da Antonio Jacolina | Ott 10, 2020
Citando l’ottimo Daniele Poto dicevamo che “Di un grande scrittore non si butta via niente …”, anzi aggiungevamo, a proposito di un autore prolifico fin quasi alla patologia quale è Simenon, che: ”Di Simenon non si può buttare via proprio nulla!”, questa volta dovremmo addirittura dire:”Ma proprio nulla di nulla, nemmeno le briciole…”.
Pur essendo per noi, per gli appassionati e per i cultori dello scrittore belga qualsiasi sua uscita editoriale sempre una Festa, davanti a quest’ultima pubblicazione di un “Simenon minore” potremmo però essere tentati di domandare alla pur meritoria Casa Editrice quale debba essere mai il limite delle “briciole” da voler pubblicare.
Si tratta, come per i recenti La Cattiva Stella e Le Linee del Deserto di una raccolta di brevi raccontini, non più però appunti di viaggio o appunti di vicende poliziesche, ma, al contrario, piccole storie scritte, quasi “a tempo perso”, fra il 1939 ed il 1941 appositamente per il settimanale politico-letterario Gringoire, fatta eccezione per il più articolato racconto che dà il titolo alla raccolta, apparso invece a puntate sul settimanale Pour Elle.
Sono brevi storie, dei bozzetti, quadretti di vita che possono sembrare, a prima vista, semplici, poveri e banali, quasi di maniera: mogli, mariti, amanti, tradimenti, personaggi che si muovono ai margini della Società fra caffè fumosi impregnati dall’odore di Calvados e di abiti bagnati, fra piccole pensioni o sotto il sole della Costa Azzurra o sotto quello equatoriale. Una umanità piccola, piccola con le sue meschinerie, le umane miserie, illusioni, delusioni e, su tutto e tutti, l’eterna assurdità del Destino e del Caso. Pochi tratti veloci, poche righe … ecco però un lampo di eccellenza, un guizzo … ecco allora il grande Simenon che riesce subito a catturare il lettore, che riesce con nulla a ricreare atmosfere ed a portare alla luce i vari infiniti ed eterni risvolti umani e psicologici dei suoi personaggi, le illusioni, le debolezze, gli angoli oscuri dell’animo, il Fato.
Intrigante ed affascinante come sempre!! Ed ecco allora la risposta alla domanda se e perché anche le “briciole” di un grande scrittore possono essere pubblicate!
La lettura è ovviamente leggera e piacevole, Simenon da par suo, porta il lettore dove vuole lui, con una scrittura asciutta, fluida e veloce senza alcuna pretesa letteraria e con un taglio molto giornalistico, pur restando magistrale nell’inventare e disegnare vicende umane in modo nitido, efficace ed esaustivo e nel saper cogliere e rendere i comportamenti osservati nel suo continuo scrutare i propri simili ed i loro animi.
data di pubblicazione:10/10/2020
da Daniele Poto | Ott 10, 2020
(Teatro Sala Umberto, Roma, 9/25 ottobre 2020)
Un duello in palcoscenico, una commedia a brillante che vira in dramma pulp e tutto nell’arco di un’ora per un sapiente gioco teatrale orchestrata da uno dei più prolifici e brillanti autori del panorama contemporaneo.
Riparte faticosamente una stagione con uno spettacolo recuperato dal programma 2019-2020 e già collaudato a Napoli. Capienza nel rispetto delle norme con una prima che è quasi una festa per la presenza di tanti colleghi anche inattivi e con difficoltà organizzativa non da poco vista la volontà ma anche la difficoltà di mantenere le distanze. Ma il gioco vale la candela perché c’è un’ora abbondante di succoso teatro tra due attori che mettono in opera una collaudata sinergia e un’intesa con un scambio emotivo che diventa anche inversione di gerarchie. L’apparentemente sprovveduto tecnico della luci gradatamente prende il sopravvento sul presuntuoso regista che lo tratta come un proletario da strapazzo. E i due attori sono bravi a propiziare questa trasmissione di tensione minuto dopo minuto. Testo da non spoilerare evidentemente che contiene un risvolto finale di grande presa. E c’è teatro nel teatro perché il testo base è quello di un Pirandello adattato goffamente all’attualità. E si ride volentieri per il Pirandello manipolato secondo moduli alla Tarantino. Niente è come sembra nel gioco dei ruoli. La dannazione del teatro sembra al centro della scena dominata da una scala che nessuno salirà in fondo. S’intravede lo scambio comunicazionale tra due attori che si conoscono dal 1992. Guidi dimostra di saper uscire dal profilo alto costruitosi negli anni con i ruoli comici. Nei mesi del coronavirus il modello teatro per due attori mostra ancora una volta la propria funzionalità, al di là dei ruoli mono-dimensionali del reading e dell’one man show. Peraltro la stagione del teatro romano è ancora un punto interrogativo anche se questo spettacolo è un incoraggiante punto di svolta per tutto il settore, non solo capitolino.
data di pubblicazione:10/10/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 9, 2020
(Teatro Vascello – Roma, 6/11 ottobre 2020)
Il mito di Medea valica i limiti del tempo e arriva fino ai giorni nostri. La tragedia si risolve in un dramma familiare a due voci.
