BORAT 2 – Seguito di film cinema di Jason  Woliner, 2020 (su Amazon Prime Video)

BORAT 2 – Seguito di film cinema di Jason Woliner, 2020 (su Amazon Prime Video)

Ritorna BORAT (Sacha Baron Cohen) l’esuberante reporter Kazako innamorato degli USA che, condannato per aver offuscato l’immagine del proprio Paese, per riscattarsi accetta di recarsi nuovamente in America con l’obiettivo di portare un dono al Vice Presidente degli Stati Uniti …

 

Con i cinema definitivamente chiusi non ci resta che lasciarci tentare da ciò che passano i “conventi”, cioè le varie piattaforme on line, e … si può allora cedere alla tentazione di vedere cosa abbia realizzato di nuovo un commediante geniale, sregolato e provocatorio come Sacha Baron Cohen, un artista che si può solo amare o disprezzare senza vie di mezzo. Il suo nuovo film (in onda su Amazon Prime Video) rimette in gioco il baffuto reporter kazako, ma, mentre il primo Borat nel lontano 2006, in piena epoca Bush, si avventava con ottimi risultati contro il politicamente corretto senza assolutamente curarsi dei danni collaterali, oggi, dopo ben 4 anni di Trump e per di più, schiacciati da una realtà infinitamente peggiore della più pessimistica delle possibili fantasie, le nuove provocazioni di Borat non producono effetti se non marginali. Allora si rideva di cuore davanti alle dissacranti provocazioni del commediante inglese, oggi purtroppo nulla ci può sorprendere, né ci possiamo meravigliare più di tanto delle reazioni dei soggetti presi di mira, né di quell’America profonda per cui i fatti e la realtà non sembrano avere la benché minima importanza. Più che un seguito effettivo del primo film ci troviamo quindi davanti ad un film politico, che cerca di essere il più attuale possibile fotografando la realtà sociale americana sotto tutti gli aspetti, ivi compresa la pandemia da Covid19 e con un occhio particolare anche alla tematica della condizione femminile. L’autore infatti, spregiudicato, dissacrante e volgare da par suo, gioca sul confronto fra le diversità di opinione, comportamento e bigottismo della “grande America” di Trump e del “rurale Kazakistan” al fine di poter mettere in luce tutte le contraddizioni antiche ed attuali, presenti ancora oggi.

Gli spettatori non “innamorati di Borat” potranno però restare delusi: la ricetta è sempre la stessa, una serie di sketch più o meno corrosivi su certi nostri comportamenti e su quelli degli Americani in particolare, ironizzando sul loro livello culturale e la loro mancanza di sensibilità, ma, questa volta, è troppo poco per poter soddisfare lo spettatore. Tutto è infatti meno buffo, meno brillante, meno dissacrante e pungente, meno originale del primo Borat, si è persa da allora tutta la novità, l’ironia e la genialità. C’è una sola piacevole e riuscita novità, l’indovinatissimo personaggio della figlia del giornalista (l’eccezionale Maria Bakalova) in attesa di essere donata all’amico di “Mc Donald” come “donna oggetto”, destinata a vivere in una gabbia dorata come “Melania” e che, per tutta la durata del viaggio, cerca di apprendere come riuscire a divenire da “donna Kazaka” una perfetta “donna Americana” nei modi e nel fisico. Un’invenzione esilarante e geniale che permette a Cohen/Borat di giocare a mettere in risalto il ruolo di poco conto o di semplice bell’oggetto che ha la donna ancora oggi. Ma non basta!

Per il resto appare infatti difficile credere ancora a quella apparente genuinità a quell’effetto happening reale che aveva positivamente caratterizzato il primo film. In conclusione, pur sapendo che il buon gusto non è mai stato di certo la prima preoccupazione dell’autore, resta solo un film difficile da seguire per le sue scene crude e comiche al tempo stesso. Un film che fa sì riflettere, ma dai tratti molto trash, molto provocatori, scandalosi e volgari senza più il guizzo qualificante della provocazione intelligente né la genialità innovativa e dissacrante. Pur prendendo Borat per quel che è, e pur sapendo quanto sia apprezzato fra la generazione dei millennials, va però detto che si tratta senza dubbio di uno dei film meno riusciti di Sacha Baron Cohen.

data di pubblicazione:05/11/2020


Scopri con un click il nostro voto:

