da Daniele Poto | Feb 14, 2018
(Teatro Roma di via Umbertide – Roma, 13 febbraio/28 marzo)
Gianni Clementi ha giocato la carta più ambiziosa, imprevedibile e discontinua di una lunga carriera di autore di commedie brillanti in sala dolceamara. Questa volta si è dedicato per due anni a un lavoro che mutua Shakespeare, la saga di Romeo e Giulietta in versione romanesca, anzi calcistica. Perché i due sono immersi nel viraggio dell’acceso tifo contrapposto Roma-Lazio.
L’eterno dualismo campanilistico all’italiana, virato nella storia con i guelfi e i ghibellini, con i Capuleti e i Montecchi qui si accatasta attorno a due clan che potrebbero essere mutuati dalla violenta scena inglese di Edward Bond. Atteggiamenti coatti, turpiloquio ma un’innegabile verità di fondo nelle pulsioni amorose di due giovani a cui basta vedersi una volta per cadere prede e vittime dell’amore. A un primo tempo scanzonato e dissacrante fa seguito per due ore e mezzo di scansione un secondo decisamente drammatico e ricco di pathos. È il momento in cui i riferimenti calcistici e i tentativi di vendetta degli ultras vengono messi da parte per respirare fino in fondo il dramma shakespeariano di un amore impossibile e incompiuto. È molto efficace l’entra ed esci dei quindici interpreti che poi rimangono spettatori dell’azioni con un mood davvero molto somigliante al teatro azione del cinquecento dove si attuava la perfetta sinergia di tempo tra attori e pubblico. Ci piace anche il commento fuori campo di due vittime per un dramma che sospende il tempo nella verità del momento fulminante della tragedia. Un po’ troppo telefonato invece l’andamento del finale che se evocato prima perde efficacia quando viene prevedibilmente tradotto in scena. Difficile trovare un così affiatato e nutrito gruppo di attori in uno spettacolo italiano e la scommessa è importante perché la pièce avrà una lunga durata. In scena addirittura fino al 28 marzo. Nella stagione teatrale romana non crediamo che ci sia un investimento di così lunga prospettiva e parte del merito va al produttore Gianluca Ramazzotti che ha creduto nel progetto. E per Clementi nella festosa e applauditissima “prima” scroscianti applausi non solo come autore ma come regista, un primo tentativo in proprio di una carriera che promette altri interessanti sviluppi. Da citare i due giovani principali interpreti: Giulia Fiume e Edoardo Frullini, davvero credibili nella storia non più veronese ma ormai romana.
data di pubblicazione:14/02/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 5, 2018
(Teatro Bianconi – Carbognano, 3/4 febbraio e Teatro Sette – Roma, 13 febbraio/4 marzo 2018)
Il poliedrico Michele La Ginestra dismette i panni di scanzonato entertainer e da autore del resto oltre che interprete ci reintroduce in uno squarcio di antica romanità all’estero.
Dite 33? Si ma 33 Dopo Cristo, location Palestina, non meno turbolenta di oggi. L’occasione per far deflagrare le due differenti personalità: quella del centurione Cassio (Wertmuller), uno che ha vissuto il momento storico della crocifissione di Cristo e quella di Stefano (La Ginestra), suo dipendente, l’uomo che diede da bere a Cristo acqua e aceto. Sullo sfondo visione e musiche d’ambiente in uno scenario desertico desolato con due uomini allo sbando e una missione che cova sotterranea. Lo spettacolo presenta due toni. Il primo è scherzoso, romanesco, sopra le righe e scanzonato. E ci sembra la cosa migliore. I due interpreti collidono e collimano parlando di varie amenità: dal cibo diverso dei luoghi in cui si trovano, alle donne, al clima, nel vano tentativo di placare il sonno. Dialoghi interrotti e spezzati, brillanti e d’epoca senza alcun facile e abborracciante riferimento all’attualità d’oggi (sarebbe stato Bagaglino allora). Poi impercettibilmente ma sicuramente ci si addentra nella rivisitazione storica-religiosa. Cassio è stato stregato dal Salvatore, convinto del suo ruolo di redenzione dell’umanità. Porta le prove del miracolo della restituzione della vista. Stefano è scettico, disincantato, è il vero romano dell’epoca. Dunque la dialettica viaggia nel solco di un sempre più teso confronto ideologico con una conclusione spiazzante ma inevitabile per le leggi dell’impero romano in corso. Della didattica religiosa esternata da Cassio rimangono frammenti molto tradizionali, cattolicamente corretti ma piuttosto ininfluenti perché di quelli già ci siamo nutriti tra oratori e impostazione religiosa. Dunque teatralmente siamo dalla parte del cinico e più umano, non convinto Stefano. La Ginestra dimostra che l’empatia attoriale di cui ampiamente dispone è valida anche per ruoli alla fine eminentemente drammatici. Si ride anche per un non corrivo uso del dialettico e delle parolacce, alla fine sembra di entrare in Chiesa.
data di pubblicazione:05/02/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 27, 2018
(Teatro Nino Manfredi – Ostia, 16/28 gennaio e Teatro Ghione – Roma, 30 gennaio/11 febbraio 2018)
La fertile drammaturgia di Gianni Clementi in combinato disposto con l’amico sodale Paolo Triestino ha prodotto un altro gioiellino.
