MISERICORDIA regia di Emma Dante

MISERICORDIA regia di Emma Dante

(Teatro Argentina – Roma, 31 agosto/10 settembre 2021)

Torna a Roma, dopo tanta attesa, la drammaturgia poetica di Emma Dante, ospite del Teatro Argentina con lo spettacolo Misericordia, che finalmente si è potuto ammirare dopo i vari rinvii connessi alla pandemia.

Una storia di ricordi quella che la compagnia Sud Costa Occidentale sta riportando nei teatri dopo il fortunato debutto di oltre un anno fa, al Piccolo Grassi di Milano. Il sapore è sempre quello autentico di una favola contemporanea e sospesa. La rivisitazione personale della fiaba di Pinocchio, bambino menomato e sfortunato, di un Geppetto padre padrone, di una madre Lucia, morta di parto e di tre prostitute che, nella loro disperata solitudine, non riescono ad essere le Fate Turchine che vorrebbero. Vivono in equilibrio precario il loro rapporto di madre e decidono infine di separarsi dal bambino burattino per garantirgli un’esistenza forse più dignitosa.

La magia del teatro di Emma Dante si ricrea per l’ennesima volta, secondo una partitura certamente consolidata, ma sempre aperta a nuove emozioni.

I ricordi riportano ad un passato presente fatto di piccoli oggetti quotidiani: le sedioline di legno, il cavalluccio rosso, le tutine a uncinetto da bebè, i bambolotti in plastica in parte mutilati. L’alternarsi di un bisbigliato ad un italiano sincopato farcito da un mix di dialetti meridionali, i gesti ripetuti, lo sferruzzare ossessivo, il cibo, le risate e le discussioni. E il dramma che incombe.

Il gruppo di famiglia abita un interno dimesso e sporco. Le tre donne sopravvivono sostenendosi e litigando al contempo con forza e passione. Al centro, poco lontano dei loro discorsi, Arturo il ragazzo concepito per un amore sbagliato e nato settimino e con gravi problemi a causa delle percosse subite dalla madre, Lucia, prostitua anch’essa, morta appena dopo il parto. La disabilità dei ragazzo è un problema che non è mai stato affrontato con risolutezza, ma vissuto in maniera caotica, con tensione nevrotica dalle tre donne, madri incomplete indurite dalla vita e dalle problematiche connesse con la loro stessa sopravvivenza, costrette alla prostituzione senza alcuna prospettiva per migliorare la propria condizione. Il ragazzo non parla e ha difficoltà a coordinare i movimenti, ma ha una sua armonia interiore che riesce a equilibrare i litigi delle donne e a liberarsi in movimenti armoniosi e circolari, in contrasto invece con la durezza e la tribalità delle donne.

Una catena di flashback fatta di piccole e fulminanti visioni che alternano ricordi carichi di rabbia a struggenti ninne nanne. Le tre donne alternano amore e affetto materno a immagini crude di corpi esibiti e offerti in parata notturna. Sembrerebbe trionfare nonostante tutto la tenerezza delle tre madri, i ricordi, il carillon con il bambino che la sera prima di dormire vuole continuare a danzare, per liberarsi di handicap e sofferenza. Ma l’amaro quotidiano interrompe ogni sogno e di lì la dolorosa scelta di abbandonare il ragazzo ad un altro destino, con una valigia piena di un’infanzia perduta.

Attori semplicemente magistrali, a partire da Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi, le tre donne che hanno accudito e cresciuto il bambino burattino, straordinariamente interpretato da Simone Zambelli, che conferisce alla menomazione e all’autismo una liricità ed un’armonia estrema e magica.

Colpisce come sempre l’intensità degli sguardi, le non parole, il gesto deciso, la qualità delle luci, la profondità delle scelte musicali che accompagnano l’alternarsi delle emozioni e degli stati d’animo. Per l’ennesima volta Emma Dante colpisce dritto al cuore con la forza del piccolo grande dramma, in una storia di disperazione e di amore in intima armonia. Il quadro minimale diventa un’estasi emotiva che strappa sorrisi e commozione profonda. La conferma di un modo di raccontare il teatro che cattura e fa riflettere. A lungo.

data di pubblicazione:03/09/2021


Il nostro voto:

SUN & SEA – Opera-performance di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė, a cura di Lucia Pietroiusti

SUN & SEA – Opera-performance di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė, a cura di Lucia Pietroiusti

