da Rossano Giuppa | Mar 15, 2018
(Teatro Argentina – Roma, 27 febbraio/29 marzo 2018)
Antigone di Sofocle, con protagonisti Sandro Lombardi e Lucrezia Guidone, è in scena, in prima nazionale dal 27 febbraio al 29 marzo, al Teatro Argentina di Roma. A tredici anni di distanza dalla versione brechtiana il regista Federico Tiezzi torna a confrontarsi con uno dei massimi capolavori della cultura greca, oggetto di innumerevoli allestimenti.
Antigone, sorella di Ismene, Eteocle e Polinice, nata come loro dall’unione incestuosa tra Edipo e la madre Giocasta, assiste a Tebe, dove regna lo zio Creonte, al sanguinoso conflitto tra i suoi due fratelli che si uccidono a vicenda. Al centro della tragedia di Sofocle lo scontro tra la legge naturale e degli affetti, rappresentata da Antigone, che vuole seppellire il fratello Polinice secondo i crismi religiosi degli dei e Creonte, che lo vieta perché ritiene Polinice traditore della città e uccisore di suo fratello Eteocle, che combatteva in difesa di Tebe. Se Antigone dovesse obbedire alle leggi della città, rinunciando a seppellire il fratello, tradirebbe se stessa e la sua famiglia.
Sulle note di Max Ricthter, su una cortina che chiude il palcoscenico, scorrono immagini che presagiscono il crollo della civiltà ellenica, statue che si disgregano, vasi in frantumi in una lenta dissolvenza che apre su un’algida tavola, attorno alla quale siedono Creonte e sua moglie, sua nipote Antigone con la sorella Ismene e il fidanzato (figlio di Creonte) Emone con accanto steso il corpo di Polinice morto, ai piedi di ciò che resta della famiglia maledetta di Edipo.
Federico Tiezzi, coadiuvato dall’imponente scenografia di Gregorio Zurla e dai bellissimi costumi di Giovanna Buzzi, ambienta il dramma in una sorta di ospedale-obitorio, dove le due sorelle, Antigone e Ismene, spinte dal sentimento della pietà, sono venute per trafugare il corpo del fratello, portarlo via e seppellirlo. La guerra tra Tebe e Argo si è appena conclusa ed i letti sono occupati da scheletri che pian piano prendono vita: sono coro e spettri della città di Tebe, tornati in vita per obbedire a Creonte in opposizione all’indovino Tiresia (magistralmente interpretato da Francesca Benedetti).
La determinazione di Antigone mette in crisi in Creonte la sua posizione di maschio che deve difendere l’ordine costituito e non permettere che le donne abbiano la meglio.
In questa alternanza di luci e di ombre, la tragedia si risolve nel segno della morte e del sangue, perché non c’è per l’uomo la possibilità di sfuggire alla sorte che gli è stata destinata.
Si ribellerà Antigone e nell’ospedale–obitorio sopporterà la pena di essere sepolta viva, decidendo poi impiccarsi, scatenando così la maledizione profetizzata da Tiresia sul capo di Creonte, generando i cadaveri dei suoi familiari.
L’ostinazione di Creonte, re non pago di aver inasprito i legami familiari poiché Emone, suo figlio è promesso ad Antigone e la ama, e lui l’ha condannata, è sconfinata. Creonte è un sovrano autoritario e un uomo gelido e sicuro di sé che si spezza però dinanzi ai cadaveri del figlio e della moglie Euridice entrambi suicidi: l’uno dopo aver visto la sua amata Antigone impiccata e l’altra per il dolore della perdita del figlio vivendo il resto dei suoi giorni senza potersi liberare dalla proprie colpe.
