da Rossano Giuppa | Gen 9, 2018
(Teatro Quirino – Roma, 2/7 gennaio 2018)
Un classico teatrale come Filumena Marturano è tornato in scena a Roma al Teatro Quirino con la regia di Liliana Cavani, nell’ambito di una lunga tournée partita due anni da Spoleto ed ancora oggi in giro per l’Italia.
Filumena Marturano, tra le commedie italiane del Dopoguerra più conosciute e rappresentate all’estero, si propone di rappresentare i drammi, le ansie e i problemi di un Paese ancora sconvolto dalla violenza e dalla crudezza della Guerra. Un’opera di grande impegno, moderna e priva retorica, scritta con grande naturalezza ed efficacia dal maestro Eduardo De Filippo. Un capolavoro.
La nota storia vede al centro un problema senza tempo: a chi appartengono i figli, biologici o attribuiti, nati dentro o fuori dal matrimonio? Al tempo della stesura (1946), la legge non proteggeva questi “figli” considerati illegittimi, una legge ferma al Medioevo. Filumena vi si ribella con la lucidità e una forza così generose da riuscire a trascinare l’ignaro borghese Domenico a capire il valore degli affetti fondamentali per la nostra vita. Una metafora di un’Italia ferita ma in cerca di riscatto. Filumena e Domenico, da sempre amanti e non sposati all’epoca in cui la prole illegittima e le donne conviventi erano marchiate e non avevano alcun diritto, grazie alla passione di lei e alla sua capacità ribellarsi, riescono a comprendere cosa significhi essere una famiglia, quali siano i veri affetti fuori dalle convenzioni culturali e burocratiche.
Nel corso degli anni il personaggio di Filumena Marturano è stato portato sul palco dei più grandi teatri italiani da attrici del calibro di Pupella Maggio, Regina Bianchi, Mariangela Melato, Sofia Loren (con accanto uno straordinario Mastroianni nella versione cinematografica di De Sica). Questa volta, la Filumena che non sa piangere è stata magistralmente interpretata da Mariangela D’Abbraccio, un’attrice poliedrica capace di donare al suo personaggio una profondità e un’intensità particolari, di grande spessore, senza alcuna forzatura e con tanta naturalezza.
L’opera si snoda a partire dalla sobria camera da letto dove Domenico Soriano ha appena scoperto che la donna che credeva di aver sposato in articulo mortis, è in realtà ben viva e pronta a far valere i suoi diritti. Filumena, costretta dalla fame a vendersi in un bordello appena diciassettenne, assurge a simbolo di una realtà sociale dolente, sconvolta nei suoi valori dalla guerra, in cui il dramma si consuma soprattutto in quella sua maternità nascosta per difendere tre bambini innocenti, uno dei quali è certamente figlio di Domenico Soriano. Le infinite sfumature emotive del personaggio, nelle scelte espressive di Mariangela D’Abbraccio diventano rabbia, lotta, determinazione, ma anche dolcezza di una madre che può finalmente svelare ai figli ormai adulti il proprio ruolo.
Del pari, Geppy Gleijeses, aiutato da una gestualità contenuta, ma estremamente espressiva, si appropria della libertà di sentirsi uomo ancor giovane, pronto a farsi trascinare da una bella ragazza in una ulteriore storia sentimentale, e a rivendicare il diritto maschilista di maltrattare l’amante che gli ha fatto da governante e da tutrice, ma pronto anche ad appropriarsi di una dignità emotiva quando i tre figli di Filumena gli si rivolgono chiamandolo “papà”.
Sul palcoscenico un cast di bravi interpreti, capaci di raccontare i momenti tragici e ridicoli di una quotidianità che, come la realtà, a volte diventa surreale.
Pur potendosi configurare nel novero degli allestimenti tradizionali, la regia della Cavani riesce a scavare nel tessuto psicologico di personaggi così forti, connotandoli ma alleggerendoli al tempo stesso. Uno spettacolo austero e delicato, capace di esplicitare ulteriori nuove sfumature di una vicenda e di personaggi, pietre miliari del nostro grande teatro.
data di pubblicazione: 9/01/2018
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Dic 22, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 21 dicembre 2017/7 gennaio 2018)
Al Teatro Argentina di Roma torna Ragazzi di Vita, tratto dal primo romanzo di Pierpaolo Pasolini. Nell’ambito del quarantennale dell’uccisione di Pasolini, il Teatro di Roma ha coraggiosamente portato uno dei suoi scritti più importanti, con la drammaturgia di Emanuele Trevi, la regia di Massimo Popolizio.
Il regista riorganizza e sintetizza il libro per l’adattamento teatrale presentandolo in capitoli diversi rispetto all’originale. Il racconto delle giornate di un gruppo di adolescenti delle periferie romane diventano così quadri, introdotti da un narratore che amalgama le storie dei diversi protagonisti, i tuffi nel Tevere, i furti di borsette e le corse in macchina, tra urla e parolacce, tra avventure amorose e botte tra giovani e cani.
Tutto lo spettacolo è un prodigioso gioco di equilibri, di strutture in movimento, di idee che si susseguono e si rinnovano, con diciotto giovani attori (tra i quali tre attrici) che si muovono armonicamente sul proscenio, davanti a sfondi con proiettate immagini astratte o su costruzioni mobili, enfatizzate da giochi di luci e ombre che avvolgono l’intera struttura dell’Argentina.
La voce del narratore fuori-dentro la scena, i protagonisti che parlano di sé stessi in terza persona, le canzoni ricantate sulle musiche originali creano una coralità potente e una vitalità trascinante, grazie anche al lavoro drammaturgico di Emanuele Trevi.
In scena gli attori non si risparmiano, entusiasmano, saltano e urlano in contrapposizione ad un narratore molto sui generis, il bravo Lino Guanciale, una presenza lieve che osserva non visto, aiuta, interferisce se serve, anch’egli attratto da un mondo che non gli appartiene ma che conosce benissimo. Una sorta di coscienza che già sa quello che deve succedere, mantenendosi sempre in equilibrio tra partecipazione e cronaca.
L’umanità affamata, dannata e vittima, incolpevole dei delitti dei quali alla fine si macchia raccontata da Pasolini nel romanzo, diviene un insieme di figure facilmente connotate nella propria semplicità, prive di qualunque complessità psicologica, collegate l’una all’altra, grazie al lavoro di regia in grado di creare un filo conduttore tra quadri, persone e contesti.
L’utilizzo simbolico delle scenografie e l’elegante pittoricità delle scene di gruppo rappresentano i veri punti di forza dello spettacolo. E poi c’è la lingua ed il glossario utilizzato: il romanesco inventato e contaminato di Pasolini enfatizzato dall’uso della terza persona.
Una citazione infine per le musiche che sono parte fondamentale del tessuto connettivo dello spettacolo e che vede gli attori cantare sulla base delle canzoni di Claudio Villa.
Un’adolescenziale vitalità di borgata che arriva diretta al pubblico, un’impresa difficile ma dovuta per restituire quell’atto d’amore che l’artista di origine friulane con il suo romanzo aveva voluto dedicare alla città di Roma.
data di pubblicazione: 22/12/2017
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da Rossano Giuppa | Dic 6, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 21 novembre/10 dicembre 2017)
Dal 21 novembre al 10 dicembre al Teatro Argentina, in prima nazionale, ha debuttato il nuovo allestimento di Re Leardi William Shakespeare, la tragedia del potere, per la regia di Giorgio Barberio Corsetti con protagonista Ennio Fantastichini.
Corsetti ha ideato una sinfonia dolorosa e infernale che parte dalla prova d’amore pretesa da un Re alle sue tre figlie e culmina, in un crescendo delirante, nella distruzione di un regno spazzato via dall’odio e dalla sopraffazione, in cui i pochi superstiti sono chiamati a tentare una ricostruzione in vista di un futuro possibile. È la storia di un regno, di legami politici, accordi finanziari e guerre e di una famiglia divisa e distrutta dall’avidità e dall’ambizione.
Ad inizio alla rappresentazione un video in diretta: voci, corpi, urla, risate, un festino decadente che anticipa la tragedia. Lear, potente re di Britannia, stanco del peso della corona, consapevole che la vecchiaia e la morte sono irrimediabilmente vicine cede il proprio regno alle giovani figlie, sperando di godersi ricchezze e feste confidando nell’ospitalità delle proprie figlie. Vuole ritrovare la giovinezza perduta, abbandonare le cure del regno, il peso delle responsabilità, poter vagare con i suoi cavalieri da un palazzo all’altro, fare bagordi e occuparsi solo del proprio piacere.
Lear pensa di poter essere amato perché sta regalando il potere, ritenendo che il sentimento delle figlie sia una garanzia, un investimento che gli permetterà di vivere spensierato la sua vecchiaia.
Quel Lear pieno di se e padrone del mondo spartisce così il proprio regno tra le figlie Goneril e Regan, mentre Cordelia la figlia più piccola viene allontanata e diseredata. Goneril e Regan priveranno il padre di ogni amore, di ogni rispetto, negandogli sostegno economico e affettivo, trattandolo come un vecchio pazzo.
In realtà è l’epilogo di un uomo che vede frantumarsi i legami familiari fino alla morte. Diventerà pazzo, cominciando a girare per il regno, in preda a deliri sempre più violenti, accompagnato da un pazzo per finta e sostenuto dalla fedele amicizia di Gloucester, altro uomo e padre, ferito e tradito.
Giorgio Barberio Corsetti ha voluto portare Lear ai nostri giorni, cercando di creare un ponte tra passato e presente attraverso un linguaggio moderno e l’impiego della tecnologia. Un linguaggio però che non aggiunge nulla al testo, finendo per sminuire la bellezza e la drammaticità della poetica shakespeariana.
La regia punta a stupire con effetti visivi e sonori e accenti esasperati, ponendo in secondo piano la poesia, il cuore e le emozioni. La scenografia è imponente ed efficace, così come i costumi, moderni e dai colori decisi.
Rimane comunque il forte impatto scenico: il dramma delle due famiglie, Lear e Gloucester, la tempesta, la fuga, la follia, la natura che si confonde con la mente, i complotti, i tranelli, le guerre sono momenti e luoghi fisici e interiori, reali e allucinati.
La tragedia esistenziale è devastante, ma di fronte a tanto male e tanta efferatezza si intravede una speranza: lealtà e fedeltà, rispetto così come la pietà e la compassione, rappresentano ciò che alla fine rimane e dà speranza.
data di pubblicazione:06/12/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Nov 26, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 21 novembre/3 dicembre 2017)
Torna in teatro Le Sorelle Materassi, tratto dal celebre romanzo di Aldo Palazzeschi, nel libero adattamento di Ugo Chiti e con la regia di Geppy Gleijeses, al Teatro Quirino di Roma dal 21 novembre al 3 dicembre 2017.
Tre grandissime attrici, Lucia Poli, Milena Vukotic e Marilù Prati, vestono i panni delle tre Sorelle Materassi che vivono cucendo corredi da sposa e biancheria di lusso per la benestante borghesia fiorentina, nel sobborgo di Firenze Coverciano. Accanto a loro, la fidata governante Niobe (la bravissima Sandra Garuglieri).
Tutto sembra scorrere secondo una lenta e stanca routine quotidiana, quando irrompe nella loro vita il giovane, bello e intraprendente nipote Remo (Gabriele Anagni), figlio di una quarta sorella morta, la cui attitudine all’ozio, alla vita dissoluta e allo sperpero sarà la causa della rovina economica della famiglia.
Rancori e rivalità femminili vengono a galla mentre la vita tranquilla delle tre sorelle viene sconvolta; Teresa e Caterina da un lato subiscono passivamente il fascino del nipote e finiscono per accontentarlo in ogni cosa mentre la minore Giselda, con rabbia e forza inascoltate condanna i comportamenti dissoluti di Remo.
Una piacevolissima versione teatrale che ricorda lo storico e straordinario sceneggiato TV del 1972 con Sarah Ferrati, Rina Morelli, Nora Ricci, Ave Ninchi nella parte di Niobe ed un giovanissimo Giuseppe Pambieri.
Un mondo di donne sole anziane e zitelle, un mondo di situazioni non risolte, desideri nascosti, invidie, gelosie, competizione, insomma amore e odio, una rivalità che si acuisce con l’arrivo del ragazzo: uomo giovane, desiderabile, che suscita nelle donne anche inconfessabili desideri erotici.
