da Antonio Jacolina | Nov 27, 2020
Dopo Case di Vetro ed Il Regno delle Ombre, rispettivamente il 13° ed il 14° della serie delle inchieste dell’Ispettore Armand Gamache, Einaudi prosegue con la sua operazione editoriale volta a far affermare anche in Italia un’autrice da ben 6 milioni di copie, apprezzata e premiata in Canada e nei paesi anglofoni. Ecco quindi in libreria il suo ultimissimo libro, il 15° della serie. La “rincorsa” insolita e schizofrenica che partendo solo dagli ultimi tre romanzi, ha costretto i lettori italiani in dinamiche e situazioni in cui spesso si fatica a ricostruire le psicologie e le evoluzioni maturate nel tempo sia dei personaggi sia dei fatti narrati, privi come si è degli antefatti che l’autrice ha invece delineato di romanzo in romanzo nel corso dell’intera serie, si è conclusa!
Siamo finalmente arrivati all’”oggi” dell’Ispettore! Chissà se è scattato l’innamoramento fra il pubblico ed il protagonista?
Gamache è infatti un personaggio insolito. Come abbiamo già scritto è un uomo sui 60 anni, vecchio stampo anche se moderno, colto, attento ed attuale. Una forza tranquilla la cui bonomia è segnata da ben nascoste linee di tenebre che ne fanno un personaggio, scettico ma sensibile al tempo stesso, che più che l’azione segue la logica e che più che le armi preferisce usare la mente. Un uomo pieno di dubbi, di umanità e di umiltà, apparentemente freddo ma anche empatico, capace di far squadra con i suoi collaboratori. Questo è il suo fascino contraddittorio, può piacere oppure no!
Le sue inchieste sono sempre lontanissime dai polizieschi attuali che sono invece ritmati dal succedersi incessante di azione e colpi di scena, al contrario quel che prevale sono le psicologie dei vari personaggi, le emozioni, le suggestioni e le riflessioni esistenziali.
Questa nuova inchiesta è un polar di violenza coniugale, di situazioni climatiche e di situazioni personali e professionali difficili. Come al solito l’autrice utilizza elementi della realtà del suo Canada per definire la sua storia. Sotto la duplice pressione di esondazioni che incombono minacciose su tutto il Québec a causa del disgelo e di una tempesta mediatica volta a screditarlo professionalmente, il nostro Ispettore affronta il caso di una giovane donna in cinta che è scomparsa. Gamache non può impedirsi di identificarsi nel dramma di un padre che non ha saputo difendere la propria figlia da un marito violento ed alcolizzato. Al centro del racconto, come sempre, non è solo l’indagine ma anche l’idilliaco villaggio di Tre Pini e la vita stessa dei suoi abitanti, un pacifico microcosmo ove trovare rifugio nella cerchia di amici, in contrasto con il duro e violento mondo esterno, con la certezza di riuscire comunque a ristabilire l’ordine delle cose e a far giustizia … almeno … per qualche breve attimo.
Lo stile è scorrevole, la Penny lavora con mano lieve ed è capace, pur in un mix in cui le emozioni e le riflessioni prevalgono sull’azione, di mantenere costante la tensione narrativa fino alla fine, i suoi personaggi sono pieni di umanità e reali, con qualche sprazzo di humour per dare respiro al lettore. Tutto bene, ma … ma manca qualche cosa alla narrazione, come se la scrittrice applicasse di nuovo una ricetta vincente ed ampiamente collaudata senza aggiungervi un pizzico di novità, di originalità e di piccante che avrebbe potuto rendere più gradito l’impasto.