La regia di Tiezzi conferma la sua ricchezza visionaria attenta ad esaltare questa complessa trama sotterranea, la destabilizzante guerra tra sessi ma anche lo spietato destino che fa ricadere sui figli le colpe dei genitori, in una catena senza fine di orrori e tragedie. Un velo di speranza forse da coloro che in chiusura lavano il pavimento, spazzando via colpe e sangue ed auspicando una necessaria rinascita.
data di pubblicazione:15/02/2018
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 16, 2018
(Teatro Argentina – Roma 6 febbraio/18 febbraio 2018)
Dopo il debutto a Napoli dello scorso ottobre si chiude al Teatro Argentina di Roma la lunga tournée di Sei personaggi in cerca d’autore, in scena dal 6 al 18 febbraio con la regia di Luca De Fusco e protagonista Eros Pagni.
Sei personaggi in cerca d’autore è certamente il dramma più famoso di Luigi Pirandello, rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, da subito contestato ed in seguito osannato per la forza dirompente di un’opera che sembrava provenire dal futuro, anticipando i tempi in modo inaspettato. Un’opera che identifica la massima riflessione sulla natura stessa del teatro nella drammaturgia del Novecento ed anticipa l’arte concettuale, il surreale, l’esistenzialismo, rompendo lo schema tradizionale della finzione realistica.
La scenografia dello spettacolo è tutta basata su un grande muro presente sul fondo della scena. Il muro è in realtà anche un grande schermo cinematografico e da questo schermo escono all’inizio i sei personaggi. Una duplice accezione, teatrale e cinematografica, in cui le figure reali sono riprese da telecamere e proiettate sullo schermo come grandi presenze immaginate ed evocate.
Una rilettura del capolavoro pirandelliano condotta attraverso due sistemi di comunicazione quello teatrale e quello cinematografico, il cui confronto si affacciava prepotentemente alla ribalta negli anni della stesura del testo.
Sei persone entrano in un teatro dove una compagnia di attori sta provando il dramma di Pirandello Il giuoco delle parti. Le sei figure non sono in realtà persone ma personaggi immaginati da uno scrittore che a un certo punto li ha abbandonati. Rivolti al capocomico della compagnia i Personaggi chiedono di sostituire l’autore e far recitare il loro dramma agli attori professionisti impegnati in palcoscenico. Così ciascuno dei Personaggi comincia a raccontare la propria storia. Durante le prove però, alle quali i Personaggi assistono ora in silenzio ora intervenendo con commenti e suggerimenti, ai loro occhi gli attori risultano non credibili, troppo diversi da loro e, per fare in modo che il loro destino di personaggi si compia, dovranno essi stessi recitare sul palcoscenico il proprio tragico dramma fino all’epilogo.
Una trama articolata e sovrapposta, il cosiddetto teatro nel teatro, il rapporto tra verità e finzione, esistenza e letteratura, un testo metafisico e filosofico perfettamente rispettato all’interno di un allestimento che dosa adeguatamente le componenti istintuali, i colpi di scena, le sdrammatizzazioni, la rabbia e l’angoscia.
Uno spettacolo che esalta il recitato. Una regia lineare e non dissacrante, senza voli pindarici ma senza cali di tensione. L’apparizione di Madama Pace, la proprietaria del bordello, evoca atmosfere quasi felliniane con il suo incedere grottesco e clownesco che anticipa il dramma crescente della storia che parte dall’incesto del padre con la figliastra e procede verso l’epilogo di morte. Sei personaggi allo sbando che si presentano fuori da ogni luogo e tempo ma che alla fine sono veri e vivi, disorientando e commuovendo.
data di pubblicazione: 16/2/2018
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 1, 2018
(Teatro Argentina – Roma, 23 gennaio/6 febbraio 2018)
Al termine di una imponente tournee che ha toccato i più importanti teatri italiani, approda al Teatro Argentina di Roma, dal 23 gennaio al 4 febbraio, Il nome della rosa. Il capolavoro di Umberto Eco, tradotto in 47 lingue, vincitore del Premio Strega nel 1981 con alle spalle una imponente versione cinematografica diretta da Jean-Jacques Annaud e interpretata da un indimenticabile Sean Connery, vive oggi la sua prima trasposizione teatrale italiana nella stesura di Stefano Massini e con la regia di Leo Muscato.
Un romanzo avvincente e trascinante, costruito secondo svariati livelli di lettura, nato già con una forte matrice teatrale. Vi è un prologo, una scansione temporale in sette giorni, e la suddivisione di ogni singola giornata in otto capitoli, che corrispondono alle ore liturgiche del convento (Mattutino, Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta). Ogni capitolo è introdotto da un sottotitolo utile a orientare il lettore, che in questo modo sa già cosa accade prima ancora di leggerlo, una drammaturgia di fatto già impostata.
La scena si apre sul finire del XIV secolo. Siamo nel momento culminante della lotta tra Chiesa e Impero, che travaglia l’Europa da diversi secoli. Un vecchio frate benedettino, Adso da Melk, è intento a scrivere delle memorie in cui narra alcuni terribili avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù. Sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta, accaduti molti anni prima in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Sotto i suoi occhi si materializza se stesso poco più che adolescente, intento a seguire gli insegnamenti di un dotto frate francescano, che nel passato era stato anche inquisitore: Guglielmo da Baskerville.
Fare i conti con Il nome della rosa non dev’esser stata impresa facile. Dalla versione teatrale dell’eclettico Stefano Massini, il regista Leo Muscato ne ha tratto un adattamento asciutto e complesso nel contempo tra il thriller e l’indagine da una parte ed i tanti riferimenti culturali e trasversali, il contesto storico e religioso, l’attualità dei temi, lo scontro tra oscurantismo e liberalismo dall’altra, facendone un esplicito omaggio all’autore recentemente scomparso.
Ne è uscito un kolossal teatrale: l’impianto scenico è un contenitore che di volta in volta diviene la biblioteca, la cappella, le cellette, la cucina e così via per uno spettacolo che ha un taglio quasi cinematografico. Musiche originali unite a canti gregoriani dal vivo ed all’imponenza di costumi, scene e proiezioni video.
Ad entrare e uscire da questi ambienti è il vecchio Adso, nella voce narrante di Luigi Diberti che cattura lo spettatore con i suoi ricordi e gli insegnamenti del suo maestro, sconfitto, come investigatore, lungo la risoluzione del mistero delle morti sospette tra i monaci perché a trionfare, apparentemente, è la cecità fisica e mentale dell’anziano Jorge che lo induce a distruggere il secondo libro della Poetica di Aristotele, temendo che il riso e la commedia, argomenti contenuti in quel manoscritto, potessero minare i dogmi della cristianità.
Interpreta Il nome della rosa un cast di grandi interpreti tra cui certamente emergono Luca Lazzareschi (nel ruolo di Guglielmo da Baskerville), Luigi Diberti (il vecchio Adso), Renato Carpentieri (Jorge da Burgos), Eugenio Allegri (Ubertino da Casale, francescano e Bernardo Gui, inquisitore), Giovanni Anzaldo (il giovane Adso).
Lo spettacolo enfatizza la lotta fra chi si crede in possesso della verità e agisce con tutti i mezzi per difenderla, e chi al contrario concepisce la verità come la libera conquista dell’intelletto umano.
La curiosità e la brama di conoscenza, che non abbandonano mai la mente di Guglielmo, sono, al contempo, strumento risolutivo e condanna per l’uomo moderno che abbandona l’oscurantismo medioevale per proiettarsi con forza e con dolore verso nuove mete e nuove verità.
data di pubblicazione:01/02/2018
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 20, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 16 e 17 gennaio 2018)
Michele Pogliani è tornato sul palcoscenico del Teatro Vascello di Roma dal 16 al 17 gennaio con la MP3 Projects e con un nuova produzione dal titolo Trilogìa. Lo spettacolo si articola in tre quadri ognuno dei quali rappresenta tre momenti della vita di un uomo secondo un percorso scandito dal ciclo degli anni e dell’età, tre frammenti intensi e drammatici che ricompongono il percorso di una vita.