(Teatro Argentina – Roma, 22 giugno/4 luglio 2021)

Dal 22 giugno al 4 luglio il Teatro Argentina di Roma ha ospitato Sun & Sea, performance-opera nata della collaborazione tra Rugilė Barzdžiukaitė, regista di cinema e teatro e artista visiva, Vaiva Grainytė, scrittrice, drammaturga e poeta, e Lina Lapelytė, artista, compositrice e performer, con la supervisione di Lucia Pietroiusti, vincitrice nel 2019 del Leone d’Oro come Migliore Partecipazione Nazionale alla 58a Biennale di Venezia. Nel suo unico allestimento italiano, l’opera-performance svuota la platea per riempire di sabbia la storica sala trasformandola in una spiaggia vista dall’alto, nella quale un gruppo di bagnanti, in una assolta giornata estiva trascorre momenti di relax, raccontando in primis la propria quotidianità per arrivare ad un coro universale di voci che drammaticamente enfatizza il rapporto fra la specie umana e le urgenze del cambiamento climatico.

 

Un lavoro innovativo delle tre artiste lituane, un’opera performance che introduce alcune tra le più urgenti questioni ecologiche dei nostri tempi in una rinnovata messa in scena pensata proprio per il Teatro romano per rivedere un lavoro articolato, suggestivo, ricco di livelli interpretativi, in un contesto diverso e con un risultato diverso. Mentre a Venezia, la stessa fruizione non sottostava a nessun limite di tempo, e la stessa esecuzione canora aveva una dilatazione maggiore, a Roma il tutto si comprime in 60 minuti di spettacolo-performance che coinvolge un folto cast composto da oltre trenta figuranti, tra cantanti e performer.

A Venezia, la riproduzione di una spiaggia all’interno di un impianto navale dismesso, in qualche modo poteva risultare in linea con l’ambiente balneare del lido della città lagunare, e provocare, comunque, un certo spiazzamento, a Roma, lo spaesamento è di sicuro totale. All’interno del Teatro Argentina a partire dai palchi del primo ordine il pubblico ha una veduta a volo d’uccello sulla scena, in cui i personaggi appaiono come un tipico gruppo di vacanzieri di età varie sdraiati in costume da bagno sotto il sole estivo accecante: ragazze che praticano yoga, un ragazzo che gioca col suo piccolo saltellante cagnolino, un bambino che costruisce la sua capanna con gli ombrelloni, la signora che manda messaggi col cellulare, le due gemelle con gli stessi vestiti e le stesse trecce. Nella calura di un eterno mezzogiorno, i personaggi iniziano a raccontare le proprie storie. Da narrazioni frivole si passa ad argomenti di più ampio respiro, che crescono fino a diventare una sinfonia globale, un coro umano che gradualmente diventa consapevole del cambiamento climatico su scala planetaria. Allo svolgersi del libretto, lo spettatore scopre poco a poco ogni personaggio della scena che, cantando, rivela le proprie preoccupazioni. Da irrilevanti premure per prevenire scottature o future vacanze, all’angosciante timore di imminenti catastrofi ambientali che emerge dal più profondo della propria precaria esistenza. Le micro-storie banali e leggere della spiaggia affollata lasciano il posto a riflessioni corali.

“È più facile trasmettere il macrocosmo attraverso un microcosmo, mentre le esperienze terrene e individuali offrono l’opportunità di cogliere i principali problemi. È possibile influenzare le discussioni su eventi globali a livello emotivo o intellettuale con una semplice narrazione, un frammento di questo macrocosmo” raccontano le autrici.

Opera d’arte inaspettata, grazie ad uno approccio non convenzionale, un ossrvatorio separato ma non distaccato dalla scena e dalla situazione quotidiana, che rompe gli schemi dell’opera tradizionale e creando nuove possibili forme di espressione per questo genere.  Una forte vitalità unita alla progressiva comprensione e coinvolgimento dello spettatore amplificato dalla bellezza dei canti (assoli e corali) di cui non è facile individuare la fonte, creano una magia che cattura e fa riflettere profondamente.

data di pubblicazione:05/07/2021


Il nostro voto:

MACBETH, LE COSE NASCOSTE – regia di Carmelo Rifici

MACBETH, LE COSE NASCOSTE – regia di Carmelo Rifici

(Teatro Argentina-Roma, 5/13 giugno 2021)

Il regista Carmelo Rifici, dopo il lavoro su Ifigenia, presentato nel 2017, prosegue la sua esplorazione dei classici con lo spettacolo Macbeth, le cose nascoste in scena al Teatro Argentina di Roma dal 5 al 13 giugno, scritto a quattro mani con Angela Dematté.

