Incredibilmente ignorato all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia, risarcito, giustamente, con un numero congruo di candidature all’Oscar, quest’ultimo film di Iñárritu è un tuffo di due ore in completa apnea nell’inconscio e nel conscio di un uomo in crisi, un attore condannato dal ruolo di super eroe che l’ha portato al successo, (interpretato da un attore, il bravo Micheal Keaton, che ha presumibilmente avuto i suoi stessi problemi nella vita reale) ma che vuole lasciare un’impronta più importante. Per questo riduce un testo di Raymond Carver per la scena, e lo vuol presentare nel più antico e prestigioso teatro di Broadway.
A fargli compagnia nei giorni dell’impresa, sono, come in novello Otto e mezzo, o in un rutilante All that jazz, nell’ordine: l’ex moglie che forse ancora lo ama, l’attuale collega e amante da cui forse aspetta un bebè, la figlia appena uscita da un percorso anti tossico, il suo amico e legale senza il quale sarebbe perso, un’altra attrice (la sempre intensa Naomi Watts) sorta di alter ego anch’essa con velleità teatrali, un attore coprotagonista (bentornato Edward Norton), che lo mette in difficoltà e gli ruba la scena (e che come un pessimo allievo di Lee Strasberg pensa che in teatro si viva e non si finga ) e infine una critica teatrale più perfida di Elsa Maxwell, tutti coinvolti nell’incessante girotondo dove spuntano innumerevoli sottotesti di vario tipo, dalla psicanalisi al meta teatro, dalla crisi di identità alla crisi di mezza età, dove il protagonista è perpetuamente alle prese con gli orgogli e i fallimenti più parossistici (come Zio Vanja fa cilecca anche nel suicidio) fino a un finale più visionario che “ aperto “.
Ambientato davvero integralmente dentro un teatro, sembra girato come un unico interminabile piano-sequenza, scritto con una bella dose di ironia e con dialoghi al vetriolo e nessun risparmio di effetti, (anche speciali come quelli dei film di super eroi) e strizzate d’occhio cinefile e teatrofile, in definitiva una matrioska infinita di invenzioni, un divertentissimo ed emotivo film che sancisce, vivaddio, dopo il precedente Biutiful, il definitivo abbandono della sequela di lutti e disgrazie che hanno caratterizzate la cosiddetta “trilogia della morte” (Amores perros – 21 grammi – Babel) con cui Iñárritu aveva rischiato la maniera e sfiorato a tratti la risibilità.
data di pubblicazione 09/02/2015
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Perché dire che la cosiddetta trilogia della morte ha rischiato la risibilità e la maniera?
A me sembra che Inarittu sia capace ogni volta di toccare con genialità le situazioni, le sfumature, gli stati d’animo più diversi, dall’ironia sagacissima di Birdmann alla luttuosa dolcezza o aggressività (vedi Amores Perros) degli altri.