BUONISTI UN CAZZO di Luca Bottura, Feltrinelli, 2020

BUONISTI UN CAZZO di Luca Bottura, Feltrinelli, 2020

Il gusto della battuta non è quello della barzelletta. E il fluviale Luca Bottura, autore infinito per Bertolino, Cucciari, Littizzetto, in passato per Gnocchi, Crozza, Cornacchione, Celentano (tenete presente, non è tutta farina del loro sacco) ha tentato un passo lungo ma probabile. Un libro che è un condensato di umori fertili, il filo rosso di una narrazione molto personale, quasi un livre de chevet, sulla sua lunga parabola giornalistico-satirica. Percorso in cui le preferenze politiche sono dichiarate (l’idiosincrasia per i grillini ad esempio, vittima designata l’ex Ministro Toninelli al quale dedica spiegazioni particolareggiate). Dunque non una storia da romanzo ma tante storie, tanti frammenti a cui non si chiede di radicarsi in un impianto coerente. Dove la dispersività intrigante è un dono e non una diminutio. C’è il racconto di una lunga gavetta con la dolorosa esperienza a L’Unità, giornale tradizionale della sinistra la cui abdicazione è un po’ la metafora del tradimento di tutto un versante politico in cui riponeva tante speranze di futuro. L’autore ci racconta l’Italia che vede e che sopporta con l’occhio ironico ma non distaccato di un cronico disadattato e/o indignato. I buonisti? Sostiene che siano sempre meglio, con la loro constatata fragile identità, dei cattivisti in circolazione nel Paese, a partire dai pupulisti/sovranisti. Un libro a cui non si chiede particolari doti di coerenza quanto di brillantezza e di generosità autoriale. Dunque un manuale d’uso che è quasi una sorta di guida scapestrata ai tempi difficili che viviamo. Il testo abbonda di citazioni musicali e sportive (il Bologna calcio, la Fortitudo). I bersagli sono tanti (Marco Travaglio, ad esempio) ma il lettore non disquisirà sulle predilezioni quanto sarà piacevolmente risucchiato dal vortice carsico di affabulazioni satiriche. Le une sulle altre con effetto esponenziale. Un libro survoltato ma comunque non sopra le righe. Come si diceva una volta.

data di pubblicazione:05/11/2020

MOUTHPIECE di Kieran Hurley, regia di Maurizio Mario Pepe

MOUTHPIECE di Kieran Hurley, regia di Maurizio Mario Pepe

(Teatro Belli – Roma, 2/8 novembre 2020)

Edimburgo, strapiombo di Salisbury Crags al tramonto. Libby è una scrittrice in crisi, Declan la salva prima che lei si getti di sotto. Il ragazzo ha una storia da raccontare e Libby ne approfitta per ritrovare ispirazione.

 

Per indicare qualcuno che parla a nome di un altro in inglese si usa il sostantivo mouthpiece. Il titolo dà l’idea di quello che vedremo, succede così quando si rispettano le rigide regole dello storytelling. Lo sa bene Libby, una scrittrice di opere teatrali in preda al blocco dello scrittore. È a un passo dal buttarsi nel vuoto quando Declan, un ragazzo di appena diciassette anni con una straordinaria dote di disegnatore, la ripesca indietro e tra i due inizia un’amicizia. Libby rimane affascinata da uno dei disegni del ragazzo, una bambina in piedi sullo skyline di Edimburgo sovrastata da una bocca gigante che sta per inghiottire tutto. Quando gli chiede le ragioni dell’opera scopriamo che il ragazzo ha una storia difficile alle spalle, ed è una storia da raccontare. Libby coglie l’occasione per tornare a scrivere, appropriandosi del racconto di Declan. L’interesse nei confronti del ragazzo è quindi egoistico. La loro è un’amicizia improbabile, se non altro per il divario di età. Ma quello che li distingue nettamente è la provenienza sociale: Declan fa parte del nuovo tessuto povero inglese, che fa i conti con le scarse finanze e le frustrazioni che ne conseguono. È del tutto solo e deve arrangiarsi. Non così la borghese Libby, che sfrutta la storia commovente di Declan per tornare a darsi uno scopo nella vita. È in questo modo che Hurley trasforma la vita reale in teatro, creando un gioco incredibile di continuo passaggio dalla finzione alla realtà e da questa di nuovo nella finzione dello spettacolo che Libby vuole mettere in scena. Il cortocircuito nella testa dello spettatore è assicurato, coinvolto in prima persona anche grazie alle soluzioni da teatro epico insite nella struttura del testo. Ma le regole dello storytelling non sono quelle della vita reale. Il finale è tutto da scoprire.