Bello, pieno di vita, spiritoso, il giovane attira subito le attenzioni e le cure delle donne i cui sentimenti parevano addormentati; si rende conto di essere l’oggetto di una predilezione venata di inconsapevole sensualità e approfitta della situazione ottenendo immediata soddisfazione a tutti i suoi desideri e a tutti i suoi capricci. A poco a poco Teresa e Carolina spendono tutti i loro risparmi per soddisfare le crescenti esigenze del nipote, poi iniziano a indebitarsi e infine sono costrette a mettere in vendita la casa e i terreni che avevano ereditato dal padre.
Una discesa negli inferi e nei debiti che dopo il matrimonio del nipote ed il suo trasferimento in America lascia nella solitudine le donne che si affidano al ricordo per dare un senso agli ultimi giorni che hanno davanti.
Una commedia amara che strappa sorrisi e applausi per le convincenti interpretazioni delle attrici in scena.
data di pubblicazione:26/11/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Nov 25, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 18/19 novembre 2017)
Tra i più attesi debutti del Romaeuropa Festival 2017, il 18 e 19 Novembre al Teatro Vascello è andato in scena, per la regia di Julien Gosselin assieme alla sua compagnia Si vous pouviez lécher mon cœur, Les Particules élémentaires ( Le particelle elementari), adattamento teatrale del celebre e controverso romanzo di Michel Houellebecq.
Interessantissima ed ambiziosa trasposizione proposta dal giovanissimo regista e dalla sua compagnia per un teatro assoluto e innovativo capace interpretare un romanzo alquanto complesso ed apocalittico, tra i più discussi della letteratura contemporanea.
Dieci attori da subito protagonisti della scena pronti ad assumere il ruolo dei personaggi del romanzo, ma anche di commentatori, narratori e musicisti tra chitarre elettriche e spaccati video live. Oltre tre ore di racconto per attraversare un secolo, dal 1968 al 2079 a cavallo del presente, attraverso le vicende di due fratellastri Michel Djerzinski, biologo molecolare, che vanta una carriera ricca di soddisfazioni professionali ma che poi decide di abbandonare a soli quarant’anni, afflitto anche da una vita privata inesistente e della sua incapacità di amare e Bruno Clèrment fratello per parte di madre, anch’esso abbandonato dai genitori e cresciuto dai nonni fino alla loro morte ed essere poi trasferito in collegio dove diventa vittima dei compagni più grandi. I due si incontrano e finiscono per frequentare lo stesso liceo. La narrazione prosegue con balzi temporali che passano dai contesti hippy degli anni della contestazione fino alle comunità new age di fine secolo. Le loro storie si intrecciano fatalmente e disperatamente con quelle di due donne, Annabelle e Christiane, destinate entrambe a conclusioni amare e senza speranza.
Nell’epilogo infine viene spiegato come le scoperte di Djerzinski abbiano poi portato alla creazione di un nuovo genere umano, geneticamente esente dai difetti del vecchio, voluto proprio da quel genere in via di estinzione, che non conosce la sofferenza e la brutalità, asetticamente orientato a perseguire il bello.
La storia già di per sé molto articolata è raccontata attraverso un ricchissimo vocabolario scenico, grazie al talento del regista che utilizza la lingua dell’autore stessa per tradurla nel linguaggio del teatro. Bruno e Michel, il primo costantemente alla ricerca dell’amore, il secondo da esso terrorizzato, sono il punto di partenza per un ritratto spietato della società occidentale post ‘68 tra ironia e idealismo, sesso e tabù, discoteche e lezioni di yoga, cinismo e furiosa poesia.
E il pubblico viene immediatamente investito da un diluvio di parole, di suoni, di immagini in un flusso ininterrotto, soggiogato dai piani racconto, da sovrapposizioni e modalità comunicative, dalla musica dal vivo, dallo sdoppiamento degli attori in video e dalla grafica proiettata, dai bruschi cambi di luce, sostenuti da una recitazione forte e penetrante cha va dal registro aspro e urlato al filtro dimesso dell’intimità e della confessione, mentre la storia ed i cambiamenti sociali ed epocali avanzano senza tregua.
“Il mio teatro è plastico, è un concerto, è un’installazione, è letteratura. Gesto, attori, spazio, testo… utilizzo tutto ciò che è in mio possesso, ponendolo sullo stesso piano, con lo scopo di dar vita ad uno spettacolo il più potente possibile”.
Un’esperienza fortissima che scuote e insegna per uno spettacolo straordinario che non conosce calo di tensione e di emozione.
data di pubblicazione:25/11/2017
Il nostro voto:
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