da Rossano Giuppa | Mag 13, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 9/14 maggio 2017)
In un mare di dolore e di speranza i migranti scrutano l’orizzonte e cercano il futuro. Marco Baliani e Lella Costa sono in scena al Teatro Argentina dal 9 al 14 maggio con Human, spettacolo scritto dai due attori con la collaborazione drammaturgica di Ilenia Carrone e regia dello stesso Baliani. Scene e costumi sono di Antonio Marras, le musiche originali di Paolo Fresu con Gianluca Petrella. La storia dell’umanità che periodicamente si ripete. Aspettative, speranze, paure e disperazioni di migrazioni e integrazioni: una metafora universale, un’opera che fa pensare e scuote.
Uno splendido coro di voci tra loro diverse ed una trama di vicende, racconti, impressioni e riflessioni raccontata dai due protagonisti e da quattro giovanissimi e bravissimi attori. Un affresco che parte dall’Eneide e dal fascino del mito. Un’Eneide che oggi identifica la migrazione dei profughi alla ricerca di una nuova patria: Enea è profugo per necessità, così come l’altro mito richiamato ovvero l’amore di Ero e Leandro, i due amanti sono separati dallo stretto di mare dell’Ellesponto e dall’ostilità delle rispettive popolazioni. Perché questo perenne migrare? Quali sogni, pensieri, speranze o ricordi tragici e tristi porta con sé chi fugge?
Un racconto che è una struggente riflessione sul nostro tempo fatta di interviste, testimonianze, riflessioni e ripensamenti della gente comune. Si parte da quanto accaduto in questi anni, dalla crisi dell’Europa e dalla negazione di idee e valori, dal muro di indifferenza e diffidenza innalzato dentro l’animo della persone, unito a smarrimento e confusione e spesso a qualunquismo, nel quale si annidano i fondamentalismi che avanzano, gli attentati che sconvolgono le città ed i profughi che cercano rifugio. Reazioni diverse connotate da superficialità, presunzione, ignoranza e ipocrisia esattamente simili a quelle vissute dagli emigrati italiani, e non solo, nel secolo scorso e poco prima: corsi e ricorsi storici. Vicende di ieri e di oggi e la fotografia della nostra Italia fatta si di indifferenza ma anche di storie di coraggio e di rispetto verso il prossimo.
Bellissimi i costumi e le sculture di balle di stracci di Antonio Marras che raccontano il dramma di un’umanità a brandelli connotata da un metaforico rosso, colore e dolore dominante.
Un lavoro sul significato profondo di umanità tra attualità e mito, che sperimenta il teatro civile anche con ironia, leggerezza e poesia e che non può non commuovere.
data di pubblicazione: 13/05/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Apr 27, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 18 aprile/7 maggio 2017)
Lectio magistralis di teatro all’Eliseo di Roma. È infatti in scena dallo scorso 18 aprile e fino al 7 maggio lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Ruggero Cappuccio, Spaccanapoli Times, vincitore del Premio le Maschere 2016 per il Migliore autore di novità italiana. Una rappresentazione interessantissima, dinamica, intelligente, piacevole, che esalta le doti di tutti e sei gli attori sul palco e le capacità comunicative di Ruggero Cappuccio, grazie a un testo denso nei contenuti ma leggero nella esposizione ed al suo modo di far vivere i personaggi in scena, attraverso giochi di movimenti e pause e l’utilizzo di più piani di azione, che catturano e coinvolgono. Una grande prova di attori e di autore. Un grande teatro.
Lo spettacolo descrive la frenesia della Napoli di oggi e degli uomini di oggi: una sottile linea rossa fra follia e normalità. E sul palco si raccontano dramma e commedia.
Giuseppe Acquaviva (Ruggero Cappuccio) è uno scrittore sui generis, che pubblica in anonimato, vive nella stazione centrale, al binario otto. Sarà proprio lui a richiamare, nella loro casa nel cuore di Spaccanapoli, i suoi tre fratelli.
Romualdo (Giovanni Esposito), pittore fortemente segnato da una carriera mai esplosa, che distrugge i suoi quadri una volta finiti e che vive di colori e per i colori.
La sorella Gennara (Marina Sorrenti) che si è trasferita in Sicilia anni fa per amore, per sposarsi con Vitagliano. Il marito però, morto anni orsono le aveva strappato la promessa di non guardare mai più altri uomini, promessa mantenuta per quattro anni e poi sciolta a causa dell’incontro con Norberto (Giulio Cancelli) il direttore della filiale numero 3 di Palermo della Banca Monte dei Paschi di Siena, marito che puntualmente sogna tutte le notti e che la rimprovera del tradimento.
Infine c’è Gabriella (Gea Martire), zitella, ma corteggiata. Nonostante i molti pretendenti non si decide a sceglierne uno perché ancora legata al suo primo amore.
