da Daniele Poto | Mar 20, 2018
(Serata Unica di Gala Teatro Belli-Roma, 19/3/2018)
Testo e voci, la multimedialità assoluta, virata dalle più belle voci del doppiaggio italiano. Serata di gala al Teatro Belli nel nome del poeta non solo romanesco a cui è intitolata la sala. Nel cuore di Trastevere omaggio al dissacrante sbeffeggiatore di ipocriti e preti: l’immortale Giuseppe Gioachino Belli. Un lavoro mastodontico effettuato su 1250 sonetti capitolini, raccolti antologicamente e recitati dalle più autorevoli voci della pratica tutta italiana del doppiaggio, una specializzazione d’eccellenza che il cinema mondiale ci riconosce, per la direzione artistica di Marco Mete, il montaggio, la scelta musicale e la sonorizzazione di Elia Iezzi. Come si può immaginare un efficace combinato disposto tra la recitazione e la poesia in ambiente raccolto e proprio nella sede eponima consacrata al poeta. È stata la società editrice Dante Alighieri a sobbarcarsi il carico pesante dell’opera. E i doppiatori hanno risposto generosamente con la sola assenza di Pino Insegno, impegnato a lanciare Zerovsky al Cinema Adriano. Forse sono più riconoscibili dalla voce e dal riconoscimento dell’attore che interpretano, in genere americano, più che per nome e cognome. Comunque la sfilata è stata d’eccellenza: Mino Caprio ricalca Peter Griffin, Chiara Colizzi si occupa di Nicole Kidman, Massimo Corvo ci è abituale su timbri di Stallone. E poi altri duetti impagabili: Luca dal Fabbro è Steve Buscemi, Francesca Fiorentini si prende Gwyneth Paltrow, Angelo Maggi si è occupato di Tom Hanks in The Post. Inoltre, a completare l’accademia belliana i contributi di Marina Tagliaferri (Un posto al sole ma sopratttutto Annette Bening), Alessando Rossi (Arnold Schwarzenegger), Alessandro Quarta (Ethan Hawke) e lo stesso Marco Pete con Kevin Bacon. Era presente il prefatore e massimo conoscitore di Belli nel Belpaese Marcello Teodonio che, con tanta passione, si dedica a far conoscere un letterato che è entrato nel suo Dna. E questo contributo fissa indelebilmente la possibilità di interpretarlo spiritosamente cogliendo lo spirito più vivo della sua insostituibile e ficcante ironia.
data di pubblicazione:20/02/2018
da Daniele Poto | Mar 14, 2018
Sembra essere questo libro di una vita per Ennio Peres, professore di matematica ma soprattutto giocologo, rinverdendo una tradizione che in Italia ha i suoi alfieri storici nei due Bartezzaghi, senior e junior, e nello scomparso Dossena. Il gioco non è azzardo, è sviluppo neuronale, messa in azione delle sinapsi. Non è scienza ma empirismo. E ora Peres, al culmine di mezzo secolo di esperienze, sforna un Corso di enigmistica che non ha pretese accademiche ma molto semplicemente ci svela cosa c’è dietro e oltre la barricata ovvero il mestiere di chi lo fa per professione, mettendoci a disposizione le tecniche per dipanare la matassa dei rebus, portare a termine un cruciverba, affrontare crittogrammi od operazioni complesse. Insomma la bottega e i ferri del mestiere tradizionali. È un libro per non addetti ai lavori ma sicuramente per cultori della materia, per appassionati o semplici curiosi. Come si sa in Italia si legge sempre di meno. Più di un italiano su due non ha portato a termine la lettura di un solo libro nel corso del 2017. Ma la Settimana enigmistica, la rivista a prova di infiniti tentativi di imitazione, ha una schiera di adepti che resiste al tempo e alla velocità del mainstream. L’enigmistica richiede pazienza, tenacia, applicazione ma anche ingegno, intuito, la capacità di sparigliare le regole. Peres ci fa entrare in un mondo che può anche apparire incantato ma che, alla fine, è dominato dalle ferree e inflessibili leggi della matematica. Lui, già, professore della materia, padroneggia con autorità i vari capitoli senza mettersi in cattedra ma spezzando il pane della didattica ai profani. Un libro per tutti, da delibare un po’ alla volta. Un esercizio di ginnastica mentale per il cervello e con la linguistica, con possibilità pratiche per l’ideazione di nuovi giochi.