Certo dopo 15 volumi è ben difficile evitare di fare surf sull’onda dei propri successi precedenti e si procede quindi nella continuità, al solito “ritmo di … valzer lento” e con qualche elemento esistenziale su cui si può, volendolo, anche riflettere.
data di pubblicazione:27/11/2020
da Daniele Poto | Nov 23, 2020
Auto fiction particolare. Un racconto insieme vero e apocrifo. Interno laziale anni ’70. Incubazione di molte cose dalla parti di Roma Nord, del campo di Tor di Quinto, dell’eroico scudetto biancoceleste. Canaglie simpatiche i giocatori di quella squadra ma anche grandi irregolari, sparatori per diporto, divisi in due fieri partiti, liberi di picchiarsi nelle amichevoli del fine settimana. Un brevissimo ciclo legato al nome di Tommaso Maestrelli, paziente mediatore di trame, ricuciture di manifeste tensioni. Tutto è destinato a comporsi e poi e rompersi nel giro di due stagioni sullo sfondo di un’Italia inquieta, afflitta da terrorismo e dalla vicende personali (la sparizione della figlia) della voce narrante, un fotografo molto addentro alle cose laziali. Succederà che Chinaglia emigrerà in America, che Re Cecconi verrà ucciso da un gioielliere spaventato, che Maestrelli morirà di tumore dopo aver disperatamente cercato di evitare la rottura del giocattolo provocata anche dalla gestione del suo successore, il malcapitato Corsini. Romanzo di sport? Tutt’altro o meglio non solo e già la pubblicazione della Sellerio dice molto. La scrittura di Carotenuto è insieme agile e profonda e ci mostra la vera fotografia di uno spogliatoio calcistico in un’Italia ruspante. Ma c’è anche un magistrale affresco di giornalismo, quando la rivalità tra i giornali della sera capitolina era spasmodica e sono pochi a ricordarsi che ne esistevano ben tre… la Lazio in questo contesto era una Santabarbara sempre pronta a esplodere. E difatti quando la tensione erutta il bel capitolo finisce. Sono passati quasi cinquanta anni. Il campo “Maestrelli” è solo un ricordo. Ora c’è il presidente Lotito, l’eremo di Formello, il calcio industriale dai mille debiti. E dunque un romanzo e un’epopea del genere sarebbe difficile scriverla e raccontarla visto che gli addetti ai lavori sono chiusi nel loro separatissimo harem. Il protagonista invece gioca a carte con Maestrelli e conosce tutti i segreti di famiglia. Una famiglia quelal laziale di simpatici “parenti serpenti”.
data di pubblicazione:23/11/2020
da Paolo Talone | Nov 21, 2020
(Teatro Belli in streaming – Roma, 19/22 novembre 2020)
Roger è un maschio bianco americano di 54 anni. Ha tanti fallimenti alle spalle come lavoratore, marito, padre e come uomo in generale. Abbagliato da un sedicente leader del Movimento per la Difesa dei Diritti degli Uomini, sembra trovare la soluzione alle sue frustrazioni, ma la vita continua a sorprenderlo.
Sale anche quest’anno sul palco di Trend Marco M. Casazza con un monologo – Angry Alan della scrittrice Penelope Skinner – di cui oltre all’interpretazione cura anche la traduzione e la regia. Il tono è quello di una lunga confessione/testimonianza: Roger è un uomo di mezza età che fa i conti con molti fallimenti. La moglie lo ha lasciato portando con sé i figli, mentre il lavoro che svolge è un rimpiazzo alla vecchia occupazione dalla quale è stato licenziato. Inadeguato e oppresso da un senso di fallimento, si imbatte in un momento di noia nel sito di “Angry Alan” grazie a cui comprende che gli uomini sono intrinsecamente buoni, tutti dalla A alla Z, e che sono vittime di una sapiente e articolata cospirazione gino-centrica di matrice femminista. Scegliere di prendere la pillola blu vuol dire dare retta a questa propaganda macchinatrice, mentre la rossa ti apre gli occhi e ti fa vedere le cose come sono: le donne comandano il mondo. È in questo assurdo ma divertente ribaltamento di prospettiva maschista che Roger trova conforto e giustificazione alla sua insicurezza. Poco importa allora che sopra la camicia da uomo d’affari indossi una trasandata felpa da ragazzo. L’uomo non deve per forza essere eroe, capo indiscusso della famiglia che deve mantenere economicamente, ma è libero di poter esprimere i propri sentimenti e fare guerra all’ipocrisia della donna moderna, che mentre diffonde false statistiche sugli stupri e chiede parità, al cinema va a vedere 50 sfumature di grigio. Provocatorio e a tratti orticante, questo testo riporta alla mente molte questioni attuali – viene da pensare al tramonto del maschio bianco trumpista o alla battaglia per l’approvazione anche al Senato della legge Zan – e Casazza lo porta in scena con coinvolgente entusiasmo e bravura. Non è facile per un attore immaginare una platea che non c’è, eppure nei suoi occhi si legge la concentrazione di parlare al pubblico che si nasconde dietro lo schermo. Il finale – tutto da vedere – riscatta Roger e ce lo restituisce come un personaggio in fondo positivo e piacevole: non importa vincere come uomini o donne, l’importante è essere capaci di porsi in ascolto di ciò che la vita ci propone, soprattutto quando non la si può rinchiudere in formule e slogan di effetto.