Giuseppe lì riunisce tutti lì per un semplice motivo: il Dottor Lorenzi (Ciro Damiano) farà presto loro visita per giudicare il loro stato di salute mentale e decidere se rinnovare a tutti la pensione di invalidità. Nell’attesa dell’arrivo del Dottor Lorenzi i quattro fratelli si raccontano, scontrandosi e incontrandosi, ricordando i tempi passati, in un continuo alternarsi di memorie e psicosi in quella casa dove i quattro avevano vissuto la loro infanzia ed adolescenza. Non c’è molto di quel passato, solo bottiglie d’acqua, tantissime, unica cosa che resiste al tempo e non invecchia, qualche sedia e delle sdraie per prender il sole in sala da pranzo, insieme ai fantasmi di ognuno. I quattro fratelli ormai viaggiano su binari a se stanti, ognuno con il proprio orario al polso, tentando di sintonizzarsi tutti sulle stesse coordinate, ma invano.
In questo contesto fatto di acqua, di interruttori e di luci, di ricordi e racconti distorti e sovrapposti, i quattro finiranno per perdere le pensioni ma per ritrovare forse unità e serenità.
Grandi meriti a Ruggero Cappuccio per aver costruito una metafora sulla follia e sulla libertà che la malattia mentale genera, una costruzione fatta di riflessioni e contenuti, di teatro greco e napoletano, di Pirandello, di Shakespeare, di concreta psicanalisi.
data di pubblicazione: 27/04/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Apr 10, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 5/9 aprile 2017)
Il Teatro Vascello di Roma ha ospitato la piece TRUMAN CAPOTE questa cosa chiamata amore, tratta dall’inedito testo di Massimo Sgorbani con la regia di Emanuele Gamba, per una produzione Fondazione Teatro della Toscana e dedicata Truman Capote, pseudonimo di Truman Streckfus Persons, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e attore statunitense, scomparso nel 1984 a soli 60 anni.
Un uomo si racconta in uno spazio essenziale e dinamico, delimitato da tavolo, sedie e pannelli in rigoroso movimento. E’ un uomo solo, svestito, destato di notte da urla e calci alla porta dell’ex compagno, in realtà interessato solo alla sua fama e ai suoi soldi che inizia a parlare della sua vita. Inizia così l’interessante monologo confessione di Truman Capote, l’autore consacrato alla notorietà da A sangue freddo, romanzo verità del 1966, storia del massacro di una famiglia e capostipite di una tipologia di giornalismo letterario di grande successo, ma anche contraddittorio personaggio di mezzo secolo di storia e costume americano. Capote infatti prima che scrittore giornalista e drammaturgo, è vittima e protagonista dello star system americano, per il suo essere eccessivo, esibizionista, decadente ma anche influencer e personaggio pubblico come diremmo oggi.
E’ costui il Capote raccontato da Massimo Sgorbani, fortemente sentito e interpretato da Gianluca Ferrato ed intelligentemente diretto da Emanuele Gamba, un anticonformista che può permettersi di dissacrare Hollywood e la società letteraria newyorkese, mettendo anche dentro se stesso, i suoi vizi, le sue manie.
Capote racconta alla sua interlocutrice, Marilyn Monroe, sua grande amica ed anch’essa segnata da un’infanzia difficile e da una vita sofferta, amori, avventure, successi e sconfitte, ma anche l’America di quegli anni, le figure di Jackie e John Fitzgerald Kennedy, l’omicidio a Dallas di quest’ultimo nel 1963 e quello del fratello Bob, cinque anni dopo, l’inutile guerra in Vietnam. Ma anche l’America di Perry Smith, l’omicida della famiglia Clutter, nel Kansas del 1959, da cui nacque il romanzo A sangue freddo e del quale ricorda con dolore le visite in carcere. Truman Capote, un predestinato della scrittura, frivolo e profondo, con la sua disperata voglia di stupire, di essere apprezzato e amato.
Uno spaccato interessante quello messo in scena, in grado di esasperare le contraddizioni di un uomo vissuto tra fama e lustrini da un lato ed emarginazione dall’altro, il suo essere eccessivo e fragile. Su tutte la mano del regista, in grado di alleggerire e smussare con i passaggi veloci e l’uso di musiche ed immagini appropriate, l’enfasi di un personaggio scomodo ed esasperato per far emergere e lasciare in tutti quel senso di malinconia e profonda solitudine, quel bisogno di affetto e di amore, che a distanza di tempo è certamente quello che è più giusto ricordare dell’uomo Truman Streckfus Persons.
data di pubblicazione:10/04/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Apr 7, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 26 marzo/23 aprile 2017)
Giulia Lazzarini, una delle attrici più grandi e più amate del panorama artistico italiano, torna al teatro quale straordinaria protagonista di Emilia, un testo scritto e diretto dall’argentino Claudio Tolcachir, in prima nazionale al Teatro Argentina.