data di pubblicazione:14/02/2018
da Daniele Poto | Mar 11, 2018
(Teatro Off/Off – Roma, 6/18 marzo 2018)
Quattro cani che si litigano un osso. È la metafora della dura realtà di Hollywood, il sipario tirato su i comportamenti irrituali del produttore Weinstein, virati a teatro. Quattro protagonisti: l’attrice emergente, arrivista e cinica, la sua rivale, più in là con gli anni, terrorizzata dalla possibilità di ricadere in una parte da caratterista, il produttore che deve far quadrare i conti e racchiudere un film da 8 milioni di dollari in una versione light da 5 e, infine, lo scrittore alla prima grande prova di sceneggiatura filmica, costretto a ingoiare i compromessi dell’industria cinematografica. C’è azione, violenza verbale, frequente uso del turpiloquio in scena dove i “cambi” sono magnificamente surrogati da immagini di grandi iconici film del passato. I toni sono sempre concitati, molto americani, nell’adattamento operato da Enrico Vanzina sul testo del drammaturgo J.P. Shanley (premio Oscar per la sceneggiatura di Stregata dalla Luna). Il ritmo è incalzante senza alcuna concessione al trend italiano che pure, mutatis mutandis, sul set non è troppo dissimile. La scena restituisce la promiscuità del set e la precarietà del cinema dove tutti sono disposti a sbranarsi per fama o soldi, non rinunciando per principio a vendere il proprio corpo in cambio di un piccolo avanzamento di carriera e le amicizia sono solo tattiche o strumentali per andare a favore o contro un terzo personaggio. Come si intuirà la figura che sfugge al contesto, un quinto possibile descritto per assenza, descritto solo per allusioni, è il regista, presentato come “geniale ma debole” dal produttore. È l’entità su cui si scaricano tutte le frizioni immaginandolo come il soggetto che recepirà forzosamente un finale diverso, in questo caso un happy end in cui tutti vorrebbero arrogarsi il compito di salvare il protagonista. Si restituisce un’idea di cinema come puro artigianato dove l’arte è una parola di cui troppo spesso si abusa conoscendo da una parte “il divano del produttore” e dall’altra l’infinito ricorso al mestiere. Arte sì ma dell’eterno compromesso. Le relazioni pericolose di Hollywood sono l’epitome dell’estrema spregiudicatezza del mondo di oggi. Bravi tutti agli attori: Cristina Cirilli, Paolo Giangrasso, Pietro Montandon e Nela Leoni.
data di pubblicazione:11/02/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 26, 2018
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 21 febbraio/11 marzo 2018)
È un monologo laico che però allude al religioso, al trascendente della vita.
L’impegnativo pendant di titolo e sottotitolo (“Stabat mater”, ovvero “Oratorio per voce sola”) può ingannare. Perché si ride spesso negli 80 minuti di esibizione di Maria Paiato anche se i termini sono scabri, grevi, bestemmiatori.
L’affabulazione procede a tratteggiare gli assenti e a popolare la spoglia scena, una specie di costrittivo recinto in cui si esibisce l’attrice, spesso scalando il suo vertice quando i toni si fanno concitati. C’è il figlio di cui all’inizio parla bene ma che alla fine si rivelerà la prima fonte di problemi, un uomo misterioso che alle 22 serali non arriva mai (nonostante le premesse e le promosse), un bravo prete di strada (ma “forse” bravo fino a un certo punto), amiche fidate che la capiscono fino a un certo punto, digradando in questa nomenclatura della conoscenza a un giudice misterioso che forse non esiste. Così il monologo è un lucido e formale delirio di una donna che ne ha passate tante nella vita (troppe?) e che è sul punto di esplodere. La sua vita diventa un inferno se l’uomo che le ha dato un figlio è sposata con un’altra. E se quel figlio su cui ripone tante speranze è diventato un terrorista. Dunque il testo implode su sé stesso fino a un’esulcerazione tragica.
