Silvio Orlando spicca tra tutti per intelligenza scenica e carattere. Sarebbe davvero difficile vedere un altro attore in questo personaggio. Perfetta incarnazione di quella solitudine sociale – così è chiamata la malattia da cui è affetto – che isola chi ne è colpito, per abbandono degli altri o scelta propria, patologia del presente che può colpire chiunque in ogni momento.

data di pubblicazione:23/01/2020


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WASTED di Kate Tempest, uno spettacolo di Bluemotion, ideazione e regia di Giorgina Pi

WASTED di Kate Tempest, uno spettacolo di Bluemotion, ideazione e regia di Giorgina Pi

(Teatro India – Roma, 14/26 gennaio 2020)
Dal 14 al 26 gennaio al  Teatro India di Roma Giorgina Pi, tra i fondatori del collettivo Angelo Mai di Roma, porta in scena Wasted, testo di Kate Tempest, artista poliedrica e nuova icona della scena culturale britannica, artista totale che si esprime tra rap, poesia, politica e musica.

Due uomini e una donna commemorano il decimo anniversario della scomparsa del loro più caro amico. Assemblano ricordi, tentano bilanci ma non riescono a salvare nulla di ciò che hanno vissuto e provato tra il riaffiorarsi di ricordi e illusioni e lo scontro con l’insoddisfazione e lo sconforto, all’interno di quattro pareti di una sala prove, tra chitarre e bassi testimoni della loro storia. Un coro di disperazione di umanità, in un guado dove non si è più giovani ma neanche vecchi, dove il cambiamento è faticoso ma ancora possibile, lo spartiacque dei quaranta anni.

Dopo aver lavorato su Caryl Churchill, la regista Giorgina Pi continua la sua ricerca sulla scrittura di donne rivoluzionarie della letteratura inglese contemporanea, scegliendo di raccontare una generazione sofferente, divisa tra ambizioni e sogni infranti. Droga, disoccupazione, nichilismo, ma anche prospettive negate e scontentezza, disagio.

Kate Tempest, con Wasted, dà voce a una umanità frantumata dall’incapacità di tentare una profonda messa in crisi del quotidiano, ingabbiata in un presente senza uscita e con lo sguardo rivolto al passato.

Tre ragazzi, amici dall’adolescenza, Danny, Ted e Charlie, si ritrovano all’anniversario di morte di un caro amico. Danny e Charlie hanno anche una relazione amorosa che non decolla, che non riesce a passare a un livello successivo, di responsabilità reciproca. I tre amici portano sulle spalle racconti, sorrisi e storie, si cullano nei ricordi: la musica, le risse, l’erba scadente fumata sull’autobus, quando tutto era romantico e autentico, quando si era qualcuno, finché gli anni sono passati, la vita adulta è arrivata a manifestarsi con tutta la sua violenza e loro semplicemente non si sono fatti trovare pronti. Una luce fuori dal tunnel esiste ma necessita di impegno e fatica.

La regia di Giorgina Pi toglie i riferimenti metropolitani di Londra per muoversi in un luogo qualunque, la città in cui i tre vivevano la propria ribellione giovanile. In scena c’è la batteria, gli amplificatori, un paio di chitarre; l’albero, simbolo dell’amicizia con l’amico scomparso attraverso un’ombra feticcio proiettata ogni tanto.

Molto suggestiva e intensa l’atmosfera grazie alle luci di Andrea Gallo, nel quale è la musica suonata dal vivo a definirne i contorni: bellissimo il video b/n in cui i tre interpretano la celebre The end of the world; bravi gli attori, Gabriele Portoghese con il suo approccio recitativo nervoso, Sylvia De Fanti alla ricerca di un motivo di rivalsa e Xhulio Petushi, bravo nell’esternare la mediocrità del personaggio ed il vuoto che ha dentro.