data di pubblicazione:21/11/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 19, 2020
(Teatro Vascello- Roma, 17/22 novembre 2020)
Dentro il cuore del mito attraverso la scrittura di Ovidio e le figure mitiche di Penelope, Arianna, Canace, Medea, Ispile come metafora di una condizione femminile sofferente e claudicante verso una difficile omologazione nella parità di genere).
Prova umane di resistenza teatrale in uno dei due teatri che svolge ancora attività professionale e per di più a titolo gratuito. Onore al merito di Manuela Kustermann e dei suoi collaboratori che accendono la speranza del teatro con meno di un’ora di intensa performance in streaming. Nell’esperienza che abbiamo vissuto 55 collegamenti accesi nelle case italiane, segno di una fede che non barcolla anche di fronte alla temperie della pandemia. Non si tratta di uno spettacolo facile che racchiude il pathos con punte di assoluta intensa emozione. Tecnicamente l’evento presenta un vantaggio: ci si può collegare da tutta Italia e presumibilmente davanti a un video c’è più di una persona, forse addirittura aggregati familiari. La Kustermann drammatizza Ovidio, ne umanizza i miti e offre la voce a un universo femminile che si fa intensa riflessione e trasformazione con l’accompagnamento musicale ad hoc. Un tappeto sonoro che ben si sposa ai testi nella direzione di una consapevolezza estetica profonda, nell’ansia di un cambiamento necessario. Il superamento degli schemi è metafisica pura dove il dato del passato non è secolarizzato ma riscattato in chiave presente con chiari accenni anche a possibilità future. Una scelta coraggiosa e tutt’altro che commerciale. Lirismo puro con margini onirici per il valore aggiunto di parole, poesia e note. Un viaggio esperienziale meritorio ed appagante. Una scelta ben ricompensata da un pubblico che si profonde non in applausi ma in inevitabili positivi commenti muti in chat.
data di pubblicazione:19/11/2020
Il nostro voto:
da Paola Pazienza | Nov 18, 2020
Il percorso di una giovane prodigio degli scacchi: Beth(Anya Taylor-Joy) nell’America degli anni ‘50 e ’60, in piena Guerra Fredda. La sua ascesa, il suo passaggio nell’età adulta, la sua emancipazione in quanto donna in una Società maschilista ma anche… le sue dipendenze …
Un gioco complesso ed affascinante come gli scacchi non è certo quanto di più “cinegenico” si possa pensare e portarlo sugli schermi fa facilmente correre il rischio di annoiare chi non ne conosce le sottigliezze psicologiche, eppure Scott Frank ed Allen Scott osano immergere gli spettatori nel mondo degli scacchi con intelligenza, capacità e glamour e vincono la sfida riuscendo a rendere il gioco palpitante e coinvolgente nella nuova elegante e divertente serie, articolata in soli 7 episodi, appena lanciata su Netflix. Una miniserie accattivante, realizzata con una cura meticolosa, una regia accurata ed una messa in scena attenta ai dettagli, alle ambientazioni, ai caratteri dei personaggi e, soprattutto, esteticamente perfetta.