La Medea di Gabriele Lavia veste panni moderni. È una donna distrutta dal tradimento dell’uomo per il quale ha sacrificato tutto: affetti, patria, la vita intera. A fatica trascina la sua carcassa umana, la sua misera esistenza, svuotata di ogni senso e prospettiva. Giasone ha sposato la figlia del re Creonte e a lei è stato dato ordine di andare in esilio via da Corinto. La scena – un luogo non luogo in un tempo che è il nostro – esprime tutta la desolazione di cui è vittima Medea. Un’immensa distesa sabbiosa dice tutto del suo isolamento. È un pugno di polvere quello che le rimane tra le mani. Il suo trascinarsi sull’arena lascia delle tracce indelebili della sua fatica e del suo disonore, arranca sotto il peso della disperazione lasciando sulla sabbia orme di aspide avvelenata. Non così la falcata di Giasone, sicuro e arrogante, opportunista e sbeffeggiatore. La sua unica ragione è la ricchezza, quella sola che il nuovo matrimonio può dargli. Che ne è dell’eroe che ha conquistato il vello d’oro? Non ha dignità né ragione, non conosce rispetto e non ha memoria del passato. Giasone è un interlocutore dalle parole inconsistenti, che presenta giustificazioni inutili. La vera protagonista è Medea. È lei l’indiscussa regina dall’intelligenza sottile. Federica Di Martino (Medea) e Simone Toni (Giasone) rendono con chiarezza le sfumature dei loro personaggi e sono una coppia perfetta e ben pesata, per stile e interpretazione.
I caratteri greci della tragedia scompaiono. Se non fosse per i riferimenti al mondo classico contenuti nel testo euripideo – mantenuto nella sua struttura poetica – quello che abbiamo davanti potrebbe essere visto come un racconto di cronaca nera, come se ne sentono ormai tanti. La grandezza di Euripide sta anche in questa capacità di scavare nell’animo umano e di coglierne l’universalità. Gabriele Lavia ne esalta magnificamente il senso.
A sparire è principalmente il coro, che nel testo originale ha un grande peso anche nell’azione. Di esso rimane solo un suono, languido e mesto, espresso con poche note suonate sulle corde di un violoncello. La musica è protagonista in questo scontro, e si fa ritmica e incalzante quando Medea, nella solitudine della scena, medita il suo piano ultimo: uccidere i figli avuti da Giasone insieme alla donna che questi ha sposato – che ancora non gli ha dato discendenza – per infliggere la più acuta sofferenza all’uomo che l’ha tradita. È questo il momento più alto dello spettacolo. Medea raccoglie le sue ultime forze e in preda al delirio partorisce il suo disegno di vendetta e castigo. Tesse così la sua trama sanguinaria, in una danza di aracnide calpestata ma non ancora uccisa.
Il finale è un impasto di polvere e sangue. Tutto si tinge di rosso. La colpa è indelebile e la macchia ematica è così estesa e copiosa che la sabbia su cui cade non può berla tutta.
data di pubblicazione:09/10/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 8, 2020
Ascesa e caduta di una pro-femminista del passato secolo. Cantante lirica affermatasi in giovane età, poi soprattutto per quindici anni primo gestore del teatro dell’Opera di Roma, vivendo in prima persona un’epopea gloriosa della scena classica italiana, dialogando e litigando con Toscanini e Mascagni. Complici le difficoltà economiche e una notevole idiosincrasia per il fascismo viene gradatamente epurata e costretta a liberarsi della sua creatura. Morirà in un incidente d’auto nel 1928 quando la sua parabola si è interamente consumata..
Torna nelle sale come evento speciale un piccolo gioiello d’autore che, beffardamente, doveva uscire l’8 marzo, proprio il giorno più critico della prima ondata di coronavirus. Ed è un gioiellino cinefilo, un prodotto ibrido che si avvale di documentazione d’epoca (diversi i contributi) e della recitazione di Licia Maglietta che, anche in base a una notevole somiglianza, interpreta gioie e dolori di questa figura affascinante di impresaria che, in tempi non sospetti, si batte per le donne e con un piglio decisionista alimenta la stagione del Teatro dell’Opera senza eccessivi personalismi. Interverrà solo una volta in prima persona ricordandosi delle proprio non trascurabili dote canore. Un omaggio che ha il pregio di un’accurata sceneggiatura dividendo in capitolo un’esistenza che milioni donne vorrebbero avere la fortuna di poter vivere. Tacciata di un brutto carattere, di una dipendenza dalla cocaina, la Carelli precipiterà in un gorgo di diffidenza, alimentata anche dal Duce che pure venne omaggiato e riverito nel suo primo affacciarsi al teatro Costanzi. In 90’ si dipana una storia affascinante in cui si affacciano D’Annunzio, Caruso e il marito della Carelli, il disinvolto impresario Mocchi che, contestualmente, tiene banco tra Argentina e Brasile, tenendo vivo un doppio binario organizzativo, marito assente e spesso traditore. Risalta nella Carelli la personalità e una grana voglia di indipendenza. Bene ricordare che le donne italiane parteciparono al suffragio universale solo nel 1946. Dunque negli anni della Carelli e del fascismo la donna come prima missione doveva far figli, baionette per la patria. Bene, non dimenticarlo.
data di pubblicazione:08/10/2020
Scopri con un click il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Ott 7, 2020
Petra Delicato, e non Delicado, nella disinvolta versione italica (?), ex avvocato di successo, è un ispettore della squadra mobile di Genova, originaria di Roma sud, antisentimentale, solitaria con un fondo populista, dopo un periodo trascorso a lavorare in archivio viene spostata al settore operativo. Al suo fianco, il vice ispettore Antonio Monte, veneto, vedovo, uomo di vecchio stampo, alquanto disilluso. Insieme indagheranno su quattro casi decisamente scabrosi. Dopo iniziali reciproche divergenze di carattere e di metodo, Petra e Antonio raggiungeranno il giusto equilibrio e formeranno una coppia investigativa caratterizzata da una rara alchimia. Questo il succo della serie, diretta da Maria Sole e Tognazzi e prodotta da Sky
Il commento varia a seconda dei destinatari.