Un finale eccessivamente retorico non proprio all’altezza del resto dello spettacolo, sporca quella poesia cruda e quella nebbia di dolore che aleggia per tutta la durata della bellissima performance.

data di pubblicazione:23/01/2020


Il nostro voto:

RE LEAR di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco, con Glauco Mauri e Roberto Sturno

RE LEAR di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco, con Glauco Mauri e Roberto Sturno

(Teatro Eliseo – Roma, 21 gennaio/2 febbraio 2020)

Un classico di repertorio rivisto per la terza volta e con grande pathos da un attore ormai novantenne ma ancora intrepidamente sulla scena sostenuto dal fedele Sturno.

 

L’attore di prego non va mai in pensione e così con la migliore attitudine possibile la compagnia di Glauco Mauri, sinergicamente affiatata, sostiene il primattore nella sua generosa ripresa del dramma scespiriano. Una scenografia gagliarda e dispendiosa sostiene il terzo tentativo di drammaturgia e con sostanziali elementi di novità che rendono stuzzicante l’approccio. Il collaudato mattatore lascia ampio spazio di espressione ai comprimari con un atto di generosità che è anche risparmio delle proprie forze. Ma quando è il momento Mauri si prende tutta intera la scena con degli autentici pezzi di bravura che mostrano un’arte e una padronanza della professione che non tramonta. Prova d’attore ma anche prova per il pubblico visto che lo spettacolo si protrae per tre ore, sostenendo anche divagazioni finali che Shakespeare poteva certamente permettersi in teatri che erano anche luoghi di intrattenimento e loisir secondo un concetto dell’uso del tempo molto diverso da quello odierno. La folla di Re Lear scivola nel vacuo dove anche bisbigli e borborigmi sono significativi per l’afasia di un linguaggio e di una dialettica progressivamente persi. Un ascensore è la trave di sostegno di entrate e uscite in scena con un gioco di luci che sottintende tempeste, bruschi scarti emozionali, il senso di un tradimento consumato dalle figlie rispetto a un padre generoso ma imprevidente. Gli attori usano anche la platea per rompere la monotonia degli ingressi secondo una moda sempre più gettonata. E Barbareschi, sempre più aduso alla kippah, si gode una prima con teatro pieno e numerose ovvie chiamate finali per la compagnia. Spettacolo intenso di tecnica, di repertorio, di una tradizione ampiamente reinterpretata.

data di pubblicazione:23/01/2020


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TOLO TOLO di Luca Medici Italia 2020

TOLO TOLO di Luca Medici Italia 2020

Checco è un piccolo imprenditore di Spinazzola nelle Puglie che progetta in modo truffaldino affari inevitabilmente votati al fallimento. Nei guai con l’Agenzia delle Entrate e costretto a fuggire in Kenia, si ricicla come cameriere, si fa un amico, s’innamora di una bella locale. Scoppia, però, una guerra e, costretto a fuggire, si ritrova a compiere un viaggio non diverso da quello di migliaia di migranti per raggiungere porti europei più o meno ospitali….