Al centro il ritratto intimista e complesso di Beth: da quando ragazzina di 9 anni, orfana, dal destino segnato e spaventata dal mondo che la circonda, incontra, nell’orfanatrofio ove vive, chi le insegna a giocare intuendo da subito il potenziale della sua mente brillante, fino a quando, torneo dopo torneo, diventa un’eccellente scacchista ed una giovane e bella donna che lotta per essere la migliore e per riuscire ad imporsi in un contesto prettamente maschile. Da una parte il giuoco, le sfide e la scacchiera teatro di guerre psicologiche, dall’altra i giocatori e le loro vite che si consumano nella tensione fra contraddizioni ed ambiguità.
Anya Taylor-Joy è magnetica e rende tutta la ricchezza e complessità, la vulnerabilità e tenerezza del suo personaggio; veramente una prestazione straordinaria. Il resto del cast, come sempre nelle serie americane, è perfetto in tutti i ruoli anche i più collaterali. A voler trovare dei difetti forse la serie avrebbe guadagnato se avesse abbreviato alcuni episodi evitando così diverse ripetitività e se avesse meglio illustrato gli aspetti e gli intrighi politici in epoca di Guerra Fredda.
Ma sono piccole cose, The Queen’s Gambit è sicuramente una delle migliori miniserie viste finora ed è una vera festa per gli occhi ed uno splendido studio di personalità femminile.
data di pubblicazione:18/11/2020
da Antonio Jacolina | Nov 17, 2020
Gli appassionati dei gialli, dei noir, dei polizieschi o dei “polar” conoscono Parigi, New York, Los Angeles e le città americane come le loro tasche perché, insieme ai vari grandi autori, hanno percorso le strade ed i quartieri di queste città infinite volte, conoscendone i misteri e le zone più inquietanti. Con Izzo invece, è Marsiglia ed il Mediterraneo che si ritagliano la parte del leone. Non certo la Marsiglia turistica o il Mediterraneo fatto di falsi cliché: sole e cicale, ma, al contrario, la Marsiglia della fine anni ’90, una città in crisi, in trasformazione, una città non più industriale e non più grande porto commerciale, una città che da sempre parla gli accenti del Sud dell’Europa e che ora sente sempre più anche quelli del Nord dell’Africa.
Con Izzo si sente il mare con i suoi profumi ed i suoi cattivi odori, si sente il caldo, si beve (vino, pastis, caffè …), si mangia, si cucina, si ascolta la musica e si apprezza il jazz, si pensa alle donne, con rispetto, tenerezza e con amarezza e nostalgia perché non si è stati capaci di tenerle e di continuare a farsi amare. Ci sono anche i morti, le sparatorie e le inchieste ma quel che veramente importa è Marsiglia e, con lei: Fabio Montale, l’io narrante.
Montale è l’immagine della città stessa, figlio di immigrati italiani, poliziotto disilluso che non tarda ad abbandonare la sua professione, uomo che apprezza il buon cibo, il buon bere, le amicizie, la poesia, il jazz, la pesca e la bellezza femminile. Un uomo sensibile, segnato dal suo passato giovanile che riemerge nella memoria nel corso delle inchieste e segnato anche dal ricordo dolce amaro delle donne che ha avuto e perduto. E’ uno dei protagonisti fra i più umani ed attraenti nell’ambito dei noir francesi e non solo. Un bellissimo personaggio, molto accattivante, dotato di una grande sensibilità, una sensibilità a fior di pelle che poco convive però con la sua visione manichea della Società, in una Marsiglia ed in un Mondo che sono realtà in cui, avere degli Ideali giova molto poco, in cui troppe volte il Bene ed il Male non si sa da che parte stiano ed in cui spesso ci si deve domandare anche … “noi da che parte stiamo?!”
Riunire in un solo volume i tre romanzi che mettono al centro della scena il personaggio di Fabio Montale (vero prolungamento letterario dell’Autore), è una gradita occasione per rendere omaggio ad Izzo, uno scrittore di talento ed un uomo che ha lottato tutta la sua breve vita per realizzare i propri ideali e, nel contempo, occasione per farlo scoprire o riscoprire ai lettori. Si tratta di tre romanzi d’ambiente e di atmosfere, tre polizieschi, tre storie e vicende autonome ed a se stanti, anche se cronologicamente consequenziali e collegate. Una trilogia noir, molto noir, un vero melange fra poliziesco e noir in cui si incrociano violenze, amicizie e crimine ed in cui l’azione si svolge apparentemente con un ritmo lento, ma quello è il ritmo stesso della città portuale, senza grande suspense, con dei flash back sul passato del protagonista e con uno sfondo di una piccola umanità di piccoli personaggi positivi, di “piccoli esseri” verso cui è palese l’empatia assoluta dell’autore.
Nel complesso: un polar vigoroso ed intelligentemente impegnato cui Izzo ha saputo dare un gusto intenso e melanconico con tratti di lirismo. Lo stile è essenziale, fatto di frasi brevi, il ritmo è dinamico, bastano spesso piccoli tocchi descrittivi di 3-4 parole, mai un eccesso ed il lettore è sempre in tensione dall’inizio alla fine.
Tre libri in uno che si fanno divorare senza mai arrestarsi e da cui è bello farsi trascinare fra le atmosfere di Marsiglia.
data di pubblicazione:17/11/2020
da Paolo Talone | Nov 17, 2020
(Teatro Belli – Roma, 14/16 novembre 2020)
Debbie e Jack sono una giovane coppia a cui è stata rapita l’unica figlia. Il dolore intrappola i due in un vicolo senza uscita di rinfacci, accuse, disattenzioni e ricordi ormai sfumati.
Si chiude in un forte abbraccio il dolore di Debbie e Jack, genitori della piccola Kimberley, scomparsa una mattina come tante mentre andava a scuola. The early bird gira intorno al vuoto e alla disperazione per questa improvvisa sparizione o rapimento. Invano si tenterà una ricostruzione dettagliata di cosa sia realmente accaduto quella mattina. I ricordi sono nebbiosi e incompleti, la memoria va in frantumi e diventa una gabbia dalla quale è impossibile uscire. È un girotondo infinito quello si vede sulla scena, un girare a vuoto tra hula hoop con cui nessuno giocherà più. La straziante drammaticità di questo evento, racchiusa in un’idea di scrittura piuttosto semplice e breve, si arricchisce di una regia pensata come se fosse un’eterna danza-rituale tra i due sconfitti genitori. Roberto Marra (Jack) e Valentina Corrao (Debbie) sono i giovani interpreti di questa pièce, arricchita dal parallelo disegno drammaturgico delle luci e dei gesti. Impressi in una luce fredda e poco profonda, i loro corpi appaiono come lastre di ghiaccio incastrate in una montagna di pensieri e dimenticanza. Cercano di appoggiarsi l’uno all’altra, ma nessuno dei due è così forte da sostenere tutto il peso della coppia. Il dialogo frammentato si riflette nelle loro movenze lente e disarticolate: non c’è pace o soluzione al loro ragionamento. Il dramma arriva tutto grazie all’interpretazione coerente dei due artisti in scena, ma è Valentina Corrao a distinguersi per naturalezza e concentrazione sul gesto danzante, come sulla fluidità della voce esibita con gradevolezza nel canto e nella recitazione.
data di pubblicazione:17/11/2020
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Nov 14, 2020
Un variegato gruppo di persone si mette in viaggio su una diligenza che va da Tonto a Lordsburg. Sulla strada ci sono gli Apaches di Geronimo. Ognuno dei componenti, più Ringo che è salito durante il tragitto, ha buone ragioni per raggiungere la meta. Non tutti ce la faranno, ma John Ford avrà diretto il più famoso western di tutti i tempi.
Anche i più autorevoli e severi critici del mondo hanno dovuto riconoscere che, Stagecoach, da noi, una tantum, sapientemente re-intitolato Ombre Rosse, è uno dei film più importanti di tutta la storia del Cinema. Il capolavoro assoluto, di un Maestro, quale è stato John Ford, certamente il più grande “westerner” di sempre. Un Titano, personaggio e uomo, immensi allo stesso tempo. Alla domanda di Peter Bogdanovich su chi fosse e se si sentisse onorato di essere considerato un grande cineasta rispose, umilmente: mi chiamo, John Ford e faccio western! A proposito dei film sull’ovest americano, appunto, il West, per anni è circolata la falsa e banale affermazione che si trattasse di mero intrattenimento, robe di sparatorie e cavalli, cow boys e indiani.
Considerazioni banalmente contenutistiche avevano isolato il genere in una sorta di ghetto culturale, privilegiando invece opere che spesso avevano il solo merito di trattare rozzamente temi civili e politici; rozzamente, perché spesso tali opere erano prive di qualsiasi spessore , mancavano di quella ambiguità, di quella polivalenza di significato, di quella fresca inventiva che, da sempre, sono i connotati del grande cinema. Poi arrivò Andrè Bazin, riconosciuto come uno dei più autorevoli critici cinematografici di ogni tempo e dove e le cose, allora, cambiarono…Più o meno le sue considerazioni furono che il western era il solo genere cinematografico le cui origini si confondevano con quelle del cinema. Esso, pur subendo continuamente influenze estranee (quelle del romanzo giallo, della letteratura poliziesca o delle preoccupazioni sociali contingenti, etc) ha resistito imperterrito, e, citando sempre Bazin, si può dire che queste contaminazioni hanno operato su di esso come un vaccino. Dato al Western il giusto riconoscimento e dovendo eleggere a campione del genere un solo film a testimonianza della sua eterna giovinezza, fra i tanti capolavori (anche di Hawks, Mann, Walsh…) la scelta non poteva che cadere su Ombre Rosse di John Ford. Anni fa, Tullio Kezich in un articolo sulla Repubblica, accostava il film alla Divina Commedia, per l’universalità dei temi, i panorami, la drammaticità degli schemi, la sfaccettatura dei personaggi, concludendo che in Dante c’era tutto e così in Ford. Chiaramente, una simpatica provocazione: certo che John Ford non è Dante ma anche vero che su quella diligenza c’era già molto della storia del cinema… Più umilmente, ma tornando al film tout court, aggiungerei fra i pregi di Ombre Rosse e in generale del cinema di Ford, vanno indicati,- l’efficacia del montaggio ( basterebbe la scena in cui il telegrafista dice: la linea si è interrotta…l’ultima parola era:…Geronimo!), -la preziosità della fotografia (per la prima volta la maestosità della Monument Valley ),- la bravura degli attori: l’allora semi sconosciuto John Wayne (Ringo Kid, fortemente voluto da Ford al posto di Gary Cooper che piaceva ai produttori ), Claire Trevor ( Dallas, prostituta dai buoni sentimenti), John Carradine ( Hartfield, il gentiluomo del Sud, memorabile la sua ultima frase, prima di morire: quando vedrete il giudice Greenfield…), ma anche Thomas Mitchell ( il dottor Boone, sensibile alla bottiglia ma ricco di umanità).Sono, inoltre, talmente puntuali, e mai scontate, tutte le caratterizzazioni che tutti altri attori comprimari meriterebbero la citazione. Il film non ve lo racconto, ma confidando che almeno una volta (magari non al cinema ma in TV) tutti abbiano visto (Paolo Conte diceva che “le donne non amano i western, come il Jazz…”), riferisco solo che all’origine, l’idea dello script c’era una novella di Maupassant, Palla di Sego (un banchiere può valere meno di una prostituta!), traslata in un romanzetto western, La Diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox pubblicato nel 37. “E’ una buona trama!” disse Ford e così ne fece la trasposizione cinematografica.
Nell’ultima inquadratura (Ringo e Dallas, autorizzati dallo sceriffo fuggono verso il Messico) il buon doc commenta:” così si sono salvati tutti e due dalle delizie della civiltà…!”