Quanti hanno seguito in TV i quattro episodi (non a caso tratti dai primi quattro romanzi di Alicia Gimenez-Bartlett), senza averne letto i libri, forse hanno trovato accettabili e persino “carine” le indagini della giovane Ispettrice come pure l’ideazione in salsa ligure. Diversamente i lettori di Petra Delicado, da Barcellona (fra cui il sottoscritto), non possono che dolersi della trasposizione a Genova e financo della scelta se non della interpretazione della pur volenterosa Cortellesi, troppo diversa dalla descrizione che ne fa originariamente la scrittrice catalana. Sorge spontaneo, allora, chiedersi che necessità ci fosse di trasferire da Barcellona a Genova una storia, una saga di 11 romanzi, tanto intrisi di cultura non solo ispanica, ma, decisamente catalana. Naturalmente tutto ciò è avvenuto con l’esplicito assenso della Gimenez-Bartlett, ma, senza pensare male, sappiamo delle capacità di convincimento dei grossi network televisivi e quindi poco ci sorprendiamo. Riepilogando, non stiamo dicendo che i quattro episodi siano da distruggere in toto: sarebbe impossibile considerata la maestria dello script originale, ma, a costo di ripeterci, una Petra, romana, così tanto legata ai tic e ai caratteri della Cortellesi poco si adattava alla più marcata e navigata figura della Petra Delicado con la “d” originale. Bene, invece, il co-protagonista che a Barcellona si chiama Fermin Garzon e che qui diventa Antonio Monte. Affidato al bravo Andrea Pennacchi (il Poiana di Propaganda Live) il personaggio ricalca abbastanza fedelmente lo stanco vice dei gialli della Bartlett caratterizzandolo in modo esemplare. Comunque, in qualche modo, le storie reggono, i due non elaborano troppo nel cercare le soluzioni degli enigmi e pur senza avere il physique du ròle dei grandi investigatori, fra una birretta e un bicchiere di vino, portano a casa le soluzioni. Come in tutte le produzioni seriali, belle riprese dall’alto di Genova e di Roma (nel quarto episodio), colonna sonora ricercata e qualche siparietto divertente, connotano il tutto. Considerando che i romanzi della Bartlett sono undici e che ne sono stati realizzati solo i primi quattro non possiamo che attenderci il proseguimento della serie. Serie che, per ora, è visibile su Sky, anche on demand.
data di pubblicazione:07/10/2020
da Rossano Giuppa | Ott 6, 2020
Il Teatro di Roma ha presentato il 30 settembre u.s. Cantiere dell’Immaginazione, il programma per la stagione 2020/21 un palinsesto di attività culturali, tra incontri, laboratori, mostre e dibattiti che ripensa la scena come contenitore inclusivo di persone e spazi e come rinnovata occasione per la produzione e la trasformazione collettiva del pensiero, attraverso cui agire sul mondo e sul nostro presente.
Vista l’eccezionalità di questo periodo il Teatro di Roma, tenendo conto delle disposizioni attuali, ha presentato una prima parte di stagione, che prende avvio da settembre a gennaio con una programmazione estremamente connotata da produzioni e coproduzioni, cui farà seguito una seconda parte articolata tra novità produttive e la riprogrammazione di alcuni spettacoli sospesi a causa del lockdown. Nel complesso una totalità di oltre 50 titoli, di cui 11 recuperi, con 27 produzioni e 27 spettacoli ospiti.
Durante il periodo di chiusura il Teatro di Roma ha aderito al programma #laculturaincasa di Roma Capitale, con una programmazione digitale diramata dai canali social del Teatro con più di 500.000 visualizzazioni totali e un milione di utenti raggiunti, aprendo finestre di dialogo e mantenendo vitale il contatto fra il pubblico e teatro attraverso iniziative come i Talk&Dialoghi, conversazioni pubbliche fra Giorgio Barberio Corsetti e artiste e artisti della scena nazionale e internazionale, e i frammenti poetici e di narrazione della rassegna Schegge&Racconti. Al fianco della programmazione virtuale, la scorsa primavera ha visto inoltre la nascita di Radio India, spazio di incontro immaginario divenuto in breve tempo punto di riferimento con quasi 28.000 ascolti tra live e podcast già soltanto nei mesi della quarantena.
La presentazione della stagione non può infine prescindere dal pieno rispetto delle norme sanitarie anti-contagio, a salvaguardia degli spettatori, degli artisti e artiste e lavoratori, che si riflette anche sulle capienze contingentate della platea di Argentina (324 posti) e delle sale di India (Sala A 121; Sala B 60; Sala Oceano Indiano 49), conteggiate secondo le disposizioni attualmente in vigore.
