da Rossano Giuppa | Set 30, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 20/23 settembre 2017)
Sasha Waltz ha inaugurato la 32esima edizione del Romaeuropa Festival con il debutto italiano di Kreatur, la sua nuova opera presentata in anteprima mondiale lo scorso 9 giugno al Radialsystem Berlin e andata in scena in prima nazionale dal 20 al 23 settembre 2017 al Teatro Argentina di Roma. La coreografa tedesca ha regalato al Festival la sua travolgente carica di linee, forze e corpi rinnovando la sua attenzione al dialogo con altre forme artistiche, per tornare ad esplorare le paure di oggi.
Sul palco 14 danzatori, di cui tre italiani, indagano aspetti dell’esistenza umana e della realtà sociale. Attraverso delicati fraseggi e improvvise esplosioni di violenza segnano il rapporto con lo spazio che li circonda, affrontando gli opposti del nostro quotidiano ovvero la forza e la debolezza, la libertà ed il controllo, il gruppo e l’isolamento, la democrazia e l’oppressione. Tutti senza distinzione di età, sesso, estrazione sociale e orientamento sessuale alla conquista di un proprio ruolo nel mondo. Manca lo spazio vitale ed allora tutti tentano inutilmente di salire una scala appoggiata ad una parete bianca. Si ammucchiano, si spingono, si sovrastano per poi cadere.
Kreatur si basa anche su due importanti collaborazioni: con la fashion designer Iris van Herpen, che nei suoi abiti scultorei combina tecniche artigianali e tecnologie digitali e dall’altro con il light designer Urs Schönebaum, per lungo tempo collaboratore di Robert Wilson.
Ad affiancare questo sofisticato trio, sono le musiche di Soundwalk Collective, band di New York che spazia tra musica, performance, e installazioni e che vanta anch’essa collaborazioni con star come Patti Smith.
Kreatur racconta le ansie del presente, tra minaccia del terrorismo, paura degli immigrati, disoccupazione e crisi economica. Sul palco i ballerini si spostano in bozzoli bianchi eterei, rifugi ma anche prigioni interiori. E i corpi sono in continua trasformazione. È anche questo, tra l’altro, per porsi la domanda Where are we Now? che è un tema portante di questo Festival.
Una combinazione esplosiva ed austera di danza, moda, musica e luce. Uno spettacolo che assorbe e rilascia significative riflessioni sulla nostra identità, su ansie e paure del quotidiano, ma anche sulla forza interiore e sulla capacità di comprendere il presente e di viverlo degnamente.
data di pubblicazione: 30/9/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Set 28, 2017
(Teatro India – Roma, 26 e 27 settembre 2017)
A chiusura della terza edizione della rassegna Il Teatro che danza-Vetrina sulla coreografia contemporanea, il Teatro India di Roma ha ospitato la Compagnia Enzo Cosimi con la prima nazionale di Thanks for hurting me Kafka. un tributo postumo con regia e coreografia dello stesso Enzo Cosimi, che ha curato anche le musiche insieme a Stefano Galanti.
Autore e artista tra i più noti e autorevoli della coreografia italiana contemporanea, capace di suscitare forti emozioni con le sue creazioni, Cosimi dopo Fear party, sulla paura collettiva, e Estasi che affronta il tema del desiderio e il rapporto tra questo e gli aspetti più profondi generati oggi nella società contemporanea, chiude la trilogia Sulle passioni dell’anima proponendo a Roma, in anteprima nazionale, una performance complessa, un tributo postumo al grande Franz Kafka, dedicata all’esperienza emozionale del dolore.
Attraverso percezioni e sensazioni, percorsi del ricordo e visioni oniriche, Thanks for hurting me racconta la catarsi del dolore, visto non più come condizione da evitare e rifiutare, bensì percorso di crescita e purificazione, attraverso l’ascolto dell’io più intimo che aiuta ad accettare e superare, rendendo l’uomo più permeabile e forte e più in sintonia con i misteri della vita e del mondo.
Come lo stesso Cosimi sottolinea “ Il dolore – processo di purificazione che permette di santificare l’uomo, di allontanarlo dalla vita – permette di aprirsi ai segreti del mondo. L’avvento del nichilismo ha annullato ogni valore metafisico in un sistema votato al dominio planetario della tecnologia e della scienza. Quindi il dolore viene estirpato dalla vita perché non abita più persone ma strumenti. Dal mutato rapporto col dolore sorge una nuova koinè del pensiero che celebra il mondo virtuale, la velocità e la narcosi, in una sola parola, la fuga”.
La drammaturgia del lavoro si sposa perfettamente con l’universo Kafkiano attraverso visioni e costruzioni della mente; il dolore insegna ad ascoltare e a trasmettere l’unicità dell’essere umano.
Narrazioni sovrapposte in cui storie vere e biografie inventate si mescolano fra loro, in cui si mette in crisi l’idea della storia unica e oggettiva, creando una drammaturgia a più livelli, multidimensionale, senza confini tra le discipline artistiche, mettendo il corpo al centro del processo creativo.
Opera a tutto tondo di Enzo Cosimi che firma regia, coreografia, scene e costumi mentre l’interpretazione e la collaborazione alla coreografia sono di Paola Lattanzi, Elisabetta Di Terlizzi, Alice Raffaelli.
Brave le tre interpreti a condurci nel percorso di sofferenza ed espiazione, attraverso il gesto ripetuto ed esasperato, il sentiero accidentato da percorrere, le pause e le convulsioni. Una contrizione che alla fine sublima il dolore e lo rende umano.
Uno spettacolo ipnotico e non esasperato, ritmico ma privo di sussulti emotivi, poco accattivante ed asciutto.
data di pubblicazione:28/09/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Giu 26, 2017
(Teatro India – Roma,19/24 giugno 2017)
Un getto di immagini e parole, un passato ed un presente sovrapposti, un flusso di pensieri e persone in un cammino apparentemente senza meta, ma in realtà all’interno di un’ellisse che sa di vita e di morte. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini hanno presentato per il terzo anno consecutivo Quando non so cosa fare cosa faccio? azione performativa che, dal 19 al 24 giugno ha accompagnato un gruppo di spettatori dal Teatro India tra viale Marconi e le sue diramazioni.
Daria De Florian percorre e racconta quell’angolo urbano sconclusionato e caotico, fatto di negozi di ultima generazione e ambulanti, di etnie, panchine e parchi, di garage e saliscendi metropolitani fatti di cemento e ferro, di palazzi addossati e acqua del fiume. Un set cinematografico senza tempo che ancora accoglie l’anima di Adriana, la giovanissima protagonista di uno dei capolavori del cinema italiano, Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli. Un film del 1965, interpretato da una indimenticabile Stefania Sandrelli. Adriana che aveva lasciato il paese per raggiungere Roma con l’aspirazione di farsi strada nel mondo dello spettacolo e che era andata a vivere proprio nell’allora modernissimo quartiere Marconi.
Un percorso a metà tra il ’65 ed il 2017, in una condizione sospesa, guidato dalle azioni e dai pensieri di Adriana-De Florian, una donna fragile, poetica, delicata, simbolo della trasformazione del quartiere Marconi e dei suoi abitanti. L’azione performativa, pur seguendo un itinerario, è decisamente aperta: durante il percorso, la storia interagisce con persone e cose, privilegiando una dimensione soggettiva e non predefinita, libera da limiti spazio-temporali.
La scelta di via Marconi vuol dire inevitabilmente ripensare a quando è nato il quartiere, sogno di una modernità e di un benessere da inseguire ad ogni costo, nel segno di un progresso che non si sarebbe mai fermato. Un film en plen air fatto di paesaggi reali e paesaggi della mente che gli spettatori, grazie a cuffie, possono seguire ed interiorizzare. Ed il tempo sembra fermarsi tra realtà e dimensione cinematografica, grazie alla voce che ipnotizza e coinvolge.
Passo dopo passo, parola dopo parola, il racconto autobiografico si fonde sempre di più con la ricostruzione e la rievocazione del personaggio di Adriana, i suoni intorno a noi si mescolano con quelli del film, con la sua colonna sonora e le sue canzoni, come la bellissima Mani bucate di Sergio Endrigo, intonata in uno scantinato. Un’esperienza emozionante, un viaggio interiore illuminato da una voce che isola e filtra dando sfumature di colore e respiro al quartiere ed ai sui mille abitanti. Un racconto che sa di caos e fantasia, di integrazione ed illusione, di gioia e di amarezza per un giardino di ciliegi che sta per essere abbattuto; ma proprio allora quella fusione leggera di Checov e traffico, di caos e ciliegie, di sogno e dolore diventa poesia.
data di pubblicazione:25/06/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mag 28, 2017
(Teatro Argentina – Roma,16/28 maggio 2017)
Gran finale di stagione al Teatro Argentina di Roma con Morte di Danton lo straordinario testo sulla fine della Rivoluzione Francese e sugli ultimi giorni di vita di Danton e Robespierre, scritto in sole cinque settimane tra il gennaio ed il febbraio del 1835 dal ventunenne scrittore Georg Büchner.
Morte di Danton magistralmente diretto da Mario Martone racconta l’atmosfera gli ultimi giorni del Terrore, la caduta di Georges Jacques Danton e l’antagonismo che lo contrappone a Maximilian Robespierre. Il dramma si concentra proprio sulla contrapposizione tra i due protagonisti della Rivoluzione francese, compagni prima e avversari in seguito, entrambi destinati alla ghigliottina a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro.
Da un lato la figura di Robespierre “l’incorruttibile” (interpretata da un magistrale Paolo Pierobon) che comprende con sgomento la solitudine alla quale lo condanna la propria intransigenza. Dall’altro Danton (uno straordinario Giuseppe Battiston), “l’indulgente”, il capo rivoluzionario rassegnato a un destino che sembra destinato a compiersi comunque. Un uomo che ha combattuto per la rivoluzione e che la rivoluzione sta per divorare come Saturno fece con i propri figli. Ma che sa anche che il vero tribunale sarà quello della Storia.
Danton non crede alla necessità del Terrore e difende una visione del mondo liberale e tollerante, anche se consapevole dei limiti dell’azione rivoluzionaria; Robespierre, invece, incarna la filosofia giacobina, stoica, intransigente e violenta.
La fatica di Danton, che si contrappone con lucida razionalità al fanatismo del suo rivale, altro non è che la sfiducia nella possibilità di trasformare il mondo, una visione che tuttavia non incrina la volontà di lotta e la coscienza di perseguire il giusto. E Büchner mette al centro della sua riflessione la condizione umana e la fragilità degli uomini che non possono sottrarsi al proprio destino. Un destino a cui non si può sfuggire, non prefissato da un Dio, ma dell’inesorabilità del Tempo e della Storia.
Morte di Danton è anche un affresco caratterizzato da una forte coralità: c’è il violento discorso di Saint-Just, interpretato da Fausto Cabra, c’è la visione metafisica di Tom Payne (Paolo Graziosi), c’è l’entusiasmo di Camille Desmoulins (Denis Fasolo) che ripone una fede commovente nella parola, parlando di teatro e di giornalismo quando tutto sembra procedere verso la rovina, e ci sono le potenti figure femminili. C’è Marion (Beatrice Vecchione) che finalmente mette il corpo, con la sua voluttà e la sua fragilità, al centro della scena; c’è Julie (Iaia Forte), la moglie di Danton che è in realtà un’invenzione letteraria di Büchner, la quale di fronte alla morte del compagno sceglie di morire anch’essa, come altri mogli della Rivoluzione; c’è infine Lucile (Irene Petris), che quando parla con il marito Camille con in braccio il figlio piccolo che, dopo l’esecuzione del marito, si suicida gridando con un fil di voce «Viva il Re!» in faccia alle guardie repubblicane.
Martone sceglie di non attualizzare il testo affrontando il dramma storico con gli attori in costume. Straordinaria la scelta di una scenografia leggera, a volte quasi spoglia, fatta principalmente di un meccanismo di cinque sipari rossi che si aprono e si chiudono ritmicamente, svelando e occultando scene con velocità cinematografica, dando quasi l’impressione del montaggio visivo.
Morte di Danton è il dramma del fallimento della rivoluzione e dell’eccesso di politica, quell’eccesso che finisce per sacrificare ogni aspetto della sfera privata, anche il più intimo, per il sogno di modellare un mondo e un uomo nuovi. Ma è anche il teatro dei temi del nostro tempo:il rapporto tra uomini e donne, l’amicizia, la classe, il determinismo, il materialismo, il ruolo del teatro stesso. E non è un caso che a portare in scena Morte di Danton sia proprio Martone che nel recente film Noi credevamo aveva raccontato il fallimento del Risorgimento italiano come rivoluzione nazionale e la sconfitta di quei repubblicani mazziniani, che avrebbero non solo voluto unificare l’Italia e cambiarne i meccanismi interiori.
data di pubblicazione:28/05/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mag 14, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 9/21 maggio 2017)
In scena al Teatro Eliseo di Roma, fino al 21 maggio, Play Strindberg di Friedrich Durrenmatt, regia di Franco Però. I protagonisti sono Edgar, capitano d’artiglieria, interpretato da Franco Castellano, sua moglie, ex attrice, Maria Paiato, e Kurt, il cugino-amante che torna all’improvviso, Maurizio Donadoni. Interpretano l’inferno matrimoniale di una coppia, dopo venticinque anni di irrispettosa convivenza, tema ripreso dalla Danza Macabra di Strindberg riscritta e ripensata nel 1969 da Friedrich Dürrenmatt per il Teatro di Basilea. L’autore svizzero tedesco che lavorava in quel periodo per il teatro di Basilea, insoddisfatto delle traduzioni di Danza macabra (a sua volta scritto nel 1900), decise di impegnarsi personalmente a lavorare alla riscrittura, realizzando con Play Strindberg (tradotto da Luciano Codignola) molto più di un adattamento che viene proposto attraverso un occhio più crudo e razionalista. Linguaggio sarcastico e spietato quello di Dürrenmatt che si diverte a mantenere inalterata la forza del testo di Strindberg, che viviseziona impietosamente un matrimonio fra frustrazioni e recriminazioni, andandolo però a riscrivere in chiave attuale, indagando sui valori ed i ruoli della famiglia attraverso un confronto caustico e serrato posizionando i tre protagonisti in un ring dove si studiano e si attaccano. E combattono tra sarcasmo, grottesco e ironia. Il testo prende i tre protagonisti e li scaglia in uno scontro da cui usciranno a pezzi. Una versione cattiva e ironica sulla vita di coppia ed alla fine anche molto divertente.
Uno spettacolo non esaltante e un po’ monocorde, che rimane per la bravura e personalità degli attori tutti e tre straordinari e per quell’umorismo colto e feroce, esorcizzando a scena aperta quello che tutti avremmo voluto fare o dire almeno una volta nella vita a due.
data di pubblicazione:14/05/2017
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…