Una riflessione sull’urgenza dell’arte, vista come necessità o sfogo e non come un prodotto scientificamente strutturato. Uno spettacolo che guarda al dramma della vita di tutti i giorni. Una scrittura brillante e coinvolgente, come gli attori in scena, Cecilia Di Giuli e Edoardo Purgatori, sacrificati forse alla lettura al leggio, ma tuttavia complici di una regia dinamica che si avvale della forza seduttiva e convincente della loro interpretazione. Un esperimento che ci ricorda quanto il teatro sia legato alle nostre esistenze e quanto abbiamo bisogno di arte. Qui, ora, soprattutto in questo periodo di pandemia.

data di pubblicazione:05/11/2020


Il nostro voto:

HOME, I’M DARLING di  Laura Wade, traduzione di Andrea Peghinelli, regia Luchino Giordana e Ester Tatangelo

HOME, I’M DARLING di Laura Wade, traduzione di Andrea Peghinelli, regia Luchino Giordana e Ester Tatangelo

(Teatro Belli- Roma, 30 ottobre/1 novembre 2020)

Nuova scena inglese con ammiccamenti a Pinter rimodellato nel nuovo millennio. Senza morbosità ma con una traduzione scoppiettante fedele a fornire un ritratto veridico della middle class britannica negli anni della crisi.

Lei è tutta casa e pranzetti, immedesimata nel proprio ruolo di casalinga che si scoprirà forzoso più che libera scelta (è stata convinta a dare le dimissioni da un brillante lavoro). Lui è zelante ma in crisi incapsulato in un matrimonio soffocante. Le cartine di tornasole che faranno detonare la stagnante situazione sono gli altri protagonisti della commedia in due tempi proposta con streaming a pagamento per la rassegna TREND, la nuova scena britannica, ovvero un’amica, la madre della padrona di casa, la capoufficio di lui. E, gradatamente l’atmosfera rosea delle prime scene diventa plumbea, anche di fronte a una possibilità di tradimento. Il chiarimento arriverà alla fine con un contraddittorio che sa molto di teatro, con dialoghi all’altezza, la viva complicità e partecipazione di attori assai in sinergia con il tema e debitamente affiatati. La scenografia di Francesco Ghisu mostra il fondale ideato da lei, una gabbia stretta. Il richiamo ideale agli anni ’50, compresi balli, televisore e frigorifero. Una cornice mortifera da cui solo l’evasione, come da un carcere è possibile. Rimbalzano nelle due ore e mezzo di spettacolo senza cali di tensione molte delle frenesie del tempo: l’emancipazione della donna, un femminismo non completamente digerito, il carrierismo, l’economia del dopo Thatcher, il sessismo. Qualcuno ha evocato Un Tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams anche se qui siamo lontani da esasperazioni e perversione. Un piccolo grande dramma domestico in via di risoluzione grazie all’amore che è fonte ispiratrice di due protagonisti che non vogliono perdersi. Un inno all’amore ma anche al teatro con questa originale proposta rivolta al pubblico online. Se non si può andare a teatro è il teatro che entra nei nostri schermi.

data di pubblicazione:03/11/2020


Il nostro voto:

LA CONSUETUDINE FRASTAGLIATA DELL’AVERTI ACCANTO di Marco Andreoli, con Claudia Vismara e Daniele Pili, con regia degli stessi attori

LA CONSUETUDINE FRASTAGLIATA DELL’AVERTI ACCANTO di Marco Andreoli, con Claudia Vismara e Daniele Pili, con regia degli stessi attori

(Teatro Vascello- Roma, 28/31 ottobre 2020)

La rarefazione estenuata dei rapporti di copia. La ripetizione come logoramento nella vita coniugale. Una complessa trama di abitudini, luoghi comuni, attese non corrisposte alleggerite da una colonna sonora orecchiabile e tratti da music hall.