 

 Uno spettacolo complesso che rilegge per frammenti il dramma ed i catastrofici effetti fisici e psicologici della ricerca del potere per il proprio interesse personale, lavorando sull’inconscio e sulla sua capacità di generare errori ed orrori. Lo spettacolo è anche uno studio in chiave psicanalitica ed una riflessione sulla violenza che, partendo dai temi della tragedia shakespeariana, compie un viaggio attraverso le esperienze personali degli attori coinvolti nello spettacolo. Parte integrante del progetto sono state le sedute di analisi, guidate dallo psicoanalista junghiano Giuseppe Lombardi e dalla psicoterapeuta Luciana Vigato rappresentate in scena con l’ausilio di videoproiezioni e soprattutto attraverso la presenza sul palco, in alternanza, di Rifici, Dematté e della drammaturga Simona Gonella.

Il palco si sovrappone a quello di uno studio medico nel quale gli attori riportano le proprie elaborazioni del processo psicanalitico e rappresentano nel contempo il dramma, secondo differenti sfaccettature e punti di vista. Nel gioco delle sovrapposizioni e scambio di ruoli, emerge l’originalità della rappresentazione e la necessità di dar voce a ciascun personaggio affinchè possa raccontare la propria verità.

Il risultato è un progetto articolato in tre parti, in cui “la prima parte consiste in un’analisi degli attori coinvolti nello spettacolo”, racconta Rifici. “Dai loro lati nascosti si passa alla seconda fase, quella del lavoro sui personaggi: Macbeth vuole scoprire che cosa c’è oltre le cose conosciute, vuole distruggere il senso delle cose. La terza sezione è invece legata al mondo infero delle streghe, di Ecate, il mare nero nel quale nuota inconsapevolmente la collettività, la comunità degli uomini”.

Attraverso la chiave psicanalitica, il regista, seppur in modo diverso, pone a sé stesso e agli spettatori delle domande in relazione a quali possano essere i meccanismi che inducono alla sopraffazione, analizzando le ragioni che portano il re scozzese a trasformarsi in Divinità e, spinto anche dalla sua ambiziosa e feroce consorte, ad uccidere tutti quelli che si oppongono alle proprie mire. Ad introdurci nelle atmosfere è subito il monologo dell’attrice Maria Pilar Pérez Aspa, che approfondisce i motivi per cui Macbeth uccide le guardie che dovevano vegliare su re Duncan. Egli lo fa, ovviamente, per far cadere la colpa su di loro ma, ad alta voce, proclama che ha dovuto ucciderli perché si sentiva sopraffatto dal dolore e dalla rabbia per la morte violenta del suo re, che amava come un padre; dunque, la sua versione ancora una volta rende giustificabile la violenza.

Così le tematiche dell’ambizione, dell’adulto bambino che non teme le conseguenze dei propri atti, del legame con la sua terra, della seduzione femminile manipolatrice e del rapporto con il padre si riverberano dal privato di ognuno alla scena, nella quale i fatti della tragedia vengono rappresentati dagli stessi interpreti che si scambiano a turno le parti, immersi nell’acqua che scorre sul palcoscenico e nel video proiettato, simbolo inequivocabile dell’inconscio.

E alla fine, le parole di Lady Macbeth “chi poteva immaginare che il corpo del vecchio contenesse tanto sangue!”, riferite all’assassinio di re Duncan si fondono con il ricordo tanto impresso nella memoria di Tindaro Granata, di quando bambino, in Sicilia, assisteva all’uccisione del maiale, appeso a testa in giù, perché potesse uscire tutto il sangue, in modo che la carne non restasse amara.

Come un maiale verrà appeso, per i piedi, il cadavere nudo del figlio di Macduff, interpretato dal giovane Alessandro Bandini, coperto subito dopo dalle Streghe di vernice d’oro e trasformato in Ecate, la dea lunare, levatrice e accompagnatrice dei morti, che chiude lo spettacolo con un monologo sulla terra, sulla vita del verme farfalla, per ribadire che ogni cosa nel mondo non muore mai, ma si rigenera sempre.