Emilia è una balia che dopo venti anni ritrova Walter (Sergio Romano) il bambino che aveva accudito; oramai è un uomo in carriera e la introduce benevolmente nel suo contesto familiare, date le difficoltà economiche che quest’ultima sta attraversando. Emilia conosce così Carol (Pia Lanciotti), la donna che Walter ha sposato, e Leo (Josafat Vagni), il figlio che lei ha avuto dal precedente matrimonio con Gabriel (Paolo Mazzarelli). Sembrano tutti felici, ma è solo apparenza. Poco a poco si scopre, attraverso i ricordi di Emilia, quanto Walter fosse un bambino complicato. E parallelamente iniziano ad apparire crepe profonde nella sua famiglia ed è sempre più evidente come le strutture emotive dell’infanzia di Walter abbiano poi sortito effetti devastanti sulla sua vita e sulla sua famiglia, rivelandolo quale uomo violento e aggressivo, geloso e incostante.
Lo spazio scenico è un ordine-disordine di coperte e casse di un trasloco, una trasposizione della mente di Emilia, una casa, luogo di amore e orrore, che protegge e imprigiona.
Claudio Tolcachir scrive e dirige una storia di legami contrastati e di relazioni familiari che celano inquietanti segreti. Ma è anche la storia della decomposizione del valore della famiglia, fatto di quotidianità apparentemente rassicuranti che crollano davanti alle crude evidenze della verità.
La drammaturgia di Tolcachir è straordinariamente efficace grazie alla semplicità del linguaggio adottato. Emilia può parlare e raccontare la sua storia, al passato ed al presente, a seconda di come la sua mente veda i ricordi, mentre i personaggi agiscono dietro e lateralmente, in una sovrapposizione efficace di piani, e si raccontano, si confrontano, ma è come se davanti a loro ci fosse un muro oltre il quale non possono andare. Muro che li porta a rifugiarsi in se stessi e a sviluppare un meccanismo di autodistruzione.
Una pièce che parla di affetti e sentimenti nelle differenti forme e deformazioni, di gratitudine e di colpa, per uno spettacolo toccante e devastante.
data di pubblicazione:07/04/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Apr 5, 2017
(Teatro Argentina – Roma 8 marzo/1 aprile)
La Sala Squarzina del Teatro Argentina ha ospitato, dall’8 marzo al 1 aprile, lo spettacolo di Riccardo Caporossi ‘Mura’. La pièce, produzione di Teatro di Roma, ricrea in scena un quadro visivo, una “scatola teatrale” all’interno della quale è eretto un muro composto da 50 mattoni.
Il muro è sempre stato simbolo di divisione, ostacolo, incomunicabilità fra gli uomini. La costruzione di muri nel mondo ha segnato il corso degli eventi soprattutto con la loro distruzione. Ed è proprio sopra quel muro che si svolge la scena: mani, bottiglie, scalette, cannocchiali, bastoni, ombrelli, cappelli e altri oggetti vi passano sopra ed interagiscono con esso. Le loro ombre, proiettate su una superficie bianca illuminata sullo sfondo, mutano in forme fantastiche e distorte, che riportano a un mondo fiabesco e infantile. A parte la voce narrante all’inizio e alla fine, lo spettacolo è un gioco poetico e silenzioso di incastri e forme, montaggi e smontaggi, senza trama apparente, retorica o morale. Lo spettatore è catturato dal movimento, dai gesti, dai piccoli oggetti e soprattutto dall’abilità di quelle quattro mani che spuntano, spostano i mattoni, danno vita a piccole costruzioni e poi le demoliscono, con senso e leggerezza.
La metafora è d’obbligo: non è forse vero che la storia non solo dell’uomo, ma dell’universo, è un continuo processo di costruzione e distruzione?
Circa quaranta anni dopo Cottimisti, Riccardo Caporossi riporta in scena ‘i mattoni’ con una performance che unisce l’arte e un teatro evocativo ed asciutto, fatto di immagini, dettagli e silenzi. ”Nel 1977 ho realizzato insieme a Claudio Remondi lo spettacolo ‘Cottimisti’ – ha raccontato il regista – in cui costruivamo, in scena, un muro vero con 1000 mattoni veri. Operai visionari. Altri tempi, per valutare il senso dello spettacolo. Di lì a 12 anni fu abbattuto il Muro di Berlino ”.
Come spiega Caporossi, Mura è un dettaglio di quel muro, un primo piano di memoria che riporta tutti a usare la mente e la propria conoscenza. ”Dietro quel muro, manu-fatto vero, apparivano un paio di mani che con l’alfabeto dei sordo-muti lanciavano un messaggio oltre il confine. È una pagina, una tela, uno schermo. Frammento di ciò che può esserci, di qua o di là del muro. Alla fine calava una grande sfera di metallo, sospesa tra il pubblico e il muro. Una provocazione o meglio un suggerimento per abbatterlo”.
Una performance densa e delicata, un’elegia alla conoscenza ed alla ribellione. Perché se è vero che il muro più famoso del XX secolo è stato abbattuto, nel 1989, a Berlino, ancora tanti muri resistono ancora oggi e sono spesso invisibili. Barriere e discriminazioni nei confronti del diverso. A volte sono evidenti, altre volte sono subdolamente nascosti. Bisogna riconoscerli, guardandoli da vicino, nei dettagli, guidati dalla ragione, per buttarli giù e liberare il respiro.
data di pubblicazione: 05/04/2017
Il nostro voto:
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