Teatro a domicilio per 48 attenti spettatori davanti allo schermo di un computer. Spettacolo dal vivo che per non morire si offre gratuitamente. Gli applausi, risate e i rumori di fondo affidati alla regia. Ma il freddo delle circostanze viene riscaldato dal calore drammaturgico dell’opera. Un testo certo non facile su cui la mini-compagnia ha lavorato per due anni vedendo sfumare in extremis la soddisfazione del debutto bruciata da un impietoso decreto legge. Il lavoro degli attori-registi trae ispirazione dai Multiversi di Hugh Everett. Si avverte una forte suggestione di fondo che teorizza l’esistenza di consistenti universi fuori dalle nostre coordinare spazio tempo. La dimensione parallela si sviluppa nel dialogo stentato dei protagonisti. Nel fondale di una cucina simil Ikea, con un televisore quasi perennemente acceso, si assiste a lacerti di una vita di coppia sfilacciata, a tratti insensata, invano riscattata da affettuosi soprannomi, da rituali di abbraccio che non riescono a dissimulare la profonda mancanza di intesa. Vari piani non simmetrici di racconto in 75 minuti di sviluppo che appare piano in capo a ottanta minuti di felice esibizione. Le parole sembrano infingimenti per riempire il vuoto comunicazionale. Vite senza direzione né programma. Persino una zuppa di porri se preparata in un giorno diverso dal giovedì può provocare sconcerto. Eppure, sotto traccia, la vita cambia e fa da sé e certi passo si rivelano decisivi, quasi irreparabili. Il personaggio femminile, un po’ in disparte nella prima parte, nella seconda cresce di tono e prende il sopravvento con la propria feroce determinazione, decise a uscire dalla gabbia della sopraffazione.

data di pubblicazione:30/10/2020


Il nostro voto:

SLEEPLESS. TRE NOTTI INSONNI di Caryl Churchill, regia di Lorenzo Loris

SLEEPLESS. TRE NOTTI INSONNI di Caryl Churchill, regia di Lorenzo Loris

(Teatro Belli – Roma, 26/27 ottobre 2020)

Il punto di vista di una eccezionale drammaturga sul naufragio della coppia, così vero da lasciare sconcertati. Caryl Churchill e il problema della relazione nel secondo appuntamento – online! – per Trend.

 

 

 

Trend non si ferma e senza perdere tempo trascina la sua programmazione in streaming. La scena contemporanea – che sia inglese o di altra nazionalità – non deve arrestarsi in questo drammatico tempo di pandemia. Tuttavia ci auguriamo che il “contemporaneo” che viviamo passi velocemente e ci restituisca quello che ci sta portando via. Il teatro e la cultura vivono dell’incontro di persone. Eccoci così davanti allo schermo del nostro computer. La straordinaria e encomiabile serietà dello staff di Trend e del teatro Belli aprono il sipario virtuale: va in scena Sleepless. Tre notti insonni, un dramma che racconta in tre quadri la crisi di tre differenti coppie, colte nel punto più estremo della consunzione del loro rapporto. Il filo conduttore che le accomuna è il fallimento e la depressione. Caryl Churchill registra tutto adottando un linguaggio surreale e assurdo, fissando nella gabbia scura della notte il tempo dello sfogo delirante. Lo spazio è il letto, centrale nella scena, sotto una parete cieca che la regia di Lorenzo Loris vuole senza porte e senza finestre. Nessun luogo dove guardare altrove, nessuna via di uscita. Il muro è uno schermo dove si proietta solo l’immagine della morte, che porta a soluzione la sorda incomunicabilità dei personaggi. Così fra tradimenti e rinfacci, tra mugolii di dolore e inconsistenti racconti, ricatti mascherati dietro insicurezze e pentimenti le tre vicende si snodano in uno stringersi claustrofobico di lenzuola. Elena Callegari e Mario Sala sono gli attori che ricoprono tutte le parti. Insieme danno l’idea del peso degli anni che queste coppie hanno addosso. Non sono giovani, da mostrare gli entusiasmi dell’inizio, né sono troppo vecchi da rassegnarsi ancora a una piatta e tacita sopportazione. Per le loro doti interpretative e le loro caratteristiche fisiche e vocali, la scelta risulta azzeccata e contribuisce a dare risalto al grottesco e all’assurdo che sottende il dramma.

