da Rossano Giuppa | Feb 28, 2020
(Teatro Basilica – Roma, 25 febbraio/8 marzo 2020)
Enrico IV è una pietra miliare del teatro pirandelliano e della sua intera poetica. L’opera, per la regia di Antonio Calenda e la straordinaria interpretazione di Roberto Herlizka, porta in scena i grandi temi della maschera, dell’identità, della follia e del rapporto tra finzione e realtà attraverso le vicende di un uomo, un nobile dei primi del Novecento, che da vent’anni vive chiuso in casa vestendo i panni dell’imperatore Enrico IV, prima per vera pazzia, poi per simulazione ed infine per difesa. Ciò che va in scena è la follia di un teatro che guarda al reale svelando il suo gioco e gli inganni interiori.
Durante una cavalcata in costume un nobile impersona l’imperatore Enrico IV di Germania (vissuto nell’XI secolo), ed è in compagnia di Matilde Spina, donna della quale è innamorato e del suo rivale in amore Belcredi. L’uomo nella caduta batte la testa e si convince di essere realmente il personaggio storico che stava impersonando. Dopo 12 anni Enrico guarisce e comprende che Belcredi lo aveva fatto cadere intenzionalmente per rubargli l’amore di Matilde. Decide così di fingersi ancora pazzo e di immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la dolorosa realtà. A 20 anni dalla caduta, Matilde, Belcredi, Frida, la figlia di Matilde e uno psichiatra vanno a trovare Enrico IV. Lo psichiatra, interessato al caso, per farlo guarire decide di ricostruire la stessa scena di 20 anni prima e far ripetere la caduta da cavallo. La scena viene così allestita, ma al posto di Matilde recita la figlia, che è esattamente uguale alla madre Matilde da giovane, la donna che Enrico aveva amato. L’uomo prova ad abbracciare la ragazza, Belcredi si oppone ma Enrico IV sguaina la spada e uccide Belcredi. Per sfuggire definitivamente alla realtà (e alle conseguenze del suo gesto), decide di fingersi pazzo per sempre.
Attorno alla nota vicenda il regista Antonio Calenda focalizza il dramma su quell’uomo che decide di portare avanti la messinscena prima per dolore e poi per sopravvivenza. Per anni vive una vita surreale e fiabesca con l’aiuto di quattro uomini pagati per fingersi suoi servitori, ma a un certo punto riconquista la ragione e si rende conto che tutti lo prendono per pazzo. Allora capisce che esserlo gli conviene, permettendogli successivamente di osservare, da fuori, la grande sceneggiata predisposta per lui, che coinvolge anche la donna che amava, l’amante di lei, il medico che vuole provocargli uno choc per farlo rinsavire. Dopo l’omicidio del rivale decide di azzerare la propria esistenza per scegliere la finzione e tramite il teatro continuare a vivere.
In contesto asciutto ed essenziale emergono ancora di più i principi del teatro pirandelliano: l’intreccio di normalità e follia, la perdita d’identità, il rapporto tra reale e maschere che indossiamo o che gli altri ci costringono a indossare, il fallimento della scienza, la rinuncia alla vita per non affrontare la sofferenza, la follia come fuga e rifugio. A sostenere la struttura performativa alcuni bravi attori: Daniela Giovannetti, Armando De Ceccon, Sergio Mancinelli, Giorgia Battistoni, Lorenzo Guadalupi, Alessio Esposito, Stefano Bramini, Lorenzo Garufo, Dino Lopardo.
Straordinaria la capacità di Roberto Herlizka di raccontare la follia di un mondo deragliato, un labirinto che moltiplica e inverte continuamente i propri dispositivi di visione e rappresentazione e soprattutto l’ossessione del protagonista, la convulsione di sentimenti, proiezioni e sdoppiamenti; una tragedia contemporanea, dove basta operare un piccolo gesto di dissenso per sentirsi esclusi e soli.
data di pubblicazione:28/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 20, 2020
(Teatro Vascello – Roma,18/23 febbraio 2020)
Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro veniva ritrovato nel portabagagli di una Renault 4 in via Caetani, a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e da quella del Partito Comunista Italiano. La fine più amara di un rapimento e di una prigionia durata 55 giorni durante i quali lo statista decise di comunicare con il mondo, avviando un dialogo con familiari, amici, colleghi di partito, rappresentanti delle istituzioni. Lettere e memoriali redatti con passione e lucidità, di denuncia e di affetto che, a distanza di quarant’anni, Fabrizio Gifuni evoca con una lettura intima e forte, riconducendoci in quello spazio denso e doloroso, in quella storia che tutti conoscono e che molti hanno provato a cancellare.