L’apertura di stagione del Teatro Argentina è affidata a Giacomo Bisordi, giovane regista di matura sensibilità scenica, che ribalta in invenzione l’assenza di contatto dovuta alle limitazioni anti-Covid con la nuova produzione Uomo senza meta, microsaga familiare del norvegese Arne Lygre, sulle delusioni del sogno capitalista e le ambiguità dei comportamenti umani, tra sentimenti, denaro e potere (17/25 ottobre). Con lo stesso spirito con cui ha rigenerato le modalità spettacolari e di produzione nel corso della sua carriera, e una speciale attenzione rivolta all’interazione dei linguaggi teatrali con spazi diversi, Giorgio Barberio Corsetti immagina per l’Argentina una produzione ispirata alle Metamorfosi di Franz Kafka, che ripercorrerà l’opera del grande scrittore del Novecento evocando con potenza l’idea di costrizione del nostro tempo, in una riflessione sulle negazioni e il distacco (10 novembre/6 dicembre). Torna Massimo Popolizio con le due produzioni di successo firmate nella passata Stagione, a rinnovare una lettura dei classici che si fa sguardo sul presente: da Furore di John Steinbeck, affresco epico sulla grande Depressione tra migranti, povertà e crisi sociale, che rivela la sua travolgente attualità nella drammaturgia di Emanuele Trevi (15/20 dicembre e 5/10 gennaio); ai versi affilati ed erotici di Gioachino Belli con l’accompagnamento di Valerio Magrelli (29/30 dicembre).
La programmazione spettacolare si compone, invece, dei singoli risultati produttivi di alcune tra le compagnie più interessanti del panorama nazionale: Fabio Condemi con La filosofia nel boudoir affronta una delle opere più controverse di de Sade (1/11 ottobre) e ripropone per la scena l’omaggio pasoliniano di Questo è il tempo in cui attendo la grazia (2/15 novembre); Michele Di Stefano (mk) presenta l’evoluzione del suo Pezzi anatomici, proseguendo la sua indagine coreografica tra sala prove e scena (6/10 ottobre); Muta Imago (Riccardo Fazi e Claudia Sorace) con Sonora Desert invita a sperimentare una dimensione liminale del tempo e dello spazio tra performance e installazione, in collaborazione con Romaeuropa (7/22 novembre); Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri) con Klub Taiga propone un formato drammaturgico ibrido, una scena diffusa destinata alle controculture (14/17 gennaio); mentre i DOM- (Leonardo Delogu e Valerio Sirna) con wild facts/fatti feroci, prima edizione del progetto triennale Nascite di un giardino, si confrontano con il concetto di “archivio dal vivo” nella creazione partecipata di un giardino semipermanente per gli spazi esterni di India (dal 2 ottobre al 20 dicembre). Da gennaio prenderà invece il via una seconda fase per Oceano Indiano, che vedrà gli artisti residenti affiancare l’intera Stagione co-progettando altre forme di lavoro collettivo e di creazione in una trama di aperture performative, opere site-specific, letture collettive e laboratori aperti alla cittadinanza.
La drammaturgia contemporanea è il perno delle produzioni e coproduzioni dell’India lungo tutto l’autunno fino ad arrivare a gennaio: La rivolta degli oggetti de La Gaia Scienza, spettacolo d’esordio del sodalizio Corsetti-Solari-Vanzi, ritorna dopo il successo della passata stagione per far rivivere i versi rivoluzionari ed esistenziali di Majakovskij nel corpo-segno di tre giovani performer (20/25 ottobre); il viaggio nel mito fondativo della Rivoluzione francese di Frosini/Timpano con Ottantanove, in collaborazione con Romaeuropa (28 ottobre/1 novembre); il rinnovato investimento coproduttivo sul duo Deflorian/Tagliarini con Scavi, in cui i due artisti riportano alla luce le scoperte che hanno accompagnato il processo creativo di Quasi Niente, spettacolo ispirato al film di Antonioni (28 novembre/6 dicembre); il duo firma inoltre la regia di Chi ha ucciso mio padre, del giovane francese Édouard Louis (13/24 gennaio), spettacolo mancato e riprogrammato dalla scorsa stagione come Vaudeville! di Roberto Rustioni, riscrittura libera e vitale da Eugène Labiche per uno spettacolo che restituisce il volto più ridicolo e assurdo della condizione umana (1/13 dicembre).
La seconda parte di programmazione della stagione si compone innanzitutto degli importanti recuperi di spettacoli sospesi a fronte della mancata offerta della stagione passata e novità nazionali ed internazionali.
Al Teatro Argentina, tra le produzioni in programma, il debutto del nuovo progetto d’arte partecipata di Giorgio Barberio Corsetti che, ad aprile, approda con lo spettacolo Amleto, o della gioventù usurpata, un viaggio attraverso l’Amleto di Shakespeare che farà da guida per l’intera Stagione tra il lavoro sul territorio dei laboratori e le conseguenti risonanze nei Teatri in Comune. Tra le coproduzioni riprogrammate ritroviamo a febbraio Carlo Cecchi, funambolo intransigente della scena, con il dittico Dolore sottochiave e Sik-Sik, l’artefice magico, attraverso cui restituisce l’amarezza e il realismo eduardiani in una riflessione sul teatro come metafora della vita; si recupera a marzo Lisa Ferlazzo Natoli e la sua compagnia lacasadargilla con When the Rain Stops Falling, il racconto distopico del drammaturgo australiano Andrew Bovell, spettacolo recentemente premiato da un tris di Ubu.
