da Rossano Giuppa | Ott 17, 2015
Manhattan Lower East Side. I sei fratelli Angulo vivono in un appartamento separati dal mondo. Non escono, studiano in casa, è troppo alto il rischio di essere contaminati dai pericoli esterni. Il loro padre ha deciso così. L’uomo, seguace del culto Hare Krishna, ha potere assoluto su tutta la famiglia. Tutto ciò che per loro è vita al di là di mura e finestre domestiche, è una trasposizione intelligente di una realtà costruita attraverso la visione di oltre 5.000 film, analizzati con meticolosità ossessiva e replicati all’interno dell’appartamento, con una maniacale ricostruzione di attrezzature sceniche e costumi, realizzati con le proprie mani. La settima arte è l’unico cordone ombelicale con il mondo, una passione fatta di divertimento e professionalità sorprendenti, di straordinaria familiarità con le tecniche di recitazione, regia e scenografia.
Ad un tratto uno dei sei decide di uscire, anche se con una maschera. E’ l’inizio dell’interazione con il mondo ed è l’incontro casuale con la regista Crystal Moselle, ma anche con videocamere, google, mail. È l’illusione del cinema a salvarli e proprio la visione de Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan si muove qualcosa in Mukunda, uno dei cinque maschi, dandogli il coraggio di andare contro gli ordini paterni. La regista esordiente li avvicina a poco a poco, entrando in progressiva sintonia con il nucleo familiare attraverso il comune amore per il cinema, raccontando l’esistenza anomala degli Angulo e la loro graduale acquisizione di una misura di autonomia e autodeterminazione. I sei fratelli dai lunghi capelli neri, dopo anni di prigionia si impossessano delle strade della City, delle spiagge di Long Island, delle rive del fiume Hudson, costruendo la propria identità attraverso anche uno styling forse improbabile ma certamente geniale, un look anni ‘70 da gangster dai toni noir ‘impecable’ senza volerlo.
The Wolfpack, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Sundance nella sezione Documentari è un film straordinariamente intelligente. I ragazzi Angulo si raccontano come personaggi da film, reinterpretano i copioni, compiendo un percorso di formazione e di sviluppo, inusuale e temporalmente compresso. E il loro percorso è filmato con rispetto dalla regista che semplicemente ed efficacemente si fa testimone della loro trasformazione in giovani uomini, brillanti, curiosi e riflessivi.
data di pubblicazione 17/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 16, 2015
Era l’estate del 1985. Una calda estate siciliana, una famiglia che si appresta ad organizzare una festa di compleanno per la figlia adolescente. Ma una minaccia intercettata dai Carabinieri dell’Ucciardone costringe quella famiglia, la famiglia Borsellino insieme a Giovanni Falcone ed alla sua compagna, ad una fuga improvvisa di notte e ad una reclusione forzata, sull’isola dell’Asinara, all’epoca sede del carcere di massima sicurezza. Una reclusione a cielo aperto, a poca distanza da detenuti effettivi, una condivisione forzata di spazi ed emozioni, angosce e speranze per due famiglie, un presagio velato a tre mesi dall’inizio del maxi-processo di Palermo.
Diretto da Fiorella Infascelli, autrice anche della sceneggiatura insieme a Antonio Leotti, Era d’estate, presentato il 15 ottobre 2015 in pre-apertura della Festa di Roma, ricostruisce quell’esperienza, facendo emergere lati inediti dei due protagonisti. Al centro della scena Massimo Popolizio nel ruolo di Giovanni Falcone, Beppe Fiorello in quello di Paolo Borsellino accanto a Valeria Solarino e Claudia Potenza, compagna e moglie rispettivamente di Falcone e Borsellino.
Un film semplice e lineare, malinconico e silenzioso, che prova a raccontare una frazione della vita dei due giudici, negli aspetti più intimi e personali, più pacato e ottimista Borsellino, più ironico e irruento Falcone, inquieti nell’attesa dei faldoni da analizzare, diversi ma alla fine uniti nella meticolosa preparazione del grande processo, di fronte ad un mare bellissimo ed un paesaggio essenziale. Un mare forte e protettivo in un tempo dilatato che permette ai due uomini di conoscersi meglio e di assemblare al meglio gli elementi del processo che li vedrà impegnati, preparandoli al destino inesorabile che li aspetta.
da Rossano Giuppa | Ott 6, 2015
(Teatro della Cometa – Roma, 1/18 ottobre 2015)
Wikipiera al Teatro della Cometa di Roma non è solo un’intervista dal vivo abilmente condotta da Pino Strabioli a Piera Degli Esposti.
É un viaggio piacevole e sorprendente nella vita e nelle emozioni dell’attrice, nelle scelte e nelle passioni, nel suo essere un po’ controcorrente ma coerente. É il racconto di un’inebriante stagione della cultura italiana, la più irriverente forse, la più insolente ma che ha lasciato tracce indelebili.
Più di 50 anni di carriera, ricordi, incontri e pezzi di teatro in ordine sparso per un percorso di vita di una donna diversa, un’attrice diversa, capace di scelte coraggiose e di importanti rifiuti, capace di buttarsi in un mare in tempesta e di raggiungere sempre una sponda.
Facevo l’attrice da bambina a casa, da sola, le scuole di teatro mi avevano rifiutata. Riuscire a recitare portando la mia diversità ha voluto dire avere determinazione e forza…la prima a fare un monologo quando era appannaggio solo dei maschi.
Ha lavorato con Calenda, Castri, Pasolini, Ferreri, ha fatto avanguardia con Leo De Berardinis ed il collettivo Beat 72, ha collaborato con la scrittrice Dacia Maraini: artista eclettica e curiosa, di sinistra come allegramente si definisce, impegnata, irriverente e fuori dagli schemi.
Il dialogo con Pino Strabioli scorre con piacevolezza e complicità, senza eccessi, in una continua sovrapposizione di ricordi ed immagini: l’abbandono della scuola dopo le elementari perché troppo angoscianti, l’amore per la letteratura, il desiderio di essere da grande dama di compagnia, la convinzione di voler fare l’attrice, i tanti provini, un concorso di bellezza, il rifiuto a Strehler, la lunga collaborazione artistica con il Teatro Stabile de l’Aquila. E poi ancora il rapporto di amicizia che da bambina la lega a Lucio Dalla, l’incontro folgorante con De Chirico, i dialoghi con Pasolini, l’inchino di Eduardo De Filippo, la passione erotica per Robert Mitchum. E per finire la grande prova d’attrice con un monologo di Beckett che lascia incantati e ci conduce tra le pieghe dei sogni più belli, quelli che trasformano la sofferenza in colta bellezza.
data di pubblicazione 06/10/2015
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Ott 5, 2015
Al Roma Europa Festival in scena Vortex Temporum della coreografa Anne Teresa De Keersmaeker.
Vortex Temporum è una composizione di Gérard Grisey in 3 movimenti, chiamati da Vortex Temporum I, II, III. Ciascun movimento è seguito da un breve interludio, costituito da fruscii pressoché inudibili.
Il titolo definisce la nascita di una formula di arpeggi vorticosi, iterati e la sua metamorfosi in vari campi temporali; alla fine è la continuità ad imporsi con il tempo dilatato: «la metrica è spesso annegata nella vertigine della durata pura» scriveva infatti Grisey; «l’ultima parola, diceva Varèse, è l’immaginazione. Io vi aggiungo l’emozione che crea la forma musicale … La musica è Numero e Dramma diceva Pitagora, l’arte musicale è un’arte violenta per eccellenza. Ci fa percepire ciò che Proust chiamava un po’ di tempo allo stato puro, quel tempo che presuppone simultaneamente l’esistenza e l’annientamento di ogni forma di vita».
In Vortex Temporum Anne Teresa De Keersmaeker prende spunto dalla composizione di Grisey per dare immagine e nuova dinamicità alla musica polifonica. Sei danzatori e sei musicisti in uno spazio ampissimo. Ciascun danzatore è legato ad uno dei sei musicisti in scena ed il suo gesto è in relazione alle note dello strumento. Tutti i performer sono in continuo movimento ed attraversano lo spazio, risucchiati in un vortice di centri concentrici.
Anne Teresa De Keersmaeker, già prima musicista che coreografa, in Vortex Temporum costruisce una piece che sintetizza e testimonia un percorso artistico estremo e complesso. Costruita con rigore, la performance si basa sulla “spettrale armonia” della composizione di Grisey strutturata partendo da arpeggio soggetto a continue metamorfosi e transizioni, e si sviluppa dall’evoluzione di un nucleo attorno al quale orbitano movimenti e suoni, in circolo vorticoso. Un eccellente cast di danzatori e musicisti uniti insieme in uno spazio dilato e mobile che inghiotte ed espelle rumori e sensazioni. Angoscioso ed ossessivo, il lavoro esplora come il tempo possa contrarsi ed espandersi, in una contrapposizione coreografica che esalta la partitura, i gesti dei musicisti, i movimenti dei danzatori.
data di pubblicazione 05/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 1, 2015
Ci sono alcuni spettacoli che catturano immediatamente, si imprimono nella mente, arricchiscono il vocabolario, si ricordano nel tempo. A tale speciale categoria appartiene May B di Maguy Marin, una delle figure storiche del teatrodanza francese. Al Roma Europa Festival la Compagnie Maguy Marin ritorna con lo spettacolo icona della coreografa franco-spagnola, ispirato all’opera dello scrittore e drammaturgo Samuel Beckett, che racconta la desolazione della condizione umana attraverso i versi e la gestualità di dieci personaggi in un continuo divenire. Nel repertorio della compagnia oramai da 35 anni, May B è stato rappresentato più di 700 volte in 5 continenti.
Nata a Tolosa da genitori spagnoli fuggiti dalla Spagna di Francisco Franco, studia danza classica, entra nella scuola Mudra e poi nella compagnia di Maurice Béjart per fondare poi una propria compagnia. Maguy Marin è stata definita la “pasionaria” della danza per aver sempre utilizzato la sua notorietà per operare nel sociale e aprire discussioni importanti su tematiche come: i senza tetto, i rifugiati, gli esclusi, dando vita in modo intelligente ed efficace a personaggi nei quali puntualmente ritrovarsi. Il risultato è certamente potente, ironico, toccante ma anche feroce; la danza è contaminata da una teatralità forte ed esasperata, lirica e cruda allo stesso tempo. Sulle musiche di Franz Schubert e Gavin Bryars, in uno spazio polveroso e nudo, dieci migranti iniziano un cammino iniziatico, fosco e violento, dialogano, si incontrano e si scontrano, si cercano e si respingono, si assemblano e si separano senza pace, condividendo situazioni ed emozioni, in un viaggio fuori dal tempo ma assolutamente contemporaneo.
Tragica ed ironica, la metafora degli emarginati senza tempo regala emozioni e riflessioni, in un coinvolgimento forte e profondo. Da vedere assolutamente.
data di pubblicazione 01/10/2015
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