Con il vostro irridente silenzio è una delle espressioni che Moro usa in una sua lettera per distaccarsi, in punto di morte annunciata, da quelli che sono stati i suoi colleghi di partito, quella classe politica a cui aveva dedicato la propria esistenza.
Il 16 marzo 1978, giorno in cui le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, si votava la fiducia al quarto Governo presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta il Partito Comunista partecipava alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto l’esecutivo. Ed era stato Moro a gestire l’accordo. In quei lunghi giorni di prigionia il presidente della Democrazia Cristiana ha il tempo ma anche la necessità di redigere un memoriale che lo accompagnerà inesorabilmente, assieme agli interrogatori da parte del brigatista Mario Moretti. Documenti scritti di suo pugno e resi noti alcuni durante il sequestro, altri ritrovati in via successiva in un covo delle Brigate Rosse, mentre la stampa metteva in discussione e cercava di screditare quelle stesse parole. Pensieri e minuziose descrizioni che rappresentano un testamento politico e spirituale dello statista e dell’uomo, i suoi principi e le sue angosce, i suoi affetti e le sue condanne. Un fiume in piena che si cercò subito di arginare, ridimensionare, irridere. Ferendo ancora di più il suo credo. A distanza di quarant’anni ancora tanto oblio e superficialità intorno a quegli scritti.
La voce ed il minuzioso lavoro drammaturgico di Gifuni va nella direzione di chi ha scelto di non dimenticare.
Straordinaria la sua capacità di proiettarci in quell’atmosfera sospesa, tra quelle mura, a stretto contatto con l’uomo, con i suoi gesti, il suo incedere, la sua voce, il suo dolore. Fabrizio Gifuni riporta in maniera delicata e decisa il bisogno di quell’uomo di mettere a posto tutti i tasselli, di rispondere a chi è al di là di quella prigione, di confessare e accusare, di definire le sue volontà, sia nel versante politico che in quello familiare. Un dramma diffuso senza gradi di separazione, grazie alla forza di un teatro essenziale che scuote e racconta, insegnando a riflettere e a ricordare.
data di pubblicazione:20/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 8, 2020
(Teatro Eliseo – Roma, 4 -16 febbraio 2020)
In scena al Teatro Eliseo di Roma dal 4 al 16 febbraio 2020 Vetri rotti di Arthur Miller, per la regia di Armando Pugliese e interpretato da Elena Sofia Ricci, vincitrice del Premio Flaiano 2018 per la sua interpretazione. Con lei sul palco anche Maurizio Donadoni e David Coco, oltre a Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona e Serena Amalia Mazzone.
Psicanalisi, drammi storici sociali e personali attraverso gli occhi e le reazioni di una donna ebrea americana sconvolta, nel novembre del 1938, dalle notizie della Notte dei Cristalli che arrivano da Berlino, dove la esaltazione antisemita aveva portato squadre di nazisti a distruggere le vetrine dei negozi di proprietà di ebrei.
Sylvia Gellburg viene improvvisamente colpita da un’inspiegabile paralisi agli arti inferiori. Il medico, Herry Hyman, suo coetaneo e conoscente, è convinto della natura psicosomatica del male e, al tempo stesso, è sentimentalmente attratto dalla donna, mentre il marito di Sylvia, Phillip, non riesce ad accettare quanto sta accadendo. Ben presto emerge quanto Sylvia sia ossessionata dalle notizie delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania.
