da Daniele Poto | Mag 20, 2018
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 9/27 maggio 2o18)
Una famiglia unita, una famiglia apparentemente felice. Ma la commedia vira in tragedia perché l’alea del suicidio inquina la serenità del tutto. Si prepara una notte drammatica in un tentativo di escavazione dell’animo umano. Poco riuscito, diremmo.
Un rituale pranzo di famiglia in cui si veicolano discorsi forti e banali, alternanza di voci che si sovrappongono, un interessante interno borghese di una media famiglia italiana. Ma l’allarme è presto scoccato. Perché il giovane maschio del lotto dei cinque è appartato, distratto, chiuso in se stesso e gli altri non sembrano accorgersene. Ed ecco d’improvviso la lacerazione. Il giovane figlio di famiglia annuncia il suicidio, cioè quel gesto che in genere non si annuncia ma si realizza, lasciando un bigliettino di spiegazione. È il “prima” che sconcerta perché la macchina del proponimento è messa in moto e come si potrà fermarla? Ci prova il padre, ci prova la madre. Con convinzione, rabbia, crescente disperazione. Ci provano le sorelle. Ci provano tutti ma i risultati sono scarni. Il peso della perdita della moglie ha lacerato i fragili equilibri del protagonista che non riesce più a ritrovarsi nella vita di tutti i giorni.
Quello che abbiamo enunciato è il proposito didattico del regista che però non si traduce in una tensione drammaturgica all’altezza. Non la regge il protagonista principale, non la sostiene neanche il bravo Giorgio Colangeli in una parte sottostimata rispetto alla sua abilità mimetica. Così una tesi troppo manifesta, un’idea dall’ input brillante non si traduce in un risultato di spessore. Fioccano sbadigli, minuti imbarazzanti di silenzio in scena perché la stessa rimane vuota, priva di significati che non sono stati evocati dal silenzio e dallo smarrimento dei protagonisti. In definitiva un’occasione sprecata perché uno dei più grandi peccati commessi dal teatro è quello di annoiare lo spettatore. Dopo settanta minuti l’aspirante suicida esce di scena lasciando i quattro parenti infranti.
Il tempo tra il “prima” il “dopo”, pur breve, si poteva sfruttare decisamente meglio.
data di pubblicazione: 20/5/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mag 5, 2018
Non è un romanzo, non è un saggio. Non dovrebbe possedere profondità ma alla fine delle 102 pagine di testo ripercorri il libro dall’inizio alla fine quasi posseduto dalla fascinazione dei calembours, dall’ipnotismo delle frasi dei senso comune che, attraverso la lente privilegiata dell’autore, acquisiscono verità e concretezza e lasciano il segno. Non si può concretamente capire quello che affermiamo senza l’uso razionale dell’esempio e, dunque, delle citazioni. “Io non porto rancore, lo custodisco”– fa certamente riflettere mentre “Ogni tanto, per strada, scambio le persone per manichini”– è un piccolo saggio in nuce sull’uso irrazionale degli smartphone che, ormai, più che essere posseduti, posseggono la nostra vita. De Silva squarcia la nuda realtà con piccole nitide abbacinanti intuizioni che alludono anche al sapiente uso della lingua italiana e della possibile rivelazione o della smascheramento del luogo comune. Si penserebbe a un Flaiano riveduto e corretto nel terzo millennio anche di fronte alla riflessione sulla banalità dei testi delle canzoni.
“A volte mi faccio delle domande veramente strane, tipo: “Il coniglio del muso nero della canzone di Marcella, oggi quanti anni avrebbe?”. È la sensibilità di una generazione su un sentiero già battuto da Berselli, Serra e Culicchia con alterni risultati. Quando non affascina, strega, solo per citare lo slogan di una pubblicità, riabilitando una forma letteraria a mezza strada tra la riflessione e il pensiero dell’uomo della strada, stupefatto dalla crudeltà del tempo in cui viviamo.
“Non so se ho risposto alla domanda che non ricordo” “Chi si cerca su Google, generalmente non ne ha motivo” o “La vita non è tua, è in franchising”. Così la leggerezza allude alla profondità con un risultato finale suggestivo che è superiore alla somma dei singoli così diversificati addendi. Un’operazione gradevole e di sicura riuscita in un Paese in cui “l’italiano che non vota si candida”.
data di pubblicazione:05/05/2018
da Daniele Poto | Apr 16, 2018
(Teatro Tor di Nona – Roma, 10/15 aprile 2018 e in tournée in Italia)
Un’autoanalisi dissacrante in diretta, una flagellazione pubblica.
Si parte da Dostoevskij, dal massimo dell’impegno, e si finisce con un accenno di coprofagia. Altissimo e bassissimo un po’ come i chiaroscuri di Emanuele Salce, nato come figlio d’arte e poi ritrapiantato in palcoscenico dopo un percorso non rettilineo fatto di impegni come assicuratore, come universitario mancato, ma soprattutto come portatore sano di un’eredità pesante.
Emanuele, infatti, ha due padri: Luciano Salce e Vittorio Gasmann. E ha trascorso, atipicamente, più tempo con il secondo che con il primo. Capace di riprodurne magnificamente la voce, con timbri a stampo da copia. Dunque, inclinazioni da mattatore? Tutt’altro!