Al Teatro India si inaugura la seconda fase del progetto Oceano Indiano, che vedrà a maggio il ritorno di Klub Taiga di Industria Indipendente, e in estate il debutto di Camp, ideato da DOM-. Gli artisti residenti saranno inoltre impegnati, non più soltanto singolarmente ma collettivamente, nella creazione e produzione di un lavoro comune e aperto ai cittadini, per confrontarsi assieme sulle spinte con cui il teatro e i suoi spettatori e spettatrici si trovano a convivere in questo momento storico. Sui palchi del teatro si avvicenderà poi un’antologia di sensibilità coese al progetto culturale per temi e formati, portando in scena realtà e contraddizioni dei nostri tempi con l’immediatezza e il racconto dell’esperienza diretta: la nutrita schiera di coproduzioni si dispiega ad aprile con Tutto Brucia (da Le Troiane), per la regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, in un inedito incontro produttivo tra Teatro di Roma e Motus; segue la creazione produttiva che rinnova il legame del Teatro di Roma con Mario Martone, che invita il pubblico ad entrare nel mondo di Goliarda Sapienza con Il filo di mezzogiorno, un corpo a corpo nei ricordi e nel percorso psicanalitico della grande scrittrice rimasta a lungo misconosciuta.
A partire dagli spettacoli che si avvicenderanno a gennaio sul palco dell’Argentina con il teatro di Emma Dante in Misericordia, favola contemporanea sulla disperata solitudine di un popolo di donne offese dalla violenza, con il profetico testamento di Thomas Bernard contro il ritorno dei totalitarismi in Piazza degli Eroi, per la prima volta portato in scena in Italia con la regia di Roberto Andò; seguono a febbraio all’India Smarrimento di Lucia Calamaro, monologo sulla sospensione dell’esistenza, e Padre Nostro di Babilonia Teatri, un ritratto di famiglia dove niente è al suo posto, mentre Federica Santoro e Luca Tilli con Hedvig, lavorano sull’Anitra Selvatica di Ibsen, ricavandone una riscrittura vicina al collasso della materia linguistica, sonora e umana a marzo l’Argentina ospita Silvio Orlando con La vita davanti a sè di Roman Gary, racconto di un disperato bisogno di amare, mentre all’India va in scena il monologo Compleanno di Enzo Moscato, un festeggiamento “in assenza” dedicato ad Annibale Ruccello, e di Modo Minore, un viaggio mnemonico-musicale che si sposta danzando discretamente nel giocoso impero canoro napoletano degli ultimi tre decenni del ‘900; ad aprile si recupera all’India uno degli spettacoli sospesi nella stagione mancata, l’Antigone sofoclea di Massimiliano Civica e viene proposto About Lolita dei Biancofango, dal romanzo di Nabokov; a maggio, arriva all’Argentina Macbeth, le cose nascoste, riscrittura shakespeariana sugli archetipi dell’inconscio firmata da Carmelo Rifici, mentre a India in programma il docupuppets per marionette e uomini, La classe di Fabiana Iacozzilli, che indaga il rapporto tra l’infanzia e il diventare adulti in un amarcord alla maniera di Kantor.
Il collettivo catalano El Conde de Torrefiel, dopo aver aperto l’Argentina con La Plaza, torna a marzo all’India con Los protagonistas, un’installazione multimediale dedicata a un pubblico di tutte le età, che trasformerà la Sala Oceano Indiano in un labirinto scenico in cui girovagare facendo appello all’intuizione e alla sensibilità dello spettatore, a cui viene chiesto di mettere in gioco se stesso e il proprio mondo immaginario.
Il teatro sovversivo, poetico e collettivo di Tiago Rodrigues, regista portoghese e direttore del Teatro Nazionale di Lisbona, è protagonista della prima coproduzione internazionale di questa direzione del Teatro di Roma, che sarà presentata a febbraio all’Argentina: Catarina e la bellezza di uccidere un fascista, il rito incrollabile di una famiglia che, da oltre 70 anni, si tramanda la missione di eliminare i rappresentanti del fascismo; tuttavia, Catarina rompe la tradizione e innesca una riflessione su cosa sia un fascista e se la violenza possa essere un’arma valida nella lotta per un mondo migliore. Rodrigues torna poi ad aprile con la sua pièce “manifesto” By Heart, per coinvolgere il pubblico di India in una performance sull’importanza della trasmissione, che solo l’atto di memorizzare un testo può innescare.
Felice ritorno per il secondo anno in Stagione della regista e coreografa francese Phia Ménard con un dittico di proposte che, dando parola al corpo come pratica di resistenza e liberazione, ripensa l’umano e la sua identità. Sul palco di India a febbraio porta in scena Maison Mère, performance commissionata da Documenta 14 di Kassel in cui, ispirandosi alla casa di Atena, il Partenone che proteggeva il tesoro della città, immagina una dimora di protezione per l’Europa; mentre a marzo approda all’Argentina con Saison Sèche, dall’ultima edizione del festival di Avignone, una storia di sette donne che sfida il potere patriarcale con la danza, secondo nuovi rituali e un universo artistico proteiforme che prende in prestito dalle arti plastiche, dal teatro, dal cinema antropologico.
All’inizio del 2021 il Teatro di Roma torna a ospitare una creazione di Milo Rau, fra i più acclamati innovatori del teatro d’avanguardia internazionale, con la proiezione del film Il Nuovo Vangelo, a restituzione dell’ampio progetto perseguito dall’artista svizzero e conclusosi sul palco dell’Argentina lo scorso ottobre con l’Assemblea Politica La rivolta della dignità – Resurrezione. Il film, presentato in prima mondiale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si costituisce come un’indagine al confine fra realtà, teatro e cinema, con un cast di rifugiati e contadini disoccupati a narrare la “passione” di un’intera civiltà.
Il mese di maggio vede debuttare un’originale coproduzione con Le Manège de Maubeuge dal titolo Pigs – acronimo inglese usato negli ambiti finanziari per indicare “Portogallo, Italia, Grecia e Spagna”, ovvero i Paesi dell’Unione Europea giudicati economicamente troppo fragili – in cui la regista Raquel Silvainventa una favola filosofica sul possesso, e a partire dalla crisi economica post 2008 ritraccia il percorso di un personaggio femminile il cui quotidiano è mutato dai fantasmi della crisi, raccontando con graduale presa di coscienza il sentimento di un cambiamento necessario.
Si prosegue al Teatro India con Il mio filippino. Invisible Bodies, Neglected Movements, un progetto del talento emergente Liryc Dela Cruz, artista filippino residente in Italia che parte dall’analisi dei movimenti, dei gesti e dei processi degli addetti alle pulizie filippini in Italia. Il progetto, che indaga i problemi delle seconde generazioni, degli immigrati e delle loro fatiche nel difficile tentativo di uscire dagli stereotipi, si strutturerà con una prima fase di documentazione che getterà le basi per la successiva traduzione nei passi di una danza popolare.
La stagione si conclude a giugno con un’installazione performativa di grande respiro internazionale, che rivelerà il Teatro Argentina in una modalità assolutamente inedita: Sun & Sea, il progetto vincitore del Leone d’Oro Arte dell’ultima Biennale di Venezia, firmato dalle artiste lituane Lina Lapelyte, Vaiva Grainytee Rugile Barzdziukaite, nell’unico allestimento italiano, che impegnerà tutta la platea del teatro. Un’opera lirica per 13 voci che, dopo aver affascinato il mondo internazionale dell’arte e dello spettacolo dal vivo, approda all’Argentina con una spiaggia vista dall’alto e un gruppo di bagnanti sulla sabbia che, sdraiati come in un’opera d’arte, si lasciano osservare dal pubblico a cui offrono una sinfonia globale, un coro universale di voci umane dedicato a una riflessione sulla crisi ambientale.
Con Grandi Pianure, progetto affidato a Michele Di Stefano, la danza entra nei cartelloni del Teatro di Roma, ancora più amplificata e diffusa in spazi non convenzionali, ma soprattutto integrata nel flusso dei programmi dei teatri e strutturata in risonanza con i temi del progetto artistico.
Tra gli artisti in programma al Teatro India: il coreografo e danzatore americano di fama mondiale Trajal Harrell, coinvolto nella programmazione annullata con il suo Caen amour e che torna invece a gennaio con Dancer of the Year, un riflessivo assolo di danza in cui l’artista si focalizza sull’autorappresentazione, tra origini, eredità e valore dell’arte; capofila della “nouvelle vague” francese danzatore e coreografo iconoclasta tra i più apprezzati, Boris Charmatz porta in scena a maggio Danse de nuit, una danza notturna di sei danzatori per un’indagine sulla presenza e sulla relazione tra luogo, arte e pubblico; la coreografa e danzatrice Marlene Monteiro Freitas invita il pubblico in un mondo estetico e morale le cui credenze sono messe alla prova con il suo Bacantes, un’indagine sulla ferocia e sul desiderio di pace; la voce e danza “in assenza” di Eva Karczag in Home Altrove di e con Daniele Albanese. A recupero delle date mancate nella scorsa Stagione, tornano la coreografa franco-algerina Nacera Belaza con Le Cercle, a marzo a India, per un lavoro libero che arriva a cancellare l’identità dei singoli interpreti; e infine lo stesso Michele Di Stefano con l’immersione nel paesaggio e nell’altrove di Parete Nord a maggio all’Argentina.
data di pubblicazione:06/10/2020
da Antonio Jacolina | Ott 1, 2020
L’uscita di un nuovo libro di un autore prolifico e di qualità costante come Ken Follett è sempre un avvenimento fin dal suo primo successo La cruna dell’ago nel lontano 1978, soprattutto se poi si tratta, ancora una volta, di un romanzo storico. Se infatti abbiamo amato I pilastri della terra (1989), letto Un mondo senza fine (2007), ed accettato Una colonna di fuoco (2017), non potremo non appassionarci e rallegrarci per questa nuova opportunità che lo scrittore inglese ci offre di viaggiare ancora una volta con lui nel Tempo e in un periodo storico da lui prediletto: l’Inghilterra dell’Alto Medioevo. Siamo fra la fine del X Secolo e gli inizi dell’Anno Mille. I secoli bui del periodo anglo-sassone stanno quasi alla fine, si intravvede già l’epoca dell’influenza Franco-Normanna e dei futuri costruttori di città e cattedrali, l’alba di una rinascita.
Così come tutte le migliori Saghe Cinematografiche hanno, ad un certo punto, il loro inevitabile prequel, ecco che questo quarto libro della “quadrilogia di Kingsbridge” è, di fatto, il prequel di quanto narrato in quel best seller da 22 milioni di copie che fu, a suo tempo, I Pilastri della terra.
Molte e palesemente volute sono le risonanze con quel grande successo, d’altra parte tutta la saga è stata scientemente costruita sulla stessa falsa riga: dei potenti che abusano del loro potere, dei meno potenti che lottano per l’affermazione del Bene e della Giustizia fra piccole vittorie e sconfitte, fino poi alla resa dei conti finale. Non si sfugge mai a questa regola! La capacità di Ken Follett di preparare e far crescere situazioni intriganti e poi di saperle abilmente sciogliere, è, difatti, proprio il suo marchio di fabbrica. Così come lo è anche la sua capacità di immergere, fin dalle prime pagine, il lettore nelle realtà lontane nel tempo facendogli vivere le emozioni e le passioni dei suoi personaggi, in un equilibrio perfetto fra il racconto e la descrizione ricca di dettagli del vivere quotidiano dell’epoca. Un talento inimitabile che ne fa il Maestro incontestabile del genere storico/romanzesco, un talento dietro al quale si percepisce anche tutto il grande ed accurato lavoro preparatorio di ricerca e ricostruzione.