Ambientato a Torino, ricco di espressioni gergali, lo spettacolo è affidato in tutto e per tutto alla felice gamma di espressioni della dotatissima Paiato che riscatta la monodimensionalità del monologo recitando, il raschiamento del barile esistenziale, dando, in fondo vita a tanti personaggi pur mantenendo la propria identità perdente. È la sconfitta di un’Italietta periferica che non sorride e soccombe alla crisi, impastata in quella sottocultura, dei fumetti, del porno, dell’apparente riscatto del corpo.
Sinceri applausi in scena per una prova d’attrice che ne dimostra la grandezza. Senza ridursi a contaminazioni cinematografiche, televisive o, ancor peggio, pubblicitarie, come la maggior parte dei suoi colleghi.
data di pubblicazione: 26/2/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 18, 2018
(Teatro San Genesio- Roma, 15/18 febbraio 2019)
Il “vero” teatro dell’assurdo è quello di Ionesco e non quello di Beckett. Chiarimento a uso e consumo degli appassionati delle etichettature. E La cantatrice calva cos’è? Appena una citazione nei filanti 80 minuti negli insensati dialoghi di camera di due usurate coppie di sposi che si interfacciano in commedia con un vigile del fuoco, adatto anche per spegnere gli ardori di una eccitata collaboratrice familiare. E, a completare il cast dei personaggi e degli attori, una partecipante pendola semovente che esercita il potere del tempo e partecipa emotivamente, da mimo, alle elucubrazioni dei protagonisti.
E’ la prima pièce di Ionesco e l’ambientazione inglese favorisce l’adozione di inveterati luoghi comuni del linguaggio. La noia della routine, delle esercitazioni dialettiche tra coniugi allo specchio è l’esaltazione del pastiche verbale che fa deflagrare la logica. L’accelerazione verso l’insensato, il processo di accumulazione dei tic verbali, porta al parossismo e all’insopportabilità delle situazioni. Fino a sbocciare in sonore risate per l’inevitabile direzione verso l’assurdo. Del linguaggio adottato e della vita. Ionesco scriverà: “Non ho mai capito la differenza che si ravvisa tra il comico e il tragico. Il comico, intuizione dell’assurdo, mi sembra più disperato del tragico, perché non offre via d’uscita”. Il punto più alto dell’opera rappresentata, con il vivo e interessato contributo di una platea di studenti (sollecitati poi al dibattito) sta nel mancato riconoscimento di due coniugi che naturalmente vivono assieme ma che hanno perso ogni connotato di umanità e che burocraticamente elencano tutti gli elementi comuni per riconoscersi solo alla fine come sposi che occupano la stessa camera da letto. La drammaturgia dell’autore rumeno sembra anche un ritorno al teatro antico, a una sorta di riveduta e corretta commedia dell’arte con attori che sono maschere e archetipi universali. Il registro del grottesco ammanta la commedia ed è l’utile chiave di lettura per fruirla. E’ una scrittura raffinata quella di Ionesco e la Trapanese ha saputo offrirci con garbo e rispetto, attraverso due anni di decantazione, un divertente saggio del suo estro drammaturgico. Meritano una citazione tutti gli interpreti: Paolo Della Rocca, Valeria Cecere, Mimmo Lamuraglia, Lilila Nacci, Maria Leanta, Carla Iacuzio, R. Khoji Giovinazzo.
data di pubblicazione: 18/2/2018
Il nostro voto:
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