Il primo quadro è Alea (traduzione latina di dado) e rappresenta la componente casuale della vita che sposta gli equilibri e sposta l’esito finale verso il fato, il secondo quadro è Ananke, ossia la necessità: è questo il momento del viaggio interiore che produce la catarsi mentre il terzo e ultimo quadro è Ilinx, ossia la vertigine: al centro della scena della propria esistenza il protagonista di questo assolo vive l’ebbrezza e l’alienazione, lo stordimento e l’estasi che si provano quando si è soggetti a forze che abbattono il proprio controllo. Un viaggio che si srotola pian piano fino ad arrivare a una vera e propria catarsi, l’acquisizione di una nuova consapevolezza: quella di essere solo ma di essere ma conscio di una compiutezza acquisita e accettata.
Lo spettacolo, prodotto da Sosta Palmizi, vede in scena i danzatori Enrico Alunni, Giovanni Quintiero, Gabriele Montaruli, Ivan Montis, Stefano Zumpano che hanno anche collaborato con Pogliani alla realizzazione delle coreografie.
Pogliani, a lungo danzatore di Lucinda Childs, oggi coreografo, realizza uno spettacolo che è anche una dichiarazione autobiografica di un uomo, un eroe metropolitano, concreto, reale e consapevole.
La maturità e la catarsi sono l’obiettivo di questo viaggio onirico denso di significati e di immagini, non di rimpianti, che osserva l’inevitabile scorrere del tempo e scopre la forza e la bellezza della maturità.
data di pubblicazione:20/10/2018
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 14, 2018
In scena al Teatro Quirino di Roma il capolavoro letterario di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani,best seller conosciuto in tutto il mondo con oltre 110 milioni di copie vendute.
(Teatro Quirino – Roma, 9/21 gennaio 2018)
Certamente il romanzo più cupo della scrittrice probabilmente a causa proprio degli echi della guerra che di lì a poco si sarebbero fatti sentire che rivela il lato nascosto di una classe borghese e aristocratica, pronta a sbranarsi per la sopravvivenza fino a diventare volgare e bieca.
A realizzare l’adattamento originale per il teatro fu la stessa Christie, nel 1943: anni drammatici, di guerra, in cui l’autrice optò per un finale più stemperato del suo romanzo. Ci ha pensato il regista spagnolo Ricard Reguant a recuperarlo, settant’anni dopo, riproponendo il testo della prima stesura e raggiungendo un grande successo in Spagna nella scorsa stagione.
Siamo nel 1939, l’Europa è alle soglie della guerra. Dieci sconosciuti per vari motivi sono stati invitati in una bellissima isola deserta. Nella villa in cui sono tutti ospiti trovano affissa una poesia, “Dieci piccoli indiani”. La filastrocca parla di come muoiono, uno dopo l’altro, tutti i dieci indiani. A poco a poco, i dieci personaggi cominciano a morire in circostanze misteriose, sino a quando gli ultimi che sopravvivono non si rendono conto che il colpevole si nasconde tra loro ed il finale è puro trilling.
La versione proposta in scena fino al prossimo 21 gennaio al Teatro Quirino di Roma da Gianluca Ramazzotti e Ricard Reguant è decisamente interessante. Una recitazione coinvolgente ed impeccabile da parte di tutto il cast di attori giovani e meno giovani che, con grande padronanza del palcoscenico, offrono ognuno un ritratto esaustivo del proprio personaggio, con ironia e ritmo, e di come, alla fine, i propri peccati debbano essere espiati. Molto bello l’impianto scenografico, firmato da Alessandro Chiti, che ricostruiscono alla perfezione l’arredamento di una sfarzosa villa aristocratica anni ’40 in stile art-decò.
Convincente e piacevole lo spettacolo che grazie anche al sapiente uso della filastrocca infantile, riesce a trasferire in scena il clima angosciante che pervade tutto il romanzo e che si manifesta tra i due poli contraddittori della colpa e dell’innocenza creando un’atmosfera magica e surreale, una regressione infantile verso una vacanza nell’irrazionale nel mistero con ritmo e leggerezza.
data di pubblicazione: 14/01/2018
Il nostro voto:
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