Ancora un testo in cui a essere drammatizzato con sorprendente arte è il vuoto del quotidiano, l’ordinario delle nostre esistenze. Aspettiamo il prossimo appuntamento, Home, I’m darling di Laura Wade per la regia di Luchino Giordana e Ester Tatangelo (biglietti acquistabili sul sito www.teatrobelli.it ).

data di pubblicazione:29/10/2020


Il nostro voto:

ELEANOR OLIPHANT STA BENISSIMO di Gail Honeyman – ed. GARZANTI 2020

ELEANOR OLIPHANT STA BENISSIMO di Gail Honeyman – ed. GARZANTI 2020

Romanzo di esordio della quarantenne scrittrice scozzese, Eleanor Oliphant è stato un clamoroso successo editoriale fin dalla sua prima uscita nel 2018/19, e viene ora riproposto anche in edizione economica, un’opportunità per tutti coloro che non lo avessero ancora letto. Si tratta di un libro molto sensibile e divertente e, al tempo stesso, anche potente, un piccolo bijou, una piacevole sorpresa, toccante e vibrante di Verità, una brillante ed intrigante combinazione in cui è bello immergersi. Un libro facile a leggersi ed ottimista senza però essere l’ennesimo “feel good book”. Tutt’altro, è invece un libro sulla solitudine, i traumi della psiche, la follia, l’amicizia, la sofferenza e la diversità.

Eleanor ha 30 anni, lavora come contabile, le sue giornate seguono lo stesso ritmo sempre eguale: lavora e mangia da sola per tornare poi nel suo piccolo e spoglio appartamento ove vive da sola, conversa con una pianta sempre verde, il week end cede al conforto della vodka ed il mercoledì parla al telefono con la madre “lontana”. La ragazza ha una storia molto particolare dietro di sé ed ha dovuto costruirsi, per proteggersi e sopravvivere, un proprio piccolo mondo con il poco che ha ricevuto, riuscendo forse a colmare i propri bisogni primari, ma non certo quelli psichici ed affettivi. Eleanor, nonostante la sua asocialità, il suo parlare troppo franco e diretto, la sua logica atipica … sta bene , o … pensa di stare benissimo. In effetti è una ragazza un bel po’ “particolare”, il suo modo di vedere il mondo è gustoso e le sue riflessioni sono tanto originali quanto anche altamente precise ed intelligenti. La sua routine tranquilla ma alienata ed alienante salta però per una serie di fatti fra loro concatenati che le sconvolgono la vita, anche se non nel senso da lei inizialmente sperato.

Un libro molto più profondo di quanto possa apparire a prima vista seguendo la vita quotidiana del personaggio. Un romanzo buffo e commovente, leggero e profondo, luminoso e cupo che ci restituisce il ritratto toccante e complesso di una giovane donna ferita fin dalla sua prima infanzia.

L’autrice ci svela il suo personaggio, la sua “antieroina” tramite piccoli dettagli, con piccoli tocchi leggeri, un lavoro di cesello pieno di tanti piccoli messaggi e significati che fanno ridere e piangere fra momenti bizzarri e momenti toccanti. Piano, piano il lettore entra nel piccolo mondo di Eleanor e resta legato a questa strana, folle e lucida “eroina”.

La scrittura è semplice e fluida, lo humour è altamente British ed aiuta a sdrammatizzare le situazioni. Il ritmo è intrigante ed una volta immersi nelle digressioni stravaganti, allucinate ed allucinanti di questo estroso romanzo si rimane veramente magnetizzati dalla storia, ma, soprattutto da come essa viene raccontata da un “io narrante” tanto strambo quanto originale.

Si chiude infine il libro con un sorriso, un po’ di speranza ed ottimismo e … di certo … non ci fa affatto male di questi tempi!!

data di pubblicazione:28/10/2020

I PREDATORI di Pietro Castellitto, 2020

I PREDATORI di Pietro Castellitto, 2020

Famiglia ricca snob contro famiglia cheap e malavitosa. Materia già vista con Virzì e ben più efficacemente trattata dal regista livornese. Opera prima supervalutata proveniente da Venezia. Castellitto jr. osa, esagera, strafà. Regista e anche interprete. Ma non è Woody Allen e l’eccentricità non deflagra in una trama coerente in una pellicola sfilacciata e davvero un po’ presuntuosa.