Derubricato a fenomeno di costume, previa esclusione da consessi civili o almeno alle “ classiche quattro chiacchiere tra amici”, oggetto di studio per psicologi, politici diversamente schierati, tuttologi vari, Checco Zalone è tornato a colpire, registrando, as usual, il tutto esaurito con il suo Tolo Tolo. Per quanto in premessa, la risposta del pubblico è stata immediata almeno nelle prime due settimane di programmazione, registrando gli attesi record di affluenza. Al cinema si andava perchè c’era il nuovo film di Checco, poi, gradualmente, è scattata l’incognita del passa parola e chi non si era precipitato “per dovere” ha cominciato a farsi un’opinione… i giornali di destra, forti di opinioni “autorevoli”(Gasparri, La Russa) hanno bocciato il film, a loro dire insulso e mai divertente, quelli, diciamo di sinistra, leggendolo in chiave pro-immigrati lo hanno accolto decisamente meglio. Entrambe le sponde hanno evidentemente frainteso. Tolo Tolo non è un film comico tout court, come non lo era Quo Vado?, ma è sul piano del puro spettacolo cinematografico che onestamente segna un passo in dietro rispetto al precedente successo di Zalone. E non perchè non sia lodevole il tentativo di Luca Medici, assistito (fin troppo?) da Paolo Virzì in qualità di co-sceneggiatore, di realizzare una pellicola ricca di riferimenti all’attualità e al sociale, quindi solidale con la gente dei barconi, quanto, piuttosto perchè quando c’è troppo si rischia di generare confusione o, a tratti, anche noia. Se nei precedenti tre film, Zalone si limitava a sfoggiare le sue indiscutibili doti comiche, ben diretto da Gennaro Nunziante in pellicole ben scritte e chiaramente pensate per un divertimento intelligente, ma mai sofisticato, qui, Medici/Zalone ha voluto essere tutto: autore, regista, musicista, cantante, attore e, non essendo Chaplin, come è facile evincere, ha esagerato! Il film, sia chiaro, non è brutto, Checco ha alcune battute e gags molto divertenti, ha scene credibili, non lesina mezzi (non a caso è costato alla produzione 23 milioni di euro), ha alcuni momenti di eccellenza (la auto-parodia di Nicki Vendola, come lo straordinario episodio della cicogna strabica, a mezza strada tra il musical e il cartoon ), ma il tutto appare un po’ slegato, discontinuo, disomogeneo, vanificando il corpus e le nobili intenzioni dell’autore.

La sensazione ultima è che Luca Medici e con lui il produttore Valsecchi abbiano voluto rinnegare in parte i precedenti lavori, rilanciando un personaggio sempre “alla Checco” ma, più impegnato, meno frivolo, col risultato meritevole di non piacere al più becero qualunquismo italico ma, al contempo, non riuscire a concepire un film in grado di coniugare appieno impegno e divertimento. In conclusione Zalone, promosso come attore e musicista, rimandato come regista!

data di pubblicazione:20/01/2020


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TANGO DEL CALCIO DI RIGORE di Giorgio Gallione, con Neri Marcorè e Ugo Dighero

TANGO DEL CALCIO DI RIGORE di Giorgio Gallione, con Neri Marcorè e Ugo Dighero

(Teatro Brancaccio – Roma, 15/19 gennaio 2020)

Giorgio Gallione racconta il gioco del calcio e le implicazioni che può avere con il mondo della politica. La dittatura di Jorge Rafael Videla in Argentina e la finale dei mondiali di calcio del 1978 a Buenos Aires. Il coinvolgente ritmo del tango a fare da colonna sonora al massacro dei desaparecidos. Calcio come magia e favola, ma anche strumento per guadagnare il favore del popolo.

 

 

Non sembra far riferimento in maniera esplicita a nessuno dei fatti che animano la scena politica attuale, sia nazionale che internazionale, eppure Tango del calcio di rigore evoca nelle immagini scenari possibili non così distanti, nella sostanza, dagli effetti che l’agitazione populista potrebbe risvegliare nella nostra epoca. Ma vaticinare o fare confronti con il nostro oggi non è lo scopo di questo spettacolo. Il testo è un reportage piuttosto dettagliato, a tratti mitizzato, di una fase storica abbastanza recente e difficile che vede protagonista la dittatura militare che investì l’America Latina, in particolare l’Argentina, negli anni Settanta del secolo scorso e la relazione di questa con il gioco del calcio, occasione di svago per il popolo ma anche campo di battaglia e affermazione di potere. È necessario allora che il linguaggio usato dall’autore debba mantenersi a metà tra quello giornalistico e la telecronaca calcistica, scelta che però rimane poco teatrale a nostro avviso. Al personaggio di Neri Marcorè è affidata la parte narrativa: l’uomo adulto che vediamo era poco più che un bambino quando l’Argentina vinse il titolo mondiale. La voce baritonale che racconta i fatti e il tono malinconico, che usa anche nel canto, ci danno la misura del dramma. Invece, Ugo Dighero fa le parti di commedia. È il leggendario Cassidy, l’arbitro chiamato ad arbitrare una grottesca partita tra tedeschi nazisti e indiani mapuches con una pistola in mano per gestire gli umori del campo; è il gaucho messicano che canta tra cactus animati; è ancora il portiere Gato Diaz nella storia del rigore più lungo del mondo, nella disputa tra l’imbattuto Deportivo Belgrano e l’Estrella Polar al club di Cipolletti. E così via a ricoprire ruoli che danno movimento a uno spettacolo altrimenti rallentato nel linguaggio d’inchiesta. Brava anche Rosanna Naddeo, qui a ricoprire i ruoli femminili: commovente e tragica la sua interpretazione del brano Gracias a la vida, in ricordo delle madri di Plaza de Mayo a cui il regime dittatoriale ha rapito, torturato e ucciso i propri figli. Tre grandi interpreti, aiutati sul palco dai giovani attori Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, che affrontano uno spettacolo per nulla facile, ricco di racconti e di eventi che ogni tanto è bene ricordare. Un grande affresco che regala tante e contrastanti emozioni a chi vi assiste.