Fa effetto recensire Il Padrone a cavallo della giornata della memoria perché la pièce contiene echi di seconda guerra mondiale ed ebraismo senza posizionarsi sulla facile guida sicura del “politicamente corretto”. Sembra ispirare il concetto che la “roba” (a Roma si direbbe “robba”) di verghiana memoria sia il motore del mondo. Ed è questa roba (appartamenti, soldi, potere) che una famiglia romana vuole assolutamente conservare di fronte alla prospettiva del ritorno a casa dell’ebreo che in conseguenza delle leggi raziali era stato costretto ad allontanarsene, con l’esplicito accordo di riprenderne il possesso a fine evento bellico. Senonché l’ebreo è un fantasma che diventa ossessione nella visione della coppia. E un secondo motore della vita oltre che della storia è la donna (la brava Paola Tiziana Cruciani, qui costretta a esibirsi con un braccio rotto al collo). È lei la dea ex machina che muove le pulsioni degli uomini e con la lusinga del sesso elargito al marito, all’amante o solo immaginato con l’ebreo stalker, indirizzando le motivazioni verso i suoi desideri ovvero la soppressione fisica dello sgradito proprietario. Ma l’azione avrà conseguenze ancora più gravi e choccanti sulle quali sorvoliamo per amor di trama e per il piacere dello spettatore futuro. Musiche d’epoca e un’atmosfera anni ’50 (“Lascia o raddoppia”, motivetti d’epoca, Nilla Pizzi) per una commedia nera, acre, che odora di zolfo e di rivendicazioni della piccola meschina piccola borghesia romana. Come si scrive in questi casi si ride ma si ride amaro fino al pirotecnico finale che vive su una conclusione tranchante davvero inaspettata. Il terzo attore, convincente caratterista, è Bruno Conti, solo omonimo del popolare ex calciatore giallorosso nato a Nettuno.
data di pubblicazione:27/01/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 18, 2018
(Teatro Cometa Off – Roma, 15/21 gennaio 2018)
Alda Merini è mito, è la quintessenza della poesia in Italia. È donna che travalica i confini nazionali e ora si incarna anche su una scena teatrale grazie allo spettacolo in scena alla Cometa Off intitolato Dio arriverà all’alba per il testo e la regia di Antonio Nobili e la sinergia intelligente con altre componenti che rispondono ai nomi di Antonella Petrone (interprete), Paolo Marzo (colonna sonora) e Patrizia Masi, tramite come conoscente della poetessa. Non si tratta di un reading, non si tratta di un’agiografia letteraria ma di un racconto teatrale vero e proprio. Un professore universitario telefona alla sua amica Alda Merini presentandole un giovane talentuoso che si sta occupando di ricerche sulla poesia contemporanea e ha bisogno di testimonianze di prima mano. L’impatto tra i due fa nascere dialoghi, contraddizioni, scoperte e cadute facendoli addentrare in un meccanismo di riconoscimento e/o spaesamento, assolutamente proficuo per la resa sul palcoscenico. Inevitabilmente emerge il conflittuale vissuto della Merini, un’esistenza in cui dramma e ironia si fondono in maniera incandescente. L’operazione di Nobili è multimediale perché, contemporaneamente, è uscito un libro dal titolo omologo a quello dello spettacolo. Un lavoro di scandaglio profondo, rispettosamente didattico ma non assolutamente didascalico. E la poetessa non è solo in scena perché accompagnata da un ricco contorno di deuteroagonisti che ne precisano intenzione e carattere in un raffinato gioco teatrale. Gioventù e vecchiaia, i due aspetti anagrafici della vita, a volte collidono, a volte si scontrano in un climax di forte impatto emozionale.
data di pubblicazione:18/01/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 17, 2018
(Piccolo Eliseo – Roma, 10/28 gennaio 2018)
Gli spettacoli della Carrozzeria Orfeo sono un delirio organizzato, funzionale a rappresentare lo squilibrio della vita quotidiana. La lente è una congrega di emarginati, espulsi dalla società che conta (“la recinzione”). C’è l’ex prete deluso dalla Chiesa, il sordomuto con l’aggravante politicamente scorretta dell’omosessualità, una donna di mezz’età che cerca di sublimare il desiderio di maternità con un musulmano ormai totalmente convertito ai riti del capitalismo made in Italy. In più un borghese in via di espulsione dalla classe media che è la cartina di tornasole per misurare il disagio di chi ha avuto e si confronta con chi non ha più. Due ore di spettacolo filante, pregno di battute e di umori malinconici con il leitmotiv di una storia onirica che è anche un giallo con varie possibilità di interpretazione. Certo è che questo gruppo è fortemente emergente nella società teatrale. Il Thanks for Vaselina di loro recente produzione diventerà un film diretto da Gabriele Di Luca, prodotto da Casanova multimedia ovvero da Luca Barbareschi che ha puntato forte su questo collettivo. Ironia, sarcasmo pungente, sprezzatura della società attuale nel melting pot corrosivo per una platea visibilmente soddisfatta e multigenerazionale. Il Piccolo si conferma piccolo e intenso laboratorio sperimentale. Puntuale nell’assecondare la grevità dell’assunto una scenografia fatta di fatiscenti roulotte, di bare trafugate, di piccoli e grandi squallori quotidiani. E la nudità della povertà presentata senza falsa coscienza ma in tutta la sua disperante irreversibile condizione. La comunità in scena è lo specchio di un grande pezzo di società italiana.
data di pubblicazione:17/01/2018
Il nostro voto:
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