Ad andare in frantumi, contemporaneamente, è anche la sua salute, il suo corpo, la sua mente che somatizza l’evento provocandole la paralisi delle gambe. I due uomini tentano due cure opposte: il primo minimizza le notizie sempre più preoccupanti che arrivano dalla Germania, il secondo le trasmette forza ed energia per reagire. Sylvia non sa darsi pace: continua a leggere la notizia sui giornali, continua a guardare l’immagine di due ebrei anziani costretti a pulire un marciapiedi con uno spazzolino da denti, mentre la folla intorno, guarda e ride.
Philip e Harry sono due uomini completamente diversi l’uno dall’altro. Philip è un agente immobiliare irascibile e irruento, un uomo dall’io spiccato e dominante che nel corso della vita matrimoniale ha ottenuto sempre da Sylvia ciò che desiderava. È riuscito a far sì che lei smettesse di lavorare nonostante stesse percorrendo una brillante carriera nel campo finanziario, e a convincerlo a mettersi a fare la casalinga e a dargli un figlio. Scheletri nell’armadio enormi, incomprensioni sepolte. Il dottor Hyman, sa come prendere i due coniugi per ottenere da loro ciò che intende ascoltare ma Sylvia non riesce più a condurre in casa le normali faccende perché non è in grado di stare in piedi. È costretta su una sedia a rotelle o a letto, e di conseguenza si sente nel morale fiaccare completamente, si sente sepolta e incapace di guarire. È fiaccata nell’animo, stanca, demoralizzata. L’angoscia per quanto accade oltreoceano si somma ad altre fonti di frustrazione e inquietudine. L’infarto e l’agonia del marito, uniti alla richiesta di perdono di lui, porteranno la donna alla improvvisa guarigione.
Vetri rotti è un testo intenso e spietato, una coinvolgente analisi delle crepe nascoste o inaspettate che possono sconvolgere le vite degli uomini. Lo spettacolo è sostenuto dalle capacità degli attori e da una straordinaria Elena Sofia Ricci, mentre appare piatta la regia e poco incisivo l’allestimento.
data di pubblicazione:08/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 3, 2020
(Teatro India – Roma,30 gennaio/2 febbraio 2020)
Il Teatro India di Roma ha ospitato dal 30 gennaio al 2 febbraio 2020 la Compagnia Non Nova con lo spettacolo Vortex, per la regia, coreografia e interpretazione di Phia Ménard, in collaborazione con Institut Français Italia. Protagonista è il vento ed i vortici che esso genera. Un lavoro sulla indomabilità del vento e sulla necessità di adattamento dell’uomo ad un elemento su cui non si può avere il controllo, un esperimento non scientifico frutto del lavoro esperienziale che genera una costruzione sorprendente e coinvolgente, devastante e struggente, efficacissima.
Regista, artista performativa e danzatrice francese, Phia Ménard ha fondato nel 1998 la compagnia Non Nova spinta dal desiderio di avvicinarsi al mondo del giocoliere in una prospettiva diversa e innovativa, attraverso una strutturazione scenica e drammaturgica personale. Non nova, sed nove (non cose nuove, ma con modalità nuove) il dictat e il precetto fondamentale della Compagnia che sorvola le convenzioni, attinge a tutti i generi e ridisegna i canoni, grazie ad una forma espressiva esplosiva e poetica.
In Vortex il palcoscenico diventa uno spazio circolare di ispirazione circense, un non luogo in cui si ridisegnano le leggi della fisica e ci ribella alla banale normalità, in cui si progettano nuove regole della performance artistica e nuove linee di confine dell’identità personale.
Una figura corpulenta si aggira in un cerchio tra ventilatori che scandiscono una sinfonia d’aria. La figura crea delle forme di piccoli esseri di plastica sottile, altri li ha nascosti all’interno del vestito.
I piccoli esseri pian piano prendono aria e vita e si muovono, si agitano, gesticolano, danzano.
È l’inizio dell’interlocuzione tra interno ed esterno, tra strati fisici che fuoriescono e si manifestano. È il moto della metamorfosi fisica e mentale, grazie all’elemento vento, in una realtà priva di leggi fisiche, in cui la forza di gravità si annulla a favore di un vortice liberatorio e magico. Bisogna lasciare al vento lo spazio che pretende ma allo stesso tempo non si può perdere il filo dei propri propositi. La partitura va avanti, la figura continua ad esternare dal proprio corpo ulteriori forme, si assottiglia e si scopre, regredisce, alla fine è un feto che si strappa la placenta secondo un movimento fluido e ipnotico, in un’arena senza tempo dove tutto è permesso e le regole non esistono. Quanti strati di pelle ci mettiamo addosso per affrontare il mondo? Chi c’è dentro ognuno di noi, come si esce dalla stratificazione per apparire quello che siamo?