Salce jr. ci racconta la vita con un titolo originale che è la tipica espressione interrogativa del personaggio dei fumetti. La nostra sintesi potrebbe apparire prosaica se ci limitassimo a dire che dopo un accenno di trombonismo, subito messo da parte grazie alle frenate e alle accelerazioni simil registiche del suo partner Paolo Giommarelli, in sostanza si parla di due funerali e di una clamorosa crisi di dissenteria. La sostanza è questa ma indirizzata splendidamente. Perché si ride e tanto anche parlando di un corteo funebre, delle padovanelle di un celebre attore (e tutti pensano a Carmelo Bene o a Gabriele Lavia), della condizione di figlio minore all’ombra di ingombranti personalità.
Il tramite del doppio padre è naturalmente Diletta D’Andrea, prima moglie di Salce e poi di Gasmann. Di qui un intrico di parentele e di contiguità con famiglie importanti. Lo spettacolo è un’impudica rivelazione sul proprio vissuto. È un testo tagliato a misura di verità dove il confine tra rappresentazione e finzione è labile se non nel riconoscimento di alcune funzionali forzature. È uno spaccato di commedia all’italiana (come nei film di Salce) e di “ionismo”, termine di moda, come nella vita del grande Vittorio, precipitato nella depressione fino al capolinea del 2000.
È una sorte di immersione anche psicanalitica in un’esistenza che cerca la propria dimensione dopo il periodo di sbandamento giovanile e riconosciuti rischi etilici.
data di pubblicazione: 16/04/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Apr 8, 2018
(Teatro San Genesio- Roma, 4/15 aprile)
Commedia brillante. Ricca di colori, musiche, sovratoni, ammiccamenti alla pochade.
Regna ancora la lira nella vacanza degli sposini con abbondanza di segreti nello sconcertante Villaggio Jamaica. E la musica dell’epoca è riassunta da “Lisa con gli occhi blu”, suonata a mezzo di una chitarrina che sarà un oggetto chiave determinante nel giallo in due tempi che Emilia Miscio ha scritto con la collaborazione di Simone Giulietti, assemblando una ricca compagnia di attori caratteristi a cui si richiede un esercizio, anche fisico, decisamente sopra le righe per ritmi alla Feydeau nel tentativo di dare ritmo alle gag. In Giamaica, percepita con una distanza particolarmente esotica, c’è musica (reggae), colore, fumo e un sentore di giallo perché tra i protagonisti nessuno è realmente è come vuole apparire. Non la sposina, non lo sposo capellone, non l’esplosiva zia confinata sulla sedia rotelle a cui conferisce nerbo e pretesti un’interpretazione maschile. Si ride a scrosci, tra turpiloqui e doppi senso, tra infoiamenti ed equivoci, splapstick e un richiamo agli anni ’70, a un’ingenuità perduta. Si intuisce il grande lavoro alle spalle per una recita leggera che richiede gioco di porte aperte e sbattute (alla Frayn) e un’adeguata sinergia attoriale. Nel villaggio turistico c’è la condensazione delle richieste del turista italiano in un paese straniero: dunque champagne, trasgressione, voglia di novità. Le caratterizzazioni prevedono un prete cieco, un seduttore latino, un capo villaggio schizofrenico e una governante dai molti calori. Il finale è alla Agatha Christie rivista con un timbro comico: tutti in scena per une rivelazione finale che è prodromo della passerella finale. Naturalmente a ritmo di reggae nel segno di Bob Marley e Peter Tosh. Citabile il grande impegno degli attori: Ambra Lucchetti, Leonardo D’Angelo, Claudio Carnevali, Claudio Bianchini, Ivano Cavaliere, Giovanna Tino, Fiamme Blasucci, Lorenzo Girolami, Daniele Di Martino nel segno compagnia teatrale Sogni di scena.
data di pubblicazione:08/04/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 24, 2018
(Teatro Piccolo Eliseo-Roma, 14/29 marzo 2018)
Drammaturgia triangolare. Virata sulla scenografia che muta prospettive, rapporti, interazioni tra i tre protagonisti.
La pacifica cena di una coppia viene turbata dall’arrivo in casa del fratello della donna con la maglietta intrisa di sangue. Da lì si sviluppa un racconto concentrico, ricco di omissioni e bugie che traballano sotto il fuoco di fila di domande dei due coniugi. Sempre un piccolo passo in avanti alla ricerca della terribile verità, che finisce col rompere anche la solidarietà della coppia. Perché la moglie innesta un ricatto legato alla propria gravidanza. Il testo evoca la violenza e il sangue senza farlo vedere. E allude anche alla tragica trappola della solidarietà parentale, del bieco familismo, a tutto disposto pur di coprire un efferato crimine. Il testo di Dennis Kelly contiene una propria perfetta chirurgia della dissacrazione, svelandosi ad anelli concentrici. Tempo unico con improvvisi oscuramenti che decretano il gong dei cambiamenti d’atmosfera e di situazioni. Quadri dove crudeltà, cinismo, sorpresa si alternano in un cocktail teatrale riuscito che non può prescindere dall’efficace recitazione del trio. Monica Nappo, la moglie, tiene le fila della vicenda ma con un senso di sconfitta finale. E non sono meno vinti gli altri personaggi ben resi da Paolo Mazzarelli e Lino Musella. È una drammaturgia secca, e a densa stratificazione oltre che a lento rilascio per lo spettatore. Con una conclusione secca e piuttosto inaspettata che non riveleremo. Se il teatro è conflitto e rappresentazione di contraddizioni Orphans ne è la perfetta condensata epitome. Marche Teatro, non a caso istituzione di rilevante interesse culturale, ha sostenuto un progetto intenso, sostenuto proprio dalla principale interprete Monica Nappo, avvalendosi della traduzione di Gianmaria Cervo e Francesco Salerno.
data di pubblicazione:24/03/2018
Il nostro voto:
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