Tre i personaggi principali, i loro destini si incrociano sullo sfondo di guerre contro i Gallesi, di incursioni dei Vichinghi, di crescenti contatti con i Normanni che si sono insediati in Francia, di nobili locali, di vescovi corrotti ed avidi, di monaci e fondatori di abazie e costruttori di cattedrali. Intrighi, amori, lotte per il potere. Temi specifici del contesto storico narrativo ed anche temi universali ed eterni.
Fu sera e fu mattina è un bell’affresco, come un bell’arazzo medievale, che cattura per tutte le sue 781 pagine, un romanzo avvincente ancora degno di elogi e che, come sempre, non deluderà gli ammiratori di Follett. Lo stile è fluido, il ritmo è incalzante in un succedersi di colpi di scena intriganti ma non artificiosi, il plot è ben saldo, ben confezionato e coinvolgente. Un libro che si fa leggere tutto d’un fiato attendendo impazientemente già una nuova storia.
A voler proprio essere maliziosi si potrebbe pensare anche ad un’operazione editoriale tesa a sfruttare al massimo la redditività di un filone di successo e trovare, ad essere pignoli, qualche leggera caduta di stile e momenti di scrittura precipitosa… Se però Ken Follett è intelligente e bravo, come in effetti è… molto probabilmente questo libro è la conclusione della saga ed il prolifico scrittore passerà sicuramente a nuovi progetti.
data di pubblicazione:01/10/2020
da Rossano Giuppa | Set 30, 2020
(Teatro Argentina – Roma, 23 e 24 settembre 2020)
Il Romaeuropa Festival ha aperto la stagione del Teatro Argentina di Roma con l’interessantissimo The Museum di Bashar Murkus, drammaturgo e regista palestinese, fondatore del Khashabi Theatre di Haifa in Israele, andato in scena il 23 e 24 settembre.
Uno spettacolo devastante e toccante, sullo scontro-incontro in un carcere tra un estremista ed il poliziotto che lo ha fatto arrestare, nelle ultime ore di vita prima della sua esecuzione. Quell’uomo infatti ha commesso un attentato al museo di arte contemporanea uccidendo quarantanove bambini e un insegnante senza riuscire nel suo intento suicida. Condannato a morte, ha atteso per sette anni il giorno della sua esecuzione, e proprio nel suo ultimo giorno di vita ha chiesto di condividere i suoi ultimi momenti con il detective che ha seguito il suo caso portandolo alla condanna a morte.
I due uomini si incontrano nella stanza dove al condannato verrà praticata l’iniezione letale e lì, alla fine pur nei diversi ruoli, metteranno a nudo la loro natura autodistruttiva, i loro modi opposti di vedere la vita. Un raffronto contrapposto non su posizioni ideologiche ma sulle visioni personali , un dialogo masochista e manipolativo che li lega l’uno all’altro fino all’ultimo istante di un’ultima notte in cui entrambi sono alla ricerca del proprio senso di morte che desiderano, un gioco al massacro per entrambi, con l’attentatore nudo su una tavola da obitorio, il detective talora umano e comprensivo, altre volte crudele e violento nei confronti del suo agnello sacrificale.
L’interpretazione e la gestualità dei due attori è davvero straordinaria ed intensa, sottolineata dalle asprezze e dalla musicalità della lingua araba, da un gioco alternato di luci e ombre, da un allestimento minimal di grande impatto che avvolge gli spazi del dialogo, grazie anche alla sapiente scelta di brani musicali che mescolano l’elettronica con l’opera e con l’aria Casta Diva della Norma di Bellini.
Bashar Murkus è uno dei protagonisti più vivaci della scena teatrale indipendente palestinese; vive e lavora ad Haifa dove, nel 2011, ha iniziato la sua carriera con una laurea in studi teatrali. I suoi lavori, da sempre improntati ai rapporti tra la vita della sua comunità e i fattori politici e sociali che incidono sulla attuale situazione del suo popolo, sono stati ospitati in numerosi teatri internazionali in Europa e nel mondo.
Il Khasabi Theatre è un’organizzazione culturale indipendente che mira a fornire agli artisti uno spazio per sperimentare, creare, ricercare e svolgere forme alternative di teatro e arte costruendo uno spazio in cui i tabù sociali, politici e artistici possano essere sfidati e creando un ambiente creativo basato sulla cooperazione e sul sostegno reciproco.
Spettacolo decisamente coinvolgente, specchio di una terra flagellata dai conflitti ma in cui l’afflato artistico non si è mai spento.
data di pubblicazione:30/09/2020
da Antonio Jacolina | Set 27, 2020
Alla “quasi ripresa” della quotidianità… scuole/trasporti/uffici/movida…, a circa 8 mesi dall’inizio della vicenda Covid… davanti alle nubi di una possibile “seconda ondata” in arrivo anche in Italia, quanti di noi/voi sono disposti a mettere a rischio la propria salute per andare in una sala cinematografica? in un teatro? o ad un concerto? A giudicare dai primi dati dei box office internazionali ed anche italiani: pochi! molto pochi! troppo pochi! in Italia poi: pochissimi!!