 

Opera prima che denota l’acerba immaturità del regista. Nella sua freschezza dovrebbe risultare un film con guizzi incoerenti ma la noia è in agguato nell’andamento circolare di un film in cui il personaggio di partenza (Marchioni) deve chiudere un finale tutt’altro che happy. Nel secondo tempo (difetto di montaggio?) il regista non sembra sapere dove collocare la macchina da ripresa e la pellicola gira a vuoto con dialoghi di rara banalità. Spiace trovare impegnati (e sprecati) nell’impresa Massimo Popolizio, il miglior attore di teatro nostrano al momento, e Dario Cassini comico reinventato in un improbabile ruolo grottesco. Molto meglio se la cava Manuela Mandracchia nella parte della regista virago assillata da mille turbe e da violenti scatti d’ira. Il film rimane un ibrido tra la commedia all’italiana e la ricerca di originalità a tutti i costi nella trama e nelle situazioni. Troppa carne al fuoco non governata con materia centrifuga. Il giovane regista-attore si ritaglia una parte distopica che però non emoziona né tanto meno strega. Un’altra occasione perduta dal cinema italiano in un’annata davvero grama, soprattutto se a confronto con la cinematografia d’oltre oceano. Anche in questo caso il trailer illude e rimane una delle cose migliori come condensato di un film con troppe vie di fuga da uno sviluppo coerentemente lineare. Naturalmente la critica embedded (controllare sul web) mostrerà di aver visto un altro film, complice l’effetto-Venezia, a volte miracoloso.

data di pubblicazione:26/10/2020


Scopri con un click il nostro voto:

WALL di David Hare, cura e interpretazione di Valter Malosti

WALL di David Hare, cura e interpretazione di Valter Malosti

(Teatro Belli – Roma, 23 ottobre 2020)

Spettacolo di debutto della 19ª edizione di TREND – nuove frontiere della scena britannica, in scena al Teatro Belli di Trastevere per un calendario di 14 appuntamenti da qui a dicembre, Wall di David Hare, nella versione di Valter Malosti, traccia fin da subito il percorso tematico del festival edizione 2020 a cura di Rodolfo Di Giammarco: il muro come concetto divisivo, fisico mentale e sociale, che separa gli individui, come noi spettatori tenuti in platea a giusta distanza di sicurezza.

 

L’idea di alzare un muro per dividere Israele dai territori palestinesi sorse in seguito agli attacchi terroristici, diventati ormai frequenti durante la seconda intifada. In particolare la bomba esplosa il 1° giugno 2001 nella discoteca Dolphinarium di Tel Aviv, che causò la morte di una ventina di giovani e il ferimento di oltre un centinaio, fu l’evento detonatore che portò alla costruzione della barriera/argine tra Israele e Palestina. Più di 4/5 della popolazione israeliana era a favore di questa costruzione. Ma se per la parte israeliana il muro rappresenta un recinto di separazione ovvero una barriera di difesa, che ristabilisce una presunta normalità nella vita della popolazione al riparo dalle incursioni terroristiche, per la parte palestinese questo è un muro di segregazione raziale, che impedisce di spostarsi liberamente e in qualche punto di non poter più vedere il mare. David Hare scrive un monologo adattato a racconto teatrale di questa contradditoria realtà. Come afferma infatti lo scrittore David Grossman, incontrato dall’autore a Gerusalemme durante la scrittura della pièce, se da un lato il muro mostra al mondo tutta l’arrogante potenza israeliana, dall’altro ne rivela tristemente la sua debolezza e la sua fragilità: Israele non è ancora una casa sicura, la gente non vive ma sopravvive. Il reportage di Hare – messo in scena da lui stesso a Londra la prima volta – è chiaro e dettagliato, una fotografia esatta della situazione politica e sociale in questo fazzoletto di terra di dieci anni fa. Il racconto non esibisce pareri o preferenze, né cerca di dare soluzioni. Il punto di vista di Hare è equilibrato, in altre parole non sceglie di stare né da una parte né dall’altra del muro. Vi passa però attraverso, tra le centinaia di checkpoints dislocati lungo il percorso, per cercare di capirne le ragioni e i limiti. Valter Malosti, affezionato amico e immancabile presenza a Trend, ne propone un adattamento asciutto, crudo, essenziale. Fa suo un racconto estremamente soggettivo, che restituisce con forza e convinzione. Il teatro si conferma nuovamente come lo spazio necessario e insostituibile per la diffusione della conoscenza, della cultura e della crescita umana.