Un Vortex di bellezza e armonia, violenza e fastidio, un racconto asfissiante e poetico che spazza via i substrati e ci ricorda che siamo vivi. Il pubblico è lì ad un passo, scosso da turbolenza e catarsi, riflette e applaude.
data di pubblicazione:03/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 23, 2020
(Teatro India – Roma, 14/26 gennaio 2020)
Dal 14 al 26 gennaio al Teatro India di Roma Giorgina Pi, tra i fondatori del collettivo Angelo Mai di Roma, porta in scena Wasted, testo di Kate Tempest, artista poliedrica e nuova icona della scena culturale britannica, artista totale che si esprime tra rap, poesia, politica e musica.
Due uomini e una donna commemorano il decimo anniversario della scomparsa del loro più caro amico. Assemblano ricordi, tentano bilanci ma non riescono a salvare nulla di ciò che hanno vissuto e provato tra il riaffiorarsi di ricordi e illusioni e lo scontro con l’insoddisfazione e lo sconforto, all’interno di quattro pareti di una sala prove, tra chitarre e bassi testimoni della loro storia. Un coro di disperazione di umanità, in un guado dove non si è più giovani ma neanche vecchi, dove il cambiamento è faticoso ma ancora possibile, lo spartiacque dei quaranta anni.
Dopo aver lavorato su Caryl Churchill, la regista Giorgina Pi continua la sua ricerca sulla scrittura di donne rivoluzionarie della letteratura inglese contemporanea, scegliendo di raccontare una generazione sofferente, divisa tra ambizioni e sogni infranti. Droga, disoccupazione, nichilismo, ma anche prospettive negate e scontentezza, disagio.
Kate Tempest, con Wasted, dà voce a una umanità frantumata dall’incapacità di tentare una profonda messa in crisi del quotidiano, ingabbiata in un presente senza uscita e con lo sguardo rivolto al passato.
Tre ragazzi, amici dall’adolescenza, Danny, Ted e Charlie, si ritrovano all’anniversario di morte di un caro amico. Danny e Charlie hanno anche una relazione amorosa che non decolla, che non riesce a passare a un livello successivo, di responsabilità reciproca. I tre amici portano sulle spalle racconti, sorrisi e storie, si cullano nei ricordi: la musica, le risse, l’erba scadente fumata sull’autobus, quando tutto era romantico e autentico, quando si era qualcuno, finché gli anni sono passati, la vita adulta è arrivata a manifestarsi con tutta la sua violenza e loro semplicemente non si sono fatti trovare pronti. Una luce fuori dal tunnel esiste ma necessita di impegno e fatica.
La regia di Giorgina Pi toglie i riferimenti metropolitani di Londra per muoversi in un luogo qualunque, la città in cui i tre vivevano la propria ribellione giovanile. In scena c’è la batteria, gli amplificatori, un paio di chitarre; l’albero, simbolo dell’amicizia con l’amico scomparso attraverso un’ombra feticcio proiettata ogni tanto.
Molto suggestiva e intensa l’atmosfera grazie alle luci di Andrea Gallo, nel quale è la musica suonata dal vivo a definirne i contorni: bellissimo il video b/n in cui i tre interpretano la celebre The end of the world; bravi gli attori, Gabriele Portoghese con il suo approccio recitativo nervoso, Sylvia De Fanti alla ricerca di un motivo di rivalsa e Xhulio Petushi, bravo nell’esternare la mediocrità del personaggio ed il vuoto che ha dentro.
Un finale eccessivamente retorico non proprio all’altezza del resto dello spettacolo, sporca quella poesia cruda e quella nebbia di dolore che aleggia per tutta la durata della bellissima performance.
data di pubblicazione:23/01/2020
Il nostro voto:
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