L’ultima coraggiosa Mostra del Cinema di Venezia, seppur ottimamente gestita, è stata, diciamolo pure, (ed io c’ero) fortemente condizionata dagli effetti diretti ed indiretti della pandemia sia a livello di frequenze, di partecipazione, di selezione che di qualità e di rappresentatività ed è stata più un incontro di appassionati ed amanti di Cineclub e di Cinematografie “minori” che non una Mostra, un Festival dei migliori prodotti delle migliori Cinematografie.
L’unico vero blockbuster finora uscito nei non tanti schermi riaperti: TENET di Christopher Nolan, stenta ad incassare, sia nel Mondo che in Italia, di che pagarsi i costi di realizzazione. Il palliativo delle arene e dei Drive in ha consentito ai vari giornalisti di scrivere dei bei “pezzi di colore”, ma, nei fatti, non hanno smosso quasi nulla a livello di recupero di pubblico.
Manca il pubblico, mancano i buoni film!
I grandi nuovi film, d’autore o commerciali che siano, tardano ancora ad uscire! (non parlo di Italia, ove, come si sa, la Stagione già in tempi normali ripartiva ad Ottobre inoltrato, ma parlo di quei paesi ove, al contrario, la Stagione vera inizia con l’uscita dei grandi film fin da Agosto).
Netflix, Amazon e le altre varie piattaforme stanno divorando, come tanti piranha, in un crescendo esponenziale, la massa degli spettatori e sono arrivati ad avere oltre 200 milioni di abbonati ed altri ancora puntano sicuramente ad averne dall’Autunno in poi. Abbonati che si preparano, più o meno rassegnati o ben disposti, ad adeguarsi ai nuovi tempi e a gustarsi il Cinema nelle sue varie e nuove forme, seduti comodamente ed in sicurezza su proprio divano di casa.
Ci siamo, in questi mesi, più volte chiesto e richiesto, fino alla nausea, che fine faranno le sale cinematografiche? Ci siamo ripetuti, come un mantra che: “il grande schermo è un’altra cosa” che “il buio in sala è magico” così come ci siamo detti e ci diciamo e ripetiamo del piacere di sfogliare un giornale, di girare le pagine di un libro, dell’odore della carta, del poter sottolineare i brani che ci colpiscono, eppure… noi tutti conosciamo amanti del Cinema o della Lettura che sono già passati serenamente “al nemico” e non rimpiangono le vecchie sale o i giornali di carta.
Tra non moltissimo sarà un anno dall’inizio della pandemia, la nostra vita quotidiana è già cambiata in modo così radicale (nei gesti, nei comportamenti, nelle relazioni…) da far ormai pensare che le abitudini nuove sembrino destinate ad incistarsi nei processi già in atto da tempo e a perdurare anche oltre la soluzione della crisi.
Il Cinema come industria e spettacolo ha ripreso a produrre ma i film vanno ormai in onda direttamente sulle piattaforme e sempre di più ne verranno programmati nei prossimi mesi autunnali/invernali. Delle sale cinematografiche in genere e di quelle nel frattempo scomparse ricorderemo il fascino ma ci abitueremo alla loro inesorabile rarefazione e marginalità, e… una volta abituati diversamente, senza lagrimosa retorica ma con molto pragmatismo, dovremo prendere atto che andare in sala sarà un “raro evento” perché un’Era è finita e ne è iniziata una nuova!
data di pubblicazione:27/09/2020
da Daniele Poto | Set 26, 2020
Elie Wiesel il più grande romanziere yiddish secondo Elie Wiesel qui si produce in uno spaccato d’interno sull’ortodossia ebraica. Ambientazione: la Lituania del 1930, oggi sui territori della Bielorussia. L’impostazione maschilista della religione viene combattuta sottilmente con le arti dell’intrigo della diplomazia dalla moglie di un rabbino mite e tutt’altro che ambizioso. La donna, un magnifico ritratto di ascesa sociale, manovra tutti i personaggi del romanzo, tranne l’indomabile figlia. Ma non è un personaggio vincente perché conserva un fondo di frustrazione e di bipolarismo malsano. Grade descrive la società chiusa che ben conosce attraverso sette anni di studio del Talmud. Il testo è per lui una liberazione se dopo quell’esperienza tutte le attenzioni saranno dedicate alla poesia e dunque a un aspetto più lirico e meno cerebrale dell’esistenza. Nella sviluppo del racconto la religione assorbe tutti gl interessi ma la spiritualità non è di casa. Si è chiusi in un microcosmo concentrazionario di riti senza via d’uscita. La burocrazia rabbinica, il prestigio acquisito, il rispetto degli altri, sono le monete di scambio della narrazione. L’ironia pervade a tratti lo sviluppo anche se Grade appare completamente a proprio agio in una trama univoca e senza grandi scossoni. Un grande affresco di gruppo con inevitabilmente al centro Perele, la moglie arrivista che ha le idee molto più chiare degli uomini su dove vuole arrivare. Il suo sarà anche un percorso di vendetta nei confronti del rabbino che non l’ha voluta sposare. Le sue capacità manipolative sono notevoli anche se nel suo tentativo di esercitare un preciso controllo sulle situazioni ogni tanto qualcosa le sfugge. Poco attraente, intelligente, misterica, un ritratto di donna potente all’interno di una società chiusa nella propria ortodossia. Un universo che, per quanto ci raccontano, ancora sopravvive nelle torri d’avorio di Gerusalemme o Tel Aviv. Con una fermezza e un’irremovibilità che non sono più della religione cattolica.
data di pubblicazione:26/09/2020
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