Con l’augurio di poter vedere concludersi questa rassegna di spettacoli senza ulteriori limitazioni dovute alla pandemia in corso, ricordiamo che lunedì 26 e martedì 27 ottobre andrà in scena Sleepless / Tre notti insonni di Caryl Churchill per la regia di Lorenzo Loris. Ringraziamo tutto lo staff del Belli per la calda e sicura accoglienza e tutta la squadra organizzativa di Trend, che anche in quest’anno difficile ci ha voluto come spettatori.

data di pubblicazione:24/10/2020


Il nostro voto:

L’ULTIMO PROCESSO di Scott Turow – ed. MONDADORI 2020

L’ULTIMO PROCESSO di Scott Turow – ed. MONDADORI 2020

Fin dal suo folgorante debutto nel 1987 con Presunto Innocente fu evidente che con Scott Turow era arrivato sulla scena letteraria un vero Maestro del genere poliziesco, o, meglio ancora, il vero padre del sottogenere del “Legal Thriller” colui che ha definito le regole del “Giallo Giudiziario”, vale a dire di quel tipo di romanzi che, come i suoi, possedevano un sottotono cupo e malinconico, un plot intrigante, un coinvolgente mistero centrale, notevole suspense e, soprattutto, elettrizzanti e coinvolgenti scene di dibattimento in aula di tribunale. Storie di uomini e di donne le cui vite sono segnate dal loro affidarsi alla Legge ed al dibattimento giudiziario tra incerte verità ed incerti valori morali nella ricerca della Giustizia, sempre ed inevitabilmente imperfetta.

La quasi immediata trasposizione sugli schermi del suo primo libro con un film di grande successo con Harison Ford e la splendida Greta Scacchi, contribuì, da subito, a dare al nostro scrittore una popolarità definitiva.

Sulla sua scia, nel “legal thriller” si sono poi infilati, senza mai però superarlo, emuli di successo come John Grisham, Michael Connely, Steve Martini e Richard N. Patterson, autori tutti con diversa prolificità, diversi ritmi e vivacità e con storie molto più dinamiche e variegate, ma, al contempo, anche autori con una qualità ed una capacità di scrittura molto più incostante di quella di Turow. Quest’ultimo infatti, in quasi 40 anni ha scritto solo dieci romanzi e, più che alla dinamicità delle sue storie ha centrato tutto il suo talento nella profondità dell’analisi introspettiva dei suoi personaggi e nella veridicità e nello sviluppo del plot e soprattutto dei dibattimenti in aula.

L’ultimo processo è ambientato, ancora una volta, nell’immaginaria Kindle County e segue il ritorno ed al tempo stesso il commiato dell’avv. penalista Sandy Stern che, quasi come un alter ego o proiezione letteraria dell’autore stesso, è stato sempre presente fin dal primo romanzo, a volte in ruoli marginali, a volte in ruoli più significativi. Questa volta è invece al centro della scena, in un processo non facile che sarà il suo addio alla professione perché ha ormai 85 anni, due volte vedovo e sopravvissuto ad un cancro. L’avvocato scende in campo a difesa di un amico di famiglia (medico, ricercatore, e premio Nobel per la sua scoperta sul cancro) accusato di omicidio, frode ed insider trading. Turow con la sua talentuosa capacità ci racconta una storia di debolezza umana, di avidità, di rivalsa, di disonestà intellettuale, di invecchiamento. Un romanzo sulla complessità e difficoltà di arrivare a formulare un giudizio alla ricerca della Verità e della Giustizia. Nessuno come l’autore ha saputo e sa infatti illuminare il lato umano sottostante l’applicazione della Legge.

Tuttavia qualcosa non va, forse anche l’autore come il suo avvocato sta perdendo smalto e lucidità! Turow, pur continuando a scrivere, come sempre, con mano esperta, sembra aver perso la connessione con i suoi lettori. La storia principale ahinoi è purtroppo prevedibilmente scontata, poco avvincente e tirata un po’ troppo per le lunghe e così anche le due/tre sottostorie di supporto. I personaggi sono freddi, privi di vitalità e passione e poco coinvolgenti. E’ pur vero che si tratta di un giallo atipico da aula giudiziaria, incentrato, salvo qualche raro momento, solo su ciò che avviene durante il dibattimento davanti al giudice e quasi nessuno spazio è lasciato a ciò che precede ed accompagna il processo, ma questa volta manca del tutto la suspense ed ogni effetto avvincente. Il risultato è un romanzo che è schiacciato da un eccesso di tecnicismi, di norme procedurali, di verbosità e di dettagli che rallentano il ritmo, distraggono e annoiano nella loro ripetitività i lettori, anche quelli esperti od appassionati di procedure legali.

Il “legalese” ha forse preso la mano all’autore ed a tratti la vicenda sembra arrancare e si stenta parecchio a riconoscere il Turow che ci si attendeva o che si desiderava.

data di pubblicazione:24/10/2020