Macbeth, le cose nascoste è certamente uno spettacolo di impatto che si presenta in modo originale nel solco di un teatro che richiama il rito, rivisitando il passato come fonte di conoscenza per la comprensione del presente e del nostro io più profondo.

C’è, naturalmente, da una parte la storia, quella del giovane che aspira al trono, una trama di violenza, dolore e morte, ma c’è anche la rivisitazione del proprio inconscio attraverso un processo fatto di scambi di idee ed esperienze basato sulla reale emotività degli attori e su quanto il Macbeth ha suscitato in loro. Un ponte tra passato e presente, tra mito e terra, per un ritorno alle radici alle quali continuiamo ad essere, inconsciamente, legati.

Apprezzabile il lavoro degli attori e lo sforzo di costruzione di una performance innovativa a fronte però di una struttura narrativa che rimane slegata, senza garantire la necessaria fluidità e la visione d’insieme, portando in secondo piano l’essenza del dramma.

data di pubblicazione:14/06/2021


Il nostro voto:

MATERNAL di Maura Delpero, 2021

MATERNAL di Maura Delpero, 2021

Buenos Aires oggi. Esistono delle case famiglia religiose per ragazze madri di estrazione sociale bassa in cui le giovani, spesso minorenni, vengono accolte per essere assistite durante la gravidanza ed anche in via successiva se non hanno un lavoro ed una casa dove andare.

Maternal racconta l’esistenza di madri adolescenti che vivono li. In particolare Lu, che è divisa tra il crescere la sua dolcissima bambina e il desiderio di scappare dall’istituto per stare con il compagno violento; Fatima invece, più accomodante e rassegnata, non sente di avere prospettive fuori da quelle mura. Nonostante le loro diverse personalità, l’esperienza condivisa della maternità adolescenziale porta le due donne a stare vicine. Dall’Italia arriva Suor Paola, una suora sui generis, giovane e bella, in procinto di prendere i voti perpetui, sensuale e pura allo stesso tempo, differente da ogni altra. Le tre esistenze si sfiorano e si contagiano, rompendo alcuni schemi e ricomponendone altri.

La regista Maura Delpero ha lavorato proprio in quel luogo per quattro anni e quanto raccontato è l’elaborazione di quanto respirato e vissuto. Il film è costruito sui silenzi e sugli occhi di tutte le protagoniste. La Delpero ha volutamente scritturato delle attrici non professioniste come le due ragazze madri al centro della vicenda, entrambe superbe. Denise Carrizo interpreta Fatima, una timida ragazza incinta che è la migliore amica nonché convivente di Lu, la ribelle interpretata da Agustina Malala.

Ma nel modello di vita e di famiglia predicata nel convento manca assolutamente la figura maschile, esterno anche al conflitto che ciascuna delle donne presenti nell’Hogar (è il nome argentino di queste case famiglia nonché il titolo originale del film), religiose o non, deve prima risolvere .

Tutta l’azione si svolge all’interno dell’istituto e con un solo terrazzo che tange l’esterno, pur non risultando il film claustrofobico, ma essenziale ed ascetico per certi versi, che vive sul contrasto tra i dogmi religiosi, l’ora et labora predicato dalle vecchie suore e quel mondo esterno cui appartengono le giovani madri, fatto di smalti per unghie e violenze, di desiderio di vita e di un futuro che non sembra possa però essere loro riservato.

L’unica suora a cavallo dei due emisferi è Paola, interpretata da Lidiya Liberman, arrivata dall’Italia per terminare il suo noviziato e prendere i voti, in un periodo che anche per lei è di grande confusione. Paola si lega a Fatima e quando Lu scappa improvvisamente dal convento, inizia a prendersi cura della sua adorabile bambina Nina (Isabella Cilia). Il rapporto con la piccola fa vacillare la sua devozione all’abito che indossa e questa crisi viene raccontata attraverso piccoli dettagli significanti, tocchi sapienti: quel legame metterà quasi in crisi la relazione che Paola ha con il proprio destino.