Io, ragazzino, dopo oltre un’ora e mezza immerso nella penombra di un cinema di Matera (con mio nonno, credo) guardavo lo spettacolo della vita umana ridotta a un microcosmo avventuroso. Ancora oggi, ricordando i destini di quei cari personaggi con la palpitazione della prima volta so che quel film mi avrebbe assorbito per tutta la vita!
data di pubblicazione:14/11/2020
da Paolo Talone | Nov 11, 2020
(Teatro Belli – Roma, 9 novembre 2020)
La redazione di un giornale spinge la giornalista Jane Carter a scrivere un pezzo di indignazione contro la richiesta di Shamina Begun – conosciuta come “la sposa jihadista” – di tornare con il suo bambino in Inghilterra. L’incontro con un veterano di guerra cambierà il suo parere.
Retroscena: Shamina Begun partì dall’Inghilterra per sposare un combattente dello Stato Islamico in Siria quando aveva appena 15 anni. Trovata in un campo profughi chiese di tornare in Inghilterra; anche la sua famiglia fece appello. Ma l’allora ministro degli Interni britannico le negò questa possibilità, privandola della nazionalità inglese. Il suo bambino morirà poche settimane dopo nel campo dove erano rifugiati.
Quale opinione esprimere davanti a questa richiesta di aiuto negata? La ragazza merita di pagare o deve essere perdonata? The nights del pluripremiato drammaturgo Henry Naylor parte da questo spunto per raccontare una storia che ci colpirà con la forza di un pugno dato allo stomaco. Sfiora appena il dato di cronaca per addentrarsi immediatamente nella riflessione che scava dentro la capacità dell’uomo di diventare violento e vendicativo in situazioni estreme, chiarendone ma senza giustificare le motivazioni. Non si può avere la presunzione di avvicinarsi alla spina più acuminata dell’altrui dolore e rimanere illesi al tempo stesso. Lo comprende Jane Carter, una giornalista alla ricerca di un parere che avalli il suo giudizio di condanna nei confronti di Shamina. Va a cercarlo in un negozio di cimeli bellici, gestito da un veterano della guerra in Iraq, quella che vide la caduta di Saddam Hussein. Il capitano Kane non fornisce però la risposta che lei si aspettava: un’opinione non è sempre facile da dare quando si conosce la verità. E la verità è sempre lì dove si trova l’azione, anche se ad avvicinarsi troppo si rischia la vita. Il passato riemerge da casse di legno inchiodate dal tempo, il lucchetto arrugginito e polveroso apre una porta cigolante e mostra arsenali di atroci esecuzioni. Fantasmi rievocati fanno la loro apparizione. Per un attimo il meccanismo della violenza generata da altra violenza si inceppa. Il mondo non è più diviso in buoni e cattivi e il fiume impetuoso della verità sgretola la barriera che divide l’Occidente dall’Oriente. Rimane il gesto, questo solo può essere giudicato umano o disumano. Non perde di teatralità la lettura del testo portato sullo schermo dalla coppia Bucci/Grosso per la Compagnia Le Belle Bandiere. Basta un cambio di cappello a dare vita a un nuovo personaggio o il rumore creato con la bocca per evocare l’immagine di un cranio che si rompe o una bomba che esplode. La musica poi fa da meraviglioso contrappunto all’emozione della scena e la regia video, semplicemente risolta in una sequenza di inquadrature strette sugli attori, comunica l’estrema intimità della confessione. Ci costringe a guardare da vicino ciò che nella realtà teniamo a giudizio da lontano, facendo del mezzo informatico un veicolo linguistico di nuove possibilità, ora che siamo costretti ad applaudire la scena nella solitudine del nostro divano.
data di pubblicazione:11/11/2020
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Nov 10, 2020
In un’epoca in cui la seconda ondata del Virus sta sconvolgendo, forse definitivamente, il Mondo così come lo conoscevamo fino a pochi mesi fa, in un’epoca in cui molto sarà rimesso in discussione e ci si domanda in che modo e quali mai saranno i futuri assetti sociali, ha senso indignarsi contro il buonismo e contro “la falsa igiene mentale del politicamente corretto”? Assolutamente sì! Sì, proprio perchè come nel passato anche nel futuro prossimo le ipocrisie, le cattive coscienze, le banalità elevate a summa ideologica potranno, se non contrastate, riproporre, come già oggi, tutta la loro negativa e nefasta influenza, vero oppio ottundente le coscienze civili della Società.
Daniele Poto, navigato giornalista ed autore di svariati libri, da sempre fortemente impegnato nella difesa del Valori Civili, ci regala con questo suo ultimo lavoro: Stroncature (riprendendo fin dal titolo stesso lo spirito con cui nel 1932 Giovanni Papini si scagliava contro i mostri allora sacri dell’establishment di fine ‘800 e di inizio ’900) un piccolo saggio, un cahier de doléances che ci apre la mente davanti alle tante ipocrisie del dominante conformismo di buona parte della ns. realtà quotidiana, e, soprattutto, quel che è più grave, proprio di quella parte di noi che si autodefinisce più progressista, illuminata, colta, riformista e socialmente aperta. Un pamphlet ricco di piccole e grandi informazioni, frutto di accurate ricerche e letture, scritto in modo fluido, con una prosa scorrevole e piacevole, ricco di analisi, a tratti approfondite, a tratti limitate a pochi ma significativi accenni che lasciano però sempre il segno ed inducono a riflettere su ciò che avviene attorno a noi nel quotidiano. Una Realtà composita piena di contraddizioni che Poto evidenzia dandocene una visione d’insieme per farci capire, per svelarci le tante falsità e complessità. Una lettura molto originale la sua, interessante ed utile per capire ciò che forse non sappiamo o che non vogliamo sapere, o, ciò che ci viene differentemente rappresentato, una lettura articolata su un itinerario fatto di tanti brevi capitoli tutti vivi ed evocativi, una sintesi al vetriolo di fatti, interpretazioni e conseguenze, una fotografia incisiva ed acuta dei “tanti vizi e delle pochissime virtù”! Ed ecco allora fra i tanti: La Pubblicità, tanto più invasiva e martellante quanto più inversamente proporzionale è la qualità del Prodotto; L’Edonismo Dominante di un Paese in cui solo un 5% legge, compra libri e biglietti per musei e mostre, mentre il restante 95% fruisce latu sensu della Cultura solo se e quando è gratuita e trendy, un Paese con un 5% di “Ottimati” ed un 95% di “Barbari” che preferiscono spendere solo per beni voluttuari ed effimeri; La “mancanza di coraggio” di un Paese Improduttivo che non ha più progettualità né individuale né collettiva, la cui economia è tornata paradossalmente al tenere “i soldi nel materasso”; Un Paese in ritardo ed in cui il Ritardo domina a danno dei pochi puntuali, in cui “i Populisti sono sempre gli altri”, in cui regna il “rito dell’apericena” che … “allude ma non conclude”, vera metafora di un’Italia paese del melodramma in cui tutto sembra muoversi ma in realtà tutto resta fermo come pure drammaticamente fermissimo è l’ascensore sociale ed in cui i Sindacalisti fanno carriera in Politica …
Uno studio accurato dunque delle tante sfaccettature italiche da “stroncare”, un saggio tutt’altro che pedante, anzi, al contrario, vivace, oggettivo e reale. Una vera miniera di informazioni da valutare. Da attento osservatore Poto ci rende partecipi senza menzogne ed infingimenti della sua passione civile e della sua indignazione e ci regala un’analisi lucida e venata di amarezza di quanto avvenuto fino ad oggi attorno a noi. Una opportunità da cogliere, un piccolo libro che merita di essere letto, una rara opportunità su cui riflettere per meglio comprendere gli auspicabili nuovi assetti che dovrebbero però sottostare al desiderio ed alla necessità di cambiare radicalmente gli equilibri dei valori del nostro vivere civile.
data di pubblicazione:10/11/2020
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