data di pubblicazione:20/01/2020


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RICHARD JEWELL di Clint Eastwood, 2020

RICHARD JEWELL di Clint Eastwood, 2020

Giochi Olimpici di Atlanta 1996, un addetto alla sicurezza: Richard Jewell (Paul Walter Hauser)è il primo ad allertare la polizia del rischio bomba, salvando così migliaia di vite dall’esplosione durante un concerto. Acclamato come eroe, diviene però per l’FBI e per la Stampa il sospettato numero uno dell’attentato stesso.

Una bella storia può essere anche una “Buona Storia”… e Clint Eastwood sa sicuramente come raccontare una storia e renderla quasi sempre una “Buona Storia”!

Questo giovane autore di appena soli 90 anni, ci regala oggi il suo 40° lungometraggio, limitandosi questa volta, si fa per dire, a mettersi dietro la cinepresa e a raccontarci un storia vera, dal punto di vista del presunto colpevole. Lo fa con il suo inconfondibile stile, con un approccio sobrio, scarno ma solido, una messa in scena semplice, lineare quasi classica che, senza troppi effetti, sa però catturare ogni attimo di tensione ed orientare le emozioni dello spettatore.

Con lucidità e coerenza, pur con modi ogni volta diversi, il regista prosegue il suo percorso già affrontato con American Sniper 2014, con Sully 2016 e con Ore 15,17 Attacco al Treno 2018, sul concetto di individuo, sulla natura dell’uomo normale posto davanti ad eventi o situazioni impreviste ed eccezionali. Ieri era il padre di famiglia che diventa cecchino in Irak, ieri l’altro erano dei singoli marines ad Iwo Jima, ed ancora più in là nel tempo, perché no? erano anche gli eroi solitari dei suoi western o il cowboy de Il Cavaliere Pallido.

Nel suo film di oggi ci descrive come una persona normale possa trovarsi fortuitamente a compiere un’azione eroica e come questa stessa azione possa essere stravolta in un gesto orribile e come un “eroe non eroe” possa divenire vittima ed essere stritolato dalle istituzioni, siano esse l’FBI o la Stampa, entrambe, a dir poco, troppo frettolose, superficiali, ciniche ed opportuniste pur di chiudere un caso o di fare uno scoop giornalistico. Un film dunque sospeso fra il racconto biografico e la critica dura dell’universo mediatico che circonda ogni fatto e degli abusi degli organismi governativi che possono arrivare a annientare il singolo soprattutto se onesto ed indifeso. Soprattutto se, come questa volta, il singolo è anche un uomo problematico che vive in un ambiente sociale marginale e ristretto, che abita ancora con la mamma e che ha come unico sogno di divenire un poliziotto. Particolarità e singolarità che ne fanno un perfetto capro espiatorio. Un personaggio a tratti quasi irritante per la sua remissività e la sua fiducia nei confronti delle Istituzioni.

Ma … siamo pur sempre in America, e le prerogative dello Stato si fermano sempre davanti la soglia di casa mia e, quando si va oltre, lo “Spirito Americano” prevale e allora il singolo riesce a rialzarsi in piedi, solitario e sicuro di affermare un suo diritto … (quante volte lo abbiamo visto, sia pur declinato in migliaia di modi!). E chi più di Eastwood, pur senza fare un film a tesi o politico può riuscire a rendere al meglio questo Spirito!

La regia è sostenuta da una buona sceneggiatura ma soprattutto da ottime performances attoriali, non abbiamo grandi interpreti carismatici ma il casting è perfetto con ottimi caratteristi: il poco noto Hauser, ruba realmente la scena e avrebbe meritato una nomination agli Oscar come Kathy Bates giustamente candidata come “attrice non protagonista” per il toccante ruolo della madre. Nel film ci sono anche dei difetti, delle stonature, delle lungaggini che alterano il ritmo, delle caratterizzazioni eccessive o banali di alcuni personaggi e, soprattutto nelle seconda parte, anche delle scorciatoie narrative troppo rapide o meccaniche che lasciano perplessi. Ma forse siamo troppo ben abituati o esigenti con questo giovane novantenne!

Richard Jewell è un film che si apprezza subito e si può anche apprezzare di più se si ha tempo e voglia di rifletterci sopra il giorno dopo, dopo aver decantato le emozioni della prima visione. Un film intelligente in equilibrio fra contenuti ed emozioni. Un film classico, ben diretto e ben recitato che conferma ancora una volta perché Eastwood è un’icona del Cinema. Un autore che ha il dono di saper raccontare le storie per descriverci la complessità della vita.

data di pubblicazione:19/01/2020


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POESIE SCRITTE CAMMINANDO di Sandro Sacco, L’Erudita editore, 2019

POESIE SCRITTE CAMMINANDO di Sandro Sacco, L’Erudita editore, 2019

Non è il momento della cultura, non è mai il momento della lettura, meno che meno sembrano affacciarsi spazi per la poesia. Dunque un tentativo coraggioso quello dell’editore Giulio Perrone di editare per un suo marchio di affiancamento un poeta dotato ma non giovane, noto più che altro che squisito autore di racconti. Come suggerisce il titolo la silloge nasce dal cammino itinerante dell’autore, personaggio rotto a tutte le esperienze in diversi continenti e ora anche agricoltore biologico. Poeta non professionista ma occasionale, lirico ma anche anti-retorico. Sacco è stato scoperto e lanciato da Elio Pecora, personaggio che ha attraversato oltre mezzo secolo di cultura italiana, dandosi con generosità alla poesia, nella frequentazione dei Penna, dei Pasolini, di Moravia, di una società istituzionale ma anche di quella alternativa e destabilizzante. Pecora invita a godere delle poesie del Sacco con semplicità e naturalezza, magari con lo stesso andamento lento dello scrittore. L’interrogazione sul senso dell’esistere alimenta nel testo un persistente senso di malinconia riscattato dall’ironia e dalla voglia di progredire. Le illustrazioni di Vincenzo Gaudiano sono un utile compendio allo sviluppo poetico. Da notare che molto intelligentemente ogni poesia è caratterizzata dall’anno di scrittura disegnando così il percorso variegato e composito dell’autore anno per anno. Sacco predilige una scrittura visiva dal passo breve e dal profilo basso fissando attentamente luoghi e piani di esistenza (esistenze anche diverse). E rivela, tra le righe, di essere anche un eccellente ballerino di tanto aggiungendo pepe alla sua complessa personalità. La seconda pubblicazione sembra risospingerlo verso la prosa, anche grazie al non dissimulato interesse di un editore come Sellerio. Nella sua summa la poesia diventa strumento di conoscenza e di elaborazione personale, rivolta verso un invisibile e spesso poco decifrabile prossimo. Paesaggi, situazioni e muti dialoghi espressi da una personalità sensibile.

data di pubblicazione:18/01/2020