Maternal è un film d’esordio straordinario, un’opera prima intensa e rigorosa, in cui la regista dimostra di amare e rispettare tutte le sue protagoniste, raccontandole nella propria intimità, nel proprio modo di essere madre e donna, senza stereotipi e con tanta bellezza.

data di pubblicazione:21/05/2021


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LA METAMORFOSI regia di Giorgio Barberio Corsetti

LA METAMORFOSI regia di Giorgio Barberio Corsetti

(Teatro Argentina – Roma, 3/9 maggio 2021)

Emozionante riapertura del Teatro Argentina di Roma con la prima nazionale de La Metamorfosi di Franz Kafka con la regia di Giorgio Barberio Corsetti, spettacolo che eccezionalmente aveva già debuttato in tv su Rai 5.

Gregor Samsa è un semplice commesso viaggiatore, preciso e metodico, che un mattino, svegliatosi in ritardo rispetto al solito, si rende conto di aver assunto le sembianze di un gigantesco scarafaggio. Il pensiero di Gregor, però, non è inizialmente rivolto al suo aspetto mostruoso, quanto piuttosto al consistente ritardo che sta accumulando: la sua professione lo costringe infatti ad un ferreo rispetto delle coincidenze ferroviarie e, nelle condizioni in cui si trova, Gregor perderà sicuramente il treno della mattina. Gregor vive con i genitori e con un’amata sorella di nome Grete, che uno dopo l’altro, vanno a bussare alla sua porta, preoccupati del suo inusuale ritardo e dunque convinti che Gregor sia malato. La progressiva consapevolezza della mutazione subita ed il susseguente abbandono affettivo da parte dei familiari in conseguenza anche delle mutate condizioni economiche familiari spingono Gregor a lasciarsi morire di inedia. La metamorfosi è una metafora dell’incomunicabilità dell’individuo, dell’isolamento e dell’alienazione nella società contemporanea. una denuncia dell’oppressione delle regole sociali sull’individuo, che viene schiacciato e spersonalizzato dalle imposizioni esterne ed un apologo sull’impossibilità di comunicazione tra esseri umani, in particolar modo negli ambienti familiari, simboleggiati dai luoghi chiusi ed asfittici in cui si svolge tutta la vicenda.

Gregor decide di abbandonare il suo destino tra gli umani e si trasforma, assumendo un altro corpo immaginario. La causa di questa fuga dalla propria identità è la sua condizione lavorativa e la sottomissione a regole massacranti, alla stupidità di gerarchie e burocrazie. La sua famiglia reagisce a questo cambiamento in modo diverso: la madre sviene, il padre vorrebbe ucciderlo mentre la sorella è l’unica ad avere attenzioni nei suoi confronti. Ma se inizialmente gli porta da mangiare e pulisce la sua stanza, dopo qualche tempo desiste, convinta che quell’essere non sia più suo fratello. In quella metamorfosi c’è tutto il disagio di una persona che vive una vita che non sente sua. Da anni infatti il padre di Gregor, senza nessuna ragione apparente, ha smesso di lavorare costringendolo ad assumere il ruolo di capofamiglia. Il Gregor scarafaggio parla ma non viene più sentito, capito, e questo genera negli altri la convinzione che anche lui non possa capire. Invece lui intende tutto, sa come è considerato, reagisce. Prende il via un lento logoramento e pian piano scivola nel suo disagio totale. Una condizione psicologica di depressione che ricorda molto ciò che abbiamo subito a causa della pandemia.

Con La metamorfosi, Giorgio Barberio Corsetti si immerge nuovamente nell’universo di Kafka, secondo un efficace gioco immaginario e mentale spietato, che porta Gregor, e noi con lui, all’annullamento.  La metamorfosi come chiave di lettura dei mali dell’uomo contemporaneo.

La drammaturgia rispetta il testo di Kafka, attraverso anche l’uso della terza persona, per accentuare una narrazione che diventa scrittura scenica. Ambiente e costumi ci collegano al tempo presente.

Ottima prova attoriale per il protagonista Michelangelo Dalisi, che interpreta con molta naturalezza un personaggio così complesso. Il movimento è stato infatti strettamente correlato alla fisionomia del protagonista, secondo un moto interiore costruito con tanto training. La scena è un angolo d’una stanza, ruotante su se stesso: permette sconfinamenti che si alterna tra la stanza di Gregor e il soggiorno dove si muove il resto della famiglia.

Spettacolo decisamente coinvolgente, specchio dei tempi, carico di riflessioni e ripensamenti legato ad un contemporaneo in cui l’afflato artistico non si è mai spento.

data di pubblicazione:09/05/2021


Il nostro voto: