da Rossano Giuppa | Ott 19, 2016
Dal 12 al 16 ottobre è stato in scena al teatro India di Roma Amore, l’ottava commedia scritta da Spiro Scimone, diretta da Francesco Sframeli, con la scenografia di Lino Fiorito.
In scena quattro personaggi a coppie di due: il vecchietto e la vecchietta, il comandante e il pompiere. Quattro figure che non hanno nome e che dialogano tra le tombe. Siamo, infatti, all’interno di un cimitero.
Il tempo è indefinito, forse, sono all’ultimo giorno della loro vita. In un’alternanza di comico e tragico, di nostalgia e sarcasmo, in uno spazio raccolto, dove accadono piccole ma grandissime cose, si celebra l’amore e forse la sua eternità.
Ennesima prova d’autore del duo Scimone-Sframeli, in scena assieme a Gianluca Cesale e Giulia Weber, che continuano ad essere elogiati da pubblico e critica per il loro teatro surreale e concreto al tempo stesso, terreno, dotato di una scrittura drammaturgica essenziale e diretta. Percorsi reiterati e circolari nel testo e nella gestualità, associati a pause e silenzi, rappresentano gli elementi cardine dei loro lavori ambientati in luoghi sospesi ma con una propria connotazione, dove i colori sono definiti e gli oggetti di scena densi di significati.
Un testo che celebra la consapevolezza del limite umano e del corpo che invecchia associati all’eternità dell’amore, rivissuto in attimi e ricordi terreni ma proiettato in una dimensione forse infinita: un amore fatto di un quotidiano tenero e tragicomico, fatto di pannoloni da cambiare e dentiere da lavare, pieno ancora di dolcezza sia nella coppia dei due vecchietti che nella coppia mai rivelata dei due pompieri che, dopo decenni di amore clandestino, di incontri segreti e mai soddisfacenti, sono stanchi di nascondersi. Tutti e quattro si baciano e si abbracciano sotto un lenzuolo, in un letto che è anche una tomba dove addormentarsi insieme non è più morire, ma proiettarsi verso una vita vera.
Una filastrocca delicata e profonda, intensa e serena, amore e morte pieni di luce.
data di pubblicazione:19/10/2016
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Ott 14, 2016
L’11 e 12 ottobre 2016, in occasione di Romaeuropa Festival 2016, il Teatro Argentina di Roma ha ospitato il ritorno di Wim Vandekeybus e della sua compagnia Ultima Vez, con In spite of wishing and wanting revival, con regia, coreografia, scenografia di Vandekeybus e musiche originali di David Byrne.
Danzatore, coreografo, regista e filmmaker, apparso sulle scene alla fine degli anni ottanta, Vandekeybus appartiene al prolifico panorama artistico fiammingo, da cui provengono tanti nomi della danza contemporanea, come Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre, Frédéric Flamand e Ann De Mey.
Il lavoro che al suo debutto, nel 1999, fu accolto calorosamente in tutto il mondo e conquistò l’attenzione di critica e pubblico, a motivo del linguaggio artistico proposto, innovativo e forte, torna in scena al Romaeuropa Festival con un nuovo cast composto da dieci giovani danzatori chiamati a interrogarsi sui temi del desiderio, del sogno e della passione.
Uno spettacolo poetico, intenso e appassionante che esplora il terreno dell’inconscio, raccontando i desideri impossibili e le paure di dieci perfomer, espressione di danza fisica, energica, scatenata, ribelle, ma anche ingenua e giocosa. Il sogno di essere un cavallo accomuna gli interpreti di questo balletto. Il morso in bocca li unisce e li imprigiona, si muovono in scena come stalloni selvaggi, battono gli zoccoli, galoppano attorno a velocità furiosa, saltano in mezzo al pubblico.
La musica appositamente composta da David Byrne è ossessiva e sensuale, totalmente coinvolgente. Non vi è alcuna scenografia, ma lo spettacolo si appropria e coinvolge magicamente tutto lo spazio teatrale attraverso la luce, la danza e la voce.
Ognuno racconta nella propria lingua. Vandekeybus non rinuncia alla parola attraverso monologhi su un’infanzia che non è mai stata dimenticata, sul desiderio di libertà, con risate ed esplosioni di rivolta. Uno dei giovani ha paura di perdersi, non riconosce più il mondo, urlando e dimenandosi. Ci si potrebbe perdere nei sogni, ma un cuscino esplode ed è tutto un turbinio di piume. Ed è un susseguirsi di storie, immagini, movimenti frenetici e plastici, ritmo ed estasi.
La danza s’interrompe e su uno schermo proiettano The Last Words ispirato a due racconti dell’argentino Julio Cortazar – una parentesi in italiano, «dagli accenti felliniani» come la definisce il coreografo-regista, una storia surreale come quella in scena. La paura di essere posseduto da qualcosa o da qualcuno ha anche un’altra faccia: il desiderio di cambiare qualcosa o diventare qualcun altro. Paura e desiderio: le facce della stessa medaglia.
Spettacolo imponente, con momenti danzati indimenticabili, emotivamente più coinvolgenti rispetto al racconto, in voce e in video, che rimane forse un po’ troppo slegato rispetto al trionfo del movimento.
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Set 26, 2016
(Roma Europa Festival 2016)
Dopo il prologo estivo inaugura ufficialmente la sua stagione il Roma Europa Festival con lo spettacolo Barbarians, del coreografo Hofesh Shechter, in scena al Teatro Argentina dal 21 al 24 settembre.
Un lavoro certamente interessante, quello del coreografo inglese di origine israeliana, già presente nelle passate edizioni del Festival, spiazzante e imprevedibile, costruito attorno alla personale percezione e riflessione sui temi dell’intimità, della passione e dell’amore.
Una costruzione forte, a tratti elegante e intima e a tratti frenetica e ossessiva, costruita su tre momenti distinti in un’alternanza di musica barocca e sonorità techno dub; sei figure vestite di bianco si muovono secondo una struttura circolare in continuo divenire, una danza di Matisse ora gioiosa, ora di trance. Il prologo Barbarians in love alterna canoni classici a frenesie hip hop mentre la musica miscela François Couperin ad elettronica beat.
Una voce femminile sfocata apre a riflessioni ed indizi. “Io sono te” intona. “Tu sei me… Perché lo fai, Hofesh?” – E la voce fuori campo di Shechter, spiegando che stava solo cercando di rappresentare una danza sull’innocenza, esplicita le sue perplessità..
Si passa poi a The bead, un quadro con cinque ballerini in accademico oro, forte, tribale e languido, con continue sovrapposizioni di immagini e di stili, esteticamente ineccepibile. Nel mezzo due momenti i cui i danzatori appaiono in una nudità appena accennata, grazie ad una straordinaria luce crepuscolare.
Infine il duetto Two completely angles of the same fucking thing che chiude lo spettacolo e meglio esplicita la poetica di Hofesh, un duetto tra Bruno Guillore e Winifred Burnet-Smith, più umano e intimo, che si apre allo spazio metaforico personale del coreografo suggerendo che in fondo che l’ossessiva auto-dichiarazione dei primi due pezzi può portare a una sorta di riflessione più pacata ed armonica.
Uno spettacolo tutto sommato affascinante e cerebrale, con una magistrale cura delle luci che pecca però di una eccessiva dilatazione che finisce per sfocare l’essenza dello spettacolo, impedendo allo stesso di essere dirompente e straordinario.
data di pubblicazione: 26/09/2016
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Giu 24, 2016
(Teatro India – Roma, 20/28 Giugno 2016)
Dal 20 al 28 giugnoil Teatro India propone la rassegna di spettacoli Il teatro che danza vetrina della coreografia contemporanea e della creatività, delle nuove forme della performance di oggi e delle tendenze del teatrodanza e del teatro fisico.
Primi due spettacoli in scena il 20 ed il 21 giugno Impression d’Afrique, composizione d’ensemble di Michele Di Stefano ed Ossidiana di Fabrizio Favale, con la sua compagnia Le Supplici.
Da una parte le Impression d’Afrique di MK proiettate nei colori, nei suoni e negli odori del continente nero e dall’altra Ossidiana, un’opera che parla di natura, di scontri energetici, di reazioni chimiche e di dinamismi spazio-temporali.
MK, realtà di punta nel panorama della danza contemporanea e del teatro danza in Italia, si occupa da sempre di performance e ricerca sonora. Il suo coreografo, Michele di Stefano, è una delle personalità più importanti della scena italiana nonchè vincitore del Leone d’argento alla Biennale di danza del 2014.
Impression d’Afrique si sviluppa con la dirompente ironia che caratterizza la celebre compagnia romana, sempre pronta a destrutturare i costrutti classici dei danzatori e della danza, ricorrendo in questo caso ad un ibrido stile afro-occidentale affrontato con coinvolgente energia. L’Africa prefigurata da Raymond Roussel nella stesura del suo romanzo Impression d’Afrique (1910) è un paesaggio irreale, che non ha altro scopo che quello di servire da sfondo ad una struttura sovrapposta, fatta di continue reazioni a catena di parole e movimenti, catturati da contesti differenti.
La performance, già presentata al museo etnografico Pigorini di Roma nel 2013, parte dall’Africa come come terra d’origine a cui vengono associate culture e contaminazioni diverse, che portano ad un contesto più metropolitano e street-style. In questa cornice il mix di personaggi – una pattuglia di marines, una donna costretta al sacrificio, alcuni esperti di telepatia – danno vita ad un quadro volutamente stratificato e movimentato, dall’ampio respiro ritmico che cattura e coinvolge.
Ossidiana, è al contrario una performance che prende le mosse dall’osservazione di quei particolari fenomeni che si riscontrano in natura, dove le forme restano incompiute o originano altre forme. Siamo qui in contesto nordico, notturno e nebbioso. La natura e la materia rappresentano il punto di partenza della performance basata su dinamismi continui in un costante divenire di corpi nello spazio, quasi reazioni chimiche fra elementi diversi.
La struttura coreografica di Fabrizio Favale lascia fluire al suo interno numerosissimi avvenimenti prima che i precedenti siano conclusi, proprio come accade al vetro vulcanico di ossidiana, che si forma in seguito al rapido raffreddamento della lava e che, data la sua conformazione chimica, non diventerà mai un cristallo.
Ossidiana, lavoro originale e visionario, denso e aereo al tempo stesso, sarà rappresentato alla Biennale de la Danse de Lyon, che si terrà dal 14 al 20 settembre 2016.
data di pubblicazione:24/06/2016
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Giu 16, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 14/16 giugno 2016)
Immagini e memorie, delicate e complesse, articolate, nitide e sfocate dell’universo pasoliniano. Lo scontro tra uno spoglio presente ed i valori dello scrittore. Una discarica rarefatta che scopre e mette a nudo le ipocrisie della società. Copertoni velati di bianco, un falso candore, un inferno interiore. Siamo nella nuova creazione di ricci/forte, PPP Ultimo inventario prima di liquidazione che chiude la stagione del Teatro Argentina dal 14 al 16 giugno completando l’omaggio che il Teatro di Roma ha dedicato a Pier Paolo Pasolini, nel quarantennale della sua tragica scomparsa.
Lo spettacolo si interroga sulle involuzioni culturali del nostro presente, attraverso un testo poetico di dura denuncia dell’Italia contemporanea. Uno spettacolo meno esasperato, apparentemente più sobrio rispetto ad altri, che temporaneamente mette da parte l’estetica pop e le esasperazioni stilistiche per lasciarsi guidare dal narrato e dall’evocato. Ma le parole le non hanno mai un significato solo. PPP sta per Pier Paolo Pasolini, a cui è dedicata la rappresentazione un’elegia all’uomo ed al poeta in contrapposizione al confomismo dei tempi. Ma PPP sta anche per primissimo piano, ovvero inquadrature e focalizzazioni su dettagli, primi piani, controcampi per raccontare una scampagnata, una corsa in bici, una mattinata al lido, preferibilmente quello di Ostia, in autunno. Un omaggio all’intellettuale, scrittore, poeta, attraverso una struttura di memorie e immagini cinematografiche a metà tra compassato racconto biografico ed potenti invenzioni coreografiche.
Un ragazzo (Giuseppe Sartori capace sempre di grandi performance), alter ego dell’intellettuale in crisi, si piega sotto il peso di un grosso copertone bianco e inizia a vagare e a rimuginare sullo stato delle cose e sul suo ruolo. Immerse tra i copertoni cinque donne – Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Catarina Vieira – sono un mondo di apparizioni a cui si contrappone l’isolamento di un “io”, del poeta- Sartori. Le cinque figure sono riflessi della sua coscienza, sono donne, uomini, in un continuo alternarsi di integrazione e repulsione.
Giocando su una scrittura ora letteraria, ora cinematografica, ricci/forte costruiscono un percorso avvincente dal primo all’ultimo istante, con la solita ricerca musicale efficacissima e dirompente. Rimane la forza dell’espressione teatrale ed il messaggio all’orizzonte, che supera violenza, atarassia e volontà degli uomini per rigenerare, ciclicamente, l’utopia di un possibile cambiamento, di una nuova rinascita socio-culturale.
data di pubblicazione: 16/06/